Kurdistan: Orgoglio Kurdo

Reportage dal Kurdistan iracheno

Kurdistan
Simone Zoppellaro, a cura di Paolo Moiola

È uno stato

Introduzione

a) La carta d’identità

FAMIGLIA LINGUISTICA – Ramo iranico delle lingue indoeuropea, con rilevanti affinità con il persiano parlato in Iran. La lingua kurda si divide a sua volta in due varianti, Sorani e Kurmanji, con notevoli varietà dialettali.

DOVE SONO – Nord dell’Iraq, al confine con Siria, Turchia e Iran, zone anch’esse abitate dai Kurdi. I territori indicati dalla Costituzione irachena del 2005 come Regione autonoma del Kurdistan sono inferiori rispetto all’area occupata dai Kurdi, oggi contesa fra Baghdad ed Erbil (il capoluogo della regione).

CAPOLUOGO – La città di Erbil.

POPOLAZIONE – 5-8 milioni, a seconda delle stime.

RIFUGIATI E SFOLLATI – Si trovano oggi in Kurdistan circa 2 milioni di rifugiati e sfollati, la larga parte dei quali giunti negli ultimi tre anni in seguito all’avanzata dello Stato islamico (Isis-Daesh).

ORGANIZZAZIONE POLITICA – I Kurdi in Iraq vivono, con un’ampia autonomia politica ed economica, all’interno della Regione autonoma del Kurdistan, sancita, dopo la caduta di Saddam, dalla costituzione irachena del 2005. I territori in essa inclusi sono però di molto inferiori rispetto a quelli effettivamente controllati dai Kurdi, il che provoca frequenti diatribe con Baghdad.

RELIGIONE – Circa il 94% degli abitanti del Kurdistan iracheno sono musulmani sunniti.

MINORANZE – Siriaci, armeni, turkmeni e arabi. Da un punto di vista religioso, si trovano inoltre musulmani sciiti, cristiani, zoroastriani, yazidi, ebrei, shabaki, kakai, mandei e bahai.

MONETA – Dinaro iracheno.

BANDIERA – Un tricolore a bande orizzontali rossa bianca e verde, con un sole al centro. La bandiera fu per la prima volta introdotta dai leader Kurdi presenti alla conferenza di pace di Parigi del 1919-20, quando la nascita di uno stato chiamato Kurdistan sembrava imminente. Oggi questa bandiera è bandita in Turchia, in quanto ritenuta simbolo delle aspirazioni kurde all’indipendenza, mentre è assai diffusa nel Kurdistan iracheno.

PETROLIO – Con una riserva stimata attorno ai 45 miliardi di barili, il petrolio rappresenta una voce fondamentale dell’economia del Kurdistan, oltre che un elemento di attrito continuo con Baghdad.

b) Le date principali

  • 1918: con la sconfitta dell’Impero ottomano nel primo conflitto mondiale, il territorio dell’attuale Kurdistan iracheno diventa parte del dominio della corona britannica.
  • 1919: creazione ex novo dello stato iracheno, che finisce sotto mandato britannico.
  • 1920: il trattato di pace di Sèvres, firmato dall’Impero ottomano, prevede la nascita di uno stato kurdo, cui avrebbero potuto unirsi – tramite referendum – anche i Kurdi dell’ex governatorato ottomano di Mosul.
  • 1922: Mahmud Barzinji, sheikh di un’importante confraternita sufi, si autoproclama sovrano del Kurdistan in un’area che include la città di Sulaymaniyah e il territorio adiacente. Gli inglesi rispondono dispiegando la loro aviazione e schiacciando la rivolta.
  • 1923: il trattato di Losanna dà il colpo di grazia alle aspirazioni nazionalistiche dei Kurdi.
  • 1943: Mustafa Barzani, padre dell’attuale presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, guida una rivolta che riesce a strappare per breve tempo al governo centrale i territori adiacenti ad Erbil e a Badinan.
  • 1946: nasce un’effimera, ma importante, Repubblica di Mahabad, entità statale kurda nel Nord Ovest dell’Iran che durerà meno di un anno.
  • 1980-88: la guerra Iran-Iraq causa migliaia di morti, persecuzioni e divisioni politiche all’interno del Kurdistan iracheno.
  • 1986-89: campagna di al-Anfal compiuta da Saddam Hussein contro i Kurdi, che porterà alla morte di migliaia di persone.
  • 1988: attacco chimico di Halabja compiuto dalle forze irachene contro i Kurdi.
  • 1991: i Kurdi riescono finalmente, dopo una sollevazione, a liberarsi dal giogo del regime di Saddam Hussein. Una autonomia, quella della regione del Kurdistan, resa effettiva anche grazie alla no flight zone americana.
  • 2005: la nuova costituzione irachena, promulgata in seguito all’occupazione americana dell’Iraq, riconosce l’autonomia kurda nel Nord del paese.
  • 2014: l’Isis avanza in Iraq, compiendo un genocidio contro gli Yazidi e costringendo i Kurdi siriani e iracheni a una strenua resistenza. La regione diviene approdo, in breve tempo, di centinaia di migliaia di profughi e sfollati.

Simone Zoppellaro


Kurdistan: uno, tanti, nessuno

Storia della regione kurda dell’Iraq

Nel mondo si stimano esistere tra i 20 e i 40 milioni di Kurdi. Costituiscono la più grande nazione senza uno stato (riconosciuto dalla comunità internazionale). Il nostro collaboratore è andato a vedere cosa succede nel Kurdistan iracheno, che un tempo era la mitica Mesopotamia, mentre oggi è l’unica entità territoriale kurda vicina alle caratteristiche di un vero e proprio stato indipendente.  

