Romena un porto terra


Da un’esperienza personale di crisi, don Luigi Verdi fa nascere, 25 anni fa, la Frateità di Romena. Un luogo in cui pellegrini modei fanno tappa per ritrovare se stessi. Romena è anche un luogo di incontro e di confronto per personalità della Chiesa e della comunità culturale italiana e non. Tutti, semplici credenti, cardinali, scrittori, pensatori, trovano in Romena un luogo di pace e riposo in cui sono forti i pungoli per la vita.

Ci sono fasi della vita, e arrivano per tutti, in cui ci sentiamo girare a vuoto, siamo inquieti, persi per un dolore, per una ferita. In quelle fasi è impensabile individuare subito una meta, una direzione, un senso che possa convogliare le nostre forze. Può bastare un porto, dove far attraccare la nostra barca malconcia. Un porto dove sostare per riprendere fiato e da cui, poi, ripartire.

La frateità di Romena è uno di questi porti: non è segnato sulle mappe navali, ma è indicato dal cuore e dagli occhi di chi ci è passato. Un porto che vive intorno a un’antica bellissima pieve nella campagna toscana. Un porto senza mare. Un porto di terra.

Come un fiore di pietra

«In questo piccolo spazio vorrei che ogni uomo si sentisse a casa sua e, libero da costrizioni, potesse raggiungere la conoscenza di se stesso e incamminarsi nella sua strada forte e fiducioso. Vorrei che fosse una sosta di pace, di riflessione per ogni viandante che vi giunge, un posto dove l’ideale diventa realtà e dove la gioia è il frutto spontaneo». In una lettera scritta nel 1969 un monaco servita, padre Giovanni Vannucci, descriveva così il sogno comunitario che aveva in mente di realizzare alle Stinche, nel cuore del Chianti fiorentino. Quelle parole sono oggi bussola per chi si è lasciato impollinare dal seme dello stesso sogno creando Romena.

Siamo in Casentino, l’alta valle dell’Ao, terra di foreste antiche che respirano di fede. Un itinerario spirituale in questi luoghi punterebbe istintivamente a Camaldoli, all’eremo di San Romualdo, alla Vea, il monte di Francesco, ma nella geografia dei siti che fanno respirare il cuore dell’uomo da qualche tempo c’è anche questa antica chiesa di campagna. Ci si arriva, da Firenze, dopo un ingombro di curve. Ma è solo l’ultima, quasi a gomito, che libera la vista: la pieve appare bellissima, piantata sul verde di quella terra come un fiore di pietra non colto.

Per far riposare Dio e l’uomo

Questa pieve, edificata 900 anni fa, negli anni ’80 viveva da tempo nell’oblio, frequentata solo da qualche turista e da una manciata di parrocchiani, ultimi superstiti di una campagna spopolata. La bellezza non frequentata dall’uomo è una bellezza spenta, addormentata. Per risvegliarla ci voleva il bacio di una vita ferita, di un giovane prete in cammino.

Don Luigi Verdi, di san Giovanni Valdao (Ar), dopo alcuni anni da prete a Pratovecchio, a due passi da Romena, aveva cominciato a fare i conti con la sua vocazione, con le sue ferite, con la sua timidezza, tanto da cercare strade nuove tra il deserto e la Bolivia. Ma aveva trovato un po’ di pace solo fermandosi oltre quella curva a gomito.

Dal suo travaglio personale è nata Romena, capace di tenere insieme la vocazione di quel luogo e la sua di prete.

La scintilla l’aveva offerta un capitello della pieve: c’era scritto che quel luogo era stato edificato «in tempore famis». Dunque quella bellezza era originata da una carestia, da una crisi. Una crisi che conteneva un’opportunità. Come le crisi personali, perché la crisi smaschera, mette a nudo, chiama all’autenticità, a guardare oltre.

C’era poi un altro segno: per i pellegrini del Medio Evo in marcia verso Roma, la pieve rappresentava un punto di riposo dove fermarsi per una notte, rifocillarsi e ripartire. Allo stesso modo la futura frateità avrebbe potuto offrire un luogo di sosta ai viandanti. Una sosta per ritrovarsi e riscoprire la bellezza della loro unicità e per riprendere e proseguire il loro cammino, una sosta «per far riposare Dio e l’uomo».

Semplicità, accoglienza, calore

La porta della canonica di Romena si è aperta nel maggio 1991 per accogliere i primi viandanti. Erano giovani, per lo più del luogo, ma evidentemente la proposta sapeva toccare il cuore delle persone, perché da quel momento è cominciato un passaparola che non si è più fermato e che, negli anni, ha portato a Romena migliaia di persone provenienti da tutto il paese, da ogni storia, di ogni età, convinzione, condizione sociale.

«Siamo partiti – spiega don Luigi – dalla convinzione che oggi non ci sono necessarie né teorie, né ideologie per spiegare la vita, ma che tutti abbiamo bisogno di un po’ di silenzio, di una pausa, di un tempo per riallacciare i rapporti con la nostra autenticità. Ed è questo ciò che proviamo a offrire a Romena».

I tre corsi base

Alla base della proposta di Romena c’è un cammino suddiviso in tre corsi, che ha come riferimento la parabola del figliol prodigo. Quando una persona vive una crisi (per il figliol prodigo è il momento in cui prende consapevolezza di ciò che è diventata la sua vita) il primo gesto concreto da fare è quello di guardarsi dentro per ritrovare la propria autenticità. Questa è, in sintesi, la proposta del primo corso.

Il passaggio successivo è quello di far pace col Padre, con Dio: nel secondo corso, attraverso esperienze di gesti, di semplicità, di ascolto, l’invito è quello di percepire che c’è un Padre pronto ad abbracciarci.

Il terzo passo è semplicemente quello di trasferire nella vita di tutti i giorni, nel tessuto del nostro quotidiano, la nuova consapevolezza di sé e dell’abbraccio con l’infinito. Perché l’esperienza di umiltà e di semplicità devono poter «fare casa» dove viviamo. Questo è il terzo corso.

Ogni persona, secondo le sue esigenze e in piena libertà, può compiere uno o più tratti del cammino. E può, se vuole, anche continuare: la Frateità propone anche corsi a tema per approfondire quegli argomenti che ciascuno sente più vivi dentro di sé.

Uno spazio per sostenere il cammino della vita

I corsi, che si sviluppano ogni fine settimana, dal venerdì alla domenica, sono stati per molto tempo l’architrave della proposta di Romena. Ma negli ultimi dieci anni l’attività si è allargata a ventaglio, stimolata dal vento dei viandanti, dai loro bisogni, dalle loro richieste. Così oggi si può essere accolti a Romena, in semplicità, anche al di fuori dei percorsi di gruppo, per trascorrervi un po’ di giorni in silenzio, nell’ascolto della propria voce e di quella degli altri.

Dal suo porto di terra, inoltre, Romena lascia costantemente partire nuove «navi»: sono convegni cui partecipano diverse centinaia di persone, sono veglie itineranti per l’Italia, sono gruppi legati al cammino della frateità. Tra questi ultimi c’è il gruppo Nain, formato da alcune decine di famiglie unite nel dramma più grande, la perdita di un figlio. Esse hanno trovato nella condivisione il sostegno fondamentale al loro cammino di vita.

Negli anni la Frateità ha allargato i suoi spazi: dalla canonica della pieve alla fattoria che le è accanto. In questi spazi ospita, tra l’altro, la libreria in cui vengono proposte le pubblicazioni edite dalla Frateità, un auditorium per incontri, spettacoli, concerti, varie sale per ospitare gruppi e perché ciascuno trovi il luogo in cui stare insieme agli altri o dove rimanere solo con se stesso.

Le otto parole chiave

Quest’anno Romena compie 25 anni: un anniversario speciale in cui si è deciso non di celebrare quanto fatto, ma di rimettersi in gioco per abbandonare certezze acquisite e esplorare terre sconosciute. «Perché – dicono a Romena – negli ultimi anni la Frateità è cresciuta, sono aumentati gli spazi fisici, si sono moltiplicate le iniziative e le richieste di parteciparvi. Ma l’anima di Romena ha faticato a seguire il ritmo di questi cambiamenti, non ha avuto modo di consolidarli, di armonizzarli: e quindi il cammino che stiamo compiendo deve servire a ritrovare e riarmonizzare l’essenza del nostro percorso».

Ed ecco che la ricorrenza si trasforma in un viaggio nei valori fondanti di Romena. Valori che don Luigi ha sintetizzato in quelle che per lui sono le otto parole chiave di ogni cammino di rinascita: umiltà, fiducia, libertà, leggerezza, fedeltà, perdono, tenerezza e amore. A ciascuna di queste parole che incidono sul modo di vivere di ciascuno di noi, durante questo anno di cammino iniziato nell’aprile scorso e che terminerà nell’estate 2017, vengono dedicati due mesi. Chiunque, passando da Romena, potrà offrire il suo contributo.

Il futuro di Romena nasce da questo anno di cammino. Un futuro che don Luigi, con i suoi occhi profondi e profetici, immagina nel segno di una delle otto parole chiave, la leggerezza. «“Siate leggeri come gli uccelli, non come le piume”, diceva Paul Valéry. Leggero è chi coglie il nocciolo della vita. La leggerezza richiede un lavoro profondo, una disciplina interiore e vorrei che qui aiutassimo a coglierla».

Storie che si abbracciano

Al porto di terra nuove storie attraccano ogni giorno. Ed è meraviglioso star qui, nella bellezza riposante di questa campagna, magari seduti su una panchina spalancata sugli Appennini, e incrociarle. Sono storie comuni, storie di tutti, fatte di fragilità, di bellezza, di umanità. Qui, nella calma tenue di questo porto, tutte le storie che attraccano sembrano abbracciarsi. È questo il senso più profondo di Romena.

«Spero – conclude don Luigi – che chiunque venga qui possa trovare sempre un posto dove imparare a guardare alle sue fragilità, e dove riconoscere che l’amore di Dio è più grande delle sue miserie».

Massimo Orlandi


Intervista a don Luigi Verdi

Don Luigi e Don Ciotti

Dio è un abbraccio

Don Luigi, come sei arrivato a pensare Romena?

«In modo naturale. Non ne potevo più di quei luoghi dove a Dio si chiede sempre un miracolo, o di quelli dove lo si vive come qualcuno che dall’alto sottomette o giudica. Ho sempre immaginato Dio come un abbraccio. Così ho pensato a un posto dove io appoggio la testa sulle spalle di Dio e Dio su di me e semplicemente si trova un po’ di pace».

Cosa vuole essere Romena?

«Uno spazio per la lettura, il silenzio, per mangiare, per camminare, in cui chiunque si possa trovare a casa. Non a caso abbiamo collocato all’ingresso una poesia di Rumi: “Vieni, vieni, chiunque tu sia, sognatore, devoto, vagabondo, poco importa. Vieni, anche se hai infranto i tuoi voti mille volte. Vieni, vieni, nonostante tutto, vieni”».

La frateità è nata dopo un tuo periodo di crisi personale. Cosa ti ha insegnato quel periodo?

«Alla fine di quella fase trovai un Salmo (117, 22): “La pietra scartata è diventata la pietra angolare”. I due motivi veri della crisi, il nocciolo, erano la mia timidezza e queste mani imperfette. Ma perché, mi sono detto, questi punti deboli non possono diventare il meglio di me? E ho cominciato una lotta con me stesso: ho preso a guardare negli occhi le persone senza scappare, ho cominciato a dipingere e a creare con queste mie mani. Il messaggio è tutto qui. A Romena vengono tante persone ferite dalla vita: la cosa più bella è quando hai una ferita e, invece di maledire, benedici, quando riesci a trasformare la maledizione in benedizione».

Tra le iniziative della Frateità c’è un gruppo, chiamato Nain, composto da genitori che hanno perso un figlio. Tu cosa provi a fare per loro?

«Non cerco di dare alcuna risposta. Cerco solo di stare loro accanto. Come Gesù non è venuto a dare una risposta al dolore, l’ha riempito di una presenza. Ha detto “io ci sono”. In genere arrivano con domande crude: “Dov’eri quel giorno?”, “Da dove ricomincio?”. All’inizio vengono e non piangono, sono arrabbiati con la vita. Poi cominciano a piangere e le lacrime le asciugano subito. Poi, quando scendono le lacrime, le lasciano andare. Vuol dire che quel dolore comincia a addolcirsi. Ho un ricordo indimenticabile di una mamma che beveva le lacrime: bere le lacrime perché nemmeno quelle posso buttare via, anzi possono servirmi».

Bisogna per forza toccare il fondo per sentire la carezza di Dio?

