Creare ponti


A fine aprile sui giornali si è scritto del fatto che nelle nostre città la gente si ignora. Notava Alberto Mattioli: «Come vicino di casa potreste avere chiunque: una delizia del genere umano che firma per le vostre raccomandate e vi offre i biscottini cucinati da lui quanto un terrorista dell’Isis che nei ritagli di tempo fabbrica una bomba atomica in cantina. Il problema è che difficilmente lo saprete. Pare infatti che una delle attività più praticate nei condomìni sia quella di evitare i condòmini. Secondo un’indagine on line […] il 61% degli italiani vede con fastidio chi gli vive accanto. Anzi, si sforza proprio di non vederlo. Non potendo eliminarlo, cerca almeno di evitarlo. Siamo passati dal “condominio famiglia” pieno di poveri ma belli dei film Anni Cinquanta al “condominio asociale” di oggi, dove si conosce a malapena il nome di chi vive dall’altra parte della parete e in ogni caso non si ha alcuna voglia di approfondire la conoscenza» (La Stampa, 26/04/2016).

Nello stesso tempo, circolava già il messaggio di papa Francesco per la cinquantesima «giornata mondiale delle comunicazioni sociali» (8 maggio): «L’amore, per sua natura, è comunicazione, conduce ad aprirsi e a non isolarsi. E se il nostro cuore e i nostri gesti sono animati dalla carità, dall’amore divino, la nostra comunicazione sarà portatrice della forza di Dio.

Siamo chiamati a comunicare da figli di Dio con tutti, senza esclusione. […] La comunicazione ha il potere di creare ponti, di favorire l’incontro e l’inclusione, arricchendo così la società. Com’è bello vedere persone impegnate a scegliere con cura parole e gesti per superare le incomprensioni, guarire la memoria ferita e costruire pace e armonia. Le parole possono gettare ponti tra le persone, le famiglie, i gruppi sociali, i popoli. E questo sia nell’ambiente fisico sia in quello digitale. […] La parola del cristiano, si propone di far crescere la comunione e, anche quando deve condannare con fermezza il male, cerca di non spezzare mai la relazione e la comunicazione».

L’indagine commentata dai giornali, che dava i condòmini milanesi tra i più asociali (69%) seguiti dai torinesi (68%), è specchio di una realtà preoccupante, soprattutto nelle città. È un modo di vita che peggiora in parallelo con la scristianizzazione della nostra società, la quale tende a ridurre tutti a essere individui (uomini centrati sul proprio io) e non favorisce l’essere persone (uomini in relazione). Ne soffre la famiglia, privata degli spazi, costretta in alloggi troppo piccoli e in condomìni allergici ai bambini, e dei tempi di incontro, rubati da un sovraccarico di lavoro e da mille «indispensabili» impegni. Ne soffrono le relazioni tutte, meno «faccia a faccia» e sempre più affidate a supporti digitali. Ne soffre il senso di appartenenza a una comunità e a un luogo reale, con la conseguenza di vantare un sacco di diritti per sé senza assumersi i necessari doveri verso gli altri. Ne soffre anche l’ambiente, violentato da una cementificazione aggressiva, dall’abuso di pesticidi, dall’inquinamento e dall’abbandono. Diventa perfino difficile la vita nelle parrocchie, dove solo alcuni piccoli gruppi riescono a creare relazioni profonde, mentre molti cristiani, pur vivendo nello stesso palazzo e frequentando la stessa chiesa, non si conoscono e si ignorano, nonostante le abitudinarie strette di mano al segno della pace.

Le parole di papa Francesco mostrano invece l’alternativa possibile, che già molti vivono, la vera rivoluzione quotidiana operata da chi crede in Gesù di Nazareth: costruire ponti e abbattere le barriere, creare comunione e fiducia, aprire canali di comunicazione e spazi di incontro. È un’operazione di resistenza, è l’ostinarsi a vedere nell’altro un dono, un arricchimento, un fratello o una sorella. È credere a tutti i costi che non siamo fatti per l’indifferenza, per la guerra, per la paura, ma per la pace e la frateità, per un mondo in cui ognuno si senta accolto e si trovi a suo agio. Dove ogni persona sia trattata con rispetto e dignità e nessuno sia escluso o scartato.

Certamente un’operazione non facile, visto che viviamo in un sistema che crede più nell’accumulare e vendere armi e nell’erigere barriere che nel costruire ponti, ma possibile se ci lasciamo guidare dall’esempio di Gesù che è venuto non per dominare ma per servire, non per escludere ma per accogliere, non per attendere chi vuole andare da lui ma per uscire in cerca di chi è lontano.

Possono sembrare parole retoriche in questi tempi di accese discussioni sull’accoglienza, sulla crisi dell’Unione europea, sul moltiplicarsi di barriere, sull’efficacia o sull’effetto droga della comunicazione digitale, e così via. È vero: non bastano le pie esortazioni, occorre agire. Papa Francesco lo fa e i suoi gesti parlano per lui. Migliaia di missionari e di volontari lo fanno. Lo fanno anche i bambini, almeno quelli non ancora «educati» dai genitori, che sanno dare un sorriso anche agli estranei. Facciamolo anche noi. Diventiamo un po’ bambini.




Giugno 2016 sommario


Create ponti

di Gigi Anataloni | Ai lettori/editoriale               pdf | classic

Cari Missionari

Risponde il Direttore | Dai lettori               pdf | classic

I Missionari della Consolata testimoni di Misericordia e Con-sol-azione

a cura di Gigi Anataloni | Dossier               pdf | classic


Articoli

America Latina, Indigeni/Indios: Una vita a buon mercato

di Paolo Moiola | Articolo               pdf | classic

Ecuador (2): L’Alunno e il Professore

di Paolo Moiola | Articolo                pdf | classic

Italia – Congo RD, John Mpaliza: Lunga marcia per la pace

di Marco Bello | Articolo                pdf | classic

Cina, film e religione: La storia aiuta il diaologo

di Enrico Casale | Articolo               pdf | classic

Francia, le Comunità dell’Arca: Il diritto di essere deboli

di Chiara Selvatici | Articolo                pdf | classic

Timor Est: Piccoli Imprenditori crescono

di Paolo Tosatti (China Files) | Articolo                pdf | classic

Brasile: L’aquila sul tetto, Il Kilombo do Kioiô

di Pietro Parcelli | Articolo               pdf | classic

Marocco (1): Oltre l’Atlante

di Paolo Bertezzolo | Articolo                pdf | classic


Rubriche

Dianra: missione in cammino, e altre notizie

a cura di Sergio Frassetto | Chiesa nel mondo                pdf

8. Il Giubileo snaturato

di Paolo Farinella | Misericordia voglio                pdf | classic

Etiopia, Swaziland, Brasile: Siccità, quest’anno è diverso

di Chiara Giovetti | Cooperando                pdf | classic

Italia: Moschee negate (Libertà religiosa e luoghi di culto)

di Alessandro Ferrari | Libertà religiosa (34)                pdf | classic

Beato Allamano: La Consolata Madonna missionaria

a cura di Sergio Frassetto | Allamano (3)                pdf | classic

Sacco e Vanzetti

di Mario Bandera | I perdenti /15                pdf | classic

Gabo, il realismo magico di un premio Nobel

di Gianni Minà | Persone che conosco                pdf | classic

 




Misericordia e


I Missionari della Consolata, testimoni di Misericordia e Con•sol•azione. Racconti di esperienze vive da Taiwan, dall’Angola nelle immense periferie della capitale, dalla diocesi di Noto in Sicilia e dal Venezuela a Carapita e Tucupita.


1. Nell’Anno della Misericordia e nel mese della Consolata

Consolatori in azione

Protagonisti di queste pagine non sono i soliti missionari di origine italiana, ma una nuova generazione di giovani africani, latinoamericani e asiatici. Sono loro i nuovi servi della «consolazione» realizzata tramite opere di misericordia concrete e senza confini.

La foto di apertura di questo dossier è stata scattata nel 2015 in Kenya, nella missione di Wamba. Al centro, dietro tutti e più alto di tutti, c’è padre Mathews Owuor Odhiambo; attorno a lui donne samburu e turkana felici di posare con giovani cinesi di Taiwan. Un avvenimento speciale questo, perché non riguarda i soliti turisti dall’Asia, ma un gruppo missionario che si sta formando a Hsinchu, vicino a Taipei, attorno a due missionari della Consolata, un kenyano (padre Mathews appunto) e uno spagnolo, che dal 2014 studiano cinese per iniziare una nuova presenza missionaria a Taiwan.

Non è certo una notizia da prima pagina, ma è significativa di una nuova realtà missionaria che sta crescendo. Una realtà che chiede occhi nuovi per essere vista. Io stesso mi sono reso conto della novità proprio solo alla conclusione del lavoro redazionale su queste pagine. La mano di Dio misericordioso continua a scrivere nella storia degli uomini con penne e matite nuove: i giovani delle Chiese del Sud del mondo.

Quanto vi offriamo è in parte già stato pubblicato in «Da Casa Madre», una rivista intea del nostro Istituto, ed è frutto anche dell’instancabile peregrinare del superiore generale, padre Stefano Camerlengo, che, accompagnato dai superiori locali, in questi anni ha quasi fatto il giro del mondo per visitare tutti i suoi missionari dall’Argentina alla Mongolia, dal Sudafrica all’Inghilterra, dal Canada a Taiwan, su è giù attraverso ventitré nazioni diverse.

Da queste pagine esce un messaggio di speranza e di vitalità senza pari, antidoto allo scoraggiamento che prende un po’ noi cristiani europei che stiamo assistendo alla scristianizzazione del nostro continente. Il titolo Con•sol•azione l’abbiamo rubato ai ragazzi di una nostra scuola secondaria in Colombia dedicata alla Consolata. Per la festa della loro scuola hanno scelto, cantato e ballato lo slogan «Con sol acion» (con sola azione). Un bel modo per dire che la fede non è teoria ma carità in azione nello stile «consolatino».

Gigi Anataloni


2. Taiwan: dire «Consolata» in cinese

Cambiare il nome ma non il cuore

L’apertura di una nuova presenza missionaria a Taiwan ha portato una grossa novità per il nostro Istituto: per la prima volta1, infatti, abbiamo dovuto rinunciare a presentarci ufficialmente come Missionari della Consolata, ovverosia con il nome della nostra patrona così com’è, senza traduzioni. I nostri primi missionari a Taiwan, sul posto dal 2014 e ancora alle prese con il lungo tirocinio dell’apprendimento del cinese, ci spiegano il perché.

Per esistere come congregazione religiosa a Taiwan è necessario assumere un nome che si possa scrivere mediante gli ideogrammi, perché su tutti i documenti ufficiali esso viene riportato in caratteri cinesi. Due opzioni sono possibili:

  • si individua un nome che conservi il suono originale «Consolata»;
  • si esprime «Consolata» con una parola cinese che ne rispetti il significato.

Il vescovo della diocesi di Hsinchu, dove ci troviamo, ci ha presentato sin da subito la necessità di trovare un nome cinese per il nostro Istituto, ma ci ha lasciati liberi di decidere su quale delle due vie seguire.

Siccome il fondatore, il beato Giuseppe Allamano, desiderava che il titolo della nostra Madre venisse conservato inalterato in tutte le lingue (così è stato fatto in tutti i paesi in cui siamo presenti), abbiamo subito pensato che la prima opzione fosse la più adatta e abbiamo chiesto a varie persone come si potesse rendere il suono «Consolata» con i caratteri cinesi. Qui la prima grande sorpresa: siccome la lingua cinese non è fonetica, non è possibile riprodurre fedelmente per iscritto il suono «Consolata», ma soltanto trovare un termine che si pronunci in modo simile: cioè «Cansulata» o «Consoulata».

La ragione principale che ci ha portati a propendere per la seconda opzione è stata però di natura pastorale: ci siamo accorti, parlando con i fedeli che conoscono l’inglese, che quando il nostro Istituto veniva presentato, la gente non sentiva nemmeno il termine «Consolata», che per i cinesi non aveva alcun significato. La scrittura cinese contiene in ogni carattere il senso di ciò che viene espresso, per cui quando le persone leggono un nome, istintivamente vi cercano un significato e, se non lo trovano, passano semplicemente oltre. La lingua cinese, poi, è il grande principio di unità di tutto un popolo, perché si scrive in un unico modo pur venendo pronunciata differentemente a seconda dei vari dialetti locali. Se avessimo scelto un ideogramma che nel cinese classico riproduce il suono «Consolata», quando andassimo nel Sud di Taiwan, dove si parla il Taiwanese, potremmo trovarlo pronunciato in un modo diverso, che magari non ricorderebbe nemmeno da lontano il suono del nome della nostra Madre.

Dopo esserci consultati con il vescovo, con le nostre insegnati di cinese, con preti locali e missionari stranieri, ci siamo seduti attorno a un tavolo per cercare di disceere quale fosse la vera fedeltà al desiderio del fondatore e alla tradizione del nostro Istituto: mantenere un nome privo di significato per la gente e che sarebbe stato soggetto a varie storpiature o trovare un nome che esprimesse in modo comprensibile la consolazione che Maria ha ricevuto da Dio, cioè suo figlio Gesù, e che, tramite i suoi missionari, offre al mondo?

Ci è sembrato che il contesto in cui ci trovavamo ci conducesse verso la seconda opzione. Abbiamo quindi presentato i frutti del nostro discernimento ai superiori a Roma che hanno approvato e dato il via libera affinché assumessimo il nome cinese che meglio esprime chi siamo nella lingua e nella cultura locali.

Siamo contenti di avere un nome cinese, ? ??? Shan Mu Shen Wei, che letteralmente significa «Santa Madre della Consolazione divina» e che rende il nostro Istituto un po’ più vicino a questa gente e a questo mondo.

Eugenio Boatella e Mathews Odhiambo

Note

  1. 1. Già una volta l’Istituto aveva dovuto rinunciare al nome di «Consolata». Lo aveva fatto nel 1971 quando, per rientrare in Etiopia (da cui era stato cacciato nel 1942 con le forze coloniali italiane), aveva dovuto mandare i suoi come «Missionari di Fatima».

Taiwan, perché?

La decisione di aprire la missione di Taiwan è frutto del discernimento congiunto della Direzione Generale Imc e dei missionari della Consolata presenti nel continente asiatico.

Le ragioni che hanno portato a questa scelta sono molteplici. Innanzitutto, il desiderio da tempo coltivato di avvicinarci al mondo cinese, alla sua cultura e al suo profondo universo spirituale. Taiwan è oggi un terreno estremamente fertile per crescere nella dimensione missionaria del dialogo interreligioso. In secondo luogo, ha influito sulla nostra scelta la vicinanza alle altre due nostre presenze, Corea del Sud e Mongolia, che permette ai nostri missionari di lavorare in una prospettiva continentale, riunendosi per incontri formativi o di rinnovamento spirituale e per valutare e pianificare insieme la missione. Infine, alcune altre caratteristiche che ci hanno convinto della bontà di questa opzione: la lingua ufficiale dell’isola, ovvero il cinese mandarino, che è anche l’idioma più parlato nella Cina continentale e nel mondo; l’accoglienza da parte del governo e della chiesa locale, che semplifica le pratiche burocratiche per stabilire una comunità sul posto; il grande bisogno di personale della chiesa stessa dopo l’esaurimento del boom dovuto alla grande immissione di personale religioso che, fuggendo dal continente, trovava rifugio sull’isola negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione cinese.

Oggi la chiesa locale non ha personale autoctono sufficiente a garantire l’assistenza pastorale ai pochi cattolici dell’isola (sono meno di trecentomila persone su una popolazione complessiva di circa 23 milioni di abitanti), ma grazie alla presenza di tanti missionari e missionarie provenienti da altre parti del mondo può portare avanti il lavoro di evangelizzazione ad gentes e di promozione sociale di qualità e con autorevolezza.

È il caso della diocesi di Hsinchu, dove i nostri primi missionari sono arrivati nel settembre 2014 e dove sono tutt’oggi totalmente impegnati nello studio della lingua cinese. A poca distanza dalla capitale Taipei, Hsinchu è una cittadina fiorita intorno a grandi industrie dell’informatica e laboratori manifatturieri. Molti dei prodotti «made in Taiwan» passano per questa località, che è anche sede di uno dei più importanti Politecnici del paese. Grande è la presenza di migranti, provenienti in particolare da Filippine, Thailandia e Vietnam. Molti di loro sono cattolici e vengono assistiti spiritualmente e pastoralmente dall’attiva rete ecclesiale organizzata dal vescovo locale, mons. John Baptist Lee, ben contento di aggiungere alla sua squadra anche una piccola comunità missionaria come la nostra. Ai padri Eugenio Boatella e
Mathews Odhiambo, a Hsinchu sin dagli inizi della nostra missione, si aggiungeranno ben presto altri due missionari che stanno completando il loro periodo di preparazione alla missione in Asia.

Ugo Pozzoli


3. Angola: un paese che stenta a ritrovarsi, tuttavia… in cammino

Rinascere dopo 500 anni

Un passato che non cancella le sue tracce; un paese dilaniato dalla guerra che stenta a riconoscersi; un’identità nascosta che si affaccia con timidezza: vi presentiamo l’Angola, il paese dove i missionari della Consolata hanno iniziato una nuova avventura nel 2014.

Nel 1961 l’Angola inizia il suo difficile cammino verso l’indipendenza dal Portogallo con rivendicazioni intee di carattere anti coloniale che provocano l’instaurazione di un regime repressivo su tutto il territorio da parte del governo di Lisbona. Nel 1975 finalmente ottiene l’indipendenza, ma una feroce guerra civile l’attende dietro l’angolo.

Due sono le fazioni contrapposte: l’esercito governativo del Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (Mpla) e le forze ribelli dell’Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (Unita). L’Mpla da sempre appartenente al blocco dell’allora Unione sovietica e alleato di Cuba, l’Unita appoggiata dalle maggiori nazioni del mondo industrializzato occidentale (Usa in testa) e dal Sudafrica.

