Malaria: Zanzare e plasmodium, una coppia pericolosa


Prevenibile, curabile ma mai debellata. È la malaria, una patologia che riguarda il 40% della popolazione mondiale. Si calcola che i morti da essa provocati, pur in diminuzione, siano ancora quasi 500 mila all’anno, la maggior parte in Africa e per due terzi bambini. In questi ultimi mesi di malaria si è tornato a parlare perché ha ucciso anche in Italia. Considerato il rapido cambio climatico e la crescente mobilità delle persone, il pericolo malaria (e non solo) ci accompagnerà a lungo.

Malaria, il nemico che abbiamo sempre avuto vicino ma non abbiamo mai voluto conoscere veramente, perché non ci riguardava. Interessava solo il 40% della popolazione mondiale, qualche miliardo di persone: «gli altri», tutti abbastanza lontani da noi. Sì, vedevamo tutte queste persone sofferenti ma erano solo foto su riviste missionarie o parole nei racconti dei missionari. Ci davano un po’ fastidio e, quindi, erano da rimuovere dal nostro orizzonte. Ma eccola qui – addirittura nella nordica Trento (settembre 2017) -, la malaria prepotentemente sulle prime pagine dei giornali nostrani, il nemico da distruggere senza sentire il bisogno di capire e scacciando l’idea che ormai c’è e la terremo a bada, ma non la elimineremo più con facilità. Chi scrive è un missionario portatore sano del plasmodium della malaria con cui convive da 42 anni.

La malaria (anche) in Italia

L’origine della parola «mal aria» lascia facilmente capire da dove deriva: la credenza che questa malattia fosse causata dai miasmi delle paludi. Col tempo tutto è stato provato ed il ciclo della malaria col suo agente patogeno – il plasmodium –  è stato ben compreso. Le tonnellate di Ddt sparse dagli americani con il piano della fondazione Rockefeller (1925-1950, in particolare in Sardegna, ndr) hanno effettivamente debellato la malaria ma certo non ha sterminato tutte le zanzare Anopheles che possono portare nuovamente la malattia.

Già nell’anno 1970 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva dichiarato l’Italia «libera da malaria» di origine autoctona. Ecco perché – oggi – ci sono così tanti sforzi nel provare che l’origine di questi casi è esterna all’Italia. Tenendo conto che il periodo di incubazione è da una a due settimane, si può risalire facilmente al luogo di infezione senza doversi arrampicare sui vetri alla ricerca di ragioni fantascientifiche. Se viene appurato che l’origine è autoctona, perderemo lo stato di Malaria free zone. Il metodo del «rasoio di Occam» ci può aiutare anche qui: la spiegazione più semplice è quella vera.

Cosa ci portano le zanzare (le Anopheles e le altre)

Ma che cosa è la malaria? Su qualunque motore di ricerca di internet si trovano valanghe di informazioni, anche contrastanti, ma la realtà è molto semplice. La colpevole è sempre lei, la zanzara femmina del genere Anopheles, di cui esistono almeno 82 specie nel mondo. Se infettata dal plasmodium può procurare la malaria i cui segni clinici sono molto diversi a seconda degli individui, ma a tutti causa febbri alte a intermittenza, sudorazione, vomito, diarrea, tosse etc. Intanto, altre zanzare ci portano altri parassiti: la zanzara tigre ci porta la chikungunya, un virus abbastanza debilitante (che molti missionari già conoscono per esperienza diretta); la culex ci regala la filaria; la aedes porta la febbre gialla.

Cosa succede quando una zanzara infetta ci punge? Intanto la zanzara ci punge per succhiare il nostro sangue così ricco di elementi essenziali utili al suo organismo che deve produrre uova per continuare la propria specie, e non per darci la malaria di cui soffre comunque anch’essa.

La prima fase dell’operazione avviene così e spiega perché non ci accorgiamo della sua puntura fin dopo che abbia fatto il suo lavoro ed è proprio in questa fase che ci passa il plasmodio. Ecco il contatto zanzara-uomo in 4 fasi:

Fase 1: la zanzara non ci vede ma segue la traccia di anidride carbonica che ci lasciamo dietro.

Fase 2: la zanzara si posa sulla pelle e attraverso due palpi laterali allo stiletto sente la presenza dei vasi sanguigni.

Fase 3: la zanzara rigurgita un liquido anestetico che le permette di introdurre il suo stilo senza che sentiamo dolore fino ad operazione fatta.

Fase 4: lo stilo è in posizione e l’operazione pompaggio del sangue comincia fino a sazietà.

Una profilassi alla puntura sta nel- l’ingoiare vitamine del gruppo B6 che impartirebbe al corpo un odore che dispiace alla zanzara. Non si sa se funzioni o meno ma certamente questa idea non spiace all’industria farmaceutica.

Le fasi del plasmodio sono tre: fase schizogonica, gametogonica e sporogonica. A ognuna di queste fasi corrispondono delle caratteristiche che aiutano gli specialisti a diagnosticare quale sia il problema.

Il plasmodium in azione

Il plasmodium iniettato dalla zanzara entra nei globuli rossi e comincia a crescere e dividersi aumentando in numero e volume finché non causa la rottura della membrana del globulo rosso infestando il sangue, lo stesso sangue che sarà risucchiato da altre zanzare e verrà rimesso nel sangue di qualche altra persona (grafico a pag. 64).

Questa perdita di globuli rossi, portatori dell’ossigeno indispensabile a ogni cellula, causa una sua mancanza e quindi limita la produzione di energia, determinando un calo delle prestazioni fisiche. La presenza di globuli rossi deformati per la presenza del plasmodio (foto), causa anche un blocco della circolazione capillare, a volte nel cervello, causando il coma cerebrale. Inoltre la rottura della membrana dei globuli rossi ed il riversamento del plasmodio causa una reazione del corpo che produce febbre alta e altri sintomi. In una persona sana e senza problemi, qualche iniezione di norma non provocherà una malaria conclamata, ma molte infezioni successive su un soggetto debole, bambini o malati, può portare a malarie serie.

Le specie di plasmodium

Anche nel genere plasmodium vi sono diverse specie, se così si può dire, che vengono diagnosticate in laboratorio con metodologie differenti. Il falciparum è la specie più pericolosa e procura la malaria maligna o terzana maligna, seguito dalla specie vivax della terzana benigna, che è più clemente. Altre due specie sono la malariae e l’ovale.