Bisogna toccare la vita vera. Quella c’è quando sei innamorato o anche disperato. Quando abiti davvero la vita.

Cosa offre Romena?

Io credo che a ognuno di noi servano solo tre cose: un pezzo di pane, di un po’ d’affetto e di sentirsi a casa. Quello che vogliamo dare è questo.

Ma.Or.


L’essenzialità è possibile

Romena è frequentata abitualmente da figure spirituali importanti e diverse.
Ecco cosa pensano.

Ermes Ronchi (frate, teologo, scrittore)

«Quando vengo a Romena percepisco un piccolo miracolo, quello del lievito. E tutti voi mi trasmettete questo sapore di lievito e di sale di cui oggi c’è tanto bisogno. Oggi, in una società e in una Chiesa che cambiano, Romena è uno dei posti dove si forza l’aurora della Chiesa, del futuro, del mondo».

Franco Loi (poeta)

«La poesia è periferia della letteratura, è luogo nascosto, pochi scaffali nelle librerie più foite. Così anche Romena era e resta periferia, confine, soglia, possibilità per chi ha un’angoscia, un dolore, un sogno, e cerca un terreno dove lasciarlo posare. Romena è un posto dove trovare una pagina bianca su cui scrivere di sè. E magari leggere a voce alta, senza sentirsi sbagliati».

Sharzad Houshmand (teologa musulmana)

«Sento Romena come un luogo dei primi discepoli di Gesù. Un luogo semplice, pulito, un luogo di ricerca per la propria spiritualità».

Antonietta Potente (domenicana, teologa)

«A me piace molto il romanico, non solo come stile architettonico, ma per quello che evoca. Evoca l’essenzialità e l’autenticità, ciò che stiamo cercando tutti e tutte in tutte le parti del mondo. Penso che chi ha familiarità con Romena, cerchi questo luogo per sentire che l’essenzialità è possibile».

Lidia Maggi (pastora battista e teologa)

«Romena è uno spazio di incontro, dove puoi prendere una pausa, ritrovare ossigeno, nutrirti di bellezza e, finalmente, iniziare ad ascoltare te stesso. Mi colpisce come le persone che vengono qui abbiano la pazienza e la voglia di mettersi in gioco, di mettere sul piatto della narrazione la loro storia e accettare di fare dei percorsi. Mi colpisce la passione di Romena per dare voce a voci differenti».

Roberto Mancini (filosofo)

«Romena è un’esperienza che trasmette un senso di leggerezza, di una leggerezza non intesa come superficialità, ma come l’esperienza di chi si toglie il peso di una maschera, di un’abitudine, di tutte quelle forme di compensazione con cui si prova a vivere. Qui a Romena non servono difese, si può essere così come si è».

Luigi Ciotti (Gruppo Abele e Libera)

«La “nostra” Frateità di Romena è e dovrà essere il filtro grazie al quale continuare a individuare ciò che davvero è importante per il cammino verso una società fratea e a tenere fuori ciò che non serve, che non alimenta la nostra autenticità e la nostra gratuità di fronte alla vita».

Frateità di Romena

  • www.romena.it / Fb: Frateità di Romena onlus
  • Mail: mail@romena.it / Telefono: 0575-582060



Islam religione radicale?



Introduzione / Gli obiettivi della serie

Il nostro viaggio nel mondo islamico
(con molte domande in cerca di risposte)

A sei anni dalla cosiddetta «primavera araba», trasformatasi in un inverno di caos, guerre e instabilità dal Nordafrica al Medioriente, con gruppi e milizie di al-Qa‘ida e del Daesh (l’Isis)1 che occupano regioni intere, con attacchi terroristici in Europa e in vari paesi islamici e il coinvolgimento delle potenze mondiali nello scenario siriano, una parte del pianeta sembra sull’orlo di un conflitto globale dagli esiti imprevedibili.

Dalla un tempo prospera Libia devastata dalla rivolta – pilotata da agenzie di intelligence inteazionali (Usa, Gran Bretagna, Francia e Qatar), insieme a combattenti islamisti giunti da Europa e mondo islamico -, e dalla guerra Nato, e ora ridotta a un cumulo di macerie e violenza, le bande armate scorrazzano per l’Africa subsahariana, alimentando tensioni e caos e giustificando la presenza in quelle zone di truppe dell’Africom2. Nell’area di Sirte, il Daesh ha creato la propria roccaforte e invita tutti i musulmani a fare la hijra, emigrazione, nello «Stato islamico» di Libia. Anche la Tunisia post primavera araba è entrata nella nebulosa di attentati terroristici e del reclutamento di combattenti islamici; in Algeria, al-Qa‘ida (Aqi) e il Daesh si contendono territori e militanti; l’Egitto, paese chiave tra Africa e Asia islamiche, è preda di gravi problemi economici e instabilità politica (mentre chiudiamo questo numero un attentato dell’Isis ha fatto almeno 25 morti in una chiesa cristiano-copta de Il Cairo, 11 dicembre 2016, ndr).

In questo scenario drammatico, i già complicati rapporti tra «occidente» e «mondo arabo e islamico», sembrano ingarbugliarsi ulteriormente, con accuse reciproche di ingerenze, violenze e destabilizzazioni. I fedeli musulmani, come quelli cristiani, ripetono che la loro religione è pace e tolleranza, e che l’islam affonda le proprie radici nel concetto di sottomissione a Dio. Ma è vero? Oppure esistono dottrine, all’interno del mondo islamico, che predicano la guerra permanente contro tutti coloro che non le seguono (musulmani compresi)? E da dove derivano la propria «autorità» e dottrina formazioni terroristiche come al-Qa‘ida e il Daesh? Queste dottrine hanno trovato spazio tra le comunità musulmane europee e in che modo? Questi network del terrore sono utili alle agende occidentali e mediorientali?

In questo e nei prossimi articoli discuteremo di tutti i temi accennati sopra con studiosi, ricercatori e rappresentanti del mondo musulmano, per tentare di trovare spiegazioni ed eventuali strade di pacifica convivenza in un mondo dilaniato dai conflitti.

Angela Lano

Note dell’Introduzione:

(1) Daesh (D?’ish): acronimo di «al-Dawla al-Isl?miyya f? al-‘Ir?qi wa sh-Sh?m» (in cui «al» è l’articolo), Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Islamic State of Iraq and Syria, ovvero Isis nell’acronimo inglese), chiamato anche Stato islamico, Is.

(2) Africom: US Africa Command. Il contingente di soldati e contractor statunitensi in Africa (www.africom.mil).


L’articolo

Comprendere (tra paure e diffidenze)

Con il salafismo si è affermata un’interpretazione letterale, dogmatica, atemporale e astorica dei principi religiosi islamici. Con il Daesh – lo Stato islamico – si è giunti al limite estremo, arrivando a costruire un «islam fai da te» con cui i «jihadisti» giustificano il proprio comportamento. Compresi ovviamente gli atti di terrorismo che, con il sangue e i morti, hanno fatto dilagare paure e diffidenze. Il salafismo si è diffuso in gran parte del mondo islamico sulla spinta dei capitali dell’Arabia Saudita e del Kuwait. Solo il Marocco è riuscito – per il momento – a fermare l’infezione.

Cominciamo il nostro viaggio nell’islam contemporaneo dal Marocco. Negli ultimi anni, il paese nordafricano ha conosciuto attentati – Casablanca nel 2003, e Marrakech nel 2011 -, e il reclutamento di terroristi. Recentemente circa 400 suoi cittadini si sono uniti al Daesh per combattere in Siria.

Molti di questi appartengono a classi medie, benestanti ma scarsamente istruite. Avevano iniziato a frequentare moschee e centri islamici di orientamento salafita, che hanno modificato la loro visione della vita, della religione e i loro comportamenti sia in famiglia sia in società.

In Marocco, come in altre regioni del Nordafrica e dell’Africa subsahariana, il salafismo wahhabita1, sponsorizzato da Ong saudite e kuwaitiane, si sta diffondendo, grazie a ingenti capitali, strutture e predicatori indottrinati in Arabia Saudita.

Il regno del Marocco, che segue il sufismo2 della confrateita tijaniyya3, contrasta questo fenomeno con centri islamici e istituzioni controllate dal governo e indirizzate verso l’islam ortodosso lontano dagli estremismi salafiti. Polizia e intelligence fanno il resto, non perdendo di vista gli esaltati.

La resistenza del Marocco

Medina di Fez, agosto del 2016. Incontriamo Mohammad Boukili, docente e studioso marocchino, laureato in filosofia islamica.

Prof. Boukili, lei ha conosciuto personalmente alcune delle persone che si sono unite al Daesh?

«Sì, alcune erano conoscenti di lunga data. Quattrocento jihadisti è un numero importante, ma non è così grande come in altri paesi.

Si tratta di individui con scarsa istruzione, hanno seguito le predicazioni dei seguaci del Daesh, che a loro volta vengono indottrinati da persone più competenti e sostenute economicamente.

In molti casi non si tratta di poveri: quelli che conoscevo avevano ereditato beni, case; erano sposati. Erano poveri a livello culturale, questo sì. Ricordo uno in particolare (chiamiamolo Ahmad), perché la sua visione ideologica emergeva anche nelle discussioni in famiglia. Odiava il sufismo e, qui in Marocco, la maggior parte della popolazione segue questa dottrina, anche se da qualche anno in parlamento siede come partito di maggioranza “Giustizia e Sviluppo”4, ideologicamente vicino alla Fratellanza musulmana, quindi a un islam più politico.

Il mio conoscente che si è unito al Daesh aveva iniziato a imporre alla sua famiglia, a sua madre, atteggiamenti e scelte che non facevano parte della tradizione familiare e locale. Alla vecchia mamma ha strappato via il rosario islamico con cui ella pregava e l’ha costretta a non frequentare più la zawiya5, in quanto luogo di kufr, miscredenza. Per i salafiti, il sufismo è, appunto, una forma di miscredenza e va perseguitato.

Prima della “conversione” radicale, Ahmad era molto occidentalizzato, beveva vino… Dopo essersi sposato, aveva deciso di farsi crescere la barba, aveva cambiato modo di discutere. Aveva iniziato a citare Ibn Taymiyya6. Quando parlava con me recitava frasi per le quali sarebbe stato necessario riflettere accuratamente. Ognuna aveva un certo peso, invece lui le lasciava uscire così, con leggerezza. La situazione è andata peggiorando, finché è partito per la Siria.

È rimasto coinvolto in questo giro di fanatismo anche un nipote di Ahmad, figlio del fratello: riceveva foto dello zio, dalla Siria, sul suo cellulare, e i servizi di intelligence, che evidentemente controllavano tutta la famiglia e i parenti, lo hanno arrestato in quanto simpatizzante; probabilmente l’hanno preso prima che si unisse al gruppo. Durante il processo ha detto al giudice che non voleva andare in Siria ma che “loro hanno ragione”. Sua moglie indossava il neqab, il velo nero integrale che copre anche il volto, anche quando andava a trovarlo in carcere. Dal punto di vista ideologico era uno di loro. È stato condannato a due anni di carcere, come è previsto dalla legge».

In Marocco i salafiti sono tenuti d’occhio, dunque.

«Sì. Dopo gli attentati del 2003 sono molto controllati. La polizia fa retate periodiche. Qui a Fez i salafiti hanno aperto una scuola coranica dove offrono scolarizzazione, ma anche propaganda. Per fortuna, con i giovani marocchini il loro proselitismo non ha successo: i ragazzi vanno su internet, sono informati, amano certe cose e non è facile manipolarli con idee che li farebbero tornare indietro di mille anni.

Gli stessi figli di questi salafiti o dei jihadisti non condividono le visioni dei padri, come è avvenuto per i ragazzi di Ahmad: non lo seguivano nei suoi discorsi. Dicevano che il padre aveva la testa troppo chiusa. Un altro elemento importante è che il nostro Re ha sempre lottato contro questa dottrina».

Interpretazioni atemporali e astoriche: l’islam-fai-da-te

Lei considera il salafismo wahhabita una dottrina deviata?

«Il salafismo ha introdotto molte novità, bid‘a, proibite nell’islam. Un tempo esisteva la dialettica, animata dalla filosofia. Poi, a un certo punto della storia del mondo islamico, questa è stata ritenuta pericolosa. La ragione, la logica, sono morte, e ha prevalso il letteralismo dogmatico e pieno di regole, legato a un’interpretazione fissa, atemporale e astorica dei principi religiosi.

Pensiamo solo a quando governavano i turchi, cioè l’Impero Ottomano, cosa facevano gli ‘ulema, gli scienziati musulmani? Facevano dimenticare alla gente la sofferenza, la riempivano di regole… Tutta questa esteriorità ha lo scopo di far allontanare i credenti dalla vera spiritualità».