Solo nel 2002 la corsa al controllo delle immense ricchezze del paese ha termine lasciandolo in ginocchio. I giochi di potere fanno il loro corso con una divisione «equa» del governo e della gestione delle risorse: all’Unita il controllo sul mercato dei diamanti, all’Mpla l’egemonia petrolifera.

Luanda, specchio del paese

Petrolio e diamanti continuano a essere ancora oggi l’unica attrattiva economica per l’estero. La stratificazione sociale è solo un vago ricordo: oggi si vive nelle favelas o negli occidentalissimi quartieri residenziali di Luanda. Il colosso Cina sta gettando le sue reti: l’Angola è il primo esportatore di petrolio in quel paese. Le multinazionali fanno da padrone a braccetto con un governo ancora fortemente corrotto. Mentre il flusso di denaro continua a scorrere «dal basso verso l’alto», sfidando ogni legge fisica, circa l’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.

La guerra civile ha prodotto una crescita abnorme delle periferie. Quelle di Luanda sono uno specchio dell’evoluzione del paese negli ultimi anni: più è cresciuta l’economia e più si è accentuato il divario tra le classi sociali. Nelle periferie vive la maggioranza della popolazione, ma le condizioni di vita sono disastrose: servizi sanitari e scuole di tutti i livelli insufficienti, mancanza di acqua potabile, fognature inesistenti, energia elettrica incostante,  trasporti  pubblici  disastrosi,  disoccupazione, assenza di spazi per lo sport e il divertimento, delinquenza, spazzatura accumulata… e la lista potrebbe continuare.

Luanda è la capitale politica dell’Angola e tutte le istituzioni dello stato hanno qui le loro sedi. Il parlamento, il palazzo presidenziale e i vari ministeri sono tutti nel «centro» della città (gli antichi rioni attorno alla baia), dove hanno sede anche le principali imprese e una miriade di uffici amministrativi e commerciali. A Luanda funzionano le uniche industrie del paese. Fino al 2002, anno della fine della guerra civile, queste si limitavano ad attività legate al petrolio, alla trasformazione di prodotti agricoli, bevande, cemento, costruzioni civili, meccanica. In questi ultimi anni si sono moltiplicati gli investitori (esteri, ma anche nazionali) che stanno mutando il volto industriale della città. A fare da padrone è il settore petrolifero, ma anche quello dei diamanti, al secondo posto nelle esportazioni, stimola investimenti e occupazione: esiste una fabbrica di taglio dei diamanti e un’altra è in costruzione.

Luanda è anche la capitale culturale: vi funziona l’Università statale, intitolata ad Agostinho Neto, primo presidente. Negli ultimi anni sono state aperte varie università private, tra cui spicca quella cattolica. I principali assi stradali partono da Luanda, e la collegano alle province del paese. In questi ultimi tempi, grazie a crediti e investimenti stranieri, soprattutto cinesi, è stato fatto un notevole sforzo per rimettere a nuovo la rete stradale. La popolazione di Luanda non ha smesso di crescere e in 30 anni si è moltiplicata di 9-10 volte.

L’arte di arrangiarsi

Chi si dedica al commercio spesso non ha un locale adatto allo scopo, così, spesso sacrifica una parte della propria abitazione per ricavare un esiguo negozio, o utilizza una struttura precaria nella propria via di fronte a casa. Ci lavora il capofamiglia, ma anche i figli danno una mano. Il problema maggiore è il finanziamento necessario per acquisire la merce; il settore informale non ha accesso al credito bancario, e la gestione dei ricavi dell’attività è molto approssimativa.

Nei quartieri poveri si comincia a lavorare già a 11-12 anni, e il luogo di lavoro più frequente è la strada. Sono varie le ragioni che spingono un (o una) adolescente verso un lavoro di strada: necessità di pagarsi le spese per la scuola (libri e quadei) e la relativa retta mensile, quando i genitori non ne hanno i mezzi; comprare i capi di abbigliamento, secondo la moda del momento; comprare telefonino e scheda di ricarica; aiutare un fratello o una sorella più piccoli, o i genitori se per malattia non possono lavorare. Un lavoro tipicamente femminile è la zunga, cioè la vendita ambulante, trasportando sulla testa, in una bacinella o in una scatola i propri prodotti. Le zungueiras percorrono ogni giorno chilometri e chilometri. I ragazzi si stanno adattando a questo lavoro: quando escono da scuola ricevono della merce da un negoziante e percorrono le vie o le fermate dei taxi, e alla sera dividono il guadagno con il fornitore.

Sono migliaia le persone che passano, a piedi o nei taxi collettivi, e c’è possibilità di vendere loro l’acqua fresca, in sacchetti di plastica, o una bibita ghiacciata, o una salviettina agli autisti di taxi o di camion, per asciugarsi il sudore e pulirsi dalla polvere che sovrasta perennemente le strade di Kilamba, una delle periferie di Luanda. Fuori dai magazzini ci sono altri lavoratori: i roboteiros, i conducenti di grosse carriole di legno, con ruota recuperata da una macchina, che trasportano le scatole e i sacchi di prodotti che la gente ha comprato all’ingrosso per poi rivenderli al dettaglio nei loro negozietti.

Ci sono anche giovani che scaricano la merce dai camion e la ripongono nei magazzini. Al mercato s’incontrano molti ragazzi occupati: c’è chi segue i potenziali acquirenti per vendere sacchetti di tutti i tipi in cui riporre le compere; ci sono le ragazzine che aiutano la mamma a preparare piatti a buon mercato e altre che passano tra le bancarelle proponendo uova sode o gelati; ci sono i kinguila, i cambiavalute, perché il dollaro continua a circolare insieme alla moneta locale. Ci sono i matoxeiros, una turbolenta categoria di mediatori tra il cliente e il venditore; ci sono i motoqueiros, che foiscono il servizio di moto-taxi. Nessuno rimane con le mani in mano, e la sera tutti hanno qualcosa in tasca.

Una Chiesa confusa

La Chiesa cattolica, presente in Angola da più di cinquecento anni, è considerata un’istituzione prestigiosa e mantiene rapporti molto stretti con le autorità governative. Troppo stretti, secondo alcuni osservatori. Sembra che alla vigilia delle ultime elezioni, i politici al potere abbiano voluto ingraziarsi i vescovi locali, offrendo loro generosi regali. «Ci hanno donato delle automobili», ammette senza imbarazzo un vescovo che abbiamo incontrato. «Le abbiamo accettate, dopo avee discusso tra noi, precisando a chiare lettere che non avremmo mai rinunciato alla nostra incondizionata libertà di parola». Decisione «inopportuna e rischiosa», mormorano a denti stretti alcuni religiosi.

Gli equilibrismi diplomatici delle alte gerarchie ecclesiali, chiamate necessariamente a confrontarsi e a collaborare con lo stato, non oscurano la straordinaria opera sociale e pastorale svolta dalla Chiesa cattolica in Angola. Dalle sterminate bidonville della capitale fino ai più isolati villaggi dell’interno, centinaia di suore e sacerdoti portano avanti ogni giorno una battaglia silenziosa e risoluta in favore dei poveri.

«Ci sforziamo di spargere semi di speranza in una società sempre più spietata che non concede spazio agli ultimi», spiega un missionario, impegnato da anni accanto ai giovani angolani. «Il 60% della popolazione ha meno di 15 anni», ricorda. «Le nuove generazioni sono però attratte dall’illusione dei soldi facili, dal miraggio del consumismo sfrenato, dalle vetrine lucenti delle boutique alla moda. L’arricchimento materiale dell’Angola si sta accompagnando a un drammatico impoverimento morale. Dobbiamo aiutare i giovani a percorrere una nuova strada».

Oggi i missionari gestiscono innumerevoli scuole, spazi ricreativi, centri di formazione, oratori, rifugi per ragazzi di strada. «Sono fragili scialuppe di salvataggio in un mare tempestoso», avverte un missionario. «La guerra ha distrutto molte famiglie, disperso interi villaggi, gonfiato le periferie di deslocados, gli sfollati delle campagne… La gente fa sempre più fatica a tirare avanti». La criminalità è diffusissima, furti e rapine sono il pane quotidiano delle gang giovanili.

«Terra di Maria»

I grandi navigatori ed esploratori portoghesi, prima di allontanarsi dalla patria, promettevano alla Vergine di diffondere il suo culto tra tutti i popoli con i quali avrebbero stabilito contatti. Così, quando i primi portoghesi, nel sec. XV, misero piede nel territorio del Regno indigeno del Congo-Angola, eressero numerose chiese e cappelle, sia pure molto modeste.

L’Angola venne chiamata «Terra di Maria» fin dai tempi in cui i primi missionari portoghesi, qui arrivati il 29 aprile 1491, costruirono subito una chiesetta intitolata a Nossa Senhora Santa Maria. Oggi in Angola si contano non meno di 100 chiese e cappelle dedicate alla Madre di Dio. Tra le principali ricordiamo: il santuario Nostra Signora di Fatima, inaugurato nella capitale Luanda dai Cappuccini nel dicembre 1964, e Nostra Signora di Nazaré, sempre a Luanda; il santuario Nostra Signora da Muxima e Madonna degli Angeli nella Provincia di Bengo; al centro del paese, a Nova Lisboa, si trova un altro santuario dedicato a Nostra Signora di Fatima; e al Sud, a Sá da Bandeira, il Santuario della Montagna (do Monte). E ben nove delle undici cattedrali del paese sono oggi intitolate alla Madonna: a Luanda, Huambo, Malanje, Luso, Uije, Benguela, Saurino, Novo Redondo e Njiva.

È da notare che tutti questi edifici sacri venivano costruiti per provvedere all’aumento continuo dei cristiani che già verso la fine del sec. XV erano più di 20.000. Oggi i cattolici rappresentano il 55% della popolazione.

I cristiani qui chiamano da sempre affettuosamente la Vergine Mama Nzambi (Madre di Dio) e incontrandosi erano soliti scambiarsi il saluto con le parole: «Siano lodati il SS. Sacramento e la purissima Concezione della SS. Vergine!».

In Angola il Vangelo è arrivato 500 anni fa, anche se non è quasi mai andato oltre la capitale, la linea costiera e alcuni centri lungo il fiume Kwanza, toccando quasi solo portoghesi e i cosiddetti assimilados, mentre la stragrande maggioranza della popolazione non ha mai beneficiato del suo annuncio esplicito. Solo nella seconda metà del XIX secolo, con l’arrivo di alcune congregazioni missionarie (tra cui gli Spiritani), c’è stato uno sforzo serio di evangelizzazione, specialmente nelle zone rurali.

Consolata in Angola: una storia con futuro

Dopo molti anni, i missionari della Consolata hanno realizzato il sogno del loro fondatore, il beato Giuseppe Allamano: creare missioni in Angola. Nel 1920, per mancanza di personale, dovette rifiutare l’invito che al riguardo gli era stato fatto. Finalmente il Capitolo Generale del 2005 ha optato per l’apertura nel secondo paese lusofono in Africa, dopo il Mozambico in cui siamo dalla fine del 1925. In un primo momento si era pensato alla Guinea Bissau, dove le missionarie della Consolata già lavorano, ma poi si è scelta l’Angola.

Gli studi per l’apertura della missione in Angola sono iniziati nel 2009. Si è posta l’attenzione su tre territori differenti: la diocesi di Namibe, nel Sud del paese, regione povera e con pochi missionari; l’antica diocesi di Mbanza-Congo, al Nord, anche questa bisognosa di personale missionario, e la periferia urbana intorno alla capitale Luanda, nelle diocesi appena create di Caxito e Viana, dove si concentrano circa cinque milioni di persone, in condizioni che reclamano una presenza di consolazione. Motivi vari, soprattutto il fatto che circa la metà della popolazione angolana, a causa della lunga guerra civile che ha lacerato il paese, si concentra a Luanda e nella sua immensa periferia, hanno portato alla scelta della diocesi di Viana, con l’apertura della missione il primo agosto 2014 nella zona in cui oggi c’è la parrocchia di sant’Agostino di Kapalanga.

Il primo gruppo è formato da tre giovani missionari: i padri  Silvestre Oluoch, keniano, Fredy Gòmez Pèrez, colombiano e Dani Romero Gonzales, venezuelano.

Un’accoglienza generosa

I padri Fredy, Silvestre e Dani ci raccontano che fin dal loro arrivo, provenienti dal Mozambico, sono stati accolti molto bene. Vivono in una casa affittata come la maggior parte delle famiglie della zona. A piedi o con i mezzi pubblici, i tre missionari percorrono ogni giorno l’immenso quartiere di Kapalanga per l’assistenza religiosa e per conoscere i loro fedeli. Qui accompagnano la comunità cristiana nel cammino di fede e di speranza, con una presenza di consolazione soprattutto tra i più poveri. Poco per volta si sono fatti conoscere dai cattolici del quartiere e prestano assistenza pastorale a sette cappelle sparse nel territorio.

Dopo un anno di lavoro pastorale e, vedendo la maturità della comunità cristiana e il buon lavoro fatto dai nuovi missionari, il vescovo di Viana, ha deciso di creare la nuova parrocchia di sant’Agostino di Kapalanga.

I missionari mettono in evidenza lo sforzo e la collaborazione della comunità cristiana locale: il suo lavoro, la generosità e affetto che ha dimostrato con i missionari. Tutto ciò che si è realizzato, lo si è fatto con contributi locali: la sistemazione del terreno della parrocchia, la legalizzazione del terreno delle cappelle e persino la costruzione del salone-chiesa che ora è terminato. La situazione della nuova parrocchia è buona. La sua maturità e crescita sono possibili perché i fedeli sanno condividere i loro beni. Per il prossimo anno i cristiani si mobiliteranno per raccogliere fondi per la costruzione della casa parrocchiale e l’acquisto di un’auto a servizio dei missionari.

Quanto alle preoccupazioni e sfide da affrontare, i tre confratelli hanno messo in risalto: migliorare la pastorale di insieme con un obiettivo chiaro; aumentare comunione e corresponsabilità tra tutte le forse pastorali e i movimenti della parrocchia.

Nuove aperture

Nel dicembre 2015 con padre Marco Marini, abbiamo fatto la prima visita ufficiale nel paese. Oltre al contatto con i missionari, alla presenza alle celebrazioni liturgiche dell’Avvento, della Novena e di Natale, sempre molto partecipate e animate dai fedeli, abbiamo avuto l’opportunità di visitare altre diocesi ed entrare in contatto con vescovi e missionari. L’obiettivo era quello di identificare i luoghi per iniziare due nuove presenze della Consolata in Angola da aprirsi nel 2016. Si sono scelte due diocesi: quella di Caxito, non molto distante da Luanda, e la diocesi di Luena, nella provincia di Moxico, a più di 1.250 Km dalla capitale. Luena si trova nell’estremo Est dell’Angola, confina con il Congo e lo Zambia. Con una estensione di 223.023 chilometri quadrati, due volte e mezza il territorio del Portogallo, e appena 750.000 abitanti, è la diocesi più grande dell’Angola. Vi sono poco più di una ventina di sacerdoti.

Sono stati giorni di intenso lavoro, tra ascolto, riflessione e condivisione; come frutto di questo lavoro sono state fatte delle scelte e dati orientamenti che potranno illuminare la presenza missionaria della Consolata in questo paese. La nostra breve presenza in Angola è una storia che potrà avere futuro.

Stefano Camerlengo e Diamantino Guapo Antunes
Adattato da «Da Casa Madre», 03 / Marzo 2016


4. Italia: gli istituti missionari a favore dei migranti

Progetto Lampedusa

La misericordia spinge i missionari a cercare nuove strade anche in Italia. Accanto al ben noto padre Alex Zanotelli, impegnato nei quartieri caldi di Napoli, ci sono tanti altri uomini e donne che stanno rispondendo all’invito di Cristo «vai e anche tu fatti prossimo». In Sicilia sta nascendo un’iniziativa di servizio condiviso che vede coinvolti due missionari e due missionarie di quattro Istituti diversi.

Il nome Lampedusa evoca senza dubbio, oltre all’isola italiana più vicina all’Africa che all’Italia stessa, drammi di cui ancora oggi purtroppo siamo testimoni: genti in fuga dai propri paesi in guerra oppure dall’estrema povertà che partono con la speranza di trovare serenità e vita migliore al di là del mare. Spesso questa speranza muore con loro inghiottita dalle acque. Quando riesce invece a mettere un piede all’asciutto, è ancora segnata da un percorso difficile che incontra muri, diffidenze, paure, indifferenza, accoglienza negata.

A partire da questa situazione è nato il «progetto Lampedusa»: la Conferenza degli Istituti missionari in Italia (Cimi), proprio per la fedeltà al carisma missionario ad gentes che la caratterizza, ha desiderato offrire alla Chiesa italiana il proprio contributo a servizio dei migranti costituendo una comunità intercongregazionale, maschile e femminile, in Sicilia. È un progetto che mira, più che ad aprire un centro di prima accoglienza, a offrire percorsi di formazione e sostegno, mettendo assieme, ciascun Istituto, la propria ricchezza ed esperienza nel campo della mondialità e della intercultura.

È così che a novembre 2015, suor Giovanna Minardi, missionaria dell’Immacolata, e io, missionario della Consolata, siamo partiti per la Sicilia, inviati dalla Cimi, per conoscere quanto già si sta facendo a favore dei migranti, per pensare un progetto che possa inserirsi nel contesto e rispondere alle necessità e richieste del territorio, e per trovare una diocesi disponibile a ricevere la nascente comunità. Il primo mese è stato quindi dedicato soprattutto all’incontro e al dialogo con alcune realtà della chiesa siciliana e con organismi preposti al servizio ai migranti, quali Caritas Migrantes e Centri diocesani missionari. Questo ci ha portati a visitare le diocesi di Palermo, Ragusa, Agrigento, Messina, Catania e Noto.