Se non bastasse, a volte vi sono infezioni miste con i vari tipi. Le diverse specie sono poi individuate con strumenti di vario genere: alcuni noti da molto tempo come la colorazione a base di eosina e metilene, altri con le tecniche più evolute basate sulla immunologia e biologia molecolare.

In pratica, la diagnosi con coloranti viene fatta leggendo uno striscio di sangue del paziente a cui sono aggiunti i reagenti sotto un microscopio con illuminazione naturale o attinica.

Per le diagnosi rapide si usano strisce immunologiche di riconoscimento rapido, utilizzabili sul campo e senza microscopio, usabili da chiunque, anche dal paziente stesso.

Ultimamente si procede alla tipizzazione del ceppo di plasmodio con l’uso del Pcr (Polymerase chain reaction) che però richiede tempo, personale specializzato e ingenti risorse economiche.

Negli screening di massa si vogliono esaminare molti esemplari in poco tempo ed allora l’uso dell’acridina arancio con il microscopio a luce ultravioletta rende l’esame molto semplice anche se non molto accurato. L’acridina arancio è un colorante che si fissa agli acidi nucleici facendoli brillare di arancio sotto il microscopio come se si guardasse a un cielo stellato. La presenza di acidi nucleici nell’emoglobina è la spia che fa capire che qualcosa non funziona dal momento che l’emoglobina matura e funzionante è priva di nucleo e quindi di acidi nucleici. Se c’è del Dna o Rna appartiene a qualcun altro, ad esempio al plasmodio.

Altri strumenti di diagnosi

Nella diagnostica si è aggiunta un’altra tipologia di strumenti, gli immunoreagenti (Malaria Antigen Detection), una paletta intrisa di reagenti i quali, se c’è o c’è stata recentemente malaria, cambiano colore dopo una reazione col plasma del paziente. Il beneficio sta nel vedere subito il risultato senza bisogno di un microscopio ma il lato negativo sta nel fatto che anche una malaria già superata viene interpretata come malaria in atto.

Altro beneficio nei paesi malarici è che le strisce sono liberamente reperibili nelle farmacie o parafarmacie a basso prezzo e si possono usare da chi non ha alcuna preparazione, basta una goccia di sangue periferico posta in un pozzetto e – voilà – una riga rossa appare in caso di risultato positivo di malaria, o non cambia niente se non c’è malaria. Esame indiretto perché non cerca il parassita ma la sua reazione biochimica nel plasma, ma è parzialmente specie-specifico distinguendo tra falciparum e le altre.

Ultimo sistema che discrimina le varie forme specifiche, è il Pcr o «Reazione a catena della polimerase». Dopo avere ben frantumato in laboratorio una porzione di sangue del paziente, si aggiunge un «primer» con la sequenza del codice genetico proprio dell’organismo che si vuole rilevare, se c’è, allora le porzioni vengono moltiplicate all’inverosimile fino a fare diventare rilevabile da macchine la presenza del Dna del plasmodio. Procedura molto sofisticata e sicura ma non veloce ed ancora molto dispendiosa.

Riscaldamento globale e mobilità umana

In ogni caso, meglio evitare la malaria che curarla. Come fare? Mentre ai tropici politiche sanitarie stanno abbassando il numero di infezioni, nel nostro mondo appaiono le prime forme autoctone. Come è capitato? Ancora non si sa bene, ma tante sono le cause di questo fenomeno – ad esempio, il riscaldamento globale e la mobilità delle persone -, che ci metteranno davanti al fatto compiuto e cioè che abbiamo in casa la malaria, la chikungunya (tre casi ad Anzio a settembre, ndr), la filaria e magari la febbre gialla etc. e dovremo prendercene cura.

Nei paesi tropicali si sono avuti risultati immediati e incontestabili attraverso l’uso di zanzariere poste sui letti. Con meno punture ci sono meno infezioni della zanzara e quindi meno zanzare infette. L’eliminazione di pozze di acqua stagnante è di aiuto. La Anopheles, a differenza della Culex, depone solo in pozze di acqua pulita per cui è tassativo eliminare i terreni di deposizione delle loro uova. La lotta biologica è promettente. Questi insetti sono divorati da diversi volatili e chirotteri per cui eliminando uccelli insettivori, come le rondini e i pipistrelli, aumenterà la popolazione delle zanzare.

Dal chinino ad oggi: i farmaci in commercio

La cura della malaria ha avuto vicende alterne con un inizio in cui si usava il chinino, molto efficace ma molto tossico per gli effetti collaterali sulla vista e l’udito etc. I nostri vecchi ancora ricordano le insegne sulle tabaccherie ove si leggeva «Sale e Tabacchi e Chinino di Stato». Quelle pillole rosa che anche i nostri vecchi missionari si portavano dietro in caso di attacchi di malaria e quando questo finiva, c’era sempre un fusto di acqua in cui immergersi per abbassare la temperatura corporea. Favola? No. Questo me lo ha certificato il compianto padre Giovanni Borra, uno dei nostri primi missionari in Tanganyika (l’odierno Tanzania).

Dopo il chinino è arrivata la Clorochina che prendevamo in quantità industriale e che ci faceva diventare temporaneamente strabici o peggio. La clorochina per lo meno era un cloridrato, cioè solubile e fosfato, quindi passava la barriera intestinale per andare là dove ce ne era bisogno.

Ancora non avevamo tenuto conto dell’evoluzione del plasmodio che divenne immune alla clorochina. Vennero quindi usate le pirimetamine, Metakelfin e famiglia, a cui il plasmodio era suscettibile. Ma anche qui la festa non è durata molto perché la pirimetamina è tossica sul fegato dove per forza doveva agire per debellare anche le spore del plasmodio. Che fare?

Ora le Asl propongono il Malarone, un estratto purificato della pianta Artemisia annua coltivata anche nelle nostre missioni. Abbastanza efficace ma costosa e deve essere assunta ogni giorno senza peraltro continuare dopo i trenta giorni, data la lieve tossicità. In sostanza, una medicina per turisti. Altra molecola proposta è la Meflochina o Lariam. Usata in ragione di una pillola settimanale durante la permanenza in zone malariche. La si trova a costi mantenuti ed a quel dosaggio non dà molti effetti collaterali, ma in dosi terapeutiche … meglio la malaria, parola mia.