Il Daesh, in quanto emanazione della dottrina salafita wahhabita, è dunque un’ideologia deviata del sunnismo?

«Certo, l’islam non è questo. Nel Daesh danno un’interpretazione restrittiva e letteralista, basata su certi hadith. Di hadith ce ne sono così tanti che ognuno potrebbe scegliere ciò che più giustifica il proprio comportamento. Così fanno loro: scelgono un hadith e si autorizzano da soli. È l’islam-fai-da-te».

In Europa ci sono giovani che seguono il Daesh, che si fanno indottrinare da predicatori e poi si uniscono allo “Stato islamico”. Come lo spiega?

«Ho vissuto dieci anni in Italia, dove insegnavo nelle università. Mio padre viveva tra Francia e Italia, e faceva l’imam. In Francia lo chiamavano per fare scuola coranica ai giovani nei centri islamici. I suoi allievi erano figli di arabi, ragazzini emarginati e spesso violenti delle periferie. Seguivano – perché vi erano costretti dalle famiglie – le sue lezioni, dove venivano insegnati i principi etico-morali dell’islam, ma usciti di lì continuavano a comportarsi male.

È da quelle sacche di emarginazione sociale giovanile, con integrazione mancata, che arriva il terrorismo islamico in Europa. Questi giovani, a un certo punto incontrano predicatori salafiti che li indottrinano, dando all’Occidente tutte le colpe della loro situazione. Dunque, su una base di odio sociale si inserisce la dottrina del takfir7, e il resto è fatto».

I (finti) misteri del Daesh

Fez, medina al-Jadid (città nuova), sede del «Consiglio superiore degli ulamâ», gli scienziati musulmani, un’organizzazione nazionale che fa capo al Re e al ministero dell’Educazione del Marocco.

È un’ampia costruzione con giardino interno da cui si diramano varie sale. Il centro forma imam e murshidun e murshidat (guide religiose), uomini e donne. Qui incontriamo uno dei responsabili, che preferisce non rivelarci il proprio nome.

Il Daesh sta creando problemi in Africa e Medio Oriente, e in Occidente. Come lo considerate?

«Il Daesh non fa parte dell’islam. Hanno capito l’islam molto male. Il terrorismo non fa parte di questa religione. Né l’Occidente né il mondo islamico hanno capito cos’è veramente l’islam. Bisogna tornare al Corano, alla sunnah. L’islam è tolleranza, non estremismo».

Allora il Daesh su cosa basa la propria legittimità?

«Sulla propria cattiva comprensione dell’islam. Prendiamo il termine jihad8 nella sua accezione di sforzo militare: ci sono norme che lo regolano. Non è possibile che un gruppo decida per conto proprio. Daesh ha trasformato l’obbligo collettivo (fard al-kifaya) in individuale (fard el-‘ayn) soggetto, cioè, alla decisione del singolo e non più dell’intera comunità, e questo non è corretto».

Allora, qui ci si chiede, il Daesh chi è? Chi l’ha creato?

«Chiunque riceva soldi e armi può creare un’organizzazione come questa.

Sono dei delinquenti che interpretano i testi a modo loro. L’islam non accetta l’assassinio.

Chi ha creato il Daesh sono gli stati o le persone che beneficiano dei proventi del petrolio e chi soffre a causa di questa organizzazione sono soprattutto i musulmani stessi. Infatti, la maggior parte delle persone uccise dal Daesh sono musulmane. Tutti noi siamo responsabili e dobbiamo difendere i nostri valori.

Chi dà le armi al Daesh? L’Europa e gli Usa; l’Arabia Saudita è un’intermediaria. L’Iraq, per esempio, dove il Daesh ha una parte dei suoi domini, è un laboratorio per sperimentare tali armi.

Poi arriviamo al paradosso di un al-Baghdadi che si dichiara “Am?r al-Mu’min?n”, principe dei credenti. Ma non è possibile! Non ha alcuna autorità e potere per dichiararsi tale».

Gli imam vanno formati

Il Marocco cosa fa per contrastare il proselitismo del Daesh?

«Il punto di forza del Marocco è che forma imam. Lo stato ha deciso di formare imam e guide religiose – murshidun – sia uomini sia donne: devono essere laureati e sottoporsi a un anno di formazione specialistica. Il loro ruolo è quello di dare lezioni nelle moschee e anche di controllarle. Controllare, cioè, che non vengano diffusi insegnamenti errati che incoraggiano lo sviluppo del radicalismo. Inoltre, danno consigli scientifici e religiosi. In ogni prefettura c’è un centro come il nostro, che si occupa della formazione di queste guide. Sono 80 in tutto, i centri formativi in Marocco.

In ciascuna sede ci sono sale di conferenza che ospitano 600 persone. Siamo una realtà statale e dipendiamo direttamente dal Re in quanto Am?r al-Mu’min?n. Lui è il presidente del Consiglio scientifico religioso e ha rapporti diretti con il ministero dell’Educazione per indicare le vie corrette nelle scuole e nei libri didattici».

Angela Lano

NOTE

(1) Il salafismo è una scuola di pensiero (un metodo) dell’Islam sunnita che si rifà ai «salaf al-?ali??n» («i pii antenati», «precedessori»), ovvero le prime tre generazioni di musulmani (VII-VIII secolo), che vengono considerate modelli da seguire. Dal salafismo ha avuto origine il neosalafismo: un’ideologia rivolta sia alle masse arabe diseredate sia alle classi medie (e alte, in certi casi), trasformandosi in movimento «anti-intellettuale» e reazionario, divenendo espressione di forme di fondamentalismo, fino alle estreme conseguenze del salafismo jihadista attuale. Wahhabismo: movimento fondato nel 1700 da Muhammad ibn Abd al-Wahhab, teologo arabo della scuola giuridica hanbalita. Attualmente è la dottrina di stato in Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Kuwayt e in altri paesi.

(2) Sul sufismo MC ha pubblicato una serie di articoli usciti ad agosto 2015, novembre 2015 e gennaio-febbraio 2016, tutti reperibili sul sito della rivista.

(3) Tijannyya. Si tratta di un ordine sufi sunnita, originario del Nordafrica, diffusosi poi nell’Africa occidentale. È presente in Marocco – la Casa reale e la maggior parte della popolazione -, in Senegal, in Mauritania, Niger, Chad, nord Nigeria, parte del Sudan, e altri stati.

(4) «Hizb ‘adâla wa tanmia». È stato riconfermato partito di governo nelle elezioni marocchine del 2016.

(5) Zâwiya (oppure ribat in arabo e tekke in turco): è il luogo dove vivono o si riuniscono i musulmani che appartengono alle confrateite sufi. Sono anche locali che assolvono compiti di istruzione, accoglienza o sanitari.

(6) Ibn Taymmyya. Teologo e giurista musulmano, vissuto a Damasco tra il XIII e il XIV secolo e appartenente alla scuola hanbalita, la più severa delle madhhab sunnite. È il teologo-icona del radicalismo islamico, dai movimenti salafiti più moderati fino al Daesh.

(7) Takf?r: dichiarare un musulmano miscredente. Il takfirismo è un «movimento» fondamentalista di musulmani che fanno dell’accusa di miscredenza rivolta ad altri correligionari una delle basi portanti della loro ideologia. È emerso soprattutto con la guerra civile in Siria e la diffusione di organizzazioni come il Daesh e al-Nusra, che hanno diviso drammaticamente il mondo islamico, costringendolo a un conflitto e spaccando precedenti alleanze e cornoperazioni.

(8) Jihâd: sforzo. Nella maggior parte dei casi in Occidente è tradotto come «guerra santa», ma è una generalizzazione. La radice «jhd» ha il significato di sforzo, compromesso, lotta interiore, applicazione con zelo. La forma verbale «jâhada» significa «lottare contro qualcuno», ma «al-jihâd fî sabîl Allâh» è «lo sforzo/lotta sul cammino di Dio», uno «sforzo sacro». L’Islam distingue due tipi di jihâd: il «grande jihâd», che è contro le proprie passioni, contro l’anima che si perde (nafs ammâra bi-s-sû’: l’ego che indirizza verso il male o ordina il male), è lo sforzo nel cammino del bene, sociale o personale; è la perseveranza nella fede e nelle avversità della vita;  il jihâd minore, o «piccolo jihâd» (jih?d al-as?aru): sforzo militare difensivo, che deve essere fatto con le armi per la difesa della comunità, la ummah e il Dâr al-Islâm, il territorio dell’Islam, quando è minacciato dai nemici. Ciò non ha nulla a che vedere con la guerra indiscriminata, con i genocidi di popolazioni, le torture, i cadaveri fatti a pezzi, gli organi interni mangiati, gli stupri. Il jihad come sforzo militare è un concetto che si presta a interpretazioni e utilizzi differenti, a seconda delle scuole giuridiche e delle correnti.


L’approfondimento

Le «murshidat», predicatrici islamiche
(che non sono imam)

Da oltre dieci anni, il governo del Marocco forma le murshidat, predicatrici, donne laureate, per insegnare e tenere conferenze nelle moschee e nei centri islamici del Regno e all’estero. Tra queste ci sono teologhe islamiche con dottorati in università prestigiose. «Il nostro compito è insegnare i principi islamici – ci spiegano – come la compassione, la tolleranza, la pace, e tenere lontani dal fondamentalismo».

Periodicamente, alcune di loro sono inviate nei paesi europei dove vivono molte donne musulmane immigrate, per aiutarle nei vari ambiti della religione e della vita quotidiana.

Le murshidad lavorano anche per diffondere l’istruzione, l’educazione e aiutare le donne ad allevare i propri figli. Esse rappresentano un aspetto della svolta al «femminile», iniziata nel 2004 con la riforma del codice di famiglia marocchino, la moudawana, che ha portato all’introduzione di più diritti e tutele nei confronti delle donne.

Tali figure rappresentano un insieme di «religiose» e «assistenti sociali», e dipendono dal ministero marocchino degli Affari islamici. Hanno un livello culturale e accademico elevato. Si occupano di islam, ma anche di problemi sociali e psicologici.

Prima di iniziare a svolgere il loro compito, si preparano per un anno in centri ad hoc (si veda l’articolo) e, una volta diplomate, sono inviate nelle varie regioni del Marocco a predicare un islam moderato e rispettoso dei diritti civili e femminili.

Il curriculum delle predicatrici annovera un’ampia cultura generale – storia, religione, geografia, sociologia, psicologia, management, legge, codice di famiglia, lingua araba – e la conoscenza di almeno metà del Corano, studiato a memoria.

Le murshidat sostengono le varie attività nelle moschee e affiancano gli imam. Ma l’obiettivo privilegiato, sottolineano, è il sostegno alle donne, alle giovani generazioni, alle famiglie. Sono tutte concordi sul fatto che il Corano e il profeta Muhammad abbiano garantito rispetto e diritti alle donne, ma che i musulmani, nel corso dei secoli, se ne siano dimenticati e che il testo sacro islamico sia stato spesso «frainteso».

Una delle loro missioni fondamentali è quella di educare a una fede non politica o ideologica, lontano dagli eccessi radicali. Infatti, dopo gli attentati terroristici a Casablanca, nel 2003, il governo marocchino pensò che fosse importante e necessario promuovere una visione della religione tollerante e non aggressiva per combattere le tendenze estremiste.

È bene chiarire, tuttavia, che le murshidat non sono delle «imam al femminile», in quanto a loro non è permesso guidare la preghiera in moschea.

Angela Lano

Seconda puntata: Isis, il terrore come spettacolo




Cari missionari dialogo con i lettori

Un anno senza Romolo

Ci lasciava un anno fa Romolo Momo Levoni, poeta dialettale, esperto di tradizioni locali e campione di solidarietà, fondatore e presidente del Grg (Gruppo Resurrection Garden).

