Liberia:

Cronache dal paese «inventato»

Lo stato dei «liberi» verso le elezioni

Liberia
Valentina Giulia Milani

La Liberia ha una storia singolare. È stata fondata da ex schiavi afroamericani. Grande un terzo dell’Italia, non ha mai avuto una storia facile. Dopo due sanguinose guerre civili, è il paese che nel 2014 ha subito più vittime a causa dell’ebola. Ma è anche il primo stato africano con una donna presidente. Oggi i giovani chiedono un futuro che valorizzi la bellezza della loro terra.

Dall’ultimo piano del Ducor Palace Hotel, il grande albergo a 5 stelle di Monrovia, abbandonato dal 1989, il panorama è letteralmente mozzafiato: la capitale della Liberia si snoda a perdita d’occhio ai piedi del fatiscente stabile che sorge su una collina nei pressi della città vecchia. Dopo un primo entusiasmante sguardo, a colpire, però, è un’enorme «macchia» malconcia che occupa il lembo di terra che si affaccia da un lato sull’Oceano Atlantico e dall’altro sul fiume Mesurado. «Quella laggiù è la baraccopoli di West Point, conta circa 70.000 abitanti. I politici sono corrotti e se ne fregano della maggior parte della popolazione che vive in condizioni di povertà estrema. Tra l’altro, quando l’ebola nel 2014 è arrivato in quello slum è stata la fine per il nostro paese che era già in ginocchio», racconta il guardiano dell’albergo con sconforto.

Devastata da due guerre civili (1989-1995 e 1999-2003), la Liberia è una nazione che arranca, da sempre spaccata in due. Da un lato la miseria, dall’altro la ricchezza. La morfologia di Monrovia parla chiaro: l’enorme e caotica baraccopoli, i quartieri popolari, le discariche frequentate da uomini e donne in cerca di cibo e il grande cimitero centrale abitato dai senzatetto, contrapposti alle zone residenziali con vie asfaltate sulle quali si affacciano ordinati compound che, con alti muri e filo spinato, proteggono gli uffici delle tante Ong presenti nel paese e le case della borghesia locale. Ricchissimi e poverissimi, niente classe media.

Ad aumentare il divario vi è l’elevato costo della vita dovuto principalmente alla mancanza di energia elettrica. Ricco di ferro, oro e diamanti, il sottosuolo della Liberia è povero di risorse energetiche. «La poca elettricità che abbiamo la otteniamo con il petrolio d’importazione. I prezzi dei prodotti dei supermercati così aumentano perché devono coprire le spese dei generatori», sospira un tassista alle prese con il caotico traffico. E se si pensa che lo stipendio di un insegnante liberiano si aggira intorno ai 200 dollari al mese, si comprende come per la maggior parte della popolazione sia impossibile accedere ai negozi di alimentari. Si ricorre così ai mercati di strada e si mangia carne proveniente dalle foreste: scimmie, iguane… Ed è anche per questo che l’ebola ha trovato terreno fertile.

Il governo ha vietato il consumo di selvaggina. Un decreto difficile da rispettare soprattutto adesso che il costo della vita si è alzato ulteriormente proprio per il fatto che, per più di un anno, durante l’epidemia, tutto si è bloccato: imprese chiuse, attività ferme, scuole sprangate, ospedali governativi in tilt, confini serrati.

Ricostruzione necessaria

«Dobbiamo provvedere a una difficile ricostruzione del paese su tutti i fronti. Abbiamo perso due anni», spiega l’attuale vicepresidente Joseph Boakai, candidato alle elezioni presidenziali del prossimo ottobre, mentre siede composto nel suo ufficio.

Oggi più di prima, quasi tutti i prodotti vengono importati e i prezzi sono alle stelle. Le perdite stimate dalla Banca mondiale in termini di Prodotto interno lordo sono pari a 240 milioni di dollari. Molti ragazzi che dovevano diplomarsi nel 2014 hanno potuto sostenere gli esami solo nel 2016 e il sistema sanitario è da ricostruire.

«Durante l’epidemia sono morte tantissime persone anche di malaria e altre malattie, perché tutte le forze erano concentrate sulla cura dell’ebola. Ora dobbiamo lavorare per garantire agevolazioni sanitarie a chi ce l’ha fatta per effettuare controlli periodici e curare i lasciti fisici della febbre emorragica», racconta Neima Nora Candy, responsabile della sanità pubblica per la Croce rossa liberiana.

Del resto l’epidemia, direttamente o indirettamente, ha colpito tutti e la Liberia deve fare i conti con le conseguenze lasciate dal virus, imparando dai suoi sbagli. Dopo essere stata dichiarata «ebola free» l’11 maggio 2015, la Liberia ha dovuto affrontare altri tre casi immediatamente isolati. Solo in questa nazione sono 4.809 i morti dichiarati (dati Organizzazione mondiale della sanità, Oms). Le persone all’inizio faticavano a credere al virus. Le usanze tradizionali, la diffidenza nei confronti degli operatori sanitari occidentali, il ritardo con cui è stata dichiarata l’emergenza (l’8 agosto 2014), un governo e un sistema sanitario non pronti: tanti sono stati i fattori che hanno permesso all’epidemia di uccidere le persone come mosche nei villaggi e di arrivare in men che non si dica nella capitale.