Nonostante tutto, le Asl si premurano di dire: «Non esiste un farmaco antimalarico che possa dare la certezza assoluta di non venire contagiati, ma un’assunzione regolare permette nella peggiore delle ipotesi di prevenire almeno gravi complicazioni». Alla luce di questa considerazione, oltre a usare i farmaci, occorre quindi prendere misure precauzionali personali (ad esempio: spray repellenti, maniche lunghe, pantaloni lunghi, dormire in un luogo protetto dagli insetti oppure usare una zanzariera trattata con insetticida).

No isterismi, sì prevenzione

Nella nostra esperienza abbiamo visto malarie contratte da ospiti e turisti che hanno seguito alla lettera le norme di prevenzione, ma al loro ritorno in patria hanno manifestato la malaria. La prima prevenzione è essere attenti senza giungere all’isterismo su cui le compagnie farmaceutiche fanno molto affidamento.

Altro consiglio ai nostri governanti: perché non possiamo fornire a tutti i centri di salute in Italia l’umile striscia per la ricerca veloce della malaria? Un piccolo passo non eccessivamente costoso che, oltre a portarci avanti sulla strada della prevenzione, ci darebbe anche un certo senso di sicurezza in più.

Spero che queste note, frutto dell’esperienza di 40 anni di continua permanenza in Africa, di cui 13 come direttore di una scuola di diagnostica e come insegnante di biologia molecolare, possano aiutare a dipanare questa matassa così confusa.

Se può essere di consolazione, è esperienza comune che, dopo 5 anni di permanenza e contatto con la malaria, si diventa quasi immuni e le ricadute malariche si manifestano come una fastidiosa influenza con caduta di tono e stanchezza da curarsi con il riposo. I fatti di queste settimane dimostrano quanto la mala informazione o la disinformazione siano pericolosi.

Angelo Dutto




Islam: Finché il jihadismo rimane «halal»


Eravamo stati a Manchester, prima dell’attentato jihadista dello scorso maggio (che ha fatto 22 morti). Qui avevamo incontrato molti giovani libici dalle esistenze complicate e dalla testa confusa. Oggi tanti quartieri delle città inglesi sono degli stati nello stato, delle realtà parallele, aliene dal mondo circostante. Rappresentano visivamente il fallimento dell’integrazione. E un futuro di incertezze e paure. Come anche Barcellona (con 16 morti) dimostra.

Manchester, settembre 2015. Arrivo in città in autobus, da Londra. Ho appuntamento per interviste con alcuni simpatizzanti e ex combattenti libico-britannici e libico-irlandesi, contigui a movimenti dell’islamismo politico, in un quartiere ad alta densità di immigrati musulmani. Mentre mi dirigo verso il luogo dell’incontro, d’improvviso mi sembra di essere catapultata a Islamabad, a Kabul o chissà dov’altro, ma non certo in Gran Bretagna. È una sensazione strana, di proiezione spazio-temporale in realtà lontane migliaia di chilometri. Donne, uomini, bambini di varie provenienze geografiche, indossano abiti delle loro tradizioni islamiche locali, e veli di ogni tipo, dallo hijab fino al niqab1. Sono rare le apparizioni di giovani non in abiti lunghi o foulard. I ragazzini, anche loro in vestiti tradizionali, si recano nelle scuole coraniche. Noto uomini, tra cui molti africani subsahariani, con lunghe barbe, tipiche di chi si riconosce nelle dottrine neo salafite, cioè di un’interpretazione radicale dell’islam, spesso politicizzata. I negozi, i ristoranti, i supermercati sono tutti «halal», cioè «islamicamente leciti»: sono pachistani, mediorientali, turchi, indiani, ecc. La varietà delle lingue che si sentono va dall’urdu, all’arabo, al turco, in quanto l’inglese è semisconosciuto, come mi dimostra il cameriere del bar dove mi siedo ad aspettare i miei interlocutori.

A Manchester sono numerose le moschee, le scuole coraniche e i centri islamici dove viene diffusa la dottrina neo salafita. Interi quartieri della città, ma anche di Londra e di altre aree della Gran Bretagna, sono state trasformate in ghetti di cittadini musulmani provenienti da paesi, culture e tradizioni totalmente diverse e spesso «nemiche» tra loro, che vanno ad aumentare la tensione sociale.

Manchester, il «melting pot» e il suo fallimento

Se è vero che barba e abito non fanno il monaco, è anche vero che la concentrazione di persone con stili e visioni della vita, dei rapporti umani e sociali totalmente e intenzionalmente alieni rispetto a quelli della società ospite, può essere un vero azzardo. È permettere uno stato nello stato. Una realtà parallela. E in questa città, perlomeno in certe zone, è ciò che si percepisce in modo molto forte: il fallimento del melting pot (da non confondersi con l’assimilazione, retaggio coloniale francese) e della cittadinanza paritetica, dove il cittadino immigrato o di seconda-terza generazione viene integrato nel tessuto sociale, relazionale e lavorativo del luogo di residenza, pur mantenendo radici religiose e culturali proprie.

Girando per queste aree di Manchester ho la sensazione che ci sia una bomba ad orologeria pronta a esplodere alla prima occasione, innescata da un forte detonatore sociale e politico fatto di rabbie represse (per le politiche coloniali passate e neo coloniali presenti della Gran Bretagna in molti dei paesi di provenienza dei cittadini immigrati), di fallimenti esistenziali e sociali, di debolezze umane, a cui si aggiunge il fenomeno socio-politico dei cosiddetti «jihadisti» che ritornano da fronti bellici, ad esempio di Libia e Siria. Si tratta di cittadini britannici, britannico-arabi o arabi che in Libia hanno collaborato anche con le forze Nato e occidental-arabe, o che sono passati dai campi di addestramento di al-Qa’ida e del Daesh, dove hanno appreso tecniche della guerriglia urbana, della dissimulazione tra la folla di inermi cittadini, della costruzione di ordigni e altro ancora, pronti all’azione in Europa, in Nordafrica o Medioriente.