È stato un anno duro, il 2016, un anno passato senza la presenza abituale, familiare, patea, rassicurante di quel piccolo grande uomo che era Romolo Levoni, per gli amici della sua terra Momo. Chi era abituato a vederlo nelle piazze di tutta la provincia di Modena col suo mulino ad acqua e con gli amici del Grg, quest’anno non l’ha più ritrovato, chi frequentava gli appuntamenti fissi con la cena di Castelnuovo Rangone e la festa della Manyatta su ai Roncaccioli di Lama Mocongo, non ha voluto mancare comunque, chi aspettava il sabato per leggere le sue «brontolate» in dialetto sulla Gazzetta di Modena, si è dovuto rassegnare e ormai da dodici mesi deve fae a meno, e, infine, chi attendeva, con l’ansia dei bambini la notte di Natale, i suoi auguri, che, da 38 anni, sotto forma di filastrocca dialettale (zirudele si chiamano a Modena) arrivavano puntuali per posta, ha dovuto accettare che non siano arrivati, com’era successo nel 2015. Le migliaia di amici e affezionati lettori di Romolo, dopo trentotto anni, non hanno ricevuto quella fotocopia in bianco e nero, fronteretro, che ogni Natale allietava, con allegria e lucida sagacia, raccontando i più significativi fatti e personaggi dell’anno in una zirudela (filastrocca dialettale in rima baciata, «per gli uomini in lingua» come avrebbe detto lui). Romolo la pensava, la scriveva, la stampava e la spediva, quella zirudela, sapendo di far felici amici sparsi per l’Italia.

Ci ha fatto una brutta sorpresa, dodici mesi fa, l’amico Romolo, poeta dialettale, esperto e scrittore di tradizioni locali, il saggio montanaro, ma soprattutto infaticabile benefattore, andandosene a 83 anni e lasciandoci un po’ più soli.

Soli, ma non rassegnati, né tantomeno fermi, i «suoi» infaticabili volontari del Grg, l’associazione che Romolo aveva fondato nel lontano 1991, con l’adorata moglie Carmen, poi trasformata in onlus nel 1999, per consentire gli studi a bambini della baraccopoli di Soweto, a Nairobi, in Kenya, in strutture create e gestite dai Missionari della Consolata. Quella straordinaria e unica esperienza che si chiama Familia Ufariji.

Solidarietà che ha saputo, per strada e negli anni, coinvolgere e raccogliere sempre più amici pronti a donare tempo, idee, lavoro e passione per raccogliere fondi per i piccoli «poveri, sfortunati fratellini» come li chiamava lui.

Fratellini che sicuramente ricordano le svariate visite che Romolo fece loro, direttamente a Nairobi e dintorni, che sentiranno di sicuro la mancanza del suo sguardo buono, del suo sorriso sereno, dei suoi abbracci sinceri.

Ma siccome Romolo ha seminato bene, i «poveri sfortunati fratellini» possono, e potranno, continuare a contare sul Grg che, nonostante altre perdite dolorose, come quella di padre Ottavio Santoro, e di un altro dei volontari, il consigliere Franco Muzzioli, superato il legittimo momento di dolore e sgomento, si sono riorganizzati e sono ripartiti mantenendo regolari le attività in Italia e in Kenya.

Questo grazie anche al fatto di aver trovato due nuovi fondamentali interlocutori in Kenya, come padre James Lengarin, amministratore regionale, e padre Joseph Mwaniki, responsabile del Resurrection Garden, conosciuti personalmente nella straordinaria visita che alcuni rappresentanti hanno effettuato in Kenya questo 2016. Padre James e padre Joseph sono giovani, attivi e affidabili e rappresentano una garanzia di buon uso delle risorse affidate loro.

«Romolo ci ha lasciato – scrive il presidente Sotero Marasti nella lettera d’autunno – consegnandoci una bellissima eredità fatta di bimbi che grazie al Grg possono istruirsi e avere un pasto assicurato… abbiamo avuto in eredità una associazione sana, viva e vitale con tante persone che per essa s’impegnano».

Tra questi vanno sicuramente ricordati Emilio, lo chef laziale trapiantato in Toscana che ogni anno emigra per un giorno a Castelnuovo per organizzare impeccabilmente la cena d’autunno del Grg, o come il suo grande amico Ermes, l’oste dei gabbiani, al quale Momo aveva dedicato un libro nel 2006 «Un gabian a Modna» e proprio nelle ultime settimane il seguito virtuale «Un eter gabian», la sua ultima pubblicazione. E ancora vanno ricordate le tante associazioni come il circolo di Castelnuovo, il Gruppo Alpini di Pavullo, gli Amici di Ermes, il Filo di Marinetta, le ragazze del Banchetto di natale e i ragazzi del Mercatino di Natale, i tanti che collaborano e rendono possibili iniziative come il picnic sotto le stelle o la Festa della Manyatta del 26 giugno, ricorrenza della Madonna Consolata, dal cui istituto provengono i padri che operano col Grg in Kenya.

Ma Romolo ha pensato ai suoi bimbi della scuola della Familia Ufariji anche in altro modo, cioè con il suo testamento: ha lasciato al Grg parte dei suoi beni, compresa la preziosa sede nella quale i volontari operano.

Era nato a Castelnuovo, ma da molti anni, con la moglie Carmen, si era trasferito tra i monti di Lama Mocogno, dove poteva dedicarsi all’orto, alla terra e ai boschi tanto amati; dopo gli anni del lavoro, da capostazione, memore della figura del padre ferroviere e amatissimo, si è dedicato agli studi delle tradizioni locali e alla scrittura. Da «sapiente della montagna», come lo definì il prof. Fabio Marri, diventò alla fine degli anni ’70 un vero esperto delle tradizioni locali, scrivendo, dal 1979 al 2015, e pubblicando decine di volumi tra i quali ricordiamo «Rosch e Bosch», «Mo… cojozzi», «Don Mario e noi», «Magner in dialat», «Piazza nuova e vecchi giuochi», «Un gabian a Modna», «Castelnuovo, gente e vita, da la saraca all’aragosta», lucidissima disamina su come la nostra società sia diventata da rurale a industriale e tecnologica.

Tra i tanti amici che sentiranno la sua mancanza ci sono anche Ermes, l’oste più famoso di Modena, che in tante occasioni ha destinato i fondi raccolti con le sue iniziative a base di gnocco fritto al Grg e che aveva seguito Romolo anche a Nairobi, in mezzo ai bambini adottati nella Familia Ufariji, Angelo Giovannini, che proprio insieme a Momo ha realizzato la sua ultima opera «Un eter gabian», Roberto Alperoli, ex-sindaco di Castelnuovo e intellettuale vero, che lo definì «un discolo senza età, dagli occhi indaffarati e dalle mani febbrili, sempre intento a cercare di aggiustare (almeno un poco) il mondo».

Esattamente come aveva fatto fino a un anno fa. Ciao discolo, tranquillo… i tuoi ragazzi vanno avanti, il Grg e i tuoi bimbi hanno un futuro.

Angelo Giovannini
per il Grg, Modena, 06/12/2016

Fratel Carlo da Catrimani

Pubblichiamo qui, con qualche taglio, l’interessantissima lettera di Natale di fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata tra gli indios Yanomami. I titoletti sono nostri.

Amici carissimi,
[…] cercherò di aggioarvi su alcune situazioni locali e attività che stiamo svolgendo.

Invasioni

In questi ultimi tempi, abbiamo avuto parecchie notizie sulla situazione dell’invasione illegale della Terra Indigena Yanomami e Ye’kuana, da parte dei cercatori d’oro. L’attività non tende a scemare, anzi, pare si stia spargendo. Un’operazione militare è stata fatta lungo il corso del rio Uraricoera, il mese scorso. Era il luogo che apparentemente aveva la maggior concentrazione di «garimpeiros», che stavano aumentando a vista d’occhio. L’operazione ha portato alla distruzione di una dozzina di chiatte e relativi macchinari che erano usati per l’estrazione dell’oro dal fondale del fiume.

In seguito, è stata montata un’altra operazione che ha forzato alcune centinaia di cercatori d’oro ad abbandonare le località che avevano occupato. Si spera sempre che il governo la smetta di giocare al ritiro di «garimpeiros», come azione per far tacere le denunce. Di fatto, in seguito, gli invasori ritornano agli stessi luoghi in poco tempo, e il governo (polizia, militari, …) può giustificarsi dicendo che reprimono l’attività illegale, ma non «riescono» a impedire il ritorno degli invasori. Indagini fatte dalla stessa Polizia Federale hanno scoperto come funziona il tutto: chi finanzia gli invasori, quanto rende questa attività e come è «lavato l’oro estratto illegalmente, per mezzo di una compagnia di valori di São Paulo. Non ho conoscenza di persone punite per queste attività illegali. In questo contesto di impunità, chi finisce per avere la peggio sono gli Yanomani.

Uccisioni

Ciononostante non sono gli unici a soffrie le conseguenze. È stata confermata l’uccisione di sei «garimpeiros» da parte di un gruppo di Yanomami, in una regione non lontana dalle sorgenti del rio Catrimani. La notizia che si è sparsa dopo la denuncia anonima di un cercatore d’oro «sconosciuto», è stata poi confermata da alcuni Yanomami a mezzo radio. Essi hanno anche avvisato che avevano bruciato i cadaveri. Due settimane fa, il governo ha organizzato una spedizione per riscattare i cadaveri. La spedizione che si è recata sul luogo con un elicottero (si tratta di località di difficile accesso in piena foresta), ha riportato a Boa Vista i resti dei corpi che erano stati bruciati con un fuoco molto grande, probabilmente ottenuto con l’uso del combustibile che i «garimpeiros» usavano per azionare i motori necessari per l’estrazione del minerale. L’identificazione dei «corpi» è stata affidata a specialisti che avranno certamente molto lavoro per arrivare a stabilire a chi appartenevano.

Mi sono chiesto come può essere capitato questo «incidente». Non è facile poterlo affermare. Anche se, come sempre, si sa che il modo di fare degli invasori è quello di cercare di ingannare gli indigeni, facendo promesse, distribuendo piccoli regali, foendo un po’ di alimenti (riso, sale, …). In alcuni casi offrono armi da fuoco ai leaders più influenti (fucili da caccia), e poi li tengono buoni lesinando le munizioni. Mi è stato detto anche che sarebbero morti tre bambini in poco tempo, forse per causa di malattie introdotte involontariamente dai cercatori d’oro; un indigeno ha detto che i «garimpeiros» avrebbero minacciato qualcuno di loro. Sta di fatto che il famoso massacro di Haximu, nel quale persero la vita sedici Yanomami, in maggior parte bambini, avvenne molto vicino al nuovo luogo del conflitto; gli Yanomami erano al corrente di come il tutto era avvenuto in quell’occasione, e con ogni probabilità hanno riscontrato qualche analogia nel comportamento di quelli che a suo tempo avevano partecipato all’atto genocida.

Funai ridimensionata

Su un’altra questione, abbiamo finalmente ottenuto da un funzionario della Funai delle buone fotografie aeree del villaggio di indigeni isolati che da oltre un anno sono in una località prossima ad uno dei luoghi di «garimpo» clandestino, e senza la possibilità di controlli, a causa della ristrettezza di fondi che il Goveo Federale ha stabilito per la Funai. Ho l’impressione che, in alto loco, stiano tentando di rendere la Funai un organo decorativo. Ci sono parecchi indizi, non solo a Roraima, che questo stia avvenendo.

È abbastanza frequente che autorità di vari livelli si pronuncino sfavorevolmente circa il rispetto dei diritti dei popoli indigeni garantiti nella Costituzione Federale.

Ad ogni modo, per lo meno per ora, pare che il villaggio isolato goda di buona salute; sono sulle spine perché questa situazione può precipitare in qualsiasi momento e nessuno sta prendendo provvedimenti per cercare di evitarlo.

Più morti che in guerra

Saltando di palo in frasca. Vi riporto alcuni dati che ho trovato sul giornale EcoDebate, il giorno 08/11/16: «Secondo i dati dell’Istituto di Ricerca Economica Applicata (Ipea) e del Forum Brasiliano di Sicurezza Pubblica, il Brasile ha raggiunto la cifra record di 59.627 omicidi nel 2014, il che equivale a 160 morti al giorno. Giovani neri, con poca scolarità, e donne sono le principali vittime di un paese il cui popolo, al contrario di ciò che si divulga, non è allegro, né pacifico o tollerante in relazione alle differenze. In verità, il Brasile si è mostrato uno dei paesi più violenti del mondo, nel quale le morti banali e futili, sono più numerose di quelle che succedono in nazioni in guerra». La traduzione veloce è mia, per cui ci può essere qualche errore. Ho paura di dimostrare col mio scritto molto pessimismo, me ne scuso, e cambio argomento.