Quello del Kurdistan è un nome divenuto ormai noto a tutti in questi ultimi anni, seppure si riferisca a una realtà per molti aspetti sfuggente, dai tratti incerti e in parte persino misteriosi. Non sarà un caso: costretta a cavallo dei confini di diversi stati – Turchia, Siria, Iran, Iraq e Armenia, con una notevole presenza diasporica in Europa – quella dei Kurdi rappresenta oggi la più grande nazione al mondo senza uno stato. Una frattura difficile da sanare causa di numerose altre ferite: non solo le persecuzioni e le discriminazioni subite periodicamente nei diversi contesti, ma anche le divisioni politiche, talora fratricide, che hanno segnato il destino di questa gente pur legata da una cultura salda e antica. Il risultato è che oggi non esiste un solo Kurdistan, ne esistono diversi o, almeno da un punto di vista del riconoscimento internazionale, non ne esiste ancora nessuno. Eppure, situato com’è nel cuore del Medio Oriente, forte di una popolazione complessiva stimata (ma i dati sono assai dibattuti) fra i 20 e i 40 milioni di persone, il Kurdistan è uno dei luoghi del mondo tra i più caldi e cruciali dal punto di vista geopolitico, strategico e delle risorse. E questo non certo da oggi.

Un tempo era la Mesopotamia

Troppe volte in passato questa splendida terra, fertile e dai paesaggi rigogliosi, è stata contesa da potenze straniere e dai loro eserciti. Limitandosi al solo Kurdistan iracheno – che tratteremo in modo esclusivo in questo nostro lavoro – si parla di una regione che ha radici antichissime, che arrivano fino agli albori stessi della civiltà. In questo spazio si trovava infatti parte della Mesopotamia propriamente detta. Nella piana di Ninive, gli storici ritengono sia avvenuto lo scontro decisivo fra Alessandro Magno e i persiani. Ci riferiamo alla battaglia di Gaugamela, snodo fondamentale per la storia antica nel determinare le fortune del Macedone e il tramonto, almeno temporaneo, dell’impero di Persia.

In epoca più recente, quello che oggi chiamiamo Kurdistan iracheno è stato soggetto alla dominazione ottomana. Proprio sotto questa dominazione, fra battaglie e rivolte represse nel sangue, va forgiandosi e definendosi l’identità kurda di questa popolazione di origine iranica. Nel 1918, con la sconfitta della Sublime Porta nel primo conflitto mondiale, questo territorio passa a essere dominio della Corona britannica. Dell’anno successivo è invece la creazione dello stato iracheno, che finisce sotto mandato britannico. Un’entità statale, come diverse altre in Africa e in Asia, che è in ultima analisi solo una creazione realizzata a tavolino dalle potenze coloniali, senza alcun riscontro storico preciso. È così che una porzione di Kurdistan diviene parte di uno stato che un secolo dopo, a dispetto dei tanti mutamenti, esiste ancora. Il risultato di tale disegno, concepito su esclusivo interesse di capitali lontane anziché sui bisogni delle popolazioni locali, è sotto gli occhi della comunità internazionale ancora nel 2017. Una delle caratteristiche dell’esperienza coloniale è che essa è durata ben oltre la fine del colonialismo stesso.

La svolta: il trattato di Sèvres

La mancata nascita di uno stato kurdo viene vissuta da questa minoranza, nel frattempo galvanizzata da aspirazioni nazionaliste e irredentiste, come un tradimento. Il trattato di pace di Sèvres del 1920, firmato tra le potenze alleate della Prima guerra mondiale e l’Impero Ottomano, prevede infatti di dare voce ai Kurdi dell’ex governatorato ottomano di Mosul sul loro destino. Questi dovrebbero poter decidere, tramite un referendum, se unirsi a un nascente stato kurdo previsto più a Nord, che dovrebbe includere città dell’attuale Kurdistan turco quali Diyarbakir. Ma né l’una né l’altra ipotesi diventano realtà, e i territori a maggioranza kurda – complice anche la nascita della Turchia kemalista – vengono spartiti senza che i loro abitanti possano esprimersi in alcun modo sul loro futuro. Da questo passaggio storico fondamentale avranno origine una serie di rivolte espressione delle rivendicazioni nazionaliste dei Kurdi.

Barzani e i Peshmerga

Nel 1922 Mahmud Barzinji, sheikh di un’importante confraternita sufi, si autoproclama sovrano del Kurdistan in un’area che include la città di Sulaymaniyah e il territorio a essa adiacente. Gli inglesi rispondono dispiegando la Royal Air Force, l’aviazione. Una serie di bombardamenti aerei colpiscono Barzinji e i suoi uomini per circa un anno fra il 1923 e il 1924, fino alla resa finale. Il primo tentativo di realizzare uno stato kurdo finisce quindi in un bagno di sangue.

Barzinji, che è stato protagonista di una rivolta già in precedenza, nel 1919, si ritirerà in seguito sui monti, dove tenterà inutilmente di fare esplodere di nuovo la scintilla dell’irredentismo kurdo. Valente guerriero, il suo ricordo si imprimerà nella memoria delle successive generazioni di Kurdi, quale simbolo di libertà e rivalsa nei confronti del giogo coloniale. Nel frattempo il trattato di Losanna, firmato nel 1923, dà il colpo di grazia alle aspirazioni nazionalistiche dei Kurdi.

Nel 1932 un’ulteriore rivolta segna l’inclusione dell’Iraq nella Lega delle Nazioni, evento che ha luogo ignorando ancora una volta le ambizioni e le richieste politiche dei Kurdi. Proprio il Kurdistan iracheno dà i natali a quello che è probabilmente il maggior leader kurdo del secolo scorso, Mustafa Barzani (1903-1979). Proveniente anche lui, come Barzinji, da una famiglia di importante tradizione sufica, Barzani sarà per mezzo secolo una spina nel fianco di Baghdad, nonché simbolo vivente della lotta per l’indipendenza dei Kurdi. Barzani, padre dell’attuale presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, guida nel 1943 un’ennesima rivolta che riesce a strappare al governo centrale i territori adiacenti ad Erbil e a Badinan. Nel 1946 si afferma come comandante della Repubblica di Mahabad, nel Nord Ovest dell’Iran. A Barzani si deve infine anche la fondazione del «Partito democratico del Kurdistan» (riquadro pagina seguente), che rimane fino ad oggi il maggior partito politico kurdo dell’Iraq.