La Sicilia non è solo terra di sbarchi, già di per sé un problema grande e causa di molte sofferenze, ma anche di tanti migranti che si fermano e in qualche modo cercano una sistemazione lavorativa. È il caso del ragusano, nella piana di Vittoria e Acate, dove, sotto un manto di serre che producono la maggior parte degli ortaggi che troviamo sulle nostre tavole italiane, vive una popolazione di oltre 15.000 immigrati dedita al lavoro agricolo. Un lavoro stagionale per lo più sottopagato, che ha il sapore dello sfruttamento; immigrati che vivono in abitazioni fatiscenti e malsane; situazioni di precarietà a cui si affianca spesso, soprattutto verso le donne, uno sfruttamento che ha poco del lavorativo.

In questo percorso di conoscenza della realtà, ci siamo sentiti particolarmente benvenuti nella diocesi di Noto, periferia estrema della Sicilia e dell’Italia, tanto da portarci ad approfondire il dialogo con il vescovo che ha dato piena disponibilità ad accoglierci. Alcuni momenti di quell’incontro sono sembrati molto significativi, quasi una conferma di essere giunti al momento giusto, nel luogo giusto, giudati non solo dal nostro impegno, ma dallo Spirito che soffia dove vuole!

Il nostro primo appuntamento con il direttore della Caritas di Noto, il professor Maurilio Assenza, laico e totalmente volontario in questo servizio, ha scritto al cardinal Montenegro, vescovo di Agrigento: «Sì, continuiamo con segni anche belli, tra cui l’incontro con padre Ganni e suor Giovanna, missionari venuti a Modica nel loro giro siciliano per capire dove e come avviare una comunità missionaria intercongregazionale proprio mentre si apriva la Porta santa della Casa don Puglisi (casa della carità, non chiesa né santuario, ma casa che ospita mamme e figli in situazioni disagiate e tra queste anche alcune famiglie di immigrati, nda). Trovando sintonie e pensando a una collocazione in diocesi per un servizio di animazione che può allargarsi ad altre parti della Sicilia, abbiamo avuto un colloquio con il vescovo che ha accolto la proposta e affidato i passi successivi al vicario generale… Mi viene da pensare all’antica idea di un centro per la mondialità e la pace che potrebbe in qualche modo realizzarsi».

Il giorno in cui abbiamo incontrato il vescovo della diocesi di Noto, mons. Antonio Staglianò, che ha manifestato tutto il suo entusiasmo all’idea che la comunità intercongregazionale potesse mettere radici nella sua diocesi, la Chiesa celebrava la memoria di santa Giovanna Saverio Cabrini, patrona dei migranti.

Il cammino della comunità, dopo la piena approvazione della Cimi, si fa concreto. Innanzitutto con l’arrivo di altri due missionari a completare la comunità: padre Vittorio Bonfanti, dei missionari d’Africa, con venti anni di missione in Mali, terra da cui provengono un buon numero di migranti, e suor Raquel Soria, missionaria della Consolata argentina, che colora di inteazionalità la comunità nascente. In secondo luogo con lo stabilirsi a Modica in un appartamento attiguo al santuario della città, messoci a disposizione dalla diocesi.

Chiamati a portare il nostro contributo di conoscenza dell’altro, delle culture e del mondo per sensibilizzare all’accoglienza, ci siamo ritrovati a testimoniare una straordinaria accoglienza ricevuta. E questo ci fa ben sperare! La nostra comunità si inserisce in un contesto fertile, già capace di concreti gesti di solidarietà, come l’adesione al progetto Caritas della Cei, «Rifugiato a casa mia». A partire da questa realtà incontrata la comunità si inserisce suggerendo cammini di conoscenza dell’altro, diverso per cultura, lingua, nazione e fede, attingendo dall’esperienza maturata in anni di vita vissuti tra i popoli del mondo.

Sta di fatto che tutti gli Istituti missionari presenti in Italia si stanno coinvolgendo in prima persona, rispondendo concretamente a questa periferia esistenziale che ha volti e nomi di tanti fratelli e sorelle migranti che affidano le loro speranze a un viaggio in cui giocano la vita, viaggio per cui le acque del mare non sono che il primo grande ostacolo.

Gianni Treglia


5. Venezuela: Per costruire frateità

Nella «selva» di Caracas e del Delta (dell’Orinoco)

Da quasi dieci anni vagabondo per il mondo missionario. E ogni volta che too da un viaggio mi sembra di sapee meno di prima. Ho meno certezze e più dubbi. Ma è forse per questo
motivo che amo girare: perché il mondo sa ancora sorprendermi e meravigliarmi. Con questo spirito sono andato e tornato dal Venezuela un paese affascinante e contraddittorio.

Il Venezuela, una nazione benedetta da Dio con incalcolabili risorse naturali e umane, vive, oggi, un momento molto difficile della sua storia.

Nel 1999, il popolo venezuelano, stanco della situazione politica, aveva intravisto in Hugo Rafael Chávez la soluzione alla corruzione e al clientelismo, quindi la speranza del cambiamento. Oggi però, morto Chávez, con la politica in stallo tra parlamento e presidente Maduro e la gravissima crisi economica, la reale situazione del Venezuela è complessa, difficile e precaria.

La Conferenza episcopale venezuelana ha denunciato i problemi senza paura. In diverse occasioni ha manifestato la sua opposizione «all’usura, alla corruzione e alla speculazione». I vescovi hanno messo in guardia sullo spreco, sulle spese fatte in modo sfrenato: «Ci preoccupa che molte persone, in un impeto di euforia, ritengono che con l’acquisto di alcuni elettrodomestici abbiano risolto i principali problemi che li affliggono. È anche preoccupante che questo clima di euforia possa degenerare in violenza e scontri tra le persone, cosa che diventa difficile da controllare, e tutti dovremmo rifiutare». Essi ricordano continuamente che «la situazione economica del paese deve essere affrontata in primo luogo dalle autorità pubbliche in dialogo con gli uomini d’affari, commercianti e istituzioni. È necessario creare un clima di fiducia che consenta la riattivazione della produzione e dello sviluppo socio economico a vantaggio della comunità, in particolare dei più poveri e vulnerabili».

La presenza dei missionari della Consolata

La mia visita canonica in Venezuela è stata caratterizzata dalla parola chiave «frateità». Un grande valore da riscoprire e rivalorizzare. Ho incontrato persone felici di ciò che sono, missionari giovani e generosi che, pur nelle innumerevoli difficoltà quotidiane, sanno trovare e vivere la gioia dell’incontro, la forza dello stare assieme costruendo qualche cosa di buono. I sedici missionari (venezuelani, italiani e kenyani) sono disponibili, impegnati, innamorati della loro missione e della gente con cui la realizzano. La gente è aperta e molto disponibile e accogliente, ci sono persone che pur vivendo in città sanno mettersi a disposizione per la missione pagando anche di persona.

A Caracas i nostri missionari insieme ad altri missionari e missionarie di altre congregazioni hanno aperto una casa di accoglienza per persone senza casa, gente della strada che può qui trovare riparo e sostegno e, se disponibile, anche aiuto per rilanciarsi nella vita.

Carapita

A Caracas, capitale del Venezuela, abbiamo una parrocchia situata nella periferia, abitata da almeno 150-200.000 persone che vivono in casette di fortuna incollate sulle colline. È un agglomerato di problemi, violenza, droga e malavita, ma anche di gente per bene che si guadagna il pane con un duro lavoro quotidiano e che poi, alla sera, si mette ancora in coda per arrivare alla sua casetta e vivere un momento di serenità con la propria famiglia. In questa situazione i nostri missionari cercano di costruire speranza ed essere segno di consolazione per un gruppo di cristiani che, certamente, non sono maggioranza, ma sono presenza e frateità.

Inoltre a Caracas, oltre alla parrocchia di Carapita, abbiamo la Casa regionale, con un centro per l’Animazione missionaria vocazionale (Amv). La casa regionale è un pochino originale in quanto non rappresenta lo stile delle solite case regionali, luogo di uffici e di organizzazione, ma è proprio la casa di tutti e dove tutti possono trovare un letto per dormire, un pasto da condividere e qualcuno che ascolta i loro problemi. E quando dico tutti voglio dire tutti, non soltanto i missionari.

L’impegno missionario è attivamente condiviso con i laici della Consolata e con gli amici della Consolata, un’esperienza importante che vale la pena di far conoscere.

Tucupita

Tra tutte queste nostre presenze merita un ricordo particolare quella in mezzo agli indigeni. Abbiamo un’équipe di cinque missionari di diverse nazionalità che lavorano in due comunità distinte a Tucupita: una nella città stessa, dove gli indigeni si trasferiscono in tempi difficili o alla ricerca di qualsiasi tipo di lavoro, e l’altra, la Comunidad Apostólica de Nabasanuka, nella Parroquia Divina Pastora de Araguaimujo, nel Delta Amacuro dove gli indigeni Warao vivono su palafitte piantate in riva al fiume.

Il Delta Amacuro è uno degli stati del Venezuela. È situato nella parte orientale del paese nella valle dell’Orinoco e confina a Nord con l’Oceano Atlantico, a Sud con lo stato di Bolívar, a Est con l’Oceano Atlantico e la Guyana e a Ovest con lo stato di Monagas. Forma, con gli Stati Bolívar e Amazonas, una macroregione nota come Guyana venezuelana. Circa la metà della superficie dello stato (20.000 km² su un totale di 40.200) è occupata dal vasto delta del fiume Orinoco all’interno del quale si trovano numerosissime isole formate da depositi alluvionali e separate fra di loro da diversi canali navigabili.

In queste due comunità i nostri missionari, con l’aiuto di molti volontari, amici, collaboratori e laici della Consolata, cercano di essere punto di riferimento, segno di consolazione, casa di speranza. È impressionante quante persone riescano a coinvolgere e a mettere dentro il progetto, allargando sempre il cerchio, permettendo a tanti d’incontrarsi, di conoscersi, di volersi bene e di formare spazi nuovi d’interculturalità per il bene di tutti.

I laici della Consolata

Per finire questa presentazione della nostra vita e presenza in Venezuela, vorrei dire una parola sui laici della Consolata. Quasi in tutti i paesi dove siamo presenti abbiamo delle persone che si avvicinano a noi e vogliono condividere il nostro carisma, la nostra missione. Chiaramente il carisma non è proprietà di nessuno e ha valore proprio perché condiviso. Ma certamente in Venezuela ci sono giovani, coppie e famiglie, adulti speciali che hanno la volontà grande di camminare con noi fino in fondo e pagando di persona con grandi sacrifici e grande disponibilità, mettendosi al servizio della gente e della missione. Sono persone che dobbiamo ringraziare e incoraggiare in quanto la loro presenza è per noi stimolo e richiamo a essere sempre più autentici testimoni, missionari veri della Consolata. Ci stanno insegnando che il laico è titolare della missione e non eterno supplente del sacerdote, che ha un ruolo fondamentale nella missione attuale e del futuro.

Stefano Camerlengo

 

I Warao

L’etnia Warao è molto probabilmente di origine asiatica, come testimoniano i più recenti studi antropologici. Nel periodo precolombiano abitavano le più fertili terre dell’Ovest. Cacciati da una tribù di guerrieri si rifugiarono nella zona orientale del delta, in quello che oggi è parte dello stato del Delta Amacuro. Durante la fase coloniale riuscirono a mantenere una certa indipendenza dagli spagnoli grazie all’ambiente inospitale della regione.

La vita scorre con le stagioni del fiume: Rio Negro, quando il livello del fiume si alza e allaga tutte le terre emerse; Rio Amarillio, quando nel Nord la terra gialla viene trascinata al fiume dai temporali impetuosi; Rio Blanco, nella stagione di secca, in cui piove poco e la terra sedimenta lungo il corso dell’Orinoco, lasciando il fiume limpido alla fine del suo viaggio. Per ogni stagione il Warao sa cosa, come e quando si deve cacciare e pescare. Le altri fonti di sostentamento sono il platano, l’ocumo, una radice tozza di gusto simile alla manioca, e la palma di Morice, che fornisce oltre ai frutti anche una farina (yukuma) molto apprezzata. La palma di Morice è la pianta più importante per i Warao: le foglie sono usate per il tetto delle abitazioni, da queste si ricavano anche le fibre che intrecciate preparano il chinchorro (l’amaca) e tutti gli oggetti che vengono venduti in città. Dal tronco, oltre alla farina, si ottengono medicamenti contro la febbre e la dissenteria, mentre i frutti racchiudono una polpa sottilissima, schiacciata tra la buccia a dure scaglie rossastre ed il nocciolo legnoso».

Mediamente i genitori Warao hanno dagli 8 ai 10 figli. La mortalità infantile, anche a causa dell’alimentazione scarsa e poco varia, è molto elevata. Le cifre ufficiali parlano di statistiche pienamente nella media venezuelana, ma sono falsate poiché i bambini non sono registrati all’anagrafe fintanto che non raggiungono i 4 anni, quando ormai è stata superata la fase a rischio. Le coppie nella cultura tradizionale si sposano molto presto e molto semplicemente. Quando la ragazza raggiunge la pubertà, il giovane si reca dalla suocera per chiedere la mano della figlia e, ottenuto l’assenso, si stabiliscono nella casa dei genitori della sposa. Il capo clan è il padre della sposa, che tramite le figlie comunica ai generi i compiti, dal preparare il campo per la semina dell’ocumo, all’andare al monte e cercare un albero per costruire una nuova curiara (barca). Le abitazioni sono palafitte, chiuse su due o tre lati quelle modee, aperte su tutti i lati quelle tradizionali per permettere all’aria di mitigare il caldo umido del fiume. Al tetto vengono fissate delle ceste con i vestiti e le amache, e a terra, sopra delle pietre, viene acceso il fuoco per cucinare. Gli spostamenti possono essere unicamente in curiara, una canoa molto nervosa e instabile, ma che nelle mani dei Warao diventa estremamente docile.

 Federico Franzoso,
di Impegnarsi Serve

 




America Latina indigeni vita a buon mercato


Dal Messico all’Argentina gli indigeni, oggi come in passato, subiscono violenze e umiliazioni. Certamente c’è un substrato di razzismo, ma il movente principale è economico: impossessarsi delle risorse che stanno nelle loro terre. E poi, da ultimo, non manca un aspetto culturale: cercare l’omologazione di chi vorrebbe continuare a vivere diversamente.

Vitor Pinto aveva due anni ed era un piccolo Kaingang. Vitor è stato ucciso il 30 dicembre 2015 davanti alla stazione dei bus di Imbituba, città situata sul litorale dello stato brasiliano di Santa Catarina. Come ogni giorno la famiglia di Vitor era arrivata in città per vendere i prodotti del proprio artigianato sulle frequentate spiagge dell’oceano. In Brasile, la violenza contro gli indigeni è parte della quotidianità e non fa quasi notizia. Dell’assassinio di Vitor si è parlato (ma senza mostrare sincera indignazione) soprattutto a causa della sua giovanissima età.

L’omicidio – per il quale la polizia ha preso un giovane – è l’ennesimo sintomo di una malattia che pare aggravarsi giorno dopo giorno. Gli indigeni (in Brasile meno di un milione di persone divise in almeno 246 popoli) sono accusati – dai media, dalle imprese minerarie e agricole, dai politici del Congresso e del governo (tutti soggetti formalmente indipendenti, ma in realtà tra loro intimamente uniti da reciproci interessi) – di rallentare o addirittura fermare il progresso e lo sviluppo del paese a causa dei loro diritti, peraltro sanciti dalla Costituzione federale.

Nella sua ultima relazione il Consiglio indigenista missionario (Cimi) ricorda che in Brasile, nel 2014, 138 indigeni sono stati assassinati, sempre per motivi legati alla terra.

Da Berta a Edwin, voci troppo scomode

In un altro stato latinoamericano, in Honduras, anche Berta Cáceres lottava per difendere la propria terra ancestrale e il fiume Gualcarque dalla distruzione prodotta dal progetto idroelettrico Agua Zarca. Anche lei era un’indigena, una leader del popolo Lenca, conosciuta pure a livello internazionale perché vincitrice, nel 2015, del premio Goldman, forse il più prestigioso riconoscimento ambientalista al mondo. Berta, madre di quattro ragazzi, è stata assassinata nella sua casa da persone armate lo scorso 3 marzo. Va ricordato che decine di assemblee indigene avevano respinto la costruzione della diga Agua Zarca e questo sulla base del «diritto alla consultazione preventiva, libera e informata», diritto introdotto per la prima volta dalla Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) nel 1989. Capita che i bianchi facciano delle leggi – a volte delle ottime leggi -, ma che, all’atto pratico, siano i primi a non rispettarle.

Per le stesse ragioni – la difesa ambientale dei territori indigeni – nel settembre 2014, in Perú, era stato assassinato Edwin Chota e tre suoi compagni, tutti di etnia Asháninka. Chota, le cui battaglie ambientaliste erano note anche fuori del proprio paese, da anni lottava contro il disboscamento illegale della foresta amazzonica della regione dell’Ucayali, abitata da diverse etnie indigene tra cui gli Shipibo e, appunto, gli Asháninka.

La storia si ripete in Ecuador per il progetto minerario Mirador (anche qui, come in Honduras, con la partecipazione di imprese cinesi) sulla Cordillera del Condor – nella provincia di Zamora Chinchipe, al confine con il Perú -, una zona caratterizzata da grande biodiversità. Nel dicembre 2014 è stato trovato ammazzato José Tendetza, leader degli indigeni Shuar e intransigente oppositore del progetto.

Quando non ci sono le miniere o le grandi opere, la minaccia per i territori indigeni arriva dall’espansione della frontiera agricola (frontera agropecuaria). E non si tratta di quella fatta da piccoli coltivatori (campesinos), che ormai sono in via d’estinzione perché rimasti senza terra, ma dall’agroindustria (agronegocios), in particolare da quella della soia e dell’allevamento. Ciò avviene, ad esempio, in Argentina. Nel 2013, l’incorporazione di nuove terre ha ucciso Florentín Díaz, Juan Daniel Asijak, Imer Flores, tutti indigeni di etnia Qom (Toba). Il risvolto di queste politiche economiche è tragico: nel 2015, nel solo Chaco (Nord Est argentino), sono morti per denutrizione sei bambini indigeni.