Centro di Documentazione Indigena

I consiglieri della nostra Regione missionaria hanno deciso che si può mandare avanti il progetto di costruzione di un edificio ad hoc per il Centro di Documentazione Indigena (Cdi); ora si tratta di trovare qualche tecnico che si incarichi di elaborae il progetto. Per ora il Cdi funziona in locali improvvisati, e mi sembra che stia riscuotendo sempre maggiori consensi tra gli indigeni e tra gli studenti e insegnanti specialmente delle università locali. Sono sempre più frequenti quelli che ci cercano e consultano i nostri archivi; inoltre gradualmente finiscono per ingaggiarsi nel nostro lavoro e nel nostro sport preferito che è quello della difesa dei diritti dei popoli indigeni. A tutti voi che seguite le nostre attività/avventure, un buon Natale e un anno nuovo degno di buoni missionari; vi ricordo sempre nei miei sciamanismi. Con affetto.

fratel Carlo Zacquini
Boavista, Roraima, 05/12/2016

Mafie e denaro pubblico

La trasformazione dell’economia normale in economia criminale

I soldi pubblici (provenienti da appalti, sovvenzioni, contributi, concessioni e così via) costituiscono lo scopo primario del potere delle nuove mafie in Italia e segnano il connubio tra organizzazioni criminali, mondo dell’imprenditoria e politica. Quest’alleanza genera un vero e proprio sistema criminale, parallelo a quello legale, poco rischioso e dai guadagni incalcolabili. La criminalità organizzata ormai ha esteso i suoi tentacoli in ogni regione italiana condizionando il settore dell’imprenditoria che lavora soprattutto con i soldi pubblici. L’infiltrazione nel sistema di assegnazione e gestione del denaro pubblico avviene attraverso imprese «immacolate» sotto ogni punto di vista ma che, di fatto, sono già controllate dalla criminalità organizzata. L’intimidazione è l’extrema ratio, in quanto la mafia, attraverso il sistema corruttivo e il sostegno economico a queste imprese, che spesso sono in crisi, riesce a gestire il tutto senza particolari clamori e nella massima trasparenza. Per far sì che le imprese «mafiosizzate» siano beneficiarie dei fondi pubblici la criminalità organizzata deve fare in modo che le altre imprese non presentino offerte o si ritirino dalle gare. Le organizzazioni criminali se riescono, fanno presentare offerte ad altre imprese che già gestiscono, in caso contrario, utilizzano il metodo mafioso «classico» (intimidazioni di ogni genere fino all’omicidio) per far sì che l’impresa che l’organizzazione ha cornoptato risulti aggiudicataria unica. Nel caso d’imprese non controllate ed escluse dalla gara, occorre impedire alle medesime di rivolgersi agli organi giudiziari ed anche in questa ipotesi, all’intimidazione si preferisce il meccanismo corruttivo mediante la promessa di vantaggi economici o di partecipazione a future gare, fermo restando che se non funziona il metodo «dolce» si utilizzerà quello violento. In questo sistema particolarmente articolato, svolgono una parte predominante imprenditori, politici, funzionari pubblici, progettisti, direttori dei lavori, tutti con funzioni e compiti specifici. Utilizzando lo strumento delle tangenti, la politica garantisce alle mafie l’erogazione dei soldi pubblici e il sistema del massimo ribasso costituisce il terreno fertile per l’infiltrazione mafiosa e per il perfezionamento dell’alleanza. L’alterazione della gara avviene sempre determinando in via preventiva i ribassi che ciascun’impresa deve indicare nella sua offerta. A questa situazione ormai endemica imposta dalle mafie, soggiacciono quasi tutte le imprese sul territorio nazionale che estendono i loro affari anche in ambito europeo e internazionale, poiché, di fatto, non avrebbero alternative plausibili. Come porre rimedio a una situazione a dir poco aberrante come questa in precedenza esposta? A tal proposito ci vengono in soccorso le intuizioni di Rocco Chinnici, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, secondo i quali bisognerebbe indagare sui flussi di denaro e sui complici «puliti» delle mafie, ad esempio, controllando tutte le ditte partecipanti a una gara, disciplinando in maniera ferrea il sistema della revisione dei prezzi, delle varianti in corso d’opera e degli enti appaltanti. A mio giudizio, andrebbe tassativamente eliminato il sistema del massimo ribasso che offre notevoli possibilità di falsare le gare pubbliche. In conclusione, vorrei ricordare che l’ex magistrato Antonio Ingroia, dichiarò dinanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta che Paolo Borsellino gli confidò di essere convinto che, attraverso il carteggio di Giovanni Falcone sull’inchiesta «Mafia e Appalti», si sarebbero potuti individuare i moventi della strage di Capaci. Questo dimostra quanto importante sia il settore dell’erogazione di denaro pubblico e dunque occorre battersi per la prosecuzione delle attività e delle idee di Falcone e Borsellino. Prevenire, controllare e sanzionare ogni abuso in questo particolare settore significa non far passare più il messaggio che le mafie danno lavoro mentre lo Stato no! Oltre alla magistratura e alle forze di polizia occorrono adeguate forme di organizzazione e mobilitazione affinché tutti uniti si ponga fine a un sistema altamente nocivo che sta trasformando l’economia legale in economia criminale.

Vincenzo Musacchio,
giurista e direttore della Scuola di Legalità «don Peppe Diana» di Roma e del Molise, 19/11/2016

Colombia

Gentilissimo Dr. Moiola,
martedì scorso sono venuta in Via Cialdini per il documentario di Gianni Minà e ho preso uno dei numeri della Rivista MC Novembre 2016, che gentilmente offrivate. Già da tempo conosco i suoi articoli ed ora ho appena finito di leggere quelli sulla Colombia e voglio manifestarle tutto il mio apprezzamento per la chiarezza e il rigore con cui li costruisce. Leggere pagine come le sue, è un vero piacere! Ho ritrovato nomi di missionari e luoghi a me molto cari e non soltanto per aver parlato dei progetti Missionari per molti anni nelle mie lezioni, ma anche per evocazioni di un passato personale. Grazie ancora per la sua costante attenzione per la Colombia e per le sue popolazioni indigene! Molto cordialmente

Silvia Giletti
Progetto Diritti Umani e Globalizzazione, Università degli Studi di Torino, 26/11/2016

 




Europa unita


Un tempo i giovani vedevano l’Europa come portatrice di pace. Oggi l’Unione si associa a crisi, disoccupazione, respingimenti di migranti, paura. I populismi xenofobi guadagnano punti. Mentre l’Italia ha almeno il merito di puntare i piedi.

Per la mia generazione l’Europa unita era un bellissimo sogno, in grado di far battere il cuore. Guardavamo sereni al processo di unificazione, confidando in un avvenire di pace, cooperazione e sviluppo non solo per noi europei, ma per il mondo intero. A scuola e nelle università ci parlavano di Altiero Spinelli, Robert Schuman e Konrad Adenauer, spiegandoci che il progetto di un’Europa forte e coesa era il frutto della loro grande statura politica e morale.

Nel corso degli anni questo sogno si è pian piano sgretolato sotto le rigide imposizioni del mercato, gli egoismi nazionali e lo strapotere delle tecnocrazie. Oggi nessun giovane sogna grazie all’Europa, anzi l’appartenenza europea suscita apprensione, è considerata, a ragione o a torto, la causa della disoccupazione e dell’impoverimento delle nuove generazioni.

Se si chiede a un giovane cosa rappresenti per lui l’Unione europea, la risposta più benevola è: burocrazia, eccesso di regole, costi esagerati, vertici inconcludenti. Ancora più triste sarebbe una risposta come: l’Europa è un giogo per i più deboli, un’inespugnabile fortezza per i poveri del mondo.

Non è una bella Europa quella che non apre le braccia a chi fugge dalla guerra e dalla miseria, che non si commuove di fronte alle migliaia di esseri umani che affogano nel Mediterraneo, che lascia soffrire di stenti e freddo chi si ammassa lungo i suoi confini.

Le idee e le parole che influenzano le scelte dei politici europei sono paura, minaccia, respingimenti, muri. Le stesse idee e parole che circolano tra la gente e ispirano il voto popolare più rozzo.

Ne consegue che l’accordo sulle quote, che pure riguarda numeri trascurabili – un totale di 160mila trasferimenti entro il 2017 – è bloccato da mesi, mentre l’Ue ha deciso di versare alla Turchia 3 miliardi di euro (e altri 3 nel 2018), perché si faccia carico dei migranti che essa non vuole, invischiandosi malamente con l’arrogante Recep Tayyp Erdogan che calpesta sistematicamente i diritti umani e viola le convenzioni inteazionali.

Si è creato un orribile circolo vizioso tra governanti e governati dove nessuno ha l’autorevolezza di proporre una visione differente.

Per questo ci ha favorevolmente colpito la presa di posizione di Matteo Renzi che, lo scorso novembre, ha posto il veto sul bilancio europeo, un gesto che, nella pratica, ha solo un effetto dimostrativo, ma riveste un alto significato politico: non vogliamo che si costruiscano muri con il denaro che l’Italia versa alla Ue.

Anche Emma Bonino, già stimata commissaria Ue e convinta europeista, ha predisposto una sorta di prontuario sull’immigrazione in cui sfata i falsi miti che alimentano sospetto e rifiuto.

Dimostra ad esempio che la cosiddetta invasione degli stranieri è un inganno: nell’Unione europea, su 510 milioni di residenti, solo il 7% è costituito da immigrati (35 milioni). La quota di stranieri varia notevolmente tra i paesi europei: il 10% in Spagna, il 9% in Germania, l’8% nel Regno Unito e in Italia, il 7% in Francia. Paradossalmente i paesi più ostili all’accoglienza degli immigrati sono quelli che ne hanno di meno: la Croazia, la Slovacchia e l’Ungheria, ad esempio, ne hanno circa l’1%.

Nel mondo ci sono 16 milioni di rifugiati, ma solo 1,3 milioni sono ospitati nei 28 paesi dell’Unione europea, meno del 10%. Nel mondo i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia (2,5 milioni), il Pakistan (1,6 milioni), il Libano (1,1 milioni) e la Giordania (664mila).

E ancora, in Europa solo il 5,8 per cento della popolazione è di religione islamica, mentre il terrorismo – che tuttavia ha ben poco a che fare con la vera religione – colpisce molto di più al di fuori dei confini europei: le nostre vittime rappresentano meno dell’1% del totale, perché le maggiori e continue stragi avvengono in Siria, Afghanistan, Iraq, Nigeria, Niger e Somalia, proprio nei paesi da cui fugge la maggioranza dei migranti.

Nel dibattito e nelle scelte europee sull’immigrazione, l’Italia si distingue per umanità e capacità, e sono in gran parte italiani i mezzi e il personale, civile e militare, di pattuglia nel Mediterraneo, dove soccorrono decine di migliaia di esseri umani stremati. Non diamo retta alle proteste sguaiate della minoranza xenofoba, che purtroppo esiste anche nel nostro paese, godiamoci l’orgoglio di essere cittadini di una nazione che incarna nei fatti i valori della civiltà europea.

Sabina Siniscalchi




Insegnaci a pregare 1: Un cambiamento di prospettiva


Conclusa la storia del Giubileo (e dei Giubilei), vorrei riflettere per i lettori di Missioni Consolata su un argomento che mi è caro ed è centrale nella vita cristiana: la preghiera. Di essa non abbiamo una consapevolezza piena, ma subiamo le conseguenze di un’usanza che si tramanda per forza d’inerzia, senza entusiasmo. Relegata ad alcuni momenti (mattina e sera) e luoghi specifici (chiesa), la preghiera non innerva la vita perché è momento separato, chiuso in sé, quasi mai sinonimo di vita. Rito e vita, in questa visione, sono divisi e distanti. Pregare ha sempre significato adempiere un atto o dedicare un tempo, dire formule imparate a memoria, corrispondere a un dovere giuridico (vedi l’obbligo del breviario per preti). Raramente è stato insegnato che pregare è vivere e respirare la vita.

Di Francesco di Assisi, come vedremo meglio in seguito, il suo biografo diceva che non era uno che pregava, ma era preghiera egli stesso. Com’è possibile? Come si può essere preghiera? Quale è la distanza tra la natura cristiana della preghiera e il nostro modo di pregare? Per rispondere a queste domande che interrogano la nostra esperienza di vita, è necessario partire la lontano con una parentesi un po’ lunga (questa 1a puntata) sulla formazione catechistica e solo dopo potremo cominciare a riflettere, aprendoci a prospettive che, forse, non abbiamo mai preso in considerazione e che potrebbero aiutarci a verificare il nostro modo di essere oranti. Interrogheremo la Bibbia e la Tradizione giudaica.