Dopo la fine dell’esperienza di Mahabad nel 1947 (riquadro in alto), Barzani si rifugia nell’Azerbaigian sovietico, dove rimane fino alla rivoluzione irachena del 1958. Dopo il ritorno e un fallito accordo con il governo di Baghdad, nel 1960 si rifugia in montagna, da dove guida per oltre un decennio i suoi uomini, i Peshmerga, alla resistenza contro le forze irachene. Muore in esilio negli Stati Uniti nel 1979, dopo essere stato infine sconfitto militarmente dal regime di Saddam Hussein, con la complicità dello scià iraniano. E proprio gli anni di governo del dittatore si dimostreranno i più duri per i Kurdi iracheni.

Sotto Saddam Hussein

La repressione inizia in sordina negli anni Settanta con una campagna di arabizzazione della regione, che mira a sopprimere l’identità kurda insieme a quella delle altre minoranze etniche e religiose.

Le cose precipitano in seguito con la guerra fra Iran e Iraq, combattuta fra il 1980 e il 1988. I due maggiori partiti politici kurdi si dividono, e quello di Barzani appoggia apertamente l’Iran, voltando le spalle a Baghdad. Una volta che inizierà a profilarsi la fine del conflitto, arriverà puntuale la vendetta di Saddam con la campagna di al-Anfal. Secondo i Kurdi (e non solo), un genocidio che costerà la vita a decine di migliaia di persone, con centinaia di migliaia di profughi costretti a fuggire. Altre migliaia di vittime costerà l’attacco chimico nella città di Halabjah, nei pressi del confine iraniano. Crimini poco noti al grande pubblico, ma fra i più efferati commessi negli ultimi decenni nell’intero Medio Oriente.

Nel 1991, dopo una sollevazione, i Kurdi riescono finalmente a liberarsi dal giogo del regime di Saddam Hussein. Una autonomia resa possibile anche grazie alla no-flight zone americana dello stesso anno, che permette ai Kurdi di tirare il fiato dopo anni terribili in cui i baathisti al potere a Baghdad avevano commesso contro di loro i crimini più atroci.

Il Kurdistan oggi

Questa regione dalla storia travagliata è stata negli ultimi trent’anni teatro di massacri e genocidi. Nonostante ciò, il Kurdistan iracheno è riuscito a conoscere uno sviluppo economico e urbanistico senza precedenti che, seppure non scevro da gravi contraddizioni quali speculazione, corruzione e disuguaglianze, ha permesso ai Kurdi di raggiungere una notevole autonomia politica ed economica, e di sognare l’indipendenza. Un passo avanti di portata storica per questa gente che, a dispetto delle reiterate promesse di un riconoscimento statuale da parte delle ex potenze coloniali, non aveva mai fino ad ora potuto godere di una così ampia libertà di determinare il proprio destino.

Oggi molti Kurdi dei paesi vicini guardano a questa regione autonoma dell’Iraq con grande attenzione e partecipazione. Ricordo come un ragazzo, uno studente kurdo iraniano conosciuto a Teheran, mi raccontasse trasognato la sua scelta di studiare a Sulaymaniyah, città del Kurdistan iracheno. Il semplice fatto di poter studiare e parlare nella propria lingua madre, il kurdo, rappresentava per quel giovane – come per molti altri Kurdi dei paesi confinanti – un vero sogno, la realizzazione di oltre un secolo di aspirazioni, lotte e persecuzioni.

Benché già in essere dal 1991, l’autonomia kurda diviene una realtà con la nuova Costituzione irachena del 2005, promulgata in seguito all’occupazione americana dell’Iraq. Da qui, come detto, ha inizio una stagione di grande sviluppo che entrerà in crisi solo negli ultimissimi anni con l’avanzata dell’Isis. E così ai crimini già ricordati si aggiungerà anche il genocidio della minoranza yazida iniziato nel 2014 e tuttora in corso (si veda MC marzo 2017). La presenza di centinaia di migliaia di profughi e sfollati è un altro prodotto importante di questa nuova crisi, che è divenuta anche economica.

Tra Erbil e Baghdad

In questa situazione complessa e delicata, sono ancora una volta i contorni stessi del Kurdistan a essere in questione. Se sono solo quattro in totale i governatorati riconosciuti ufficialmente parte di questa regione (Duhok, Erbil, Sulaymaniyah e Halabja), assai più ampia è però l’area controllata dai Peshmerga kurdi, che rivendicano un territorio ancora più vasto. Emblematico a tal proposito il casodi Kirkuk, città contesa da Baghdad e Erbil. In questo caso come in altri, non si tratta di un caso di facile soluzione: come capita spesso in Medio Oriente e nel Caucaso, si tratta di territori tutt’altro che omogenei da un punto di vista etnico e religioso, cosa che dà adito a infinite manovre e giochi di potere che, inevitabilmente, finiscono per essere pagati dalle fasce più deboli della popolazione e, in primis, dalle minoranze. Difficile anche stabilire con esattezza il numero di abitanti della regione autonoma del Kurdistan. Se le autorità di Erbil parlano di oltre cinque milioni di abitanti, secondo Baghdad si tratterebbe invece di un milione di meno.