Una questione di visioni

Le risposte pubbliche (che sono politiche e mediatiche) sono sempre le stesse: questi megaprogetti sono indispensabili per il progresso della collettività nazionale. Anche le contestazioni degli ambientalisti e dei sostenitori della causa indigena sono ogni volta le stesse: i danni prodotti sono maggiori dei possibili benefici e, comunque, ci sono anche altre strade da percorrere per il cosiddetto progresso.

D’altra parte, la risposta più realmente indigena è un’altra e parte da una visione del mondo e dell’esistenza (cosmovisione) propria e unica, una visione che prevede un’intima relazione tra la loro identità, le modalità di vita e le terre da loro abitate. Concetto che, detto in altre parole, diventa: non c’è identità né cultura indigena senza la terra.

Di solito, stati e imprese coinvolte ricercano il consenso con la «politica delle compensazioni» (cioè delle opere «regalate» alle comunità che ne subiscono l’impatto ambientale e culturale), anche per dividere il fronte degli oppositori. Alcuni dei quali possono venire irretiti pure con il meno nobile sistema della corruzione. D’altra parte, la logica oggi dominante ha sempre una risposta all’apparenza accattivante: «Why be poor when we can be rich?»1. Già, perché essere poveri quando possiamo essere ricchi?

La Conquista non è mai terminata

Premesso che l’etnocidio prodotto dalla Conquista – dal 1492 in poi – uccise il 90% degli indigeni (secondo l’antropologo Darcy Ribeiro al momento dell’arrivo dei conquistatori europei gli aborigeni delle Americhe erano 70 milioni; secondo un altro studioso, il filosofo Todorov, degli 80 milioni di indios nel 1600 ne erano rimasti soltanto 10), ancora oggi risulta difficile dare cifre sicure sugli indigeni. Anche perché una parte di essi, per vergogna o per timore di essere rifiutati, esclusi o maltrattati, negano il loro essere indigeni. Ecco perché i numeri sulle popolazioni aborigene sono ballerini e possono variare a seconda della fonte, anche di quelle ufficiali come possono essere i censimenti o le indagini degli organismi inteazionali (Nazioni Unite, Banca Mondiale, ecc.).

Fatte queste precisazioni, nel mondo si contano circa 400 milioni di indigeni. Di essi 42-45 milioni vivono in America Latina, divisi in oltre 500 popoli, pari a circa l’8 per cento della popolazione latinoamericana.

«Nel continente la vita indigena è sempre stata quella più a buon mercato». L’affermazione, attribuita al compianto Eduardo Galeano, rimane ancora oggi una certezza. Come la morte, verrebbe da chiosare.

Paolo Moiola

Note:

1 – Cfr. articolo della rivista Resources Policy, giugno 2012.

Suggerimenti bibliografici

  • Gruppo Banca Mondiale, Latinoamérica Indígena en el Siglo XXI, agosto 2015;
  • Iwgia, El mundo indígena 2015, Copenaghen 2015;
  • Nazioni Unite-Cepal, Los pueblos indígenas en América Latina, novembre 2014;
  • Cimi, Relatório. Violência contra os povos indígenas no Brasil, Datos de 2014, Brasilia, aprile 2015;
  • Cvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», 1982;
  • Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina, 1971.



Viaggio in Ecuador: l’alunno e il professore


Sempre alternativo in forza di una grande preparazione culturale, padre François Houtart, sociologo e professore, analizza quella che lui definisce la «crisi multidimensionale» (economica, ambientale, di valori) del mondo odierno. L’ambizione è quella di arrivare a una «Dichiarazione universale del bene comune dell’umanità». Lo abbiamo incontrato a Quito, dove vive in  una stanza di pochi metri quadrati. Una scelta di vita sobria all’insegna della coerenza con quanto da sempre insegna. Anche a Rafael Correa, suo ex alunno, oggi presidente dell’Ecuador, del quale dice…

Quito. François Houtart – sacerdote, sociologo, professore – è un personaggio affascinante: per quello che ha fatto, per quello che dice, per l’energia che sprigiona a dispetto dei suoi 91 anni. Oggi vive a Quito, alloggiando in una stanzetta di pochi metri quadrati con un letto e molti libri. E sulle pareti alcuni poster di personaggi latinoamericani.

Nato in Belgio, François Houtart conosce l’Ecuador dagli anni Settanta, ma vi risiede stabilmente soltanto dal 2010. Attualmente è professore (principal, come lui stesso sottolinea) all’«Instituto de Altos Estudios Nacionales» (Iaen), un’istituzione universitaria pubblica di specializzazione postlaurea.

«Libero dagli impegni all’Università di Lovanio e del Cetri (Centro Tricontinentale), ho accettato volentieri. Questo è un paese geograficamente molto ben collocato. Da qui posso andare facilmente in tutti i paesi latinoamericani. Quito inoltre è una città culturalmente straordinaria con varie università (la Flacso1, l’Università andina, e molte altre) e istituzioni come la Unasur2. Oltre che insegnare, posso scrivere e pubblicare».

E poi – osserviamo – l’Ecuador è un paese che si è dotato di una Costituzione realmente innovativa. Il professor Houtart conferma, pur con qualche distinguo: «Forse contiene troppi articoli, ma è realmente all’avanguardia. In essa si sono introdotti i concetti di paese plurinazionale e pluriculturale. E poi, unica al mondo, i diritti della natura. Certamente, una cosa è scrivere una Costituzione e altra cosa è applicarla. E in questo senso, anche qui in Ecuador, c’è un abisso tra il testo e ciò che accade nella realtà. In altre parole, l’applicazione di una carta costituzionale non è un dettaglio! Come mi commentava con ironia un amico boliviano: “In Bolivia abbiamo una Costituzione magnifica, però tutte le leggi sono anti-costituzionali”. Questa è ovviamente un’esagerazione, ma il problema esiste».

La Costituzione è stata varata durante il primo mandato del presidente Rafael Correa del quale il professor Houtart racconta: «Fu un mio alunno all’Università di Lovanio e al Cetri. Io gli diedi soltanto un corso di sociologia della religione, perché lui era un economista. Però ebbi occasione di conoscerlo abbastanza bene. Poi, divenuto politico e presidente, Correa mi invitò in varie occasioni. Oggi abbiamo una corrispondenza abbastanza frequente. Anche se non ci troviamo d’accordo su varie cose».

Questa crisi non si cura con più neoliberismo

Nel mondo sono evidenti sia il fallimento distruttivo del sistema economico neoliberalista che il rapido aggravarsi della questione ambientale. Per questo François Houtart parla di una «crisi multidimensionale», una crisi che è al tempo stesso finanziaria, economica, alimentare, energetica, climatica, una crisi di sistema, valori e civilizzazione.

«Eppure – spiega il professore – in Asia il neoliberalismo3 appare come un’opportunità di sviluppo. Identicamente in Africa, in Medio Oriente e nella stessa Europa, dove le misure contro la crisi sono, semplicemente, aumentare il neoliberismo».

«Non dico che si debba arrivare subito a un nuovo paradigma, a quello che io chiamo “il bene comune dell’umanità”. Sarebbe utopico e illusorio. Ma si potrebbero fare passi in questa direzione. Finora invece ci sono stati soltanto adattamenti del sistema alle nuove domande sociali e culturali».

Fino a poco tempo fa – osserviamo -, l’America Latina sembrava il luogo della sperimentazione e dell’alternativa, poi anche qui tutto ha iniziato a crollare. Dal Venezuela all’Argentina, passando per le sconfitte (pur diverse) di Dilma in Brasile e di Evo Morales in Bolivia. «Però – obietta Houtart -, l’America Latina è stato l’unico luogo dove un cambiamento si è tentato. Com’è avvenuto in Ecuador. Qui è stato fatto qualcosa di notevole: ricostruire lo stato e i cittadini; dare più importanza ai servizi pubblici come la salute e l’istruzione. Il modello di Correa è sì un modello post-neoliberista, ma non ancora post-capitalista. Come d’altra parte lui stesso riconosce».

«Il problema è che la maggior parte dei leader politici stanno ancora nell’antica visione dello sviluppo inteso come sfruttamento della natura e all’interno di una modeità vista come non accettazione delle tradizioni e delle culture diverse. Non sono entrati in questa nuova prospettiva dove la natura e la cultura sono elementi fondamentali dello sviluppo umano. Occorre formare nuovi leader ma senza troppi indugi perché questa situazione può tramutarsi in un disastro».

La natura e i suoi diritti

Natura come risorsa da sfruttare versus natura come fondamento di sviluppo. La Costituzione dell’Ecuador ha fatto una scelta chiara dedicando quattro articoli ai «diritti della natura»4.

«La prima difficoltà – spiega Houtart – sta nel definire cosa significhi diritto della natura. Soltanto nella cosmovisione indigena la natura è un essere vivente che prova sensazioni. Alberi, fiumi, animali sono nostri fratelli e sorelle. Questa visione è magnifica ma non si adatta alla mentalità della maggioranza della gente d’oggi».

Houtart ricorda la Conferenza mondiale per i diritti della Madre Terra tenuta a Cochabamba, in Bolivia, nel 2010. «C’erano oltre 30mila indigeni a parlare di cosmovisione, cambio climatico e diritti della Madre Terra, della Pachamama (in lingua quechua). Si tentò di imporre un testo che però trovò l’opposizione, ad esempio, di Via Campesina5».

«Qual è il problema? È l’integrazione dei diritti della natura in una prospettiva giuridica. Perché la natura, come risulta evidente, non può difendere le sue prerogative. Sono soltanto gli esseri umani che possono riconoscerle e quindi difenderle. O, al contrario, violarle o distruggerle. Dunque, il diritto della natura è – com’è stato detto – un “diritto vicario” di cui cioè non si può parlare senza la intermediazione dell’uomo. E qui entra in campo la coscienza e la responsabilità umana davanti alla natura».

E su questo punto la fiducia di padre Houtart sembra vacillare: «Sto lavorano sul settore agrario e vedo un’agricoltura campesina e indigena completamente abbandonata. Sto visitando l’Amazzonia in vari paesi e sono rimasto impressionato dalla sua distruzione sistematica e dalle conseguenze che ciò comporta. Dei temi ambientali parla anche l’enciclica di Francesco, ma non so quanti l’abbiano veramente letta».

Indigeni: popoli o semplici cittadini?

La Costituzione dell’Ecuador dedica uno spazio importante ai popoli indigeni6. Com’è la loro situazione?

«C’è stato – risponde Houtart – un rinascimento dell’identità indigena. La loro cultura è uscita dalla clandestinità. Per esempio, oggi gli sciamani sono riconosciuti. Io ho partecipato assieme a loro a una cerimonia pubblica in veste di sacerdote cattolico. La loro partecipazione alle ultime elezioni è stata massiccia. In questo sono evidenti i meriti di mons. Proaño»7.

Gli ricordiamo che, stando agli ultimi dati, in Ecuador gli indigeni sarebbero non più di un milione di persone. «Ma questo non corrisponde alla realtà – obietta Houtart -. Dipende dalle domande che vengono fatte durante il censimento. C’è sempre una certa manipolazione. Io penso che in realtà gli indigeni possano arrivare al 30% del totale. In questa società essi hanno un peso importante. Anche se, negli ultimi 30 anni, c’è stato un cambio strutturale importante con la crescita di una classe media, specialmente con Correa che ha potuto usufruire di molte entrate».

I cambi strutturali nella società ecuadoriana di cui parla il professor Houtart hanno prodotto effetti anche sulle popolazioni indigene.

«C’è stata – spiega – una crescente urbanizzazione e al contempo un abbandono delle campagne e specialmente dell’agricoltura campesina. Questo significa che una gran parte della popolazione indigena adesso è urbana. E qui i giovani si interessano certamente più dei cellulari che delle loro origini. È un processo di cambio culturale. Le organizzazioni hanno quindi perso una parte della loro base sociale e della loro forza politica».

In tutto questo entra il progetto che Correa e il suo governo hanno chiamato Revolución Ciudadana.

«Che non è – precisa Houtart – un progetto socialista. Rafael Correa e Alianza País – una coalizione tra una parte della sinistra e una parte della destra – parlano di un capitalismo moderno. Vogliono avere tutti cittadini con stessi diritti e stressi doveri all’interno di un società modeizzata».

E di conseguenza – diciamo inserendoci nel discorso – anche gli indigeni sono cittadini come tutti gli altri. «Sì, ma cittadini – come afferma il presidente – “arretrati”, che si debbono modeizzare. E?che non vengono riconosciuti come popoli. Mai è stata applicata la Costituzione che, nel suo articolo 1, parla di plurinazionalità. Mai c’è stata la definizione e il riconoscimento dei territori indigeni. Gli indigeni più coscienti – quelli riuniti nella Conaie – soffrono molto questa situazione come un’aggressione culturale e politica. Per questo dopo aver appoggiato Correa, poco a poco ne hanno preso le distanze8. Le ultime leggi – quelle sull’acqua (giugno 2014, ndr) e sulla terra (gennaio 2016, ndr), per esempio – escludono i gruppi indigeni, a dispetto di un vocabolario che appare in loro favore. Si favorisce un’agricoltura per l’esportazione, fatta di monocolture, facendo sparire i piccoli produttori sia indigeni che contadini. In questo modo la frattura con il governo si è ampliata sempre più. Il rischio è che, a causa del conflitto con Correa, una parte del movimento indigeno possa cercare un accordo con la destra. Una destra che mai li difenderà, ma che vuole soltanto utilizzarli».

Una frattura che si è approfondita anche a causa del modo di esprimersi del presidente. Houtart conferma: «Sì, il linguaggio utilizzato da Correa nei confronti degli indigeni è spesso volgare. Ed è un vero peccato perché Rafael Correa è l’unico leader politico che parla quechua».

Parco Yasuní: biodiversità o petrolio?

Dalla bellissima (ma spesso inattuata) Costituzione alla bellissima promessa di Correa (era il marzo del 2007) di non toccare il Parque nacional Yasuní, vero scrigno mondiale della biodiversità, ma anche importante riserva petrolifera. A quanto pare siamo davanti a una promessa non mantenuta, professor Houtart.

«L’Ecuador – racconta lui – decise di fare una proposta alla comunità internazionale e cioè di non toccare quel petrolio se la stessa comunità avesse aiutato pagando, per un certo numero di anni, la metà di quello che il paese avrebbe potuto guadagnare con lo sfruttamento di quei giacimenti. Ci furono risposte positive in particolare della Germania. Poi tutto decadde con l’arrivo al potere della signora Merkel. A quel punto il presidente Correa disse che la comunità internazionale non aveva risposto alla proposta dell’Ecuador e che dunque avrebbero iniziato a sfruttare il petrolio. Detto questo, il piano “b” già esisteva perché c’erano interessi economici locali che spingevano a sfruttare quei giacimenti. Il governo disse: andremo a sfruttare soltanto poco più dell’1 per cento del parco, utilizzando le migliori tecnologie. Dalle mie informazioni risulta invece che la distruzione locale è assai più grande di quanto il governo asserisce».

Nel parco e nelle immediate vicinanze vivono almeno tre differenti gruppi indigeni: gli Shuar, i Quichua e soprattutto gli Huaorani. Contro la decisione di iniziare lo sfruttamento petrolifero dello Yasuní ci sono state proteste indigene, ma non con voce unisona.

«Il governo – racconta Houtart – è riuscito a ottenere l’appoggio della maggior parte dei sindaci del territorio – una quarantina, gran parte dei quali indigeni -, promettendo loro che una parte sostanziosa dei guadagni sarebbero andati alle municipalità».

A sorpresa l’opposizione è arrivata dalla società civile. «C’è stata una reazione molto forte della gioventù, specialmente di quella urbana. Si è creato il movimento Yasunidos. E ha avuto un successo straordinario, riuscendo a raccogliere più di 700 mila firme contro lo sfruttamento petrolifero. La verifica governativa ha però ridotto le firme valide a meno di 300 mila».

Si è così riusciti a impedire il referendum popolare. E Correa ha mostrato il suo lato più negativo, non perdendo occasione per apostrofare con sarcasmo gli oppositori: «Gringuitos con la panza bien llena», «indios infantiles». Adesso tutto è in mano al mercato: con i prezzi del petrolio così bassi, l’estrazione nello Yasuní non è conveniente. Per altro verso, gli immani disastri compiuti dalla Chevron in altre zone del paese (ne parleremo, ndr) rimangono come monito indelebile.

L’ex alunno: ottimo sì, pessimo pure

A conclusione della lunga conversazione, torniamo a parlare dell’ex alunno, del presidente Rafael Correa. «Felicemente – spiega il suo ex professore – egli ha rinunciato alla rielezione9. Forse per ragioni più familiari che politiche. Però, dato che è giovane, potrebbe prendersi quattro anni di riposo e poi ripresentarsi nuovamente. Non ho obiezioni al riguardo, ma spero che lui approfitti di questo periodo per leggere, incontrare gente, per viaggiare e soprattutto per trasformare la sua visione adattandola alla realtà del mondo attuale. È un uomo sincero. A volte troppo sincero. E a volte anche un po’ prepotente, perché non accetta consigli. Ma è un uomo di valore e un gran lavoratore».

Insistiamo perché il professore dia un voto al suo ex alunno. «Il voto a Correa – risponde dopo qualche esitazione – dipende dal punto di vista. Se è da quello della modeizzazione della società ecuadoriana, il voto è 8 o 9. Se è dal punto di vista dello sviluppo umano fondamentale, allora diventa 2 o 3». E un sorriso si apre sul suo volto gentile.

Paolo Moiola
(fine seconda puntata)

Note

1 – La Flacso è la «Facultad Latinoamericana de Ciencias Sociales» presente in una quindicina di paesi del continente.
2 – L’Unasur – «Unión de Naciones Suramericanas» – è un’organizzazione di cooperazione che include 12 paesi latinoamericani.
3 – Neoliberalismo e neoliberismo sono termini molto spesso usati come sinonimi. In realtà, il primo si riferisce più alla politica, il secondo all’economia.
4 – Si veda Derechos de la naturaleza in Titolo secondo, Capitolo settimo, art. 71-74.
5 – Via Campesina è il movimento internazionale dei piccoli produttori e lavoratori della terra.
6 – Si veda Titolo secondo, Capitolo quarto, articoli 56-60.
7 – Di mons. Proaño abbiamo parlato nella prima puntata di questa serie, in MC di maggio.
8 – Ricordiamo la marcia indigena di protesta dal Sud fino a Quito dell’agosto 2015 e le proteste del marzo 2016.
9 – Della questione abbiamo scritto nella prima puntata, MC maggio.