Catechisti per caso

Chi scrive, e quasi certamente chi legge, proviene da una formazione catechistica deformante che ci ha educati più all’ateismo pratico che allo spirito del Vangelo. I catechisti della nostra infanzia, infatti, erano (in buona misura lo sono ancora oggi) brave persone di buona volontà, laici, più donne che uomini, mamme, a volte suore, raramente preti. Persone adorabili, impegnate in parrocchia, ma senza alcuna formazione pedagogica, e tanto meno biblica e/o teologica. Che strano paradosso! Per insegnare materie scolastiche bisogna essere laureati, per trasmettere la vita di Dio, basta improvvisare! Con una infarinatura superficiale, fatta dal parroco che forse ne sapeva meno di loro in fatto di Bibbia e di teologia, essi davano ieri, e danno oggi, quello che a loro volta avevano ricevuto da altre brave persone, anch’esse carenti in formazione. La conoscenza superficiale della Scrittura era conseguenza di un approccio «per sentito dire» e appresa e trasmessa come «storia sacra» (racconto), senza distinzione tra libri storici o profetici, poetici o sapienziali. Spiegando i Vangeli, per esempio, quasi sempre i racconti della vita di Gesù erano confusi con i quelli apocrifi e miracolistici, creando enormi confusioni. Inevitabile che catechismo e omelia avessero un’impronta moralistica: pretendevano d’insegnare «cosa fare», non di educare a «chi essere». Se si facesse un’indagine seria si scoprirebbe che chi ha frequentato il catechismo, probabilmente non ricorda le Beatitudini nella versione di Matteo o di Luca, confonde Bibbia e Vangeli, ma facilmente rammenta «i capricci» di Gesù bambino che rompe le brocche per poi riaggiustarle o crea uccellini di creta, facendoli volare o, da vera peste, fa morire i compagni per il piacere di risuscitarli, dopo i rimbrotti di sua madre.

La via facile

D’altra parte il catechismo, almeno dal sec. XVI (Concilio di Trento) e ancora oggi, non è mai stato finalizzato alla crescita nella fede della persona e dell’ekklesìa, ma solo alla «sacramentalizzazione», cioè alla preparazione della «Prima Comunione» o della «Cresima» o «del Matrimonio». Per quest’ultimo, poi, tutto si risolve in cinque o sei striminziti incontri per supplire il vuoto di una vita! La sofferenza e la morte sono altra cosa, perché fuori dell’orizzonte cristiano, cui si accede se non all’ultimo momento, quello della sepoltura, come fatto esclusivamente sociale. Finiti questi appuntamenti «occasionali», termina anche la fede perché i ragazzi non partecipavano più – né partecipano oggi – all’Eucaristia, che fino ad allora avevano vissuto come «obbligo» o peggio come «ricatto»: se non vai al catechismo e se non «vai a Messa», niente gioco o premio o gita. Chi ha frequentato le scuole cattoliche ricorda ancora oggi, spero con orrore, «l’obbligo della Messa quasi quotidiana», e se ne è ritenuto dispensato per il resto della vita, una volta finita la tortura.

Quando ero bambino, bisognava timbrare il cartellino e raccogliere punti, come in un moderno supermarket. Come aggravante, il catechismo è stato strutturato sul calendario e sul metodo della scuola: identici tavoli, stessi quadei, stesso astuccio di colori, identico registro delle presenze, stessi tempi e stesse vacanze. Fino agli anni ’70 del secolo scorso, il testo del catechismo in uso, «da imparare a memoria», era quello di Pio X, divenuto la base della formazione religiosa per oltre mezzo secolo, fino al concilio ecumenico Vaticano II che pose le basi nuove per il «rinnovamento della catechesi» in chiave biblico-esperienziale e non più dogmatico-nozionistica


   Il catechismo di Pio X

Il Catechismo di San Pio X, dal titolo Catechismo Maggiore, fu edito per la prima volta nel 1905; era composto da 993 domande e relative risposte. Successivamente fu semplificato nel Compendio della dottrina cristiana, testo ufficiale e obbligatorio per la formazione cattolica. Nel 1912 fu redatta una sintesi detta Catechismo della dottrina cristiana con 433 domande e risposte. Al fine di predisporre un sussidio «sicuro» per la preparazione alla prima comunione che lo stesso papa estese anche ai bambini che avessero compiuto i sei anni di età, fu stampata un’edizione ridotta con il titolo Primi Elementi della Dottrina Cristiana che conteneva l’essenziale minimo del precedente Catechismo della dottrina cristiana. Alcune ristampe furono corredate da illustrazioni e figure. Domande e risposte dovevano essere imparate a memoria. Si facevano anche i «campionati di Dottrina» con premi per chi imparava più domande e relative risposte. Il catechismo di Pio X restò in auge fino al concilio Vaticano II. Oggi è ripreso, ristampato e usato dai tradizionalisti, nostalgici del ritorno al passato e in modo particolare dalla Frateità «San Pio X», che fa capo all’oppositore del concilio, mons. Marcel Lefebvre e ai suoi discendenti, comunemente conosciuti come «lefebvriani».


Tappe del catechismo

Nello spirito del dopo concilio, in Italia nacque il laboratorio catechistico, cui posero mano pedagogisti, biblisti e catechisti di eccezionale valore e competenza che prepararono gli strumenti adatti per rinnovare dalle fondamenta la catechesi, non più «settoriale», ma finalizzata alla formazione costante, dalla nascita fino alla morte. La riforma conciliare vide il catechismo come «vademecum» di accompagnamento della lettura e della preghiera della Bibbia per «tutta la vita», un commento perenne alla Parola di Dio, non finalizzato a questo o a quel sacramento, tappe occasionali, ma alla vita nella pienezza della fede. Fu una scommessa di grande respiro, forse il frutto più bello del concilio Vaticano II in Italia.

Nel 1970 fu pubblicato il testo base «Il rinnovamento della Catechesi» con le indicazioni su come dovesse essere compilato il catechismo, diviso per età di crescita, dal momento del concepimento alla morte. La formazione cristiana, infatti, inizia durante la gestazione con la preparazione di papà e mamma che, mentre pensano alla culla e ai pannolini, possono prepararsi col volumetto «Il catechismo dei bambini – Lasciate che i bambini vengano a me» (da 0 a 6 anni), cui seguono altri otto volumi che accompagnano le varie fasi della vita, fino all’età adulta. Se credere è vivere, il catechismo è lo strumento della vita credente. Il catechismo per età nacque «ad experimentum» e si concluse nel 1995 con i testi definitivi. Venticinque anni di lavoro che il vento della restaurazione fece arenare attestandosi su posizioni «contenutistiche e nozionistiche», finalizzate ancora alla «prima comunione, alla prima confessione, alla cresima, ecc.». Un quarto di secolo perduto perché non c’è nulla di più tragico che offrire testi, formalmente avanzati, ma usati con mentalità rivolta al passato, incapace di cogliere il comandamento di Dio negli eventi e nella storia. Si preferisce rifugiarsi nel calduccio delle certezze effimere che emergono dalle formule e dai riti, piuttosto che faticare nella ricerca di senso che è sempre una gestazione. La tradizione diventa così la scusa della propria pigrizia.

Chiunque può fare l’esperimento, in qualsiasi momento: le chiese oggi sono vuote e i pochi presenti sono tutti anziani; bambini e giovani sono diminuiti nel numero per vari motivi, anche demografici. Quelli che restano, finito il «dovere prescritto» come amara medicina, si sciolgono come neve al sole. I matrimoni civili in Italia hanno superato i matrimoni religiosi e sempre più morti rifiutano i funerali religiosi.

I più sprovveduti superficiali attribuiscono queste conseguenze al concilio Vaticano II che avrebbe distrutto la fede e la tradizione, perché, poveretti, senza catechismo a domande e risposte, non sono in grado di formulare un pensiero. Hanno bisogno del ricettario per giustificare la loro insipiente incapacità e povertà di spirito.

I più sapienti, invece, pensano che tutto ciò, ancora oggi, sia dovuto a mancanza di coraggio e di fede nello Spirito, memori delle parole dure di Gesù ai farisei del suo e di tutti i tempi: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9). La situazione di oggi non è colpa della secolarizzazione, ma responsabilità di un clero incapace che ha dato vita a una catechesi inadeguata, guardando più al numero (quantità) che alla qualità della formazione.

Il principio del discernimento

Questa lunga premessa sulla formazione è necessaria per potere riflettere sulla situazione in cui ci troviamo, per capirla e anche per poter parlare della preghiera. Sono passati cinquant’anni dal Vaticano II e facciamo ancora fatica ad accettarlo, segno che le incrostazioni derivate da mentalità, cultura e tradizioni «consolanti» sono dure a morire e, segno ancora più grave, che siamo istintivamente portati alla conservazione più che al discernimento dei «segni dei tempi» imposto dalla «Parola di Dio». Non possiamo parlare della preghiera senza fare riferimento al mondo da cui proveniamo, un mondo che non è da rigettare, ma da soppesare per quello che ha significato e per le conseguenze che ha generato. Il concilio ha chiesto che la preghiera ufficiale della Chiesa e quella individuale dei singoli credenti fosse centrata, animata e nutrita dalla Parola di Dio, che non è un raccontino edificante, ma «la parola di Dio viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discee i sentimenti e i pensieri del cuore» (Ebr 4,12).

Il verbo disceere significa valutare/separare/giudicare/distinguere; il «doppio taglio» della spada dice plasticamente che nessuno può fuggire, perché non c’è alcuno che possa presumere di restare illeso. La spada affilata da ambo i lati assicura che «ferisca» in un modo o nell’altro, lasciando il segno, penetrando anche fin nell’intimo più profondo, dove forse neppure noi siamo mai scesi a vedere come stanno le cose; fino al punto di sutura dell’anima e dello spirito, coinvolgendo giunture, midolla, sentimenti e pensieri del cuore, cioè la totalità della persona nella complessità del suo essere: corpo, sentimenti, passioni, intuizioni, immaginazione, sofferenza, gioia, disperazione, anelito, ansia, progettualità e desiderio.

Nulla è estraneo alla Parola per chi accetta l’avventura di Gesù Cristo che non si accontenta di una parte, ma coinvolge tutto di noi, centro e periferia, esterno e interno, alto e basso. Se questo è il compito della Parola e se la preghiera deve essere nutrita dalla Parola, comprendiamo bene che non possiamo limitarci alle formulette del catechismo di un secolo fa. Forse allora andava bene così – ma ne siamo sicuri? – certamente non va più bene oggi e lo sperimentiamo ogni giorno.

Siamo figli del nostro tempo e nessuno può vivere fuori di esso. Possiamo anticiparlo, se viviamo docilmente all’ombra dello Spirito, ma non possiamo mai tornare indietro perché non ne abbiamo il potere né l’autorità. Rimpiangere «i tempi andati» è solo perdere tempo, tarpando le nostre potenzialità. Siamo nati per vivere e la vita è progresso, cioè maturazione, crescita in avanti e in alto, secondo il processo del bambino che diventa adolescente, giovane, adulto, vecchio. La vita non va mai indietro e chi rimpiange il passato è già morto di suo perché ha bloccato il germe vitale per paura e per poca fede nello Spirito di Dio che ha impresso nelle cose e nelle persone il Dna della risurrezione: come credenti, siamo chiamati a cercarlo, trovarlo e testimoniarlo. Nella gioia. Il vangelo è letteralmente notizia che dà gioia, ma se non siamo in grado di coglierla e di comunicarla, non abbiamo, forse, fallito la nostra stessa esistenza?

Il Catechismo Maggiore di Pio X alla domanda n. 254 «Che cosa è l’orazione», risponde: «L’orazione è una elevazione della mente a Dio per adorarlo, per ringraziarlo, e per domandargli quello che ci abbisogna». La definizione è la conclusione di un lungo percorso, iniziato nel sec. XVI tra fautori della preghiera vocale e fautori della preghiera mentale. Tra i primi c’era l’Inquisizione e l’autorità ufficiale della Chiesa, perché pensavano che la preghiera vocale fosse strumento più adatto a controllare l’ortodossia e quindi la disciplina dei fedeli. Tra i secondi vi erano mistici come Giovanni della Croce e Teresa d’Avila che per questo furono inquisiti e condannati dall’Inquisizione spagnola: Giovanni della Croce fu imprigionato e torturato e Teresa d’Avila, cui fu sequestrato il manoscritto sulla sua «Vita», dovette usare un linguaggio cifrato e scrivere per allusioni per non farsi scoprire, perché sospettata in quanto nipote di un giudeo.

* Per un approfondimento su questi temi, è molto interessante la biografia critica e documentata della riformatrice del Carmelo: Rosa Rossi, Teresa d’Avila. Introduzione a cura di Loretta Frattale, Editori Riuniti University press, Roma 2015.