A Manchester, come in altre città britanniche, è facile, infatti, incontrare giovani e adulti di varie origini geografiche uniti da quella dottrina politica radicale che è stata sostenuta, armata, finanziata dall’Occidente e da certi paesi del Golfo, Arabia Saudita in primis. Spesso si tratta di giovani esaltati, depressi, borderline, mal integrati oppure cittadini e studenti di classe media, ma con problemi di inserimento sociale. Ne parla diffusamente una ricerca di un gruppo di psichiatri, sociologi, antropologi e giuristi francesi2. Ciò che accomuna tutti, spesso, è la rabbia per l’ingiustizia, il fallimento sociale, cui si aggiungono il vuoto esistenziale, la fragilità o instabilità psicologica. Su questi individui fanno particolare presa i predicatori radicali, che li indottrinano in centri islamici o, sempre più spesso, via web. Le prediche infuocate (non molto diverse nei modi da quelle di certi evangelici in America Latina) canalizzano la loro collera e delusione, dirigendola verso obiettivi politici e concreti, dando un senso di missione e dunque di scopo nella vita3.

Le testimonianze che raccolgo durante il mio soggiorno a Manchester vanno in questa direzione, anche se i miei intervistati non sono giovani che hanno commesso atti di terrorismo in Europa.

Riscoperta della fede islamica e «rinascita»

Yusuf è un ragazzo simpatico, sembra più giovane dei suoi 23 anni. È figlio di madre irlandese e padre libico, e vive a Manchester da qualche anno. Il marito di sua sorella è un famoso combattente libico che partecipò, nel 2011, alla rivolta contro Muammar Gheddafi, e appartenente al Lifg  – Libyan Islamic Fighting Group – un gruppo di al-Qa’ida. Yusuf e suo fratello maggiore, Sami, hanno avuto un’infanzia difficile, a causa di problemi familiari e sociali, che li hanno resi, in certi momenti, dei borderline. Entrambi hanno preso parte alla guerra contro il regime libico, a fianco della Nato, nel 2011, e insieme a gruppi dell’islamismo politico. Durante l’addestramento nei campi militari in Libia, hanno riscoperto la fede e sono «rinati», come raccontano i due giovani. Yusuf è tornato a vivere in Inghilterra, e ogni tanto va in Libia a trovare la famiglia, mentre Sami vive a Tripoli, dove ha trovato lavoro come reporter.

Casi come quello dei due fratelli di Manchester sono numerosi, ormai, nel panorama europeo. Tuttavia, il loro esito esistenziale e lavorativo è differente da altri che, lasciando i campi di addestramento e la guerriglia, si sono trasformati in «jihadisti di ritorno», come la cronaca degli ultimi sei anni purtroppo ci mostra.

Manchester-Libia: andata e ritorno

Manchester, 23 maggio 2017. Alle 22:30 esplode una bomba all’arena cittadina affollata di adolescenti che assistono al concerto di una famosa star dei teenager. È una strage degli innocenti. I video mostrano in tutto il mondo gente presa dal panico: bambini e genitori che cercano le uscite di sicurezza, urlando terrorizzati. Un kamikaze s’è fatto esplodere in mezzo ai ragazzini. È Salman Abedi, 23 anni, cittadino britannico, figlio di genitori libici oppositori del regime di Gheddafi. Ultimo di quattro fratelli tornati in Libia con padre e madre, Abedi era iscritto all’università Salford di Manchester, ed era noto alle forze dell’ordine e dell’intelligence, secondo quanto ha affermato la polizia.

Nei giorni successivi all’attacco, The Independent e The Guardian spiegano, riferendo testimonianze e dichiarazioni di compagni di università e testimoni, che Abedi era appena ritornato dalla Libia, paese dove qualunque potenziale jihadista terrorista può trovare campi di addestramento. Il giovane faceva la spola con la Libia. Come consueto, il Daesh rivendica anche quest’ultimo orrore.

Il legame tra Manchester e la Libia è molto forte, in quanto la città britannica ospita migliaia di libici e relative famiglie che hanno svolto un ruolo importante nella rivolta contro Gheddafi, nel 2011. Diversi di questi erano collegati al Lifg4.

Le guerre in Libia e in Siria hanno scatenato un Vaso di Pandora: la promiscuità con dottrine radicali violente e un «humus» umano potenzialmente esplosivo fatto di tanti soggetti, gruppi, «società» parallele e poco o per nulla comunicanti e integrate.

Esiste ormai una fitta e dettagliata documentazione, anche di dispacci di intelligence desecretati, che evidenzia la collaborazione tra combattenti radicali, la Nato e alcuni stati europei come Francia e Gran Bretagna, e il ruolo di movimenti dell’islamismo politico nelle cosiddette primavere arabe5. Uno degli effetti di tali partnership, oltre alle evidenti destabilizzazioni regionali e locali, è il fenomeno del «jihadismo di ritorno», cioè di giovani combattenti indottrinati e addestrati nei campi militari in Libia o in altri Stati arabi, finanziati dalla Cia e da altre agenzie e dai paesi del Golfo, e tornati nel proprio paese o in quello di residenza, e poi coinvolti in attacchi terroristici.

Cui prodest?

Come detto, Salman era britannico: nato nel 1994 a Manchester da genitori libici.

«Suo padre, Ramadan Abedi, era un ufficiale dei servizi segreti libici, prima di essere reclutato dagli inglesi – scrive il sito Vietatoparlare.info6 -. La sua copertura fu bruciata accidentalmente da un parente della moglie, Samia Tabal, poco dopo il fallimento di una vasta cospirazione dell’esercito libico per uccidere Muammar Gheddafi. Quest’ennesima congiura contro Gheddafi innescò non solo una delle più grandi purghe nei servizi di sicurezza, ma la dissoluzione delle Forze Armate libiche, sostituite da ciò che Gheddafi chiamò “popolo in armi”, concetto vagamente ispirato ai sistemi svizzeri e svedesi di difesa logistica e che si rivelerà fatale nel 2011, quando la Libia fu attaccata dalla Nato. Fu il servizio segreto inglese che si occupò dell’esfiltrazione o fuga della famiglia Abedi dalla Libia. Ufficialmente, Abedi fuggì dalla dittatura di Gheddafi rifugiandosi nel Regno Unito. Gli Abedi risiedettero prima a Londra, per poi trasferirsi nel sobborgo di Manchester dove risiedettero per oltre un decennio. Come molti giovani delle periferie delle città europee, Salman crebbe senza riferimenti e mostrò particolare entusiasmo verso la cosiddetta “primavera araba” al punto di voler unirsi ai ribelli libici. Ciò naturalmente attirò subito l’attenzione dei servizi segreti inglesi responsabili della perlustrazione della periferia cercando candidati disposti a sacrificarsi in battaglia contro i nemici di Sua Maestà, in nome di Allah. (…) La polizia inglese rivelava rapidamente l’identità del presunto terrorista, suggerendo che non fosse solo conosciuto, ma supervisionato dagli agenti che seguivano l’ambiente da cui proveniva».