Passato e presente della chiesa cattolica

«Quando l’amico Wojtyla uccise la teologia della liberazione»

Le visioni differenti di papa Giovanni Paolo II?e papa Francesco; le differenze ontologiche tra dottrina sociale della chiesa e teologia della liberazione; la situazione in Ecuador: le risposte di François Houtart.

Padre Houtart, quando ha incontrato per la prima volta la chiesa dell’Ecuador?

«Negli anni Settanta, ai tempi di mons. Proaño, il vescovo di Riobamba, ma soprattutto il vescovo degli indios. Varie volte egli mi invitò qui per tenere corsi di sociologia della religione nell’istituto di pastorale del Celam».

A luglio 2015, durante la visita di papa Francesco all’Ecuador, il presidente appariva più entusiasta degli esponenti della gerarchia cattolica locale.

«La dimensione religiosa è molto forte in America Latina. Rafael Correa, per esempio, è un uomo profondamente credente. È un uomo della dottrina sociale della chiesa, ma non della teologia della liberazione. Per questo s’intende molto bene con Francesco, che appunto è un papa della dottrina sociale della chiesa».

Che differenza passa tra l’analisi della realtà fatta dalla dottrina sociale e quella fatta dalla teologia della liberazione?

«Con la prima si condanna il capitalismo per i suoi effetti, ma non per la sua logica. Al contrario, la teologia della liberazione analizza la realtà in termini di struttura sociale, ovvero di classi sociali. Insomma, si tratta di due letture diverse».

 

Lei ha vissuto la teologia della liberazione fin dagli inizi. Ha conosciuto tutti i suoi principali esponenti. Com’è morta?

«È stata fermata, specialmente da Giovanni Paolo II, con il quale peraltro fui amico durante 30 anni. Ma è stato il papa che ha ucciso la teologia della liberazione e le comunità di base. E che ha spinto verso l’emarginazione tutti i vescovi progressisti all’episcopato latinoamericano».

Professore, è giusto dire che la teologia della liberazione sia stata ripudiata e poi affossata perché utilizzava strumenti di analisi propri della sinistra?

«È così. La Tdl ha incontrato nel marxismo un metodo di analisi della società più adeguato alla situazione reale, alla oppressione dei popoli e alla distruzione della natura».

Anche sotto questo aspetto lo stile improntato da papa Francesco pare però molto diverso.

«Il modo di comportarsi del papa attuale ha creato una nuova speranza e un nuovo clima. Per esempio, recentemente l’arcivescovo di Cali, mons. Darío de Jesús Monsalve, ha parlato (il 15 novembre 2015, ndr) della necessità di una riabilitazione di Camilo Torres come cristiano e come sacerdote. Questo non sarebbe stato possibile senza papa Francesco».

Ci rimane da fare un commento sulla chiesa cattolica dell’Ecuador.

«In Ecuador, purtroppo, abbiamo una chiesa gerarchica completamente conservatrice e sotto l’influenza dell’Opus Dei. Mentre la tradizione di mons. Proaño è stata completamente cancellata».

Paolo Moiola

 

 




Italia-Congo: La lunga marcia per la pace


Lui è un rifugiato congolese in Italia. Dove ha vissuto metà della sua vita. Ha il suo lavoro, vive bene. Ma un giorno succede qualcosa. Il Congo chiama e John sente di dover agire. Ma come? La strada si presenterà da sola, e lui dovrà fare delle scelte. E avere molto coraggio.

John Mpaliza porta con sé un entusiasmo dirompente. Quando lo incontri per la prima volta percepisci intorno a lui un’energia positiva. E ti diventa subito simpatico. È tipico di chi sta a suo agio nella propria pelle. Detto in altre parole, ha trovato la sua strada. Lo conosciamo grazie a una serie di incontri organizzati per lui dall’Ong Cisv di Torino.

Nato a Bukavu, in Kivu, nell’Est dello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), 46 anni fa, all’età di 11 anni John va a vivere a Kinshasa da sua sorella maggiore che si è sposata in capitale. Qui frequenta il liceo scientifico Boboto, gestito dai gesuiti, «una delle migliori scuole in Africa centrale», dice, e poi si iscrive all’università a ingegneria. È il 1988-89, anno in cui cade il muro di Berlino. Non c’è né Inteet né tv satellitare. «Ascoltavamo la radio sulle onde corte – ci racconta John -. All’università si riuscivano a creare momenti di confronto». Proprio in quegli anni nascono dei movimenti di dissenso, molto legati a un partito clandestino, l’Udps (Unione per la democrazia e il progresso sociale) di Etienne Tshisekedi, l’attuale maggiore partito di opposizione.

«Una volta fui contattato da qualcuno che mi portò a un incontro segreto e fu così che aderii a questo partito». John inizia a fare attività di propaganda, distribuendo volantini clandestinamente. «Non avevamo computer, si scrivevano a mano e si buttavano nei mercati».

Nel 1990 Mobutu fa un discorso importante: «Comprendete la mia emozione». Permette la creazione di altri partiti. È il multipartitismo. Il momento storico è quello del discorso di La Boule di François Mitterrand, nel quale il presidente francese sancisce che ormai è giunto il momento del multipartitismo per gli stati africani. «Lui diceva che non sarebbe mai stato chiamato “ex presidente”» ricorda John.

«Studiavo e manifestavo. Andai avanti fino al ’91. In quell’anno furono uccisi molti studenti a Kinshasa, Lubumbashi e Kisangani. Io fui tra i fortunati».

Congo addio

Incarcerato con alcuni compagni John rischia grosso, ma viene salvato dalla famiglia. «Vista la corruzione che ormai si era installata, pagando si veniva rilasciati. Da noi, in Congo, si dice: “Un figlio nasce da una madre e un padre, ma viene cresciuto da una società”. Così la mia famiglia allargata è riuscita a fare una colletta per tirarmi fuori e aiutarmi a scappare all’estero».

Il giovane John lascia il Congo proprio nel 1991. «Il mio viaggio è stato di lusso, in aereo, non è paragonabile alle traversate dei migranti di oggi».

John tocca diverse capitali africane, per arrivare a Orano, in Algeria, dove ha degli amici che stanno studiando. «Avevo iniziato gli studi a Kinshasa, così mi sono riscritto all’università, per studiare telecomunicazioni. È stata dura perché nel 1992 il Fis (Fronte islamico di salvezza, gruppo radicale, nda) vinse le elezioni, e la Francia disse che non potevano governare». Sono gli anni in cui infuria il terrorismo algerino, con attentati e bombe nelle città. Il presidente Mohamed Boudiaf viene ucciso in diretta tv: «Io l’ho visto e sono rimasto scioccato».

Così John, nel 1993 decide di fare un viaggio in Europa per andare a visitare degli amici a Parigi, Bruxelles e Roma. In Francia passa anche dalla comunità ecumenica di Taizé, in Borgogna.

«Sulla via del rientro in Algeria, a Roma, dovevo prendere l’aereo ma lo persi. Allo stesso tempo ci fu un attentato all’aeroporto di Algeri. Decisi allora di restare in Italia, anche perché in Algeria c’erano manifestazioni e se la prendevano ancora con gli studenti universitari». Così John Mpaliza chiede asilo politico in Italia e per lui inizia una nuova vita. «Una vita difficile, anche se non posso confrontare quei tempi alla situazione di emergenza attuale. Perché i numeri dei migranti erano diversi, così come la percezione che ne aveva la gente. Anche se la normativa non è cambiata molto».

Una nuova vita

Mpaliza si stabilisce nel Sud Italia dove svolge svariati lavori. Dalla raccolta di pomodori in Puglia, a quella delle arance a Rosao e a Castel Voltuo. Vive pure nella terra dei fuochi. «A Giuliano (in Campania) ho conosciuto gente meravigliosa che mi ha cambiato la vita. Avevo un permesso di soggiorno con divieto di studio e di lavoro. Ma non ricevevo sovvenzioni. Facevo dunque dei lavoretti per sopravvivere. In quel periodo ero presso una famiglia di Giuliano. Ci fu una sanatoria nel ’96. La padrona di casa decise di aiutarmi, mettendomi in regola per farmi avere il permesso di soggiorno. Da lì sono andato a Bologna e poi a Reggio Emilia».

Qui, finalmente, John può tornare a studiare e consegue la laurea breve in ingegneria informatica. Poi inizia a lavorare in comune. Un lavoro che svolgerà per 12 anni.

«Nel 1996 appresi dai media l’invasione dell’esercito ruandese in Congo, con a capo Desiré Kabila (che diventerà presidente del Rdc, nda) e subito telefonai a mia madre. Quando le dissi dove ero, replicò: “Cosa fai in Italia?”. Lo stupore era dovuto al fatto che l’Italia non gode di ottima fama, esporta troppi stereotipi, come la criminalità. In quell’occasione mi dissero che mio padre era morto durante l’ingresso dei soldati ruandesi a Bukavu, perché durante una crisi ipoglicemica, a causa della guerra non si era trovata l’insulina».

Ritoo all’inferno

Nel 2009 finalmente John decide di tornare in Congo, a Kinshasa, per una visita. Non è più tornato in patria dalla sua partenza, anche se ha sempre tenuto i contatti con la famiglia.

Quello che vede lo fa stare male: «Era come un paradiso trasformato in inferno. Il mio paese è un paradiso per le risorse che possiede. Terra fertile, acqua dolce, foresta, ecc. Quando ero piccolo, negli anni ’80, si viveva bene in Congo. Ho trovato tutto distrutto. Forse anche perché ero abituato a vivere in Europa.

Ho saputo di una sorella dispersa nell’Est, stessa sorte per molte cugine. Ho ritrovato mia madre, che si era trasferita a Kinshasa».

Nella guerra in Kivu è stato usato, e lo è tuttora, lo stupro come arma di guerra. Le donne inoltre sono rapite e ridotte in semi schiavitù alla mercé dei miliziani.

«Mia madre allora mi confidò: “Ogni sera prego Dio perché vostra sorella sia morta. È meglio così, piuttosto che soffra troppo”».

Si parla di 8 milioni di vittime in otre 20 anni di conflitto nell’Est del Congo. «Un genocidio dimenticato, ci ricorda John».

Tornato in Italia, dopo tre settimane di Congo, va in crisi.

«Ho vissuto 23 anni in Congo e 23 anni in Italia. Mi sento europeo, ma anche africano. Ritrovarti nelle tue radici e trovare questa situazione è stato un disastro. Avevo gli incubi tutte le notti. Ho provato a scrivere un articolo ma non sono stato considerato dai media». John inizia a maturare l’idea che deve provare a fare qualcosa per il suo paese. Ma cosa? Si chiede. «Qualcosa che desti curiosità, perché l’Africa non fa notizia».

L’ispirazione gli viene proprio dalla sua visita a Taizé di molti anni prima.

«Premetto che io non sono camminatore. Ma a Taizé una ragazza polacca mi aveva detto: se ti piace tanto questo posto, un giorno devi andare a Santiago di Compostela».

Pellegrino per caso

«Decisi di andare a incontrare i pellegrini. Nel 2010, per combinazione, c’era il Giubileo di Santiago. Ho parlato con circa 1.000 persone, di 27 lingue diverse, da 30 paesi. E lì ho capito che camminando e parlando la gente si ferma ad ascoltare». John parla di Congo, guerra, stupri, saccheggio delle risorse. Ma non ha ancora le idee chiare. È il raccontare quello che ha vissuto nel suo recente viaggio a Kinshasa.

«Nel frattempo, in Italia, avevo preparato una documentazione, e i miei dirigenti al lavoro volevano aiutarmi presentandomi a un politico. Ma in quel momento c’era crisi quindi non successe a nulla».

Ancora un altro segnale. «Nel febbraio 2011, una ragazza da Sidney mi chiamò su skype. L’avevo conosciuta al Cammino di Santiago. Era arrabbiata perché io non avevo fatto ancora nulla per il Congo, mi disse. Era un’insegnante e al suo rientro dalla Spagna aveva fatto lavorare i suoi studenti sul tema dello sfruttamento dei minerali del Congo.

Una persona su 1.000 si era attivata a causa di quello che le avevo raccontato. Forse qualcosa poteva cambiare. Decisi di organizzare una marcia da Reggio Emilia a Roma e portare la documentazione ai palazzi del potere. Avevo coinvolto la città: comune, provincia, la scuola di pace di Reggio, il centro missionario. La gente seguiva. Ero andato a parlare su Tele Reggio. Feci una marcia di 21 giorni e mi ricevettero alcuni deputati e senatori».

È la prima marcia di John Mpaliza per il Congo, che ne inaugura una lunga serie, in un crescendo di difficoltà. E, soprattutto, diventerà il modo di vivere e di lottare del congolese-italiano, dalla simpatia irresistibile.

On the road

Come si organizza una marcia per la pace in Congo?

«Si definisce la partenza e l’arrivo. Si prendono contatti con le istituzioni locali lungo il percorso, gli scout, le chiese, le scuole. Così nascono gli incontri. Le persone mi accompagnano per un pezzo della strada. Talvolta vengono ad accogliermi alle porte di una città al mio arrivo. Ma la marcia completa la faccio da solo.

A Roma, ad esempio, una quarantina di persone mi aspettarono fuori città e mi accompagnarono fino in Parlamento».

Segue nel 2012 la marcia Reggio Emilia – Bruxelles, di due mesi. John passa a Ginevra dove incontra l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite. Va anche a Strasburgo dove è ricevuto da parlamentari italiani ed europei. Molti di loro sono promotori dell’emendamento del maggio 2015 sulla tracciabilità dei minerali (si veda il dossier su MC luglio 2015). «Per la prima volta abbiamo chiesto una regolamentazione. C’erano anche congolesi dal Belgio e italiani nella marcia».

Il grande salto

«All’inizio le marce le facevo in estate, durante le vacanze. Oppure, nel caso dovessero durare oltre un mese, prendevo aspettativa dal lavoro. I miei dirigenti erano comprensivi e mi appoggiavano».

Tornato casa dalla marcia di Bruxelles, John si trova sommerso dalle richieste di incontri e conferenze.

Nel novembre del 2012 decide di prendere un part time verticale: alcuni giorni della settimana lavora in ufficio, durante gli altri fa incontri sul Congo, i minerali della guerra, le vie della pace. La sua vita sta cambiando. «Cominciai a chiedermi se fosse questa la via che dovevo seguire. A dicembre 2013 mi sono ammalato e ho capito che questo sistema non reggeva. Così ho spiegato al dirigente che il mio futuro non era più con loro.

Inoltre, la notizia della marcia di Bruxelles era arrivata anche in Congo. I miei famigliari avevano fatto una veglia di preghiera nel paese. Si raccoglievano i primi frutti, perché ormai se ne stava parlando. Mollare, sarebbe stata la dimostrazione che noi (africani) non sappiamo costruire».

John decide di lasciare il lavoro il 31 maggio 2014 e di consacrarsi totalmente alla causa. A luglio parte la marcia Reggio Emilia – Reggio Calabria.

Da quando ha lascia il lavoro John non ha più un reddito. Organizza marce, cammina e fa incontri in scuole, università, parrocchie e istituzioni. Vive di accoglienza e provvidenza.

«Ho deciso di rinunciare a tutto – ricorda – ma devo vedere quando mi sento in forma e posso camminare, fare le cose a modo mio. Ho collaborato con tante organizzazioni, come Rete pace per il Congo, creata dai missionari Saveriani di Parma. Ora mi appoggia anche Libera Internazionale. Non ho ancora fondato un’associazione, ma ci stiamo arrivando. Potrebbe servire per gestire eventuali donazioni».

John approfondisce le rivendicazioni delle sue marce. «L’obiettivo principale è rompere il silenzio, fare breccia. Fare conoscere il dramma congolese, denunciare l’assenza di diritti umani, la guerra economica che produce morti, lo stupro come arma di guerra. I danni che creano i caschi blu dell’Onu, che costano due milioni di dollari al giorno».

I progetti

John ci parla degli incontri: «I giovani a cui parlo sono talmente tanti che tutto questo non può non produrre qualcosa!», ci dice con entusiasmo.

«Voglio spiegare il rapporto che c’è tra noi e quel mondo in Congo». Rapporto che passa dal telefonino che ognuno possiede. «Sì. Non c’è ragazzino che non sia coinvolto. Tutti abbiamo a che fare con i minerali come il cobalto. Per questo parlo della “guerra che abbiamo in tasca”».

I ragazzi si coinvolgono anche con azioni pratiche. «Abbiamo lanciato dei progetti – spiega John – con scuole in Trentino e nel padovano. I ragazzi fanno raccolte di telefonini, per il riciclo. In effetti si può recuperare parte del minerale dall’apparecchio dismesso. È una ricchezza che abbiamo in tasca, anche quando si rompe, senza saperlo. È una miniera d’oro. Ad esempio l’Arpa del Friuli Venezia Giulia collabora con un’azienda svizzera che recupera l’oro dai telefonini».

La normativa in stallo

Oltra alla testimonianza, ovvero «raccontare, spiegare la nostra responsabilità» per formare l’opinione pubblica, è molto importante anche il livello istituzionale.

«Perché comunque abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a far passare una legge sulla certificazione dell’origine dei minerali con i quali si produce l’elettronica di consumo».

Gli Stati Uniti si sono dotati di una legge, nel 2010, la Dodd-Frank Act (vedi dossier MC luglio 2015), mentre l’Unione europea è in una fase di «negoziazione».

«La situazione è complicata. Il Parlamento europeo si è espresso il 20 maggio 2015 rendendo più restrittiva la proposta della certificazione volontaria. In realtà quello è stato il primo round, ora gli stati devono ratificare. In Italia c’è la Focsiv che porta avanti la “Campagna europea sui minerali dei conflitti” (vedi box) e che collabora con Rete pace per il Congo ed Eurac del Belgio».