Pregare è vivere

La definizione della preghiera di Pio X è ancora esteriore, perché si preoccupa più dell’ortodossia che dell’incontro dell’orante con Dio. Dietro c’è la nozione di un dio «filosofico», esterno, onnipotente, imperiale, non il «Dio Padre» del Vangelo predicato da Gesù. È un Dio temuto e da temere, non un Dio affettuoso e da amare, un padre con cui giocare e vivere. La preghiera è «elevazione» a Dio, non nel senso dei mistici di identificazione con Dio, ma quasi un’estraneazione di sé in senso platonico perché si dà una valutazione negativa di ciò che è umano, corporale e materiale. Lo spirituale è contrapposto al materiale visto come sorgente di ogni male. Non è la persona – tutta – che si relaziona con Dio, ma «la mente», la parte nobile, lasciando quella «ignobile», abbandonata a se stessa e sopportandola quanto basta come sostegno dello spirituale.

Questa scissione è assente nella Scrittura. In ebraico la parola «cuore» si dice «lebàb» (pronuncia: levàv); insegnano i rabbini che le due «b» stanno a significare le due tendenze del cuore umano: quella verso il bene e quella verso il male; esse non possono essere estirpate, per cui – concludono – bisogna amare Dio con tutt’e due le tendenze, anche con quella verso il male. Per questo nello Shemà Israèl si dice «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze (= tutti i tuoi averi)» (Dt 4,5). La Mishnàh nel trattato Berakòt-Benedizioni 9,5 così spiega: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore, cioè con le due tendenze: il bene e il male». Nulla di noi è estraneo a Dio, nemmeno l’eventuale nostro peccato. È questo l’orizzonte di riferimento per riflettere sulla preghiera cristiana, relazione che si consuma nella sperimentazione e nella visione.

Paolo Farinella, prete
(1 – continua).




L’anno più caldo di sempre


Si è svolta lo scorso novembre a Marrakech, Marocco, la ventiduesima Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Cop22). Essa ha fissato le procedure e i metodi per arrivare entro il 2018 al regolamento di attuazione degli impegni presi a Parigi alla precedente conferenza. La Cop21 del 2015, stabiliva fra le altre cose l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale sotto i due gradi di aumento rispetto ai valori dell’epoca preindustriale.

Sulla strada tra Loyangallani e North Horr, Kenya.

Il 2016 si avvia ad essere l’anno più caldo di sempre. Lo diceva lo scorso novembre l’Organizzazione Meternorologica Mondiale (Wmo) delle Nazioni Unite, lo aveva anticipato a luglio 2016 la Nasa, l’agenzia aerospaziale statunitense. Occorrerà aspettare l’elaborazione definitiva delle rilevazioni 2016, ma i dati pubblicati dall’agenzia meternorologica a novembre in occasione del Cop22, la ventiduesima conferenza Onu sul cambiamento climatico, indicavano una temperatura di 0,88 gradi Celsius superiore alla media registrata fra il 1961 e il 1990 e più alta di 1,2 gradi rispetto all’epoca preindustriale. Sempre secondo la Wmo, i dati preliminari di ottobre indicavano che le temperature continuavano a essere a un livello sufficientemente alto da restare ben sopra il valore annuale del 2015, che era stato di 0,77 gradi.

L’effetto di El Niño, che l’anno scorso veniva da alcuni studiosi indicato come fenomeno corresponsabile dell’innalzamento delle temperature, è terminato a maggio 2016 dopo aver lasciato una scia di episodi di siccità in Africa, Sudest asiatico, Sud America, India, Etiopia, Australia orientale e diverse isole del Pacifico occidentale tropicale.

Sempre lo scorso novembre il Washington Post riportava le segnalazioni di diversi osservatori secondo i quali le temperature all’Artico erano più alte della norma di circa venti gradi, mentre una vasta area di aria fredda si era spostata sulla Siberia. A questo si aggiungeva un più lento ricongelamento dell’acqua: la superficie della banchisa polare, infatti, normalmente raggiunge l’estensione minima a settembre, poi comincia a riformarsi. Ma quest’anno, almeno fino a novembre, lo ha fatto più lentamente del solito. L’area ghiacciata, riportava il quotidiano statunitense, era ancora più ridotta di quanto non fosse nel 2012, anno in cui l’estensione dei ghiacci aveva toccato i suoi minimi storici.

Fiume Kwanza, in Angola.

La situazione dei gas serra

Quanto ai dati sulla concentrazione dei gas serra nell’atmosfera, riportava ancora il comunicato del Wmo, sembravano mostrare a novembre una tendenza al rialzo: nel 2015 la concentrazione media di anidride carbonica – il gas serra ritenuto più «colpevole» del riscaldamento globale – aveva raggiunto le 400 parti per milione (ppm) e, sebbene le medie 2016 non siano ancora disponibili, l’agenzia meternorologica riportava valori registrati sino a novembre dell’anno scorso in diverse stazioni di rilevazione nel mondo. Quella di Mauna Loa (Hawaii) aveva rilevato a maggio 407,7 ppm, il più alto valore mensile mai registrato. Diverso invece il trend delle emissioni di anidride carbonica, che si attestano su livelli praticamente stabili per il terzo anno consecutivo, nonostante un aumento del Pil mondiale pari al 3,4 per cento nel 2014 e al 3,1 nel 2015. La Iea, Agenzia internazionale dell’energia, rimarca che nei tre precedenti momenti storici in cui si era registrata una diminuzione delle emissioni – nei primi anni Ottanta, nel 1992 e nel 2006 -, la riduzione era associata a una «frenata» dell’economia mondiale; il dato attuale invece sarebbe imputabile alla progressiva sostituzione di fonti di energia da parte di Cina e Stati Uniti, i primi due paesi al mondo per emissioni di CO2 e responsabili, rispettivamente, del trenta e del quindici per cento delle emissioni stesse. Per quanto riguarda la Cina, «la ristrutturazione economica nella direzione di industrie a consumo energetico più basso e gli sforzi del governo per produrre energia elettrica usando sempre meno il carbone ha spinto in basso il consumo di quest’ultimo. Nel 2015 il carbone ha generato meno del settanta per cento dell’elettricità cinese (nel 2011 ne produceva l’ottanta per cento) mentre le fonti energetiche che comportano meno emissioni di CO2 – in particolare energia idroelettrica ed eolica – sono balzate dal 19 al 28 per cento. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno visto una riduzione delle emissioni pari al due per cento principalmente a causa del passaggio dal carbone al gas naturale. In aumento risultano invece le emissioni da parte di altri paesi asiatici e di quelli mediorientali mentre anche l’Europa segna un lieve incremento.

Cop22, i risultati

Quella di Marrakech è stata una Conferenza delle Parti (Cop) della diplomazia e del lavoro preparatorio. E non poteva che essere così. L’accordo di Parigi (si veda MC 5/2016), risultato della precedente Cop, prevede fra le altre cose, di contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2° C rispetto ai livelli preindustriali – facendo tuttavia il possibile per non superare gli 1,5° C – e di supportare attraverso fondi ad hoc i paesi più esposti ai danni prodotti dal cambiamento climatico, che spesso corrispondono ai paesi più poveri. L’accordo, entrato in vigore il 4 novembre 2016 e ratificato da 112 paesi su 197, richiede tuttavia un piano per essere attuato. Ed è di questo che si è discusso a Marrakech, stabilendo che il 2018 è la scadenza per definire i dettagli e i regolamenti che metteranno in atto l’accordo.

Carbon Brief, sito britannico di informazione su clima e politiche energetiche finanziato dalla European Climate Foundation – del cui consiglio fa parte quella Mary Robinson che è stata inviata speciale Onu per El Niño e il Clima – descrive così l’effetto dell’elezione di Donald Trump alla presidenza Usa: «la più grande domanda che aleggiava sulla Cop22 era: [il nuovo presidente] deciderà di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi? Potrà quest’ultimo sopravvivere a un così duro colpo? Gli stornici negoziatori hanno continuato il loro lavoro nonostante una minaccia sostanziale, sebbene non confermata, incombesse. E il ritornello della conferenza è presto diventato: l’accordo di Parigi è più grande di qualsiasi paese o di qualsiasi particolare capo di stato. Saranno i prossimi quattro anni a dimostrare se è davvero così».

Deserto del Chalbi vicino a North Horr, Kenya.

Le critiche: per chi troppo, per chi troppo poco

James Hansen è l’ex direttore del Goddard Institute for Space Studies della Nasa, l’attuale direttore del Program on Climate Science, Awareness and Solutions alla Columbia University ed è considerato uno dei padri degli studi sul cambiamento climatico. La sua valutazione dell’accordo di Parigi all’indomani della sua adozione alla Cop21 era stata tutt’altro che lusinghiera: «È una frode, un falso» aveva dichiarato in un’intervista al britannico Guardian. «È una stupidaggine dire: “diamoci l’obiettivo dei due gradi e poi incontriamoci ogni cinque anni per cercare di fare meglio”. Sono parole vuote. Non c’è azione, solo promesse. Finché i combustibili fossili continuano ad essere i meno costosi, si continuerà a bruciarli». A Parigi aveva proposto di mettere una «quota, perché la parola “tassa” fa scappare la gente a gambe levate», di 15 dollari per tonnellata di carbonio che aumenti di 10 dollari l’anno, generando introiti pari a 600 miliardi solo negli Usa. Ma nessuno, nemmeno i gruppi ambientalisti, ha accolto la sua proposta.

E se quella di Hansen è una critica al troppo poco che, a suo dire, si sta facendo, non mancano le critiche dall’altro versante: quello dei cosiddetti climate change deniers, i negazionisti del cambiamento climatico, per i quali il clamore (e il giro d’affari) intorno all’argomento è fin troppo.

Valle Susa, Salbertrand (To)

I negazionisti

Le posizioni negazioniste si possono (brevemente e non esaustivamente) riassumere così: i negazionisti «duri e puri» che sostengono non ci sia nessun cambiamento climatico; i negazionisti più morbidi, secondo i quali il cambiamento climatico c’è ma non è indotto dall’uomo o almeno non in maniera determinante né chiaramente quantificabile; un ultimo gruppo, che negazionista non è ma che appare scettico rispetto alla gestione del fenomeno e sostiene che il cambiamento climatico c’è, è indotto anche dall’uomo ma è diventato un business, uno strumento di controllo attraverso l’allarmismo o, addirittura, una specie di nuova religione.

Ai negazionisti del primo gruppo possono essere ricondotti i creatori del documentario Climate Hustle (Truffa climatica), uscito lo scorso maggio negli Stati Uniti, che sostengono che il film «toglierà la maschera alla propaganda sul riscaldamento globale, mostrando quel che veramente c’è dietro questo multimiliardario imbroglio». Marc Morano, il narratore del documentario è citato dal Washington Post «come uno dei principali responsabili di campagne di deliberata disinformazione». A fargli compagnia il quotidiano statunitense mette il commentatore di Fox News, Steve Milloy, che in comune con Morano ha anche legami professionali ricorrenti con colossi dei combustibili fossili come ExxonMobile. Fra i «disinformatori» cita poi l’ex governatore dell’Alaska Sarah Palin e il magnate delle comunicazioni Rupert Murdoch.

Posizioni più moderate, sebbene scettiche, ha espresso ad esempio il senatore e premio Nobel per la Fisica 1984 Carlo Rubbia. Nel 2012 ha sostenuto che «non è riscontrabile un rapporto tra i cambiamenti climatici e le emissioni di CO2» e nel novembre 2014, durante un’audizione al Senato ha affermato che «il clima della Terra è sempre cambiato». Pensare che tenendo la CO2 sotto controllo il clima resterà invariato è un errore. Nello stesso intervento, Rubbia ha anche precisato che dal 2000 si è registrato non una crescita bensì una diminuzione della temperatura media della Terra pari a 0,2 gradi nonostante il continuo aumento delle emissioni di CO2 e che negli ultimi cento anni cambiamenti climatici si sono verificati prima che il cosiddetto effetto antropogenico (cioè l’effetto derivato dalle attività umane) esercitasse un’influenza significativa sull’ambiente. Questo non toglie che le emissioni di CO2 vadano limitate, sostiene lo studioso, che però è critico rispetto ad alcune scelte di politica energetica come quelle europee, a suo dire coercitive e costose, mentre l’investimento tecnologico in settori come quello del gas naturale ha permesso agli Stati Uniti non solo di creare business e posti di lavoro ma anche di diminuire le emissioni.

Infine, i critici più o meno feroci del cambiamento climatico o della sua gestione hanno trovato pane per i loro denti allo scoppiare del cosiddetto Climategate del 2009, quando l’hackeraggio di un server della Climate Research Unit dell’Università dell’East Anglia, Regno Unito – una delle istituzioni più autorevoli per quanto riguarda gli studi sul clima – rese pubbliche migliaia di email che i ricercatori britannici si erano scambiati fra loro e con il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, l’ente che nel 2007 vinse insieme al vicepresidente americano Al Gore il premio Nobel per la pace per l’impegno sul clima. Le email rubate vennero poi caricate su un server in Russia e da lì diffuse; dai messaggi emergeva, secondo i detrattori, la consapevolezza da parte dei ricercatori di non disporre di dati certi sul riscaldamento globale e la decisione di manipolarli per mostrare, invece, un aumento brusco delle temperature che confermasse la tesi antropogenica.