Kurdistan turco e Kurdistan siriano

Numeri e politica a parte, l’importanza del Kurdistan iracheno è enorme anche solo da un punto di vista umano e culturale. Mentre la morsa del presidente turco Erdogan si fa sempre più stretta sui Kurdi di Turchia, e perdura la guerra nel Kurdistan siriano (noto come Rojava), costata infinite sofferenze, la relativa stabilità del Kurdistan iracheno è un approdo sempre più insostituibile per i Kurdi della regione. Un ruolo prominente attribuitogli anche dalla collocazione geografica, oltre che dall’evoluzione storica recente: situata com’è al centro della regione, la porzione irachena mette in comunicazione le altre parti del mondo kurdo separate nelle diverse nazioni. Un dato positivo, senza dubbio, che finisce però per produrre numerosi contraccolpi, scaricando su questa regione tutte le tensioni che investono i Kurdi nei paesi limitrofi.

Simone Zoppellaro


I Kurdi e il dna linguistico

Lingua, cultura, identità

Essendo distribuite su vari paesi (Iraq, Turchia,?Siria, Iran), le popolazioni kurde possono avere caratteri culturali molto diversi. Ma sono unificate da un unico idioma (che è una lingua indoeuropea), pur con tutte le sue varianti.

Il Kurdistan iracheno è un territorio ricco di storia e cultura, cosa che si evince anche dalla grande diversità linguistica, religiosa e culturale che vi si incontra. I Kurdi stessi che lo abitano, ben lungi dall’essere un monolite, hanno partiti politici, usi, costumi e idee molto diversi dai loro omologhi turchi e siriani, e proprio qui in Iraq hanno sviluppato un tassello fondamentale – per quanto tuttora incompiuto – nella loro lunga marcia verso l’autonomia e l’indipendenza. Ma non sono solo il passato e la tradizione a colpire il viaggiatore. Città come Erbil e Dohuk appaiono moderne e completamente rinnovate negli ultimissimi anni, per quanto nel loro tessuto sia facile scorgere edifici costruiti a metà, basi militari e campi profughi, cicatrici dovute a quello spartiacque che è stato l’ascesa dello Stato islamico ai confini di questa regione.

In questo articolo cercheremo di fornire al lettore di Missioni Consolata un quadro il più possibile aggiornato della società kurdo-irachena di oggi, muovendoci dalla lingua alla cultura, dall’economia alla politica, facendo anche tesoro di un viaggio appena concluso in questa regione.

Una lingua indoeuropea

Scrive il linguista e politologo Noam Chomsky: «Una lingua non è fatta solo di parola. È una cultura, una tradizione, il collante di una comunità, una storia intera che determina ciò che una comunità rappresenta. E tutto ciò è incarnato in una lingua». E proprio questo aspetto, quello linguistico, è il principale che determina ieri come oggi l’identità dei Kurdi, in contrapposizione ai vicini sia arabi che turchi, entrambi in maggioranza di fede musulmana, ma che usano idiomi molto lontani, riconducibili a famiglie linguistiche assai diverse. Il kurdo, invece, nelle sue diverse varianti appartiene alle lingue iraniche, come il persiano, parte della comune famiglia indoeuropea. E proprio con la lingua parlata in Iran si scoprono punti di contatto sorprendenti. Per limitarci a un solo esempio, che ho rilevato di persona parlando io persiano, prendiamo il caso dei numeri. Una cosa, questa, che mi ha permesso facilmente di dire molte cose in kurdo, senza aver fatto neppure una lezione o aperto una grammatica. Non mi era mai capitato di imbattermi in due lingue che avessero le medesime parole, perlopiù con variazioni minime di alcune vocali, per indicare tutti i numeri. Eppure, è esattamente quello che succede fra persiano e kurdo, lingue che hanno un legame profondo e antico.

Una lingua, tanti alfabeti

Tornando al kurdo, è giusto ricordare che non si tratta di una lingua unificata: esistono almeno due tipologie linguistiche del kurdo, chiamate Kurmanji e Sorani, presenti entrambe in Iraq. Queste sopravvivono senza che una sia riuscita a prendere il sopravvento sull’altra, tanto nella lingua parlata che in quella scritta e nella letteratura. Non ancora standardizzato è anche il modo in cui si trascrive questa lingua. Accanto al kurdo in caratteri arabi – egemone e preponderante in Iraq, dai cartelli stradali, ai libri e alle scuole – sopravvive ancora l’uso di trascrivere la lingua in caratteri latini. Non si deve dimenticare, infine, come il kurdo sia stato usato, anche da un punto di vista letterario, in un terzo alfabeto: quello cirillico, usato soprattutto quando esisteva ancora l’Unione Sovietica. Per un breve periodo, infine, negli anni venti, fu usato anche nell’alfabeto armeno, sempre nell’Urss. Una grande varietà che è, certo, conseguenza della storica mancanza di uno stato, di un centro di riferimento che sia in grado di imporre un canone, ma anche segno di una commistione culturale e linguistica che ha prodotto notevoli frutti.

Erbil e le università italiane

Se gli albori letterari della lingua kurda risalgono alla prima fioritura poetica del XVI secolo, le radici di questo popolo e di questa terra, come detto, sono però assai più antiche. A testimonianza di ciò è la cittadella di Erbil, patrimonio dell’Unesco, la cui vista che domina e sovrasta il centro della capitale della Regione autonoma del Kurdistan. Una presenza tanto più importante, in quanto sia la furia iconoclasta dell’Isis che il boom edilizio degli ultimi decenni hanno cancellato molte delle tracce storiche di questa terra in rapida evoluzione. E proprio la cittadella è al centro di un progetto di studio e valorizzazione promosso dalle autorità kurde insieme con la «Missione archeologica italiana nel Kurdistan iracheno» (Maiki: www.maiki.it), portata avanti da ormai molti anni dall’Università la Sapienza di Roma.