John è deluso anche del comportamento dell’Italia: «Ero certo, sulla base dei miei contatti, che l’Italia avrebbe subito ratificato. Ma ho appreso che mentre il ministero degli Affari esteri è d’accordo, il ministero dello Sviluppo economico è contrario. Inoltre a dicembre è iniziato un negoziato trilaterale tra Parlamento, Consiglio e Commissione europea. Io non sono un negoziatore, e ho paura che diventi un nulla di fatto».

Oltre l’importante questione normativa, John scende più in profondità, per eradicare le cause: «Non basta la legge sulla certificazione dei minerali. Serve la stabilità in questi paesi. Se ci fosse uno stato che mettesse delle regole, le compagnie dovrebbero rispettarle e il livello dei problemi sarebbe diverso. Nelle miniere potrebbero lavorare solo adulti, non i bambini, e in certe condizioni di sicurezza. E soprattutto queste risorse andrebbero a beneficio del popolo del Congo e non del Rwanda o dell’Uganda che le stanno sfruttando senza controllo. E si vivrebbe un po’ meglio in Congo».

Nel 2015 John realizza la marcia da Reggio Emilia a Helsinki. Percorre a piedi 3000 km attraversando l’Europa in cinque mesi, da maggio a ottobre. «In Finlandia sono stato ricevuto da funzionari del ministero degli Esteri.

La marcia, richiesta da cittadini finlandesi che avevo incontrato a Varsavia, aveva l’obiettivo di incontrare la Nokia, che nel frattempo, a causa della crisi, era stata comprata di Microsoft. Ai finlandesi interessano molto le tecnologie. Io ho detto loro che sarebbe importante far capire ai cittadini da dove vengono i materiali per produrre i dispositivi. Loro temono che una legge di certificazione porterebbe a un aumento dei prezzi per i cittadini».

Obiettivo Africa

John è tornato in Congo in segreto nel 2014, perché sua madre e sua sorella non stavano bene. Ormai la sua lotta è conosciuta e rischia per la sua sicurezza personale. Ha un altro grande sogno che sta diventando un progetto: una marcia panafricana, che lo porti nel suo paese.

«A fine ottobre vorrei fare Reggio Emilia – Roma. Qui parteciperei a degli incontri durante la settimana internazionale per i diritti umani. Da Roma volerei a Città del Capo in Sudafrica. Da lì voglio risalire verso il Mozambico, la Tanzania e Zanzibar. Per poi attraversare la Tanzania verso Ovest per arrivare nell’Est della Repubblica democratica del Congo. Se ci riusciamo! Occorre lavorare con i movimenti della società civile, le chiese, le associazioni europee e africane. Bisogna creare una specie di scudo, perché camminare in Africa è più difficile!».

Marco Bello




Cina la storia aiuta il dialogo


Il rapporto tra Cina e gesuiti è antico. Una società di produzione cinese realizza film sulla vita di alcuni gesuiti famosi. Il successo è grande: l’audience raggiunge numeri a 9 cifre. Dopo un decennio (di film) i tempi sono maturi per un progetto ambizioso. Che potrebbe contribuire a migliorare i rapporti Cina – Chiesa cattolica.

La Cina sta riscoprendo la sua storia. E lo sta facendo attraverso i gesuiti. Negli ultimi anni, i film televisivi su Paolo Xu Guangqi, Johann Adam Schall von Bell, Giuseppe Castiglione e Ferdinand Verbiest, tutti missionari gesuiti, sono diventati veri casi mediatici con audience che in Europa non riusciamo neppure a immaginare. Questa riscoperta è frutto di una collaborazione tra le autorità di Pechino e la stessa Compagnia di Gesù. Una collaborazione che va avanti da più di un decennio con risultati che, all’inizio, sembravano impensabili.

Produzioni orientali

Tutto ha inizio alla fine degli anni Cinquanta con la nascita della Kuangchi Program Service, la società di produzione cinematografica dei gesuiti a Taiwan. «La Kuangchi Program Service – spiega Emilio Zanetti, gesuita italiano, che vi lavora – è la più vecchia società di produzione televisiva di Taiwan. È stata creata dai gesuiti nel 1958 e, da sempre, produce programmi educativi e di valore sociale. Nel 2003 i vertici dell’azienda sono entrati in contatto con la Jiangsu Broadcasting Corporation, la più grande società pubblica di produzione televisiva della Cina continentale. Allora il Presidente di Kuangchi era un laico ed era amico della presidentessa della Jiangsu. Dall’incontro è nata l’idea di produrre una pellicola su Matteo Ricci (1552-1610), gesuita, figura molto nota e apprezzata in Cina. L’idea piaceva a tutti, però è apparsa subito irrealizzabile, non tanto per motivi tecnici, ma di opportunità politica. Le autorità di Pechino non avrebbero apprezzato un film su Ricci che era uno straniero e un missionario cattolico (sebbene fosse anche un apprezzato scienziato). Si è così deciso di girare una pellicola su Paolo Xu Guangqi, amico cinese e collaboratore di Ricci, che si era convertito al cristianesimo. In questo modo, si poteva parlare in indirettamente anche del più noto gesuita italiano».

Il governo siamo noi

All’inizio delle lavorazioni, il gesuita Jerry Martinson, allora vicepresidente della Kuangchi, si preoccupa della censura e chiede ai funzionari della Jiangsu: «Ma siete sicuri di voler parlare di cristiani? Che cosa dirà il governo?». Gli rispondono: «Padre, non ci sono problemi: il governo siamo noi». A sottolineare che la Jiangsu è una struttura pubblica che si muove in piena sintonia con le autorità di Pechino. E, se c’è l’avallo della Jiangsu, dal punto di vista politico non ci sono problemi perché loro sanno come scrivere la sceneggiatura, sanno quali punti possono essere affrontati e quali è meglio evitare. «Con il film su Paolo Xu Guangqi – continua Zanetti -, i gesuiti sono entrati nei media cinesi dalla porta principale, cosa che risulta impossibile per qualsiasi altra organizzazione religiosa. Il fatto di essere gesuiti ci ha certamente favoriti perché la Cina e la Compagnia di Gesù hanno una relazione storica, fatta di rispetto e apertura dell’uno verso l’altro».

Audience da capogiro

La pellicola su Paolo Xu Guangqi va in onda nel 2005 su Cctv (China Central Television), la radiotelevisione pubblica cinese. E qui c’è la prima grande sorpresa: l’audience supera i cento milioni di telespettatori. Un risultato insperato, che stimola i gesuiti di Taiwan a rilanciare. L’occasione arriva nel 2006. L’allora Presidente cinese Hu Jin Tao va in visita ufficiale in Germania e nel suo discorso cita Johann Adam Schall von Bell (1592-1666), un gesuita tedesco che, come Ricci, visse e lavorò alla corte degli imperatori cinesi e fu la personalità occidentale che riuscì a raggiungere il più alto grado nella gerarchia dei mandarini (funzionari imperiali). Quando la presidentessa di Jiangsu viene a sapere che Hu Jin Tao ha parlato di Schall von Bell, contatta la Kuangchi proponendo di realizzare un film sul gesuita tedesco. E anche questo film riscuote un ottimo successo di pubblico.

«I buoni risultati raggiunti con Xu Guangqi e Schall von Bell – ricorda Zanetti – hanno convinto Martinson che era possibile insistere su questa strada. Nel 2009, quindi, ha lanciato l’idea di produrre, sempre in collaborazione con la Jiangsu, un film su Giuseppe Castiglione.

In Occidente, Matteo Ricci, Johann Adam Schall von Bell e il belga Ferdinand Verbiest (1623-1688) sono molto conosciuti. Castiglione, invece, è sconosciuto non solo in Europa, ma nel suo stesso paese, l’Italia (a parte una ristretta cerchia di esperti di arte).

In Cina, è in assoluto il gesuita più noto. Anch’io pensavo che Castiglione fosse un artista minore che, grazie alla fortuna, si era fatto un nome in Cina. Mi sbagliavo. Castiglione, nato a Milano, è rimasto 51 anni nella Città proibita e, in quel periodo, ha dato vita a quasi 550 progetti artistici. Ha realizzato dipinti di imperatori, delle loro mogli e concubine e di animali (famosi i quadri sui cavalli). Ma ha anche progettato i padiglioni occidentali dell’antico palazzo d’estate dell’imperatore». Castiglione rappresenta una svolta per la storia dell’arte in Asia perché ha introdotto le tecniche del chiaro-scuro e della prospettiva. Tecniche che ha inserito in una tradizione artistica millenaria, miscelando elementi occidentali e orientali con un gusto e una sapienza unici. Ai suoi tempi, gli imperatori invitavano moltissimi artisti occidentali a corte, ma solo pochi riuscivano ad avere successo. La memoria di Castiglione è talmente viva nei cinesi che il film, e qui è la seconda grande sorpresa, ha un successo enorme: nell’aprile 2015 raggiunge un’audience di seicento milioni di telespettatori.

I tempi sono maturi

Grazie al successo ottenuto dal film su Castiglione, il governo di Pechino si convince a fare un passo avanti e a mettere in programma una serie televisiva su Matteo Ricci. «Stavamo realizzando il film sul pittore gesuita Castiglione – spiega Zanetti -, quando Martinson è andato a Nanchino a parlare con il direttore della divisione documentari della Jiangsu Broadcasting Corporation. E questi gli ha detto: “Adesso i tempi sono maturi per realizzare un film documentario su Matteo Ricci”. Martinson ha colto la palla al balzo e gli ha risposto: “Va bene, noi siamo pronti!”». Le restrizioni sulle tematiche che riguardano gli stranieri e i religiosi sono cadute ed è possibile affrontare anche un tema delicato come quello di Ricci, missionario cattolico, straniero.

Così, quando nel 2015 le riprese del film su Roberto Castiglione terminano, la Kuangchi Program Service inizia a raccogliere fondi per un film sul gesuita di Macerata. «Nel settembre dello scorso anno ho iniziato a raccogliere fondi in Italia e in Germania – ricorda Zanetti -, poi mi sono recato negli Stati Uniti, infine a Taiwan e nella Cina continentale. È stato un lavoro non facile, ma all’inizio del 2016 ho messo insieme il budget necessario. A febbraio il direttore della televisione di Nanchino mi ha dato il via libera per partire e a marzo, gli autori hanno iniziato a scrivere la sceneggiatura».

Quattro pilastri

La sceneggiatura seguirà quattro blocchi tematici, che sono i pilastri della vita e dell’azione di Ricci. Il primo, che si intitolerà «Stringendo amicizie», tratta dell’amicizia tra persone e tra culture, valore portante del messaggio ricciano. La seconda «Oriente che incontra Occidente», riguarda l’amicizia di Ricci con Xu Guangqi. La terza si intitolerà «Curando i mali della Cina», perché Ricci e Xu Guangqi hanno lottato per migliorare il sistema agricolo, per superare la malnutrizione, per difendere l’impero, per minimizzare le perdite provocate dai disastri naturali e per massimizzare le risorse. La quarta «Sincronizzati con il mondo», riguarderà lo sforzo di Ricci per modificare il calendario, semplificandolo e rendendolo conforme a quello occidentale; nel campo della geografia, famoso il planisfero di Ricci con la Cina al centro invece dell’Europa; e della matematica, con gli elementi delle geografia euclidea tradotti da Ricci in cinese.

«Il flusso narrativo – conclude Zanetti – dipenderà dalla sensibilità di Gao Wei, il regista che curerà la realizzazione del film. Probabilmente userà la tecnica del flashback: Ricci anziano ricorda alcuni momenti della sua vita. Ma molto dipenderà anche dalle decisioni che verranno prese in fase di montaggio. Le riprese prenderanno il via a fine giugno, inizio luglio. Il film parla di Matteo Ricci e dei gesuiti in Cina, sarebbe interessante se nel documentario ci fosse anche una testimonianza di Papa Francesco che è gesuita e ha espresso più volte la volontà di recarsi in Cina e di riprendere le relazioni diplomatiche con Pechino. Un sogno? Forse, ma ogni tanto anche i sogni diventano realtà…».

Enrico Casale

 




Disabilità: diritto e deboli


Circa 150 comunità sparse nel mondo. Persone con e senza disabilità condividono la vita quotidiana. L’idea di fondo è l’accoglienza reciproca, la promozione dei singoli. Far fruttare la ricchezza della debolezza. Una realtà nata in Francia nel 1964 da un’aspirazione evangelica del suo fondatore, cresce promuovendo anche il dialogo interreligioso e interculturale.

Nella Comunità dell’Arca (Arche in francese, ndr) tutto è pensato a misura delle persone con handicap. Tutti sono uguali e hanno lo stesso spazio.

Jean Vanier, il fondatore, insiste molto nelle sue conferenze e nei suoi scritti sulla ricchezza del «vivere con». Lui, che ha vissuto e lavorato per la maggior parte della sua vita con le persone con handicap, sostiene che una relazione fondata solo sull’assistenza non può portare a cambiamenti, né dal punto di vista sociale, né personale. Per favorire un cambiamento occorre creare legami che escludano la dipendenza. L’amore, la vulnerabilità, il perdono, dice, hanno infatti una capacità trasformante, sia nei confronti della persona accolta che in quelli dei volontari e degli operatori. L’ospite della Comunità dell’Arca non è una persona solo da assistere e curare, ma un mistero da scoprire. I disabili, spesso rifiutati e emarginati, desiderano vivere con degli amici, cioè con persone che li accolgano così come sono, non li giudichino, non li condannino quando vedono i loro limiti, la vulnerabilità, la fragilità.

In un mondo ossessionato dalla perfezione, dal bisogno di affermazione, di successo, di produttività, la debolezza spaventa. Proprio il contatto con persone disabili può aiutare a scoprire il diritto di essere deboli.

Secondo Jean Vanier la debolezza è un dono e un’opportunità, una forza che porta le persone a dare il meglio di sé.

Strutture semplici ma vitali

Esistono in Italia molte realtà che si occupano di persone con handicap fisico e mentale. Tra di esse, le comunità Papa Giovanni XXIII, le Case della Carità, le comunità di Sant’Egidio e numerose altre a carattere locale, sorte in tante città.

Avendo l’occasione di fare del volontariato in alcune di queste case, si conoscono strutture molto semplici ma vitali, gestite da équipe di operatori qualificati, a volte in collaborazione con religiosi. Si incontrano numerosi altri volontari che aiutano nei diversi servizi e nelle attività ludico-formative con l’intento di rispondere alle esigenze particolari di ciascuna persona accompagnata.

La comunità dell’Arca

Qualche tempo fa, durante una tappa formativa del mio cammino di vita religiosa nelle Suore Ausiliatrici1, ho vissuto quattro mesi in Francia prestando il mio servizio all’Arche di Lione. La Comunità dell’Arca è una realtà internazionale fondata nel 1964 a Trosly-Breuil, piccolo comune francese a circa 100 km a Nord di Parigi, da Jean Vanier. La Comunità dell’Arca si articola in singole case (i foyer) nelle quali vivono assieme persone con e senza disabilità. Alla base di ogni comunità c’è la condivisione della vita quotidiana, del lavoro e dell’amicizia.

La comunità di Lione si trova nella periferia Sud Est della città. È formata da tre foyer-focolari che accolgono in maniera stabile circa 30 persone con handicap fisico e mentale e da un Centro diuo con laboratori e spazi per le attività formative a cui partecipano, oltre alle persone ospitate stabilmente, circa 10 persone estee. Dei tre foyer, due sono nello stesso cortile, in due casette indipendenti accanto alla struttura del Centro diuo, in una zona residenziale della città, il terzo è in un appartamento di un palazzo in Centro città. Ogni foyer ospita una decina di persone, ciascuna delle quali ha la propria camera. Uno di essi è per le persone disabili più autonome che lavorano anche all’esterno e che sono più coinvolte nella gestione del foyer stesso. La suddivisione tra uomini e donne è circa del 50%, grossomodo hanno dai 30 ai 60 anni. Le loro famiglie sono generalmente presenti, ma spesso non riuscivano a occuparsi più di loro. Alcuni genitori sono già anziani. Diversi collaborano con la comunità come volontari. Una volta al mese o ogni due mesi gli ospiti passano un fine settimana nelle famiglie.

La quotidianità dei foyer

La vita quotidiana a L’Arche è molto semplice e molto ricca, con un programma uguale tutti i giorni, ma sempre variato dagli imprevisti inevitabili con persone con un handicap mentale.

Dopo la sveglia e la colazione, gli ospiti si ritrovano nella Cappella del Centro diuo per un tempo facoltativo di preghiera, che permette a ciascuno, secondo la propria fede religiosa, di donare un senso alla giornata che sta iniziando. La preghiera è prima in ebraico, in unione con i fratelli ebrei, poi in arabo, in unione con i fratelli musulmani e, infine, in francese, in unione con tutti i fratelli cristiani, accompagnata da un segno di croce, un gesto semplice che fa già respirare un senso di unità, di comunione.

Segue un ampio spazio comunitario, un tempo importante durante il quale gli ospiti dei differenti foyer raccontano aneddoti quotidiani. Ciascuno può prendere la parola e raccontare un vissuto, qualcuno stringe semplicemente la mano, dà un abbraccio, chiede attenzione.

Seguono i diversi laboratori: sport di gruppo, passeggiate, mosaico, lettura, attività con le perle, ricamo, teatro, cucina, cinema, giardinaggio, falegnameria. I responsabili, affiancati dai volontari, usano la creatività per inventare sempre nuove attività.

Il programma della giornata è segnato su una lavagna: di ogni partecipante c’è la foto, ogni laboratorio è rappresentato da un disegno, e il luogo in cui si svolge è identificato dal colore della porta della sala in cui ci si riunisce. In questo modo tutti sanno cosa faranno quel giorno.

Gli espedienti per favorire la partecipazione degli ospiti alla vita comunitaria sono molti. Anche durante il pranzo condiviso tra volontari e persone disabili ognuno ha un proprio compito: qualcuno intona la preghiera, qualcun’altro va a prendere in cucina le pietanze, altri sparecchiano o puliscono i tavoli o danno una mano a lavare i piatti.