La lunga citazione solleva vari interrogativi. Questi giovani esaltati sono «asset», strumenti umani da utilizzare all’occorrenza? Si tratta, come abbiamo visto, di persone note, che hanno partecipato a rivolte arabe, che entrano e escono dai paesi dove risiedono e da quelli dove vanno a fare il «jihad» per anni appoggiato dall’Occidente.

Ora, l’aver pensato che questi giovani – con la loro visione radicale e estrema di una politica religiosizzata o di una fede politicizzata, condita con problemi sociali e personali – non costituissero un «problema» anche in loco, è davvero poco credibile.

L’esito, come sempre, è la morte di innocenti. Nel caso di Manchester, adolescenti e bambini.

Al di là dell’orrore e della rabbia che tali azioni suscitano, dovremmo continuare a porci la sana domanda: cui prodest?

Angela Lano
(quarta puntata – continua)

Note

(1) Lo hijab è il foulard che copre il capo incorniciando il viso; il niqab è il velo nero integrale, che copre anche il volto lasciando scoperti solo gli occhi.

(2) Fonte: Dounia Bouzar. Link: http://www.bouzar-expertises.fr/metamorphose

(3) Dossier MC, Sventola bandiera nera 2, marzo 2016.

(4) Fonte: Jon Sharman, Kim Sengupta, Salman Abedi: Police probe Libyan links of Manchester bomber who killed 22, 23 maggio 2017, www.independent.co.uk/

(5) Nelle prossime puntate parleremo dei casi della Tunisia e della Libia.

(6) Fonte: L’attentatore di Manchester era vicino ai servizi segreti inglesi, 24 maggio 2017, www.vietatoparlare.it (traduzione di un testo apparso su strategika51.wordpress.com).

 

 




La Cina in Africa: che cosa è cambiato /1


Colonizzatrice, sfruttatrice e insaziabile divoratrice di risorse del sottosuolo o amica degli africani, partner alla pari e addirittura benefattrice? La presenza della Cina in Africa è complessa e sfaccettata.

Negli ultimi quindici anni le relazioni fra la Cina e l’Africa hanno avuto una decisa impennata. A testimoniarlo sono i dati sia sul commercio sino-africano che sugli investimenti di Pechino in Africa. Secondo uno studio di McKinsey pubblicato nel giugno scorso, Dance of the lions and dragons@, il commercio fra il continente africano e il colosso asiatico è aumentato a ritmo del 21% annuo dai 13 miliardi del 2001 ai 188 del 2015, facendo della Cina il primo partner commerciale dell’Africa. Il commercio con l’India, che dell’Africa è il secondo partner, arriva a 59 miliardi, un terzo. Quanto all’investimento diretto all’estero (Ide) dalla Cina all’Africa, esso è passato dal miliardo del 2004 ai 35 del 2015, aumentando del 40% annuo.

Ma la presenza cinese in Africa ha molto più di quindici anni. Senza scomodare l’ammiraglio Zheng He e le imprese della flotta imperiale cinese che raggiunse le coste del Kenya, della Tanzania e della Somalia nel quindicesimo secolo, le relazioni sino-africane nell’epoca contemporanea sono vecchie di oltre mezzo secolo. Secondo Liu Youfa, ex vicepresidente del China Institute of International Studies, tre sono gli eventi che aiutano a sintetizzarne l’evoluzione@.

  • In primo luogo, la costruzione nel 1970 della ferrovia TanZam che collega il porto di Dar Es-Salaam in Tanzania alla cintura del rame in Zambia. Le negoziazioni per la costruzione della TanZam cominciarono nel 1966, dopo che i due paesi africani avevano chiesto il sostegno di Banca mondiale, Stati Uniti e altri paesi occidentali, rimanendo però inascoltati.
  • Il secondo evento – chiave, continua Liu Youfa, è l’approvazione, il 25 ottobre 1971, della risoluzione 2758 dell’Assemblea generale Onu, che riconosceva la Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong – e non i rappresentanti di Chiang Kai-shek e di Taiwan – come governo legittimo della Cina e membro del Consiglio di Sicurezza. In quell’occasione, dei 76 voti a favore della Cina popolare 26 erano africani e Mao ebbe modo di commentare: «Sono i nostri amici africani che ci hanno portato all’Onu».
  • Il terzo e ultimo passaggio fondamentale è la creazione del Forum sulla cooperazione sino-africana (Focac) nel 2000, nell’ambito del quale i rapporti politici ed economici fra il regno di mezzo e il continente nero hanno preso una forma via via più strutturata.

Quella dell’ultimo ventennio, dunque, è un’esplosione economica che affonda le sue radici in un lungo lavoro diplomatico e strategico e che oggi sembra alle soglie di un ulteriore cambiamento.

La base militare a Gibuti e le infrastrutture

Il più recente e macroscopico segno di questo cambiamento è probabilmente l’apertura, lo scorso luglio, della prima base militare della Cina al di fuori del proprio territorio. Per lo storico passo il gigante orientale ha scelto Gibuti, piccolo paese del Corno d’Africa affacciato sullo stretto che collega il Mar Rosso con il golfo di Aden e che già ospita le basi militari di Italia, Stati Uniti, Francia e Giappone. È una base navale il cui scopo, a detta di Pechino, è quello di fornire supporto alle missioni umanitarie e di peacekeeping e di contribuire agli sforzi internazionali di lotta alla pirateria nella zona. Ospiterà, certo, dei militari e sarà utile per attività di cooperazione militare, esercitazioni congiunte, evacuazione e protezione di Cinesi all’estero. Ma, hanno insistito i media cinesi, la Cina non persegue espansionismo militare né si impegnerà in corse agli armamenti. Lo sviluppo militare della Cina, taglia corto il Pla Daily, quotidiano delle forze armate cinesi, mira a proteggerne la sicurezza, non a controllare il mondo.