L’eccezionalità di questa altura artificiale, simile a quella che domina il centro di Aleppo in Siria, sta nella sua capacità di raccontare come un libro aperto migliaia di anni di storia racchiusi nei vari strati di sedimentazione di cui è composta. I reperti più antichi trovati in essa risalgono, infatti, addirittura al Paleolitico. Su questa altura sorgeva un tempo di Ishtar, ed oggi, racchiusa fra la possente cinta muraria, si trovano case storiche d’epoca ottomana, oltre che una moschea. Un altro importante lavoro archeologico, sempre italiano, è quello dell’Università di Udine, impegnata a investigare e valorizzare la piana di Ninive. Un progetto, questo, che ha individuato oltre centocinquanta insediamenti che coprono un arco cronologico che parte dalla preistoria per giungere fino all’epoca ottomana. Grande attenzione è poi riservata alla cultura assira, un altro importante tassello della storia di questa regione. Infine, come detto, proprio qui potrebbe aver avuto luogo una delle battaglie più importanti della storia antica. Come si legge in un articolo apparso di recente sul bimestrale Archeologia Viva:

«Le indagini degli archeologi udinesi hanno confermato che la storica battaglia di Gaugamela, vinta da Alessandro Magno contro il persiano Dario III nel 331 a.C., si svolse probabilmente nella grande piana di Navkur, al cui centro si trova il sito di Tell Gomel. Grazie a una precisa ricognizione delle fonti testuali, unita a un’esplorazione topografica, è stato accertato che la zona ha le caratteristiche presenti nelle antiche descrizioni».

Uno sviluppo convulso

Meno suggestivo è invece il lato moderno, del tutto preponderante, delle città kurde irachene di oggi, che è però anch’esso parte integrante della vita di questa regione, nient’affatto statica o persa in un suo lontano passato. Certo è che le maggiori città, quali Erbil e Dohuk, appaiono edificate in fretta e furia negli ultimi decenni, lasciando forse poco spazio sia alla memoria che all’immaginazione. Uno sviluppo convulso e, soprattutto nella capitale, per molti aspetti fuori controllo, ma che, esattamente come nell’Italia del dopoguerra, ha rappresentato per i Kurdi il simbolo liberatorio di una rivalsa nei confronti di un passato di repressione e sofferenze. Un panorama urbano, quello contemporaneo, dove a dominare sono anonimi quartieri sorti dal nulla e centri commerciali, e dove la disuguaglianza segna purtroppo in modo netto la differenza fra un’élite assai esigua e la larga maggioranza della popolazione molto lontana dagli standard dei primi.

A rendere ancora più stridente questo contrasto è la massiccia presenza, percepibile non appena si esce fuori dalle città, dei campi di profughi e sfollati. Si stima infatti che siano più di due milioni i rifugiati e sfollati interni presenti nel Kurdistan iracheno. Secondo il governo regionale del Kurdistan, questi rappresenterebbero oggi il 28% della popolazione totale della regione. Cifre importanti, che dovrebbero far riflettere chi oggi parla con troppa leggerezza di un’invasione in Italia o in Europa. Campi, quelli che ho visitato, dove manca di tutto: dall’elettricità alle cure mediche, alle terapie di recupero per i molti profughi che hanno subito violenze indescrivibili da parte dell’Isis e non solo.

Indipendenza da Baghdad?

Il tema politico più importante dibattuto in questi mesi dai Kurdi iracheni è quello di un possibile referendum sull’indipendenza da Baghdad, più volte annunciato, e sempre con maggior insistenza, ma finora non ancora messo in atto. Secondo gli interpreti più smaliziati, si tratterebbe solo di un escamotage per strappare ulteriori concessioni all’Iraq. Ma è pur vero che non va sottovalutata la portata simbolica dell’evento, il cui richiamo andrebbe a travalicare i confini della regione. Per i Kurdi, dopo un secolo di lotte, una simile opportunità rappresenterebbe un’occasione storica forse irripetibile. Certo è che a Erbil, a Dohuk e in altre città è assai raro vedere una bandiera irachena, mentre il tricolore kurdo, con il sole al centro, sventola con orgoglio ad ogni angolo e in ogni occasione.

Legata a doppio filo alla politica è l’economia del Kurdistan iracheno, marcata da diseguaglianze feroci, anche se, almeno per gli standard mediorientali, la povertà non è a livelli fuori controllo.

Una triste realtà di questa regione è poi la corruzione, come mi racconta un’antropologa sociale che ho intervistato a Dohuk, e che mi ha chiesto di rimanere anonima. Un argomento tabù, difficile e pericoloso da trattare per i media locali, che pure hanno conosciuto negli ultimi anni (si pensi al caso della televisione satellitare Rudaw, vedi foto a lato) un successo internazionale senza precedenti. Oltre al settore delle costruzioni, e al notevole sostegno finanziario ricevuto dai creditori internazionali, a fare la differenza nell’economia locale è la presenza del petrolio. Causa di frizione fra i Kurdi e Baghdad, una parte dei proventi di questa importante risorsa ha sostenuto lo sviluppo economico della regione, attirando l’attenzione di due potenze regionali come la Turchia, dove giunge la pipeline Kirkuk-Ceyhan da cui passa il petrolio kurdo, e l’Iran, che punta a sviluppare nuovi progetti.

Piccole e grandi frontiere

Se non mancano le basi storiche, economiche e sociali per un futuro prospero e democratico che superi le tante problematiche del presente, vi è però un ostacolo fondamentale da superare: la guerra, che insanguina da tanti, troppi decenni il Kurdistan iracheno. Se il germe del radicalismo non ha attecchito in una società in buona parte laica come questa, il contesto geopolitico incandescente ha lasciato però poca scelta alla società kurda, che vive in uno stato di perenne militarizzazione. Ed ecco allora che una delle presenze più evidenti, che scandiscono continuamente i panorami mozzafiato di questa regione, è quello dei check point militari. Piccole frontiere che moltiplicano le grandi frontiere e le rafforzano, lacerazioni del passato e del presente di questa terra.