Alla pubblicazione delle email e allo scandalo che ne derivò fecero poi seguito otto inchieste – fra le quali quella della Camera dei Comuni britannica, della statunitense Agenzia per la protezione dell’ambiente e di diversi altri enti governativi e di ricerca – le cui conclusioni scagionavano i ricercatori britannici dall’accusa di aver falsificato i dati.

Le due facce di Soros

Una delle più recenti polemiche che ha investito i sostenitori della tesi del cambiamento climatico dovuto all’uomo e della necessità di affrontarlo è quello della provenienza dei finanziamenti al gruppo ambientalista di Al Gore, la ex Alliance for Climate Protection oggi Climate Reality Project. Il sito DCLeaks a giugno scorso ha fatto trapelare documenti riservati della Open Society Foundations che dimostrano l’appoggio di questa alle organizzazioni di Gore. E la Open Society Foundations è di George Soros, potentissimo e discusso magnate della finanza che da diversi decenni è molto attivo come filantropo e finanzia, fra gli altri, prestigiosi think tanks come Inteational Crisis Group o lo European Council on Foreign Relations.

La notizia che Soros ha sostenuto i gruppi di Gore (e altri enti simili) non è nemmeno una notizia, per la verità, poiché la scelta del magnate in favore della lotta al cambiamento climatico era nota da tempo; tuttavia questa informazione si è poi raccordata con quella dell’appoggio dell’uomo d’affari sia alla campagna presidenziale di Hillary Clinton sia a quelle di Barack Obama, e ha scatenato gli scettici del cambiamento climatico nel sostenere che quella del clima è una battaglia orchestrata ad arte dai poteri forti intenzionati ad usare l’allarmismo sul riscaldamento globale causato dal CO2 per creare consenso su politiche energetiche ben precise. Non bastasse, è dell’agosto 2015 la notizia che Soros ha continuato ad investire proprio in aziende produttrici di combustibili fossili, aprendo la strada alle ipotesi più disparate sulle reali intenzioni del finanziere americano: vuole semplicemente far soldi sfruttando gli ultimi colpi di coda di industrie destinate a chiudere, sostiene qualcuno; vuole dare il colpo di grazia all’industria del carbone per accelerare il passaggio alle energie pulite, sostengono altri.

Insomma, il tema è difficile e va ben oltre la già non immediata comprensione da parte del pubblico di fenomeni complessi come quelli climatici e tocca interessi giganteschi. Ad oggi, diversi studi hanno analizzato le varie ricerche sul riscaldamento globale e il risultato è stato che nella comunità scientifica l’accordo sul fatto che il riscaldamento globale è causato dall’uomo è del 97 per cento.

Fra i tentativi di dare una forma divulgativa a ciò che è accaduto al pianeta nei secoli dal punto di vista climatico va segnalato quello del sito di fumetti on line Xkcd (xkcd.com) che cita fonti usate anche dal sito SkepticalScience (www.skepticalscience.com), attivo nel cercare di spiegare la letteratura scientifica sul clima nel modo più fruibile possibile.

Chiara Giovetti




Perdenti 21: Tupac Amaru


Túpac Amaru (Cuzco, Perù, 1741 – 1781) era il pronipote di Juana Pilco-Huaco, figlia dell’ultimo sovrano inca, Túpac Amaru I, che era stato condannato a morte dagli spagnoli due secoli prima (1572). La sua formazione culturale e spirituale avvenne nel collegio dei gesuiti della sua città. Finiti gli studi, si mise in affari avviando un’attività redditizia di trasporto di prodotti minerari dall’interno del Perù ai porti. Il prestigio acquisito come apprezzato uomo d’affari e l’autorevolezza che aveva presso la sua comunità lo posero alla testa della ribellione che indios e meticci fecero scoppiare contro gli spagnoli per i tributi e le prestazioni obbligatorie di lavoro che l’autorità coloniale iberica imponeva. Egli, presentandosi come restauratore e legittimo erede della dinastia inca, mandò uomini fidati per tutto il territorio del Perù affinché si alimentasse la ribellione contro le autorità coloniali spagnole, mai però mise in discussione la lealtà alla corona di Spagna.

Caro Túpac, la conoscenza del tuo paese e della tua figura spesso si ferma ai «cliché». Ci puoi aiutare a superarli?

Sono ben felice di venire incontro a questa esigenza. Mi preme far conoscere la nostra storia.

Tu appartieni al secolo XVIII che ha visto consolidarsi, in quella che noi chiamiamo America Latina, il potere di Spagna e Portogallo.

Sì. Dopo due secoli di amministrazione iberica, pur appartenendo al glorioso popolo inca, anche io mi sentivo un leale suddito di Carlo III, Re di Spagna, monarca assoluto.

Gli spagnoli a Cuzco, nella tua città, attraverso l’azione culturale dei gesuiti, crearono delle ottime scuole per la formazione dei figli della nobiltà inca.

Anche questo corrisponde a verità. Io, così come molti altri giovani, frequentai i corsi accademici che i gesuiti tenevano nelle loro scuole aprendo i miei orizzonti sia culturali che spirituali.

Allo stesso tempo però mantenevi tutti i compiti a cui eri preposto per il culto e avevi la responsabilità di vegliare sui riti e sulle reliquie del tuo popolo.

Come membro di una delle famiglie inca più influenti ero incaricato dei riti tradizionali per onorare i defunti della nostra gente. Era mio fratello maggiore che usava tutta la sua abilità per contenere sul piano diplomatico le mire e le pretese che gli spagnoli avevano sulla nostra terra.

Ma l’opera di contenimento degli spagnoli non dava frutti.

Gradualmente prendevamo coscienza che era impossibile raggiungere accordi con i coloni spagnoli: a loro interessava solo trovare oro e argento da portare in Spagna. Per questo i nostri risentimenti nei confronti degli invasori crescevano, e con essi gli scontri. Ebbe origine una guerriglia costante tendente a sfiancare le truppe spagnole, sebbene noi fossimo armati solo di lance e frecce, mentre loro di archibugi.

La vostra era una situazione in continua ebollizione.

Pattuglie a cavallo, con la scusa di stanare coloro che non volevano convertirsi, si muovevano in tutto il nostro territorio cercando il fantomatico tesoro del Perù, ovviamente senza successo, e questo li rendeva ancora più rabbiosi.

Essendo tu parte della nobiltà nella società inca eri una preda piuttosto ambita da parte dei conquistadores.

Infatti cercai di fuggire per non farmi trovare, ma siccome mia moglie era incinta, volendo stare accanto a lei che stava per partorire, gli spagnoli ci raggiunsero. Fui fatto prigioniero, condotto a Cuzco e mi fu richiesto di abbracciare la fede cristiana.

Ma mica potevano obbligarti a convertirti?

Misero insieme le menti più brillanti del clero spagnolo presente in Perù in quegli anni e permisero loro di colloquiare con me quando volevano, anche tutti i giorni. Il loro sforzo ebbe successo e alla fine mi feci battezzare assumendo il nome di Pedro.

Nel frattempo in Europa si era avviata una disputa teologica e all’università di Salamanca a larghissima maggioranza fu affermato che anche gli indios avevano un’anima.

Proprio per questo è incredibile costatare che, mentre in Spagna veniva affermata la nostra dignità di uomini in quanto figli dello stesso Padre, a casa nostra eravamo calpestati e derisi in quanto ritenuti solo schiavi da sfruttare.

Conscio delle tue responsabilità, a un certo punto riuscisti a eludere la sorveglianza degli spagnoli e a metterti a capo di una massa di Incas che intendeva ripristinare l’antico regno.

Dopo alcune scaramucce in cui avemmo la meglio, gli spagnoli, forti di un contingente di 17mila uomini, ci sconfissero nella battaglia di Checacupe, il 6 aprile 1781, in cui io venni fatto prigioniero.

Gli spagnoli volevano risolvere il problema del regno inca eliminando tutta la classe dirigente.

Io e i miei compagni fummo condannati a morte. Molti ecclesiastici sollecitarono una misura di clemenza nei nostri confronti, ma fu inutile: il viceré di Spagna fu implacabile e, senza neppure lo straccio di un processo, decretò la condanna a morte per tutti noi. Il supplizio, nelle loro intenzioni, doveva essere esemplare per dare una lezione a coloro che non intendevano arrendersi.


Il 18 maggio 1781 Túpac Amaru venne giustiziato sulla piazza centrale di Cuzco. Affinché più nessuno osasse ribellarsi ai conquistadores, l’esecuzione fu una delle più terrificanti che si possano immaginare. Il corpo di Túpac Amaru, legato mani e piedi a quattro cavalli, indirizzati verso i quattro punti cardinali, venne squartato orribilmente. Ai cavalli, per farli correre il più lontano possibile con i resti del condannato, erano state conficcate delle spine di rovi nella pelle. Ma tanta ferocia non sortì l’effetto sperato, anzi creò la leggenda di un suddito del Nuovo Mondo leale e fedele alla corona di Spagna che si ribellò alle angherie dei conquistadores prendendo le difese della sua gente vilipesa e angariata. Gli ideali di giustizia e libertà a cui Túpac Amaru ispirò tutta la sua vita, alimentarono lungo i secoli in America Latina altri combattenti per la liberà che ne assunsero anche il nome. Basti pensare al Movimento di Liberazione Tupamaros, che in anni più vicini a noi in Uruguay, ribellandosi alla dittatura militare che con un colpo di stato aveva preso il potere nel piccolo paese affacciato sul Rio de la Plata, vollero definirsi appunto Tupamaros in omaggio al leader del passato morto combattendo per la dignità e la libertà del suo popolo.

Don Mario Bandera




Anno santo al rovescio


Abbiamo assistito, con gioia, all’apertura della prima porta santa del Giubileo a Bangui, capitale della Repubblica Centroafricana diventata, per l’occasione, «capitale spirituale del mondo». Un’apertura davvero missionaria. E, il 13 novembre scorso, alla chiusura delle varie porte sante sparse, con non poca fantasia, un po’ dovunque nel mondo. Mi è venuta, allora, in mente una lettera, nella quale don Tonino Bello raccontava: «Quando c’è stata l’inaugurazione dell’anno giubilare, mi sono avvicinato alla porta di ingresso della chiesa, ho battuto tre volte, la porta si è spalancata e io sono entrato nel tempio carico di luci, tutto il popolo dietro di me, la folla esultante. Io vorrei invece poter inaugurare, un giorno, un anno santo al rovescio. Tutti quanti in chiesa, il vescovo vicino alla porta chiusa, con il martello che batte, la porta che si apre e il popolo di Dio che esce sulla piazza per portare Gesù Cristo agli altri. Sì, perché oggi il problema più urgente per le nostre comunità cristiane è quello di aprire le porte che, dall’interno del tempio, diano sulla piazza… I battenti si schiuderanno. E voi, folla di credenti in Gesù Cristo, uscirete sulla piazza per un incontenibile bisogno di comunicare la lieta notizia all’uomo della strada». Questo “anno santo al rovescio”, immaginato dall’indimenticabile vescovo di Molfetta, mi è rimasto nel cuore e si è intrufolato nei sogni che normalmente si fanno all’inizio di un nuovo anno. Un anno da cominciare con la stessa ansia missionaria che viene dritta dal Vangelo e che ci è stata trasmessa dal nostro beato Fondatore, Giuseppe Allamano quando, ad esempio, con un’espressione colorita ma efficace, ci diceva: «Voi dovete essere missionari nella testa, nella bocca e nel cuore». Come dire: la Missione, l’annuncio, la testimonianza, “lo zelo (o passione) per le anime” – come si diceva una volta – sono i fili di una normalissima trama, entro cui dovrebbero scorrere i giorni che il Signore ci concederà in questo nuovo anno di grazia. Uscendo, condividendo, incontrando, facendo vedere, senza timori o paure, che il Signore Gesù è… la cosa più bella che potesse capitarci. E desiderando che gli altri lo sappiano. Per prolungare, così, quell’ondata di misericordia che l’Anno santo appena concluso ci ha spinto ad assumere come Dna della nostra identità cristiana. E per non essere missionari a metà, ma «nella testa, nella bocca e nel cuore». Auguri!

Giacomo Mazzotti

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