Le precisazioni sono una risposta agli altri attori internazionali come gli Stati Uniti – che hanno espresso preoccupazione per la mossa cinese – e l’India, altro gigante asiatico che rivaleggia con la Cina e che teme di esserne pian piano accerchiata. È, questa, la teoria del «filo di perle» che attribuisce alla Cina la volontà di creare una serie di presenze nei punti chiave del percorso marittimo immaginario che va dal territorio cinese alla città sudanese di Port Sudan, sul Mar Rosso, circondando, appunto, l’India.

Ma anche prima di questo passo, il quale, al netto delle preoccupazioni di Usa e India, resta comunque epocale, che la Cina avesse cambiato marcia era piuttosto chiaro. Lo scorso maggio c’è stato a Pechino il primo incontro di presentazione dell’iniziativa Una cintura, Una strada (One Belt, One Road, Obor), che prevede la ricostituzione della via della seta. Anzi, delle vie della seta: quella terrestre, che interessa principalmente Asia ed Europa, e quella marittima, che tocca anche l’Africa orientale. Le manifestazioni di interesse da parte dei paesi potenzialmente coinvolti sono state tante, e tanti sono anche i dubbi sulla praticabilità e sostenibilità di un’opera così mastodontica.

Nuovo treno merci sulla nuova ferrovia costruita dai cinesi in partenza da Mombasa

Intanto, però il lancio esplorativo del programma mette in una diversa prospettiva due infrastrutture che in Africa sono state già realizzate. Se n’è parlato molto nell’ultimo anno: sono la ferrovia che collega il porto kenyano di Mombasa con la capitale Nairobi e quella che connette Gibuti alla capitale etiope Addis Abeba.

La linea ferroviaria kenyana, riporta la Bbc, è stata inaugurata lo scorso maggio con diciotto mesi di anticipo, è lunga 470 chilometri ed è la prima fase di un più ampio progetto che prevede in Kenya un totale di 840 chilometri sino alla città frontaliera occidentale di Malaba. Costruita dall’azienda cinese China Road and Bridge Corporation (Crbc), ha avuto un costo di 3,8 miliardi di dollari finanziati all’85 per cento dalla Banca per l’import export cinese (China Exim Bank) con un prestito agevolato che concede al Kenya di cominciare a ripagare il debito fra dieci anni con i proventi generati dalla ferrovia. Il tratto kenyano dovrebbe essere il primo di un complessivo progetto regionale che collegherebbe l’oceano Indiano con il Sud Sudan.

Quanto alla linea Gibuti-Addis, è la prima ferrovia elettrica del continente e permetterà di impiegare dieci ore invece che tre giorni per trasportare merci sui 756 chilometri che separano le due città. Anche in questo caso, finanziatori e costruttori sono cinesi: l’Exim Bank ha concesso i prestiti e due costruttori – diversi da quelli della Mombasa-Nairobi – hanno realizzato la ferrovia, che dovrebbe cominciare le operazioni questo mese dopo un anno di test e verifiche.

Ma le due strade ferrate non sono certo le sole opere a cui la Cina è o è stata alacremente intenta negli ultimi anni. Sempre cinese è il ponte che collegherà la capitale mozambicana di Maputo al distretto di Catembe e che, con i suoi oltre tre chilometri, sarà il ponte sospeso più lungo del continente. Il costo sarà di circa 750 milioni di dollari e il progetto comprende anche la costruzione di due strade per migliorare i collegamenti del Mozambico con lo Swaziland e il Sudafrica, incentivando così turismo e commercio. I nomi del finanziatore e del costruttore? Sempre gli stessi: Exim Bank e Crbc.

Vale la pena di citare poi la cittadella di Kilamba, a trenta chilometri dalla capitale dell’Angola, Luanda, un complesso abitativo composto da 710 edifici di diverse altezze e con più di ventimila appartamenti, oltre ai servizi come asili, scuole, negozi. Costruita con fondi e da aziende cinesi e inaugurata nel 2011, è stata oggetto di alcuni reportage che la descrivevano come una città fantasma, almeno fino all’anno scorso. Oggi fonti ufficiali quantificano in ottantamila gli angolani residenti nella cittadella; la lentezza con cui le case vengono vendute pare dipendere più che altro dai prezzi – fino a qualche mese fa decisamente troppo alti anche per i luandesi di classe media -, dalle difficoltà nell’ottenere un mutuo e dalla inefficienza e disorganizzazione con cui l’assegnazione delle case viene gestita dagli enti angolani.

Ma andiamo oltre le singole opere. Nel 2016, si legge nel rapporto di Fdi Intelligence, la sezione del Financial Times che si occupa di investimenti diretti all’estero@, la Cina è stata il primo paese per capitali investiti in Africa: oltre 36 miliardi di dollari e quasi 40 mila posti di lavoro creati. Ha così soffiato il primato all’Italia che l’anno precedente, soprattutto grazie al progetto Eni per l’estrazione di gas dal giacimento di Zohr, al largo dell’Egitto, faceva da capofila con 7,4 miliardi di dollari.

Per numero di progetti, restano in testa gli Stati Uniti: 83 progetti (dieci in meno dell’anno precedente), contro i 71 della Francia e i 62 della Cina, che li ha però raddoppiati rispetto al 2015. Considerando i paesi come aggregati, è l’Europa occidentale a posizionarsi al primo posto, con 224 progetti, pur registrando un calo rispetto ai 282 del 2015.

Invasione cinese? Non proprio.

La base di Gibuti, le grandi opere e numerosi articoli e reportage hanno contribuito a creare la sensazione di un’invasione dell’Africa da parte della Cina. I volumi sono certo impressionanti, ma vanno contestualizzati. Anche perché l’analisi dei numeri sulla Cina si scontra con due difficoltà: la prima è che i dati forniti da Pechino non sono né chiari né trasparenti. Ad esempio, osserva David Dollar della Brookings Institution di Washington, metà del complessivo investimento cinese all’estero risulta diretto a Hong Kong e, a seguire, alle isole Cayman e Virgin. Nessuno dei tre luoghi è probabilmente la destinazione finale degli investimenti@. Inoltre, diverse ricerche prendono in considerazione gli impegni annunciati dalla Cina, che non sempre però si trasformano in effettivi flussi di denaro. La seconda difficoltà è che l’elaborazione di questi dati da parte dei media non sempre sfugge al sensazionalismo.