«Una volta giunta in città e penetrata a West Point è stato un disastro. Così qui in Liberia si è registrato il più alto numero di morti rispetto alle vicine Sierra Leone (3.955) e Guinea (2.536). I risultati? Oltre ai cadaveri, quasi 6.000 sopravvissuti e altrettanti orfani di madre, padre o di entrambi», afferma Tolbert Nyesmah, attuale viceministro della Salute.

L’eredità dell’epidemia

L’emergenza non è quindi terminata anche se, come dice Amr Nugy, a Monrovia per conto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), «essendo stata dichiarata la fine della crisi arrivano meno fondi, nonostante i problemi siano ancora tanti, tra emarginazione e povertà». Le conferme si trovano camminando per la città, parlando con le persone, con i sopravvissuti che lottano ogni giorno contro dolori fisici e disturbi psicologici. «Sono diventata sorda ad un orecchio e cieca ad un occhio. Appena sono uscita dal centro di trattamento di Medici senza frontiere (Msf), le persone della mia comunità mi emarginavano: avevano paura». Lela Glay ha 45 anni e vive ad Harbel, la contea nei pressi dell’aeroporto. È depressa, uno stato emotivo a lei sconosciuto prima di contrarre il virus. Ha sei figli e a stento riesce a tirare avanti. «Chi ce l’ha fatta si porta dietro uno stigma difficile da cancellare», spiega con sconforto suor Anna Rita Brustia, missionaria della Consolata impegnata in Liberia dagli anni Settanta.

Innumerevoli sono anche gli orfani dell’ebola: solo ad Harbel se ne contano 614. Tra Liberia, Sierra Leone e Guinea sono 16.600 secondo i dati Unicef. Non esistendo la cultura dell’orfanotrofio, i bambini sono per lo più stati presi in carico da parenti. Si sono create così famiglie allargate enormi, difficili da gestire. «Mi prendo cura dei miei quattro nipoti. Non riesco però a mandarli a scuola tutti», ammette con sconforto un giovane tassista.

Inoltre, ad aggravare la già difficile situazione, vi sono le più giovani vittime dell’ebola: bambini di pochi mesi che dovrebbero essere il futuro della Liberia e che invece, colpiti indirettamente dal virus, si trovano a lottare per la sopravvivenza. Nel Bardnesville Junction Hospital, l’ospedale pediatrico aperto da Msf nel 2014 per curare anche i pazienti affetti da altre patologie, i letti sono occupati da piccoli appena nati. «Sono malnutriti e molti sono vittime dell’abuso di paracetamolo. Durante l’ebola si è infatti registrato un enorme innalzamento del consumo del farmaco che le mamme spaventate somministravano ai figli senza conoscere i dosaggi. Dal momento che i piccoli non guarivano gliene davano sempre di più. Questa brutta abitudine è rimasta tutt’ora», spiega l’infermiera Kathy Beuve di Msf Francia. È infatti necessario continuare a sensibilizzare la popolazione su diversi fronti perché, purtroppo, non sono da escludersi nuovi casi. «Il governo adesso è preparato se scoppiasse un’emergenza. Però sappiamo che il virus persiste nello sperma maschile per qualche mese. Quindi dobbiamo stare sempre allerta e monitorare soprattutto le comunità più isolate», ammette il viceministro.

Verso le elezioni

Nel frattempo la Liberia si prepara alle elezioni che si terranno il prossimo 10 ottobre, quando la popolazione si recherà alle urne per votare sia per il nuovo presidente che per il rinnovo della camera dei rappresentanti. Al potere dal 2006, 78 anni, prima presidente donna dell’Africa, vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 2011, l’attuale capo di stato liberiano Ellen Johnson Sirleaf non si ricandiderà, nel pieno rispetto della Costituzione che prevede due mandati. A rappresentare il partito al potere (Unity Party) sarà infatti l’attuale vicepresidente Joseph N. Boakai.

«La Liberia ha le risorse per diventare una grande potenza. Dobbiamo certo provvedere a migliorare le infrastrutture per favorire i commerci e il turismo. Fuori Monrovia, per esempio, le strade sono tutte sterrate e per raggiungere alcune bellissime località che potrebbero attirare turisti ci vogliono ore. Fondamentale per la nostra economia è inoltre l’agricoltura, sulla quale intendo puntare», spiega Boakai osservato dal ritratto della Sirleaf appeso al muro alle sue spalle. L’agricoltura in Liberia occupa infatti il 70% della forza lavoro e il 44,7% del Pil totale che si aggira intorno a poco più di 2 miliardi di dollari. Tra le colture per l’esportazione prevalgono quella di caucciù, cacao, caffè e palma da olio. Però, come afferma un contadino che abita nella zona di Harbel (dove si trovano le coltivazioni di caucciù della statunitense Firestone), «i giovani faticano a trovare lavoro. Prima le guerre civili, poi l’ebola. Per noi è un periodo davvero difficile e la popolazione ha perso la fiducia nella classe politica e nella Sirleaf alla quale all’inizio tutti abbiamo creduto con entusiasmo».