Nel primo pomeriggio, dopo un tempo di attività libere, riprendono altri laboratori. Alle 17.00, dopo una merenda insieme, ciascuno dei residenti rientra nel proprio foyer, gli ospiti estei in famiglia.

La serata nei foyer è caratterizzata da uno stile semplice e familiare: si prepara la cena condivisa, anche con i volontari, e ci si aiuta nella preparazione per andare a letto. Infine, c’è un tempo di scambio e di distensione tra volontari, responsabili e assistenti (ragazzi, francesi e non, che vivono per un anno nei foyer, condividendo la vita con i disabili, una sorta di anno di Servizio Civile Volontario).

La vita insieme è attuabile

A L’Arche i disabili sono al centro e «invitano» altri a vivere con loro, creando relazioni nuove, luoghi di incontro tra persone diverse per religione, origine sociale, cultura, livelli intellettivi, e annunciano che l’unità, la riconciliazione, la vita insieme sono attuabili.

Nei Principi Fondatori della Comunità dell’Arca è scritto: «Le persone che hanno un handicap mentale spesso hanno qualità d’accoglienza, di meraviglia, di spontaneità, e di verità. Nella loro sobrietà e nella loro fragilità, hanno il dono di toccare i cuori e di chiamare all’unità. Per la società sono un richiamo vivo ai valori essenziali del cuore, senza i quali il sapere, il potere, e l’agire perdono il loro senso e sono sviati dal loro fine. La debolezza e la vulnerabilità della persona umana, lungi dall’essere un ostacolo alla sua unione con Dio, possono favorirla. In effetti è spesso attraverso la debolezza riconosciuta e accettata che si rivela l’amore liberatore di Dio».

Cristiana, ma non per soli cristiani

L’Arche è profondamente radicata nella fede cristiana, ma non è solo per i cristiani2. Ogni persona che vive nella comunità o la frequenta è invitato a scoprire e approfondire la sua vita spirituale, e a viverla secondo la fede e la tradizione che gli sono proprie. La comunità diventa così sia cristiana che interconfessionale e interreligiosa. I valori cristiani diventano valori umani su cui basare e fondare la comunità: al centro c’è il paradigma della lavanda dei piedi e l’esperienza pasquale, cioè la speranza nella vita che rinasce dalla ferita.

Chiara Selvatici*

* Suora Ausiliatrice (si veda nota 1) di voti temporanei, cresciuta nel mondo scout a Imola,
ha incontrato la spiritualità ignaziana negli anni di ingegneria a Bologna. Oggi vive a Roma.

 Note:

1- L’Istituto delle Suore Ausiliatrici delle Anime del Purgatorio è una congregazione religiosa femminile di diritto pontificio di spiritualità ignaziana, fondato nel 1856 a Parigi da Eugénie Smet. Oggi, a 160 anni dalla fondazione, le Ausiliatrici sono circa 500, presenti in 24 paesi in 4 continenti, con una missione molto diversificata che cerca di rispondere in modo creativo ai bisogni della Chiesa e delle diverse società. In particolare, cercano di farsi prossime a quanti sono nella prova e «vivono situazioni di passaggio», come migranti, persone senza dimora, vittime della tratta, ammalati, carcerati, anziani, ma sono anche impegnate nell’accompagnamento umano e spirituale, nella formazione e nella catechesi, nella pastorale giovanile, nei movimenti di promozione della persona e di lotta alle ingiustizie. (www.suoreausiliatrici.it)

2 – Nel 2006 e 2008 Christian Salenson, teologo e direttore dell’Istituto di scienze e di teologia delle religioni di Marsiglia, ha cercato di leggere i principi fondativi de L’Arche alla luce della fede cristiana: C. Salenson, L’Arche. Une spiritualité singulière et plurielle, L’Arche en France, 2009.


La storia de «L’Arche» e dei suoi fondatori

50 anni di accoglienza

«Prima per me non era vita: tutta la giornata in una sala, seduto. Non potevo fare niente, non potevo uscire, non c’erano impegni, occupazioni, niente».

La prima comunità dell’Arca nasce nel 1964 a Troly-Breuil, una piccola cittadina a Nord di Parigi, dove Jean Vanier, incoraggiato dal suo padre spirituale, padre Thomas Philippe, domenicano, invita Philippe e Raphaël, due persone con handicap, a vivere con lui in una piccola casa che chiamerà «L’Arche», l’Arca, nome che ricorda l’arca di Noè, la barca della salvezza, simbolo di sicurezza e di rinnovamento, della prima alleanza tra Dio e l’umanità, e che ricorda anche Maria, definita dai padri della Chiesa come Arca dell’alleanza.

La piccola comunità cresce velocemente accogliendo altre persone disabili, ma anche giovani di tutto il mondo che desiderano conoscere e condividere questa esperienza di vita. La Comunità dell’Arca, iniziata da Jean Vanier, si diffonde presto nel mondo. Già nel 1969, il desiderio di aprire nuove comunità si concretizza nella fondazione di una comunità a Daybreak, vicino a Toronto, in Canada, e in India, a Bangalore.

L’espansione, totalmente inaspettata per Jean, apre l’Arca a nuove culture, nuove lingue, nuove realtà sociali molto differenti da quella francese. Nel 1972 viene quindi creata la Federazione internazionale delle Comunità dell’Arca.

Sorte da un’ispirazione cattolica, dal desiderio di Jean di dare carne al suo percorso spirituale di incontro con il Signore delle beatitudini, le comunità diventano presto luoghi ecumenici e di dialogo interreligioso, luoghi di accoglienza e segni di speranza e di solidarietà.

Nel 2014, l’Arca festeggia i suoi primi 50 anni. Attualmente è presente nei cinque continenti con 149 comunità in 38 paesi1.

Jean Vanier.

Nasce il 10 settembre 1928 a Ginevra, in Svizzera, da una famiglia canadese. Vive la sua infanzia in Canada, nel Regno Unito e in Francia, dove suo padre viene inviato come diplomatico. Pochi giorni prima dell’occupazione nazista, insieme ai suoi quattro fratelli e a sua sorella, scappa da Parigi e, in previsione di una carriera da ufficiale della Marina, volendo seguire le orme del padre George, nel 1941 è ammesso all’accademia navale britannica. All’inizio del 1945 Jean visita Parigi dove suo padre era ambasciatore del Canada e, insieme a sua madre, si prende cura dei sopravvissuti dei campi di concentramento. Il contatto con queste persone, segno di un’umanità ferita, lo tocca profondamente. All’età di diciassette anni diventa ufficiale e si unisce alla Royal Navy. Tre anni più tardi viene trasferito alla Marina canadese, ma, nonostante una carriera promettente, nel 1950 lascia per studiare filosofia e teologia all’Istituto Cattolico di Parigi. Nel 1963 pubblica la sua tesi di dottorato su Aristotele e insegna filosofia all’Università di Toronto. Fondamentale per il cambiamento radicale della sua vita è l’incontro con la sua guida spirituale, padre Thomas Philippe, domenicano, cappellano di un centro per malati mentali a Trosly-Breuil, a Nord di Parigi. Tramite lui conosce la condizione di persone con grave disabilità, «ragazzi che […] si chiedevano “chi sono, perché sono così, perché nessuno mi crede, perché i miei genitori non sono felici che io esisto?”. Persone desiderose di sapere chi vuole loro veramente bene»2. Nel 1964 lascia il mondo accademico per proseguire la sua ricerca interiore e spirituale, compra una piccola casa a Trosly e invita a vivere con lui Raphaël e Philippe, due persone con handicap che vivevano nel Centro di Trosly-Breuil, ma che, abituati a vivere in famiglia, non riuscivano ad adeguarsi alla vita dell’Istituto. Mentre la comunità di Trosly cresce rapidamente, Jean inizia a viaggiare per tutto il mondo: partecipa a dibattiti, conferenze e ritiri, parlando della debolezza, del diritto di essere deboli, raccontando e testimoniando la sua esperienza, rivolgendosi soprattutto ai giovani.

Nel 1968, nell’Ontario, riunisce laici, religiosi e persone con handicap per il primo ritiro di «Foi et Partage», Fede e Condivisione, esperienza che dà origine a comunità, soprattutto in Canada, che si riuniscono e pregano insieme una volta al mese3. Nel 1971, dopo un pellegrinaggio a Lourdes con 12.000 persone, di cui 4.000 disabili, fonda, assieme a Marie Hélène Mathieu, «Foi et Lumière», Fede e Luce, un movimento che riunisce ogni mese gruppi di 20-40 persone con handicap, le loro famiglie e i loro amici, per momenti di amicizia, condivisione, preghiera e festa. Oggi esistono più di 1.500 gruppi di Fede e Luce in 82 paesi, tra cui una sessantina anche in Italia4.

Jean Vanier è molto impegnato anche nella vita della Chiesa e nel dialogo ecumenico: pronuncia il discorso di apertura dell’Assemblea generale del Consiglio ecumenico della Chiesa, a Vancouver, nel 1983, partecipa al Sinodo sulla laicità a Roma su invito del papa, nel 1998 partecipa al Comitato centrale del Consiglio ecumenico della Chiesa a Ginevra ed è invitato dall’Arcivescovo di Canterbury al consiglio dei vescovi della Chiesa anglicana durante la Conferenza di Lambeth.

Numerosi i riconoscimenti per la sua attività nell’ambito della difesa dei diritti umani e dello sviluppo dei popoli. Tra di essi riceve il Premio Internazionale Paolo VI nel 1997, il Pacem in Terris nel 2013, il Templeton nel 2015.

Nel 2000 fonda «Intercordia», un’associazione con lo scopo di offrire ai giovani universitari un anno di «formazione alla pace» mediante un’esperienza interculturale tra i poveri e gli emarginati nei paesi in via di sviluppo5.

Nonostante i suoi 87 anni, continua a fare conferenze e a dare ritiri, principalmente a Trosly. I suoi libri, diffusi in tutto il mondo, sono tradotti in più di 30 lingue6.

Raphaël Simi. Coetaneo di Jean Vanier, nasce nel 1928 a Marsiglia e cresce a Parigi con i suoi genitori, sua sorella e suo fratello. All’età di tre anni, a causa di una meningite e di altre complicanze, perde l’uso della parola e un’emiplegia gli causa problemi di deambulazione. Alla morte dei suoi genitori, nel 1962, viene mandato nella struttura per disabili di Trosly, dove si sente «rinchiuso». Cresce il suo malessere per il distacco dal mondo e dalle relazioni. Nel 1964 accetta l’invito di Jean Vanier ad andare a vivere con lui, insieme a Philippe. Resta in contatto con i suoi fratelli fino alla loro morte. Quando la comunità di Trosly si ingrandisce, nel 1988 chiede di andare a L’Arche di Verpillieres, a Nord di Parigi, per vivere in un ambiente più tranquillo. Fa il postino della comunità ed è sempre disponibile per piccoli servizi e nei laboratori fino alla sua morte, avvenuta il 24 marzo 2003.

Philippe Seux. Nasce nel 1941 a Casablanca, in Marocco. All’età di due anni contrae un’encefalite che gli procura danni cognitivi permanenti. Quando ha 20 anni, sua madre si ammala e, in cerca di cure, si trasferiscono in Francia. Due anni più tardi, nel 1963, alla morte della madre, viene mandato nel Centro per disabili di Trosly. Dopo un anno di sofferenza incontra Jean Vanier che lo invita a vivere con lui. Philippe si trasferisce il 4 agosto 1964. Racconta: «Quando sono arrivato a L’Arche, non c’era l’elettricità, non c’era niente. Si usavano candele per illuminare la casa, era divertente! Mancavano i sanitari e la doccia in bagno. Ho detto “Ok, non c’è problema!”, perché ero felice. Prima per me non era vita: tutta la giornata in una sala, seduto. Non potevo fare niente, non potevo uscire, non c’erano impegni, occupazioni, niente. Ho anche pianto. Non ero a mio agio. Poco a poco tutto poi si è messo in ordine a L’Arche». Nel 1975 si trasferisce a Compiègne, vicino a Trosly, continuando per 10 anni a frequentare i laboratori diui a Trosly. Oggi la sua salute e autonomia sono peggiorate, ma continua a vivere con gioia nella comunità.

C.S.

Note:

1- www.larche.org.
2- J. Vanier, Il sapore della felicità. Alle basi della morale con Aristotele, EDB, Bologna 2002.
3- http://foietpartage.net.
4- www.foietlumiere.org.
5- www.intercordia.org.
6- www.jean-vanier.org.

 


Due comunità crescono

L’Arca in Italia

Il Chicco, la prima comunità italiana, è nata nel 1981 quando Guenda e Anne hanno accolto in una piccola casa a Ciampino, vicino a Roma, Fabio e Maria, bambini con handicap. La storia della casa e della comunità è legata alle parole del Vangelo di Giovanni, 12,20-28: «Se il chicco di grano non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto».

Nel progetto iniziale Guenda e Anne avrebbero voluto accogliere la piccola Chicca che però morì poco prima del trasloco, e in suo ricordo la comunità ha preso il nome Il Chicco. In oltre 30 anni di vita la comunità si è ingrandita e attualmente è composta da tre foyer, Il Chicco, La Vigna e L’Ulivo, che ospitano circa 20 persone con handicap mentale, e un Centro di accoglienza diuo con quattro laboratori: Nido, Universo, Mulino e Natura.

L’Arcobaleno, la seconda comunità italiana, è nata nel 2001 a Quarto Inferiore, in provincia di Bologna, con l’accoglienza di Albertina e Cristina nel primo foyer chiamato Il Cedro. Dopo un anno è stato aperto il laboratorio La Formica per le attività diue, sia per i residenti nella comunità che per gli estei. Negli anni la comunità si è ingrandita con la costruzione di due nuovi foyer, Il Grano, nel 2007, e la Manna, nel 2013, con l’ampliamento del Centro diuo, con la creazione del laboratorio La Tartaruga e, nel 2012, del laboratorio La Civetta.

C.S.

 




Timor est piccoli imprenditori crescono


Un piccolo paese, indipendente dal 2002, con appena 1,2 milioni di abitanti, in maggioranza cattolici, cerca di uscire dalla povertà e dall’isolamento. Vi raccontiamo le storie di alcuni giovani imprenditori locali.

«Adoro cucinare all’aria aperta. Mi piace che le persone possano vedermi mentre preparo i miei piatti. Questo crea un rapporto più diretto tra me e loro». A bordo di un pick up di seconda mano Cesar Gaio passa le sue giornate lungo le ventose strade che costeggiano il mare di Dili, fermandosi nelle zone più affollate per vendere deliziosi wrap. Una piccola cucina a gas montata sul retro del furgone gli basta per preparare questi sandwich fatti con morbido pane basso arrotolato intorno a un ripieno di patate dolci viola e pesce fresco. La scritta «Dilicious Timor» che si legge sulla fiancata del camioncino è la stessa che si trova sull’insegna del piccolo ristorante che ha aperto alcuni mesi fa, sempre vicino alla costa, nella capitale di Timor Est. E anche nel suo locale vengono serviti esclusivamente piatti preparati con prodotti freschi del luogo.

Cesar Gaio ha 32 anni, le idee chiare e la voglia di costruire qualcosa di stabile per sé e per il suo paese. È uno dei sempre più numerosi giovani imprenditori che, tra mille difficoltà, hanno deciso di scommettere sulle risorse e la popolazione locale per avviare attività che possano trascinare l’isola in cui è nato e cresciuto fuori dal baratro del sottosviluppo e della povertà in cui secoli di dominazione portoghese e 25 anni di occupazione indonesiana l’hanno sprofondata. La sua storia, raccontata dal sito latestnews24, dimostra che gli abitanti di Timor sono chiamati ad affrontare quotidianamente problemi di ogni sorta ma non hanno perso la speranza nel futuro.

Un caffè da Gally

L’anno scorso Gally Soares Araujo ha lasciato il suo ben retribuito lavoro da impiegato statale e, con i soldi messi da parte, ha aperto Kaffe Out, un piccolo bar costruito con mattoni rossi che offre diversi tipi di pregiati caffè, accompagnati da torte di carota e altri dolci, nel centro di Dili. A 29 anni Gally ha sentito il «bisogno di iniziare a fare qualcosa di mio». E siccome a Timor Est l’industria del caffè ha un enorme potenziale ancora poco sfruttato ha deciso di investire in questo settore. Nel suo locale, arredato in modo essenziale e colorato, particolarmente richiesta è la miscela prodotta nella zona del Monte Rameleau, che con i suoi 2.962 metri è la montagna più alta di tutta l’isola (curiosità: in passato è stata la vetta più alta di tutto l’Impero portoghese). Nella lingua locale, il tetum, il rilievo è chiamato Tata Mailau, che significa letteralmente «Il nonno di tutti». «Il particolare microclima della zona consente di coltivare un eccellente caffè, che ha un aroma molto particolare», ha spiegato Gally alla Bbc. «Penso che si possa veramente dare un contributo al cambiamento di cui il paese ha bisogno. Quando le Nazioni Unite hanno concluso la loro missione di pace nel 2012 abbiamo capito che avremmo dovuto iniziare da soli a ricostruire. Ed è quello che stiamo facendo».

Invasione straniera

Non tutti gli imprenditori hanno scommesso sul settore del cibo e della ristorazione. Rui Carvalho ha utilizzato i suoi risparmi e ha venduto alcuni terreni di famiglia per aprire nel 2009 Rui Collections, una boutique di moda made-to-order. L’azienda produce principalmente tais, un panno di cotone tradizionale che viene utilizzato per confezionare abiti, scarpe e borse. «Quando vedo le donne che vivono nelle zone rurali, che non sanno leggere, non sanno contare e non hanno neppure gli strumenti per produrre il tais mi accorgo di quanto sia difficile la strada che abbiamo davanti», ha sottolineato Rui nel corso di un’intervista a latestnews24. «Ma sono molto orgoglioso di quello che sono riuscito a realizzare fino ad ora con tanti sacrifici». L’imprenditore ha 42 anni e da quando ha avviato la sua attività ha potuto assumere più di una dozzina di dipendenti, in maggioranza vedove, giovani che avevano abbandonato la scuola e persone in difficoltà.