La Cina ha certamente fatto un balzo notevole nell’ultimo decennio. Come sottolinea a pagina 20 lo studio McKinsey sopra citato, Pechino è già il maggior partner economico dell’Africa: si trova nelle prime quattro posizioni in cinque ambiti fondamentali: commercio, investimenti, progressione degli investimenti, aiuto allo sviluppo e finanziamento di infrastrutture. Sempre David Dollar nel 2016 proponeva tuttavia una lettura cauta: l’investimento della Cina in Africa è sia grande che piccolo. È piccolo, scrive lo studioso, nel senso che la Cina è arrivata più tardi in Africa e rappresenta solo una piccola parte dello stock totale degli investimenti stranieri nel continente. Alla fine del 2011, questo totale era di 629 miliardi, del quale la quota cinese era pari al 3,2%. I paesi europei, guidati da Francia e Regno Unito, sono di gran lunga i maggiori investitori nel continente. L’investimento della Cina in Africa è tuttavia anche grande in senso relativo. A fine 2013, la Cina aveva un investimento diretto estero in Africa (32 miliardi di dollari) comparabile a quello che aveva negli Stati Uniti (38 miliardi). Pertanto, dal momento che l’investimento diretto tende di norma ad andare verso le economie più avanzate, l’attenzione relativa della Cina all’Africa è grande@.

Lo stock di investimenti diretti esteri in Africa l’anno scorso si aggirava intorno agli 836 di cui 49 miliardi dalla Cina secondo le stime di McKinsey. Se la stima fosse confermata, la quota cinese di investimenti in Africa salirebbe a poco meno del 6%. L’ultimo dato disponibile per gli Stati Uniti è quello del 2015, pari a 64 miliardi di investimenti in Africa: l’8,3% del totale.

La China Africa Research Initiative (Cari) della Jonhs Hopkins University è un’altra delle fonti che tende a ridimensionare i dati. Un esempio? Il fact checking della Cari su un articolo apparso lo scorso maggio sul New York Times dal titolo «La Cina è la nuova potenza coloniale mondiale?», nel quale il quotidiano statunitense sosteneva che nel 2016 la Cina avrebbe riservato un fondo di sessanta miliardi di dollari per finanziare infrastrutture in Africa principalmente attraverso prestiti cinesi. «Non esiste nulla del genere», puntualizza Cari. «L’articolo potrebbe riferirsi agli impegni presi dalla Cina nell’incontro del Forum Africa Cina del 2015» e – a leggere i documenti ufficiali del Forum – è chiaro come i sessanta miliardi non costituiscano un unico fondo ma comprendano prestiti, donazioni e investimenti e, soprattutto, non sono concentrati sulle infrastrutture.

Chiara Giovetti
(continua in gennaio 2018)

Archivio MC:

Di relazioni Cina Africa abbiamo parlato nel dossier MC dicembre 2007 e nel numero monografico MC ottobre 2010.




I Perdenti 28:

Sarajevo: Admira e Bosko

Admira Ismic e Bosko Brkic entrarono per caso nella cronaca di quella sporca guerra che sconvolse l’ex Jugoslavia negli anni Novanta del secolo scorso per divenire i «Giulietta e Romeo di Sarajevo». Essi furono uccisi, mano nella mano, dai cecchini serbi nella «terra di nessuno» che separava la zona musulmana da quella serba nella capitale bosniaca. Era il 19 maggio 1993, la violenza durava già da un anno. Admira era musulmana, Bosko cristiano ortodosso. Entrambi venticinquenni, erano legati da un amore intenso e sincero da quando ne avevano diciassette, nonostante l’odio etnico e confessionale presente in città.

Dopo aver resistito diverso tempo, alla fine Admira e Bosko, che abitavano nella zona musulmana insieme ai genitori di lei, avevano deciso di fuggire trasferendosi provvisoriamente nel sobborgo serbo di Grbavica, per salutare i genitori di Bosko e con l’intento di abbandonare poi la Bosnia.

I loro corpi abbracciati nei pressi del ponte di Vrbanja che unisce le sponde del torrente Miljacka, abbandonati al sole per otto giorni, perché non si riusciva a ottenere l’assenso dei belligeranti a un cessate il fuoco che ne consentisse il recupero, divennero il simbolo della tragedia bosniaca.

Una volta recuperati dai serbi, i loro corpi furono seppelliti sbrigativamente sulle colline. Soltanto tre anni dopo trovarono riposo fianco a fianco nel cimitero di Sarajevo.

Proprio di fronte alle loro tombe, al di là del muro di cinta del camposanto, c’è il caffè dove i due si erano incontrati e avevano trascorso ore sognando un amore lontano dalle bombe e dall’odio.

La loro storia continua a ricordarci come l’amore sia più forte della morte.

Bosko, come mai, mentre tutti scappavano, tu hai deciso di andare a vivere nella parte musulmana di quella città dilaniata dall’odio?

Bosko: lo decisi per stare accanto a lei, la ragazza che amavo più della mia vita. Se me ne fossi andato anche io, non so se l’avrei ritrovata al mio ritorno, e chissà quando sarebbe avvenuto un ritorno.

Tu serbo-bosniaco, tu bosniaca. Tu cristiano ortodosso, tu musulmana. Come vi siete conosciuti?

Bosko e Admira: nella maniera più semplice, comune a tanti giovani del mondo, ovvero incontrandoci in un bar della nostra città. Tra una bibita e una chiacchierata avevano cominciato una relazione d’amore molto bella benché impossibile in un paese che cominciava ad essere percorso dall’odio etnico.

E pensare che Sarajevo, comunità cosmopolita da secoli, era famosa per la sua capacità di integrare le varie componenti etniche creando le condizioni per una tolleranza che era d’esempio a molte altre città…

Bosko e Admira: fino all’inizio dei conflitti che hanno messo una contro l’altra le varie nazionalità che componevano l’ex Jugoslavia, le diverse comunità etniche erano abituate da tempo a vivere una acconto all’altra. Forse la forte personalità, anche in campo internazionale, del maresciallo Tito aveva contribuito a fare da collante in un paese sorto dalle ceneri della guerra, assemblando popoli di lingua, religione e cultura diverse.