«Molti di noi non sanno chi votare», ammette un giovane studente davanti all’Università di Monrovia. Il principale partito dell’opposizione è il Congress for Democratic Change, cappeggiato dall’ex calciatore George Weah: vincitore del Pallone d’oro nel 1995 e già candidato alle presidenziali nel 2005, quando perse proprio contro la Sirleaf. Inoltre nel 2011 partecipò, con scarsi risultati, alla corsa per diventare vicepresidente e attualmente ricopre la carica di senatore. «Alcuni di noi lo ammirano perché rappresenta riscatto e forza di volontà, però a livello politico molti hanno dei dubbi», prosegue il ragazzo.

Il paese «inventato»

Fondata nel 1822 dall’American Colonization Society (una società umanitaria statunitense che propugnava la liberazione degli schiavi afroamericani e il loro reinserimento in Africa), la colonia proclamò l’indipendenza il 26 luglio 1847 e adottò una Costituzione su modello di quella degli Usa.

Oggi il paese si trova ad attraversare un delicato momento di transizione con molti drammi alle spalle.

Nel frattempo la missione Onu, stabilitasi in Liberia il 19 settembre 2003 con il compito di mantenere pace e sicurezza, viene progressivamente ritirata.

A guardare avanti, per fortuna, ci sono i giovani di Monrovia, quelli cresciuti nei quartieri più poveri. Come i cantanti Hip Co (hip hop liberiano) che durante l’epidemia hanno continuato a riunirsi per creare canzoni che, in lingua locale, spiegassero alle persone le misure di sicurezza da adottare. Oppure i giovani surfisti di Robertsport (cittadina a 120 km da Monrovia) che nonostante il già scarso turismo sia calato definitivamente, oggi si battono per rivalutare le meravigliose spiagge che sorgono a Nord della capitale. E, come dicono loro con speranza e convinzione, «arriveranno tempi migliori anche per la nostra nazione». Sono sopravvissuti alla guerra e all’ebola, ora non hanno più paura di niente.

Valentina Giulia Milani


Cronologia essenziale

Dal «back to Africa» all’«ebola free»

  • 1821 l’American Colonization Society acquista una porzione di territorio della Sierra Leone per fornire agli schiavi afroamericani una terra dove poter tornare.
  • 1822 il territorio dell’attuale Liberia inizia a essere popolato da ex schiavi che fondano Monrovia.
  • 1836 abolizione dei lavori forzati.
  • 1839 la colonia si trasforma in Commonwealth autonomo.
  • 1841 il Congresso americano chiama il territorio Liberia, ossia «terra dei liberi».
  • 1847, 26 luglio il Congresso liberiano, che rappresenta solo gli americani espatriati e non i nativi, proclama l’indipendenza.
  • 1958 la discriminazione razziale è messa fuori legge.
  • 1980 il sergente Samuel Doe s’impossessa del potere con un golpe militare.
  • 1985 Doe vince alle elezioni presidenziali.
  • 1989 il Fronte nazionale patriottico della Liberia (Fnpl), guidato da Charles Taylor inizia la guerriglia contro il presidente Doe.
  • 1990 Doe viene ucciso dai ribelli.
  • 1995 accordi di pace di Abuja (Nigeria).
  • 1997 Taylor vince le elezioni presidenziali e impone un regime autoritario e corrotto.
  • 1999 Ghana e Nigeria accusano Taylor di appoggiare il Fronte rivoluzionario unito (Ruf) in Sierra Leone, mentre Gran Bretagna e Usa minacciano di sospendere gli aiuti alla Liberia.
  • 2000le forze liberiane attaccano i ribelli del Lurd (Liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia) nel Nord.
  • 2003l’offensiva del Lurd e l’arrivo delle truppe americane costringono Taylor a cercare rifugio in Nigeria. Vengono firmati gli accordi di pace ad Accra. Inizia la missione di pace dell’Onu.
  • 2005a novembre Ellen Johnson-Sirleaf vince le elezioni. È la prima donna a essere eletta presidente di uno stato africano.
  • 2006Taylor viene arrestato. Verrà condannato a 50 anni di carcere nel 2012 dalla Corte Speciale per la Sierra Leone.
  • 2011 la presidente Johnson-Sirleaf riceve il Premio Nobel per la pace e a novembre vince di nuovo le elezioni contro l’ex calciatore George Weah.
  • 2014il virus ebola dilaga nel paese.
  • 2015, 11 maggiola Liberia viene dichiarata «ebola free».
  • 2017, 10 ottobre sono in programma le prossime elezioni presidenziali.

Va.Mi.

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Valentina Giulia Milani
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