Simone Zoppellaro


Dalla tolleranza ai drammi del presente

I cristiani e le altre minoranze religiose

Per cristiani dell’Iraq – passati da 1,4 milioni a soltanto 250 mila persone – il presente è drammatico. E tuttavia almeno nel Kurdistan la tolleranza religiosa resiste.

Circa il 94% dei kurdi iracheni sono musulmani, con una netta prevalenza di sunniti e una minoranza sciita nella zona di Khanaqin, nei pressi del confine con l’Iran. Il sufismo ha una ruolo importante nella regione, come si evince dal fatto che i maggiori leader kurdi siano affiliati a questa corrente.

Dall’avvento dell’islam in avanti, e ancora fino a un’epoca assai recente, il Medio Oriente non ha mai smesso di essere patria di una pluralità religiosa sorprendente, inimmaginabile nell’Europa preilluministica. Una realtà storica diametralmente opposta a quella prevalente nell’immaginario comune e nei media, che tendono a rappresentare la religione islamica come unicamente fanatica, intollerante e spietata nei confronti delle altre fedi. In realtà, ebrei, cristiani e zoroastriani – fra gli altri – hanno goduto per secoli sotto la mezzaluna di una libertà inconcepibile in Occidente, giungendo in moltissimi casi ai massimi vertici della vita politica, culturale ed economica dei territori dell’ecumene musulmana. Un patrimonio religioso, sempre declinato al plurale, che neppure la cieca violenza del fondamentalismo islamista è riuscita a sradicare del tutto.

Una tolleranza che affonda peraltro le sue radici nel dettato coranico stesso, che riconosce e tutela – accanto alla nuova fede di Muhammad – le altre religioni monoteistiche preesistenti, garantendo loro buoni margini di autogoverno per molti aspetti della vita privata e religiosa delle comunità minoritarie. Alle «genti del Libro», come le definisce il Corano alludendo alla Bibbia, come alla Torà e all’Avesta, va così garantita protezione da parte della maggioranza musulmana, a patto di un versamento di un’imposta personale chiamata jizya. A testimonianza ulteriore di una relativa apertura, come dimostrano gli studi più recenti in questo campo, anche l’estrema lentezza con cui la conversione all’islam si affermò nei territori via via conquistati nell’impero nato con la nuova fede del profeta Muhammad.

Caso esemplare a tal proposito è quello dell’epoca mongola, fra XIII e XIV secolo, quando la presenza di cristiani ed ebrei nelle corti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale divenne così forte da minacciare la stessa egemonia culturale e religiosa dei musulmani. Questo grazie alla presenza di numerosi cristiani fra le fila dei mongoli stessi, fra cui generali di primo piano e persino alcune regine.

Il Kurdistan, esempio di pluralità di fedi

In tutto questo, i territori facenti oggi parte del Kurdistan iracheno – con la loro storia millenaria – rappresentano un caso positivo esemplare, che si distingue in modo netto dalla persecuzione che afflige le minoranze nelle zone fuori della regione. Anche il viaggiatore più distratto non potrà fare a meno di notare la sorprendente presenza di una pluralità di fedi, una accanto all’altra, i cui segni sono assai diffusamente presenti, nonostante le brutali persecuzioni degli ultimi anni. Nel territorio della Piana di Ninive, ad esempio, affiorano spesso nel paesaggio urbano e nelle campagne i profili di chiese e croci, oppure i bianchi tempietti della minoranza yazida con il loro caratteristico profilo conico. Oltre a ciò, armeni e siriaci – nonostante la drammatica crisi del cristianesimo iracheno dopo l’invasione americana del 2003 – continuano a trasmettere di generazione in generazione non solo la loro fede e il loro patrimonio culturale e liturgico, ma anche le loro lingue, diverse da quelle della maggioranza kurda e araba. In queste lingue si canta, si prega e si tengono le funzioni religiose nelle chiese, spesso estremamente suggestive. In diverse scuole e nelle parrocchie si studiano e si coltivano così il neo-aramaico, un’evoluzione moderna della lingua parlata da Gesù, e l’armeno, ognuna con i rispettivi alfabeti usati spesso anche nelle insegne e nei negozi. Lettere che si fanno simbolo di un’identità rivendicata con orgoglio nello spazio pubblico, di un’appartenenza che sfida apertamente l’insorgere del fondamentalismo in tutto il Medio Oriente, da cui per fortuna – oggi come ieri – il Kurdistan è ancora in larga parte immune.

Ma non solo i luoghi di culto e le insegne a marcare la presenza delle minoranze religiose nel territorio. Nel villaggio cristiano di Alqosh, ad esempio, sventola con orgoglio su molte case la bandiera siriaca, mentre nel villaggio di Havresk, allo stesso modo, non manca appeso alle finestre il tricolore armeno. Piccoli segni che però non possono lasciare indifferenti, dato il contesto in cui si trovano: quest’ultimo villaggio, ad esempio, è ad appena a una trentina di chilometri dalla diga di Mosul, città ancora contesa fra lo Stato islamico e Baghdad. E proprio in molti di questi villaggi e insediamenti cristiani e yazidi si incontrano di continuo sfollati interni sfuggiti dalla furia omicida dell’Isis. Un gruppo, quest’ultimo, che con la assurda pretesa di richiamarsi ai fondamenti del credo islamico rinnega invece oltre un millennio di storia che, pur fra eccezioni e contraddizioni a volte violente, va ascritto sotto il segno benevolo della tolleranza religiosa. Un’eredità portata avanti invece dai kurdi, una società dai tratti in larga parte secolare, almeno per gli standard vigenti oggi nel Medio Oriente.