Difatti i guai cominciarono dopo la sua morte…

Bosko e Admira: proprio così, la nostra società incubava da tempo i germi del nazionalismo e del razzismo, basati su una presunta superiorità culturale di una sola componente etnica a scapito delle altre. In un paese attraversato da una crisi economica che si trascinava da tempo, con la morte del maresciallo Tito, venuto meno l’uomo che con mano ferma aveva guidato la lotta di resistenza al nazifascismo e garantito il distacco dall’Unione Sovietica, questi germi attecchirono fra la gente, specialmente negli strati più emarginati della popolazione.

E così da modello di convivenza fra popoli diversi, la vostra terra divenne un campo di battaglia.

Bosko e Admira: la cosa che più fece impressione, fu che dall’oggi al domani nessuno più si fidava dell’altro, meno che meno se apparteneva a un gruppo etnico-religioso diverso dal proprio, cominciò a serpeggiare fra la gente una specie di ostilità verso coloro che non appartenevano al proprio «clan», e ben presto gli eserciti dei vari stati cominciarono a spararsi contro per delimitare i «propri» confini e proibire così ad altri di entrare.

Per voi una cosa del genere era inaccettabile, vero?

Bosko: sì, e per uscire da quella situazione avevo preparato tutte le carte necessarie a partire. Insieme ad Admira avevamo deciso di lasciare Sarajevo.

Vivevamo nella casa dei genitori di Admira, nel settore musulmano. Il progetto era di andare dai miei, nel quartiere serbo, stare un po’ con loro e poi finalmente partire. Ma bisognava passare il torrente Miljackail, che divide la città, passando sul ponte Vrbanja, una vera strozzatura e passaggio obbligatorio. Decidemmo di tentare il tutto per tutto, il 18 maggio 1993. Ma un cecchino mi colpì con una pallottola alla testa, ponendo fine alla mia vita. Anche Admira fu colpita, ma non morì subito. Con le ultime forze, Admira si trascinò fino a me e mi abbracciò. Restammo otto lunghi giorni in quel tragico abbraccio d’amore.

Un abbraccio pieno d’amore scambiato sulla soglia dell’eternità…

Bosko e Admira: colpiti dalla violenza cieca dei nostri compatrioti, ce ne andammo da questo mondo pieno di odio e, abbracciati come due semplici innamorati, entrammo insieme nel Regno della Pace.

Ci piace immaginare che gli Angeli e i Santi vi abbiano accolto in Paradiso con le parole conclusive del Cantico dei Cantici, dove l’amata dice all’amato: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore».

Bosko e Admira: proprio così, il Dio della tenerezza e dell’amore ci accolse fra le sue braccia e ci coprì con il mantello della sua misericordia.

 I corpi esanimi dei due moderni Giulietta e Romeo rimasero sotto il sole di maggio per otto lunghi giorni prima che una tregua concordata tra le parti belligeranti ne potesse consentire il recupero e dare loro una degna sepoltura. Alla cerimonia funebre di tre anni dopo erano presenti i membri delle due comunità, musulmani e serbo-bosniaci uniti dalla testimonianza d’amore dei loro figli.

«Se avessero avuto una visione fanatica della religione, non si sarebbero mai messi insieme», disse in quell’occasione il padre di Admira. Il loro resta un prezioso messaggio della religione dell’amore che quando è vissuta coerentemente fino in fondo sconfigge l’odio e fa trionfare sempre la pace. L’immagine dei due corpi abbracciati a terra fece il giro del mondo, e ancora oggi rappresenta un’icona dell’amore che va oltre alle differenze di razza e di religione. Un insegnamento per tutte le nazioni del mondo sempre più vittime di nazionalismi emergenti ed egoismi locali, che poi sono le stesse ragioni che hanno disintegrato lo stato jugoslavo.

La guerra è terminata da tempo e l’autodeterminazione dei popoli balcanici ha favorito la nascita di ben sei nuovi stati sovrani sul territorio della ex Jugoslavia. L’insegnamento e la testimonianza dei due giovani innamorati di Sarajevo appare oggi più significativa ed attuale che mai.

Don Mario Bandera




Amico: capire col cuore


Sentivi ancora le sue dita sui tuoi piedi. Quelle dita che avevano scacciato demoni, risuscitato morti, moltiplicato pani. Eri confuso e frastornato. La giornata densa di eventi, gesti e parole annunciava qualcosa che non capivi e che temevi.

Lui parlava al vostro cuore con il tono del congedo, e quando ha detto «dove vado io voi non potete venire» – dopo tre anni che lo seguivate ovunque -, siete rimasti senza parole. Persino Pietro, forse ferito, rapito dall’immagine di un gallo che canta.

«Non sia turbato il vostro cuore – ha poi aggiunto Gesù -. Vado a prepararvi un posto nella casa del Padre» (Gv 14).

Tu ascoltavi senza comprendere. Le sue parole erano chiare, ma anche cariche di un mistero che le rendeva oscure alla tua mente e al tuo cuore. Tre giorni più tardi avresti scoperto che solo i tuoi piedi avevano capito: dopo essere stati lavati da Lui, come un bimbo dalla sua mamma, erano essi a ricevere la sua Parola più delle orecchie. A volte il corpo – e la vita che in esso scorre scambiando con lo Spirito mezze frasi bisbigliate – conosce e comprende prima dell’intelletto.

«Mostraci il Padre», hai detto, tralasciando la vertigine che si spandeva in te e liberando la tua ansia di toccare e soppesare.

Della sua risposta, in seguito, avresti ricordato per lungo tempo solo il suono della sua voce che pronunciava il tuo nome: «Filippo». Il suo invito a credergli, quasi una supplica, lo hai raccolto quando quello stesso suono, la sera del primo giorno dopo il sabato, ha fatto vibrare di nuovo la membrana dei tuoi timpani: «Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».

Ecco. Ciò che i tuoi piedi avevano già conosciuto, ora scoprivi che si era diffuso alla tua intera persona. La Via, la Verità e la Vita abitavano in te e te in loro e loro nel Padre.

E da te si comunicano al mondo.

Buon ottobre missionario da amico,

Luca Lorusso

Leggi tutto il numero nello sfogliabile di Ottobre 2017

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