Quella di Carvalho è stata una scelta particolarmente coraggiosa in un paese in cui l’80% degli 1,2 milioni di abitanti vive di agricoltura, quasi sempre di sussistenza, e meno di 200mila persone hanno un impiego effettivo. Ma anche gli altri «colleghi» devono dimostrarsi molto determinati, essendo chiamati a fronteggiare difficoltà enormi collegate alla povertà diffusa, alla carenza di infrastrutture e alla mancanza di istruzione. Ostacoli cui si è aggiunto nell’ultimo periodo quello della concorrenza proveniente dall’estero.

La catena statunitense Burger King, ad esempio, ha deciso di raddoppiare entro i prossimi cinque anni i punti vendita presenti sull’isola, portandoli a otto. Beard Papa, franchising giapponese specializzato in bignè alla crema, ha appena aperto un negozio a Dili e ne avvierà altri quattro a breve. L’australiana Gloria Jean’s Coffee ha in programma di espandere la sua per ora modesta presenza e anche l’olandese Heineken ha iniziato le procedure per costruire una fabbrica di birra in loco. La speranza degli imprenditori stranieri è quella di attrarre non solo i turisti ma anche gli abitanti più giovani, inevitabilmente influenzati dallo stile di vita e di consumo occidentali.

Basta paura e rassegnazione

Filipe Alfaiate gestisce Empreza Diak, un’organizzazione che ha trascorso gli ultimi cinque anni cercando di incoraggiare l’imprenditorialità locale come una forma di cambiamento sociale. Secondo lui il popolo di Timor Est ha davanti a sé una sfida epocale, quella di riuscire a creare un’economia di mercato in grado di reggersi sulla domanda intea. Impresa di per sé non facile per un paese così piccolo, e resa ancora più complicata da decenni di sfruttamento da parte di potenze straniere che hanno contribuito a rendere le persone rassegnate e avverse a ogni tipo di rischio.

«Dopo tutto quello che hanno passato, gli abitanti di Timor preferiscono aggrapparsi a quello che già hanno. Questo li porta nella maggior parte dei casi a scegliere la sicurezza di una paga mensile, per quanto misera, piuttosto che assumersi il rischio legato all’avvio di una nuova attività», ha sostenuto Alfaiate alla Bbc.

Negli ultimi tempi però la situazione ha iniziato a cambiare. «I giovani hanno cominciato a capire che non ci sono abbastanza posti di lavoro per tutti. La metà della popolazione dell’isola ha meno di trent’anni e quindi una mentalità più aperta rispetto alle precedenti generazioni. Sempre più persone si stanno orientando verso scelte imprenditoriali, assumendosi dei rischi per avviare nuove attività che possano portare a un cambiamento e a uno sviluppo».

Per Alfaiate il primo scoglio da superare è proprio di tipo culturale. «Serve un grande cambiamento nel modo di pensare. Per secoli gli abitanti di Timor sono stati abituati a coltivare i campi, producendo cibo appena necessario al proprio sostentamento». Il piccolo sviluppo dell’economia avvenuto di recente è stato legato quasi esclusivamente al turismo e alla presenza del personale delle Nazioni Unite. «Si importano cose e si vendono. Quello che è necessario sono invece persone pronte a scommettere sulle risorse e sui lavoratori del luogo. Per essere un imprenditore nella nostra isola serve un mix di grande talento, accesso al credito e sostegno a livello locale. Ci vorrà del tempo ma le cose si stanno muovendo nella direzione giusta. Ci sono possibilità di crescita concrete, anche se ancora limitate».

L’ottimismo di Alfaiate è confortato dai numeri. Florencio Sanches, il capo dell’ufficio governativo incaricato di registrare nuove imprese ha dichiarato, sempre alla Bbc, che i giovani imprenditori negli ultimi anni sono andati aumentando, anche grazie allo snellimento delle procedure burocratiche, che ha reso più facile per gli abitanti avviare un’attività. Dal 2013 sono state costituite 11mila nuove imprese, in grandissima parte proprietà di persone sotto i trent’anni, mentre nel lustro precedente le registrazioni erano state in tutto 5mila.

La vera svolta, però, secondo Sanches si vedrà solo se si riuscirà a garantire alla popolazione un più ampio accesso al credito. «Il governo dovrebbe impegnarsi a sviluppare politiche che incoraggino banche e istituti a prestare denaro alle persone». Servono tassi e condizioni agevolate per l’ottenimento di finanziamenti, «senza i quali a Timor non potrà mai svilupparsi un tessuto imprenditoriale abbastanza robusto per consentire la nascita di un’economia locale solida». Anche volendo però, l’esecutivo non potrà fare tutto da solo. «Abbiamo bisogno della partecipazione del settore privato. Devono essere studiate in breve tempo delle soluzioni, perché solo risolvendo questo problema potremo dare alla nostra isola la speranza di un futuro migliore».

Paolo Tosatti*


Cronologia essenziale

Dai portoghesi agli indonesiani

XVI-XX Secolo – Timor Est è sotto il dominio del Portogallo, che sfrutta l’isola a fini commerciali.

1975 – Il 28 novembre fazioni filo-comuniste presenti nel paese dichiarano l’indipendenza da Lisbona. A dicembre il timore di vedere un governo comunista indipendente all’interno dell’arcipelago indonesiano porta il governo di Jakarta a invadere Timor Est su vasta scala, con il supporto dei governi occidentali.

1976 – Il 17 luglio l’Indonesia dichiara Timor Est come la propria 27esima provincia con il nome di Timor Timur. Inizia un lungo periodo segnato da scontri tra l’esercito clandestino degli indipendentisti, le forze regolari indonesiane e le milizie civili anti-indipendentiste. Nei combattimenti vengono spesso coinvolti anche i civili.

1996 – José Ramos-Horta, rappresentante del Fretilin, il partito che conduce la lotta clandestina contro l’occupazione, si vede assegnare, insieme a monsignor Carlos Filipe Ximenes Belo, il premio Nobel per la pace per il proprio impegno in favore dell’indipendenza del suo paese.

1999 – Dopo oltre 20 anni di occupazione il 30 agosto gli abitanti dell’isola votano in favore dell’indipendenza in un referendum organizzato dalle Nazioni Unite. Timor diventa così la prima nazione a raggiungere l’indipendenza nel XXI secolo. Nel paese si scatena un’ondata di violenze che si interrompe solo a seguito dell’intervento della forza di peacekeeping Interfet («Inteational Force for East Timor») formata da 10mila uomini di 17 paesi, Italia compresa. Successivamente subentrano le Nazioni Unite con Untaet prima e Unmiset poi.

2002 – Il 20 maggio Timor Est diviene indipendente. Xanana Gusmão, leader del movimento di guerriglia indipendentista Falintil, viene eletto presidente.

2006 – Nel mese di marzo metà delle forze armate si ribella al primo ministro Mari Alkatiri, che le aveva forzatamente congedate. I soldati ribelli si rivolgono a Gusmão che, sconfessando l’operato del premier, assume il comando dell’esercito. Il paese precipita nella guerra civile. L’intervento di 2000 soldati australiani, 500 malesi e di alcune unità neozelandesi e portoghesi limita i danni nei confronti della popolazione.

2007 – Il Nobel Ramos-Horta viene eletto capo di stato. Xanana Gusmão diventa primo ministro.

2008 – L’11 febbraio un gruppo di militari ribelli tenta un golpe, attaccando Ramos-Horta, che resta gravemente ferito, e Gusmão, che esce invece illeso dall’attentato. Il colpo di stato non ha comunque successo.

2012 – Taur Matan Ruak, ex leader della guerriglia antindonesiana, viene eletto presidente.

2015 – Il 2 febbraio Xanana Gusmão rassegna le dimissioni dalla carica di primo ministro. Gli subentra Rui Maria De Araujo.

2016 – A fine marzo prende possesso della diocesi di Dili il nuovo vescovo Virgilio Do Carmo Da Silva.

Pa.To.




Brasile: l’aquila sul tetto


Padre Pietro Parcelli ha lasciato il Brasile nel 2014 dopo lunghi anni di servizio missionario. Per gli amici la parola «lasciato» è un eufemismo, perché di fatto il suo cuore è ancora là, più precisamente a Salvador, capitale dello stato di Bahia, dove, nella zona di Novos Alagados, anni fa ha aiutato a nascere il progetto «Kilombo do kioiô». Qui condivide alcuni ricordi di un viaggio compiuto nell’agosto 2015.

Quella mattina del 5 agosto, appena entrato a Kilombo, sono rimasto colpito da un uccello grande e robusto che dal tetto osservava ogni cosa con occhio sicuro e senza timore. Ho subito pensato che fosse un uccello rapace proveniente dal bosco vicino, parte del parco di San Bartolomeo, uno dei pochi resti della famosa «Mata Atlantica» (la foresta atlantica di cui si parla su MC 4/2016, pag. 22, ndr). Denys, la direttrice del Kilombo, che mi stava vicina, ha detto: «Vedi, è un’aquila». «Un’aquila? Da dove viene? – ho domandato io – È rara un’aquila da queste parti». «Sì, è un’aquila che viene dalla Mata Atlantica».

Dopo diversi mesi, l’immagine dell’aquila mi torna alla mente come una specie di simbolo che rappresenta in modo particolare gli ultimi 15 anni della mia vita.

Il cammino del Kilombo

È stato nel 1999 che sono sbarcato nella favela di Novos Alagados, nel territorio della parrocchia di São Brás, come un «estranho no ninho», un «uccello fuori dal nido». Accompagnato da un gruppo di giovani parrocchiani visitavo le famiglie. In mezzo alle palafitte, ponti di legno, viuzze, ho visto la fame. Nello sguardo timido delle matriarche, molte abbandonate dai mariti, scorgevo il pianto nascosto suscitato dalla notte che veniva senza aver niente da dare da mangiare ai bambini.

La povertà, la mancanza di strutture sanitarie e la fame mi hanno fatto alzare in volo, come l’aquila della Mata Atlantica, in cerca di soluzioni. E nel piccolo salone in fondo alla chiesa di Aparecida, in riva al mare, abbiamo cominciato a riunire il primo gruppo di mamme. Potevamo fare poco, ma quel poco doveva essere immediato e concreto: consegnavamo mensilmente una consistente cesta di alimenti e, allo stesso tempo, alimentavamo la fede delle famiglie invitandole alla celebrazione domenicale e a una riunione settimanale. È stato così che la Consolata ci ha mostrato che potevamo fare la differenza nella vita di quelle persone, con l’aiuto di amici e benefattori. Col sostegno a distanza di molte generose famiglie italiane abbiamo cominciato ad aiutare uno, due, anche fino a cinque dei figli di quelle mamme che non avevano mezzi per saziare le loro creature.

Siamo andati avanti così con entusiasmo. Ma il problema era enorme e il 2000 fu particolarmente duro. C’era il dubbio di non avere le ali adatte per un volo così alto.

Spiccare il volo

Il 2001 ha invece portato nuova energia. Il progetto cominciava a spiccare il volo: nasceva in un piccolo spazio il «Kilombo do kioiô».

I kilombos erano le comunità in cui si rifugiavano gli schiavi africani che fuggivano dai loro padroni quando il Brasile era dominio portoghese. Il kioiô è una pianta tipica della regione, usata nella medicina e nella cucina locale. In fondo al giardino della casa che avevano comprato per il progetto, c’era proprio una pianta di kioiô. Ecco battezzato il rifugio dove realizzare la nostra missione: offrire un destino differente a chi vive schiavo della fame, dell’abbandono, dell’ignoranza e della mancanza di prospettive.

La cesta di alimenti che offrivamo a molte famiglie era per loro una consolazione, e questo l’abbiamo potuto constatare in diversi momenti. Una mattina ero in macchina con due giovani, dopo aver consegnato la cesta a una mamma ammalata. A un certo punto, quattro giovani armati di pistola ci hanno fermati gridando di scendere dalla macchina. Sentivo le urla delle persone: «È il padre missionario, lasciatelo stare, è il missionario». I giovani che erano con me, pieni di spavento, mi hanno detto di uscire dall’auto e di buttare la borsa a terra. «Che c’è là dentro?», mi ha urlato uno degli assalitori. «Ci sono le cose per la Messa», ho risposto. Dopo aver dato un calcio alla borsa si sono dileguati.

Insegnare a volare

Quando il governo brasiliano ha iniziato il progetto «Fame zero», abbiamo capito che era arrivato il tempo di cambiare: non più distribuire cibo, ma insegnare a procurarsene. È nato così il gruppo di alimentazione che oggi conta quarantacinque mamme. Esse vengono nel Kilombo per imparare a cucinare e a fare pane, a confezionare torte dolci e salate. Il ricavato della vendita dei prodotti aiuta a mantenere le attività del Kilombo. È un’iniziativa che insegna un mestiere queste donne che guadagnano anche un po’ di soldini per mantenere la famiglia. Le spese delle materie prime e del centro sono in parte coperte da un contributo delle mamme, che ogni mese versano parte dei loro guadagni, e dalla generosità di benefattori e istituzioni che ci aiutano a portare avanti il lento cammino di formazione umana e professionale che coniuga rendimento e dignità.

Sotto le ali

Quasi tutte le donne con cui lavoriamo abitano in zone dominate dal traffico della droga. Da loro è venuta la richiesta di fare qualcosa per togliere i figli dalla strada. È così che nel 2011 abbiamo spiccato un altro volo, senza poter prevedere dove saremmo arrivati. È nato il doposcuola del Kilombo. Rispetto alla scuola statale, qui ogni attività è preceduta dalla preghiera e si svolge in un clima più dinamico e alternativo, stimolando la creatività. La preghiera è sempre rivolta alla patrona del Kilombo: Nossa Senhora Consolata.

La missione del doposcuola è di migliorare le conoscenze acquisite dai ragazzi nella scuola statale, perché il livello educativo nella zona è molto basso. È facile incontrare bambini che a dieci anni non sanno leggere né scrivere. E per evitare che la fame fosse un ostacolo alla resa nell’aula scolastica, abbiamo cominciato a offrire una merenda abbondante.

Il Kilombo segue direttamente 66 bambini divisi in cinque classi. Al mattino sono 32 ragazzi dagli otto ai tredici anni, divisi in due classi. Al pomeriggio sono 34 dai sette ai quattordici anni, distribuiti in tre classi. Ogni classe è accompagnata da un’insegnante e una vice. Le attività sono molto diversificate: mensilmente i bambini hanno lezioni di salute dentaria; sono visitati regolarmente da narratori di fiabe e storielle, importanti per i bambini; ricevono formazione su alimentazione, igiene e salute; sono addestrati al primo soccorso da volontari dell’Università Federale della Bahia; mentre gli insegnanti partecipano a corsi di aggioamento finanziati dalla Fondazione Roberto Marinho, sostenuta della Rede Globo, il più grande gruppo di radio e televisione del Brasile.

La capoeira

La capoeira è praticata con entusiasmo nel Kilombo. È un’arte marziale con un sistema di attacco e difesa di carattere individuale, molto simile a una danza. Bambini, adolescenti e giovani sono aiutati dalla pratica di questo sport a sfuggire alla droga e alla criminalità.

Durante la mia visita dello scorso agosto, guidato dal suono del berimbau, strumento a corda che è utilizzato per segnare il ritmo della danza, ho camminato con i ragazzi fino al parco S. Bartolomeo, un’area ricca di ricordi della cultura afrobrasiliana, localizzata a 500 metri dal Kilombo. Siamo arrivati alla cascata di Oxum (Oxum è un orixa, cioè una delle divinità del Candomblé, religione afro brasiliana), e là è iniziata la ruota della capoeira. Il canto degli uccelli si è sintonizzato con le battute dei tamburi, mentre i movimenti acceleravano in una sincronia perfetta. Per loro il cielo non sembra avere limiti.

Anche le nonne volano

Nel 2014 è arrivata una nuova ispirazione: coinvolgere nelle attività del Kilombo anche le nonne della comunità. Si è cominciato con una settimana di attività nel mese di luglio, mese dedicato alle nonne qui in Brasile. Il risultato è stato così entusiasmante che, nonostante la difficile situazione economica, abbiamo deciso di aprire le porte alle donne anziane. Sono quindici signore con più di 50 anni di età, che sono invitate a partecipare al progetto di alimentazione del Kilombo. È un tempo di terapia e socializzazione, attività molto importanti nella situazione di abbandono in cui vivono. Così abbiamo spiccato un altro volo.

Durante la mia visita della scorsa estate, in una casetta vicino al Kilombo, ho conosciuto Luzia, una giovane di 22 anni, cieca, con deficienza mentale e un solo polmone. Sua madre, donna Val, aveva preso la varicella quando era incinta della bambina. Nonostante il consiglio medico di abortire, ella aveva voluto aprire le ali e accogliere Luzia. Lo sforzo di accudire la figlia è immenso, ma l’amore vince ogni barriera. Val prepara la merenda per i bambini del Kilombo. A volte arriva un po’ in ritardo, ma nulla le toglie il sorriso e la sua volontà di vincere.

In un’altra visita sono andato a casa di Marta, una delle mamme del Kilombo. Il figlio Jomarley di dieci anni, con paralisi celebrale, è stato abbandonato dal padre. Marta si fa in quattro per dar da mangiare a Jomarley e Taiana di dodici anni.

I rapaci

Tutte queste attività, prima di realizzarle, sembravano un sogno davanti alla realtà in cui si trovava il Kilombo. E ancora di più oggi, davanti alla crisi del Brasile di questi ultimi mesi. Una nonna del progetto mi ha detto: «Prima con un real (moneta brasiliana) compravi sei panini, ora due». Ma nonostante i rapaci della crisi e dell’inflazione, vogliamo continuare a sognare nuovi voli.

Padre Pietro Parcelli, missionario della Consolata,
in collaborazione con Diniz Vieira, giornalista,
e Adenilza Cruz,  direttrice e cofondatrice del  Kilombo do kioiô.