La paura

Oggi, purtroppo, la paura è il sentimento dominante fra le minoranze, che non possono dimenticare i genocidi, le stragi, la resa in schiavitù e i continui soprusi che ancora avvengono nei loro confronti a poche decini dei chilometri da qui. Questa gente non parla d’alto, e non potrebbe essere altrimenti. Un timore tanto più grande, ripetono i cristiani di qui, proprio perché non limitato ad alcuni gruppi terroristici, ma anche alle zone grigie, alle complicità e ai fiancheggiamenti dimostrati da tanta gente comune, soprattutto nei centri a maggioranza araba e sunnita. La paura la fa da padrona, dicevamo, ma insieme dominano anche l’amarezza e la solitudine. La domanda che ricorre forse più di frequente nelle persone che ho intervistato – a volte esplicitata, altre semplicemente implicita, ma sempre presente – è perché l’Europa e l’Occidente si ostinino a voltarsi dall’altra parte di fronte al perpetuarsi delle orribili violenze dell’Isis, e non solo, nei confronti delle minoranze. Una frustrazione che si alterna però di continuo al sogno (perché di ciò soltanto si tratta) di una salvezza che giungerà presto da Occidente, dando finalmente sicurezza e autonomia alle minoranze dell’Iraq. Difficile dire se ci credano davvero, in un Medio Oriente dominato in modo sempre più esclusivo dai semplici interessi economici e dallo sfruttamento. Certo è che la speranza, anche in questi luoghi che traboccano di sofferenze, trova sempre la sua via nella mente e nei cuori degli uomini. Non sarà un caso: troppo il bagaglio di orrore che questa gente porta sulle spalle ogni giorno da anni.

La sparizione dei cristiani

Per quel che riguarda i cristiani in Iraq, la situazione è particolarmente drammatica. Si è passati da 1,4 milione di cristiani, prima del 2003, a meno di 250.000 persone. Il rischio concreto, come denuncia il recente rapporto «No Way Home: Iraq’s Minorities on the Verge of Disappearance», da cui riprendiamo questi dati, è quello di una definitiva scomparsa di questa e delle altre minoranze dal paese. Siamo dunque sull’orlo di un baratro, dopo oltre un millennio di convivenza. «Tredici anni di guerra hanno avuto conseguenze devastanti di lungo termine per la società irachena», ha dichiarato Mark Lattimer, direttore esecutivo di Minority Rights Group International. «L’impatto sulle minoranze è stato catastrofico. Saddam era terribile, ma la situazione da allora è peggiorata. Decine di migliaia di persone appartenenti a minoranze etniche e religiose sono state uccise e in milioni sono fuggiti per avere salva la vita».

Forse ancora più drammatica, rispetto ai cristiani, è la situazione dell’altra minoranza religiosa più importante del Kurdistan iracheno, quella yazida (cui abbiamo dedicato un dossier su Missioni Consolata di marzo 2017). Il tutto è avveuto con la complicità di molti arabi sunniti, i quali, vedendosi spodestati dal loro ruolo egemone con la caduta di Saddam, e sentendosi discriminati a loro volta dai governi succedutisi negli ultimi anni a Baghdad, hanno almeno in parte appoggiato l’ascesa dell’Isis sperando in una rivalsa sociale ed economica.

Piccoli segni di speranza

In questa situazione tragica non mancano però alcuni segni positivi che ho riscontrato nel mio viaggio. Ora più che mai, è giusto dare voce anche ai casi positivi, se non altro per non dare adito al messaggio nichilista – spesso del tutto egemone, ma falso – che la violenza sia una situazione invariabile e immutabile nel mondo musulmano. Non lo è oggi, come non lo è mai stata. Gli uomini sono liberi di scegliere il loro destino, come non lo siamo di scegliere se voltarci dall’altra parte o se invece di impegnarci per scongiurare guerre e catastrofi. Nella città di Dohuk, ad esempio, il sacerdote armeno locale mi ha raccontato come la chiesa, da poco costruita e il centro culturale Ararat ad essa adiacente – usato per matrimoni e feste – siano state costruite con il sostegno pubblico della regione kurda. O ancora, ho avuto occasione di intervistare Hussein Hasun, yazida, consigliere speciale del primo ministro del Kurdistan per i procedimenti legali legati ai genocidi. Una parola che usa al plurale: le autorità kurde, infatti, nonostante la scarsa collaborazione di Baghdad, stanno raccogliendo testimonianze ed ogni genere di prove per dimostrare che le violenze subite dalle minoranze religiose in questi anni siano casi di genocidio. No

n mancano infine contatti e incontri fra le diverse comunità religiose, e il rispetto reciproco è ancora alla base della convivenza fra i cittadini di diverse fedi, nonostante le ferite del presente.

Da segnalare infine come sia stato da poco inaugurato un tempio zoroastriano a Sulaymaniyah, oltre al progetto di edificare una sinagoga ad Ebril, dove lo scorso anno si è tenuta per la prima volta una commemorazione dell’Olocausto ebraico insieme alla piccola comunità ebraica locale. Piccoli segni, forse, ma che testimoniano che è una sfida che si può e si deve vincere, quella per la sopravvivenza dei cristiani e delle minoranze tutte, almeno qui in Kurdistan iracheno. Una sfida tanto più importante, proprio perché unica, preziosa e antica è l’eredità religiosa di cui è depositaria questa terra. E mentre Baghdad e la Siria sono allo sbando, potrebbe essere proprio da qui – dai kurdi, essi stessi vittime di tante persecuzioni nell’ultimo secolo – che la convivenza potrà rinascere appieno, scongiurando il rischio che il cristianesimo e lo yazidismo in Medio Oriente divengano solo un ricordo, cancellati per sempre, come in una tabula rasa.

Simone Zoppellaro

Schede


Lotte interne e strane alleanze

La scena politica e militare del Kurdistan iracheno di oggi appare dominata in modo pressoché esclusivo da due partiti storici, conosciuti con due acronimi, il Pdk e l’Upk. Il primo, il «Partito democratico del Kurdistan», affonda le sue radici nella Repubblica di Mahabad, dove è nato, e nella figura carismatica del suo leader combattente, Mustafa Barzani. Una storia importante, raccolta non a caso dal figlio di questi, Masud Barzani, l’attuale presidente della regione kurda. Più recente è invece il Upk, l’«Unione patriottica del Kurdistan», partito fondato a metà degli anni settanta e guidato oggi dall’ex presidente iracheno Jalal Talabani. Anche il suo successore alla guida del paese, Fuad Masum, è fra i fondatori del partito, nato da una costola del Pdk, critica nei confronti della leadership dopo la sconfitta dei Kurdi nella rivolta del 1974-1975. I due partiti, in seguito, sono arrivati più volte a scontrarsi, fino a giungere a una vera e propria guerra civile negli anni Novanta.

Il presidente dell’Iraq Jalal Talabani (AP Photo/Hadi Mizban, File)

Se comune a entrambi è una storia di lotte per la causa kurda, e l’ambizione dell’indipendenza da Baghdad, a distinguere oggi i due partiti è anche un diverso orientamento geopolitico: se il Pdk di Barzani è particolarmente vicino alla Turchia, prima sostenitrice del Kurdistan iracheno, l’Udk guarda invece più a Oriente, all’Iran. Due potenze regionali che hanno un’influenza enorme sulla vita politica ed economica del Kurdistan iracheno. E così, per un amaro paradosso, Erbil finisce per essere legata a doppio filo ad Ankara, ovvero con il nemico più acerrimo dei kurdi turchi e siriani. Un legame, questo, che produce una grave frattura all’interno del mondo kurdo. A tal proposito, non va trascurata infine la presenza politica e militare del Pkk, il «Partito kurdo dei lavoratori» di Ocalan, per quanto i suoi supporter vengano tenuti ai margini dai vertici politici ed economici di Erbil. Una presenza che ha prodotto, anche di recente, frizioni e persino scontri aperti con gli altri partiti kurdi.

Si. Zo.


Terra?adorata

Ricordiamo una poesia del poeta kurdo Hemin Mukriyani (1921-1986), uno degli eroi della breve esperienza della Repubblica di Mahabad, stroncata nel sangue:

«Terra adorata, mia terra,
amore che ho perduto
se tu fossi remota
in un cielo inaccessibile
o su una vetta ai limiti del mondo
saprei correre da te
anche con scarpe di ferro.
Ma ti separa da me un tratto sottile.
L’invasore lo chiama confine».

Dal volume «Canti d’amore e di libertà del popolo kurdo», a cura di Laura Schrader (Newton, 1993).



I domenicani Garzoni e Campanile

I primissimi studi europei sulla lingua e la cultura dei kurdi sono opera di due missionari italiani, veri e propri pionieri in questo campo: i padri domenicani Maurizio Garzoni (1734-1804) e Giuseppe Campanile (1762-1835). Il primo raggiunge Mosul nel 1762, per poi stabilirsi nella vicina Amadiya, città ieri come oggi a maggioranza kurda. Qui studia e raccoglie materiali per la sua opera, la «Grammatica e vocabolario della lingua kurda», la prima in assoluto nel suo genere, pubblicata a Roma nel 1787. Pochi decenni più tardi toccherà invece al suo successore, Giuseppe Campanile, eletto nel 1800 Prefetto apostolico nella Mesopotamia e il Kurdistan, un altro primato: quello di aver pubblicato, con la sua «Storia della Regione del Kurdistan» pubblicata a Napoli nel 1818, il primo resoconto organico su questa parte del mondo. Un lavoro ulteriormente arricchito dalle esperienze personali dell’autore. Entrambe le opere, al di là del primato temporale, rappresentano ancora oggi fonti preziose ed uniche nel ricostruire la storia, la lingua e la cultura dei kurdi nel loro tempo. A un missionario di Basilea, Gottlieb Christian Hörnle (1804-82), spetterà invece la prima versione biblica in questa lingua, con la traduzione del Vangelo di Giovanni nel dialetto kurdo di Mokri.

Si.Zo.


Rabban Ormisda

«Stavo riflettendo da tempo su una iniziativa simbolica per educare la gente alla pace e al dialogo». Con queste parole il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphael I Sako, ha lanciato ad aprile la Marcia Interreligiosa della Pace, che ha coinvolto nella settimana santa pellegrini di varie nazionalità, oltre a molti abitanti della Piana di Ninive appartenenti alle diverse religioni. Punto di arrivo di questa marcia, luogo per nulla casuale, quello che è forse il luogo più suggestivo dell’intero Kurdistan iracheno: il monastero di Rabban Ormisda, situato nei pressi del villaggio cristiano di Alqosh.

Fondato nel VII secolo, porta il nome del monaco che lo fondò: Rabban Ormisda. Si tratta di un capolavoro nell’interazione fra architettura e paesaggio. Scavato nella roccia sulla parete di un monte affacciata sulla Piana di Ninive, il monastero è un angolo di tranquillità e pace in una terra che continua ad essere segnata dalla guerra. Da qui si può vedere l’orizzonte per chilometri, in un paesaggio mozzafiato, il tutto con una doppia funzione: difensiva ed estetica. Per alcuni secoli, fu sede dei patriarchi nestoriani, a testimonianza dell’importanza rivestita. Più volte distrutto e ricostruito, l’ultima volta a metà ottocento con il supporto del Vaticano, questo monastero e il vicino villaggio rappresentano un simbolo di pace e convivenza, dato che per secoli furono sede di pellegrinaggio non solo per i cristiani, ma anche per ebrei e musulmani.

Si.Zo.


Infodossier

Autore e curatore di questo dossier:

  • Simone Zoppellaro – Nato a Ferrara, è giornalista freelance. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato i reportage su Nagorno Karabahk (agosto 2016), Armenia (ottobre 2016) e il dossier sugli Yazidi (marzo 2017).
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.
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Kurdistan
Simone Zoppellaro, a cura di Paolo Moiola
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