Divinamente Acqua

Feste e riti nell’India induista

Nelle religioni
l’acqua è uno degli elementi simbolici più forti. L’acqua è vita, è
purificazione, è unione con il divino. In India è l’acqua del Gange, fiume
sacro per antonomasia, ad attrarre milioni di persone. Proviamo a spiegare il
significato di questo rapporto che è fisico e spirituale.

Parlare e scrivere di India non è semplice, considerata la complessità
culturale e filosofica del paese asiatico. Pur tra innumerevoli contrasti, esso
rimane la più grande democrazia al mondo, intrisa ancora di una profonda
dimensione spirituale, dove si percepisce un «intimo» rapporto tra l’uomo e le
forze divine, tra il microcosmo e il macrocosmo. Un misticismo che sopravvive
in maniera diffusa, sebbene l’influsso di alcune tendenze culturali, tipiche
dell’Occidente, stia scompaginando antiche tradizioni e valori millenari, come
a suo tempo rilevato dall’orientalista Giuseppe Tucci, quando scrisse che «l’India
ha cambiato più in quindici anni che in quindici secoli». Un’affermazione che
riguardava il periodo tra il 1925 e il 1940, epoca in cui si potevano già
scorgere diversi episodi di mera imitazione di modelli stranieri. Tuttavia,
andando oltre le mode di Bollywood e le avanguardie tecnologiche di Bangalore,
l’India rimane una terra avvolta da una profonda devozione, al di là di
avvenimenti caratterizzati da intolleranza religiosa, che in molti casi
nascondono motivazioni politiche e questioni intee di potere.

Nel subcontinente indiano, materia ed energia, uomo e
infinito s’incontrano a un livello molto sottile, osservabile nella vita
quotidiana di milioni di abitanti, da Nord a Sud. Infatti, l’induismo (San?tana-Dharma, Legge
eterna) si manifesta attraverso un’ortoprassi che consiste in una serie di
norme che regolano ogni aspetto dell’esistenza di un devoto, a cominciare dalle
abluzioni del mattino sino alle p?j? (offerte di fiori, frutta, foglie, riso, dolci e
acqua) alle divinità. Soprattutto nei luoghi considerati sacri, come Varanasi
(Benares) e Haridwar, si tocca con mano proprio questa profonda spiritualità,
in particolare, se ci si avvicina al Gange.

L’acqua
metafora della vita

Nell’antico testo induista Taittir?ya-Sa?hit? si legge: «L’acqua è la più grande nutrice ed è quindi
come una madre». I fiumi in India sono considerati le dimore degli dei. L’acqua
è simbolo di vita, oltre che di purificazione e di guarigione per molti popoli
(si pensi, per esempio, all’acqua benedetta della sorgente della Grotta di
Lourdes che alimenta le fontane, il cammino dell’acqua e il bacino destinato
alle piscine). Nel subcontinente indiano la centralità dell’elemento acqua
assume risvolti singolari ed è oggetto di una devozione che probabilmente non
ha eguali altrove.

Per i fedeli indù tutti i fiumi indiani sono avvolti da
un alone di sacralità: la loro corrente, simbolo del flusso della vita, si
rinnova dalla sorgente sino all’oceano, dove incontra le altre acque,
perdendosi in esse. Una metafora ben descritta dal poeta e mistico indiano Tuls?d?s
con queste parole: «Quando confluisce nell’acqua dell’oceano, l’acqua del fiume
s’acquieta, come l’anima quando trova il Signore». L’esistenza della corrente
del fiume è transitoria, proprio come la vita degli esseri umani, ma è
bagnandosi alla sorgente dei fiumi che l’essere umano trova la sua sorgente
spirituale. L’importanza in India dei corsi d’acqua è anche testimoniata dal
fatto che, spesso, un luogo di pellegrinaggio viene definito t?rtha, ovvero «guado» o
ancora t?rtha-y?tr?, «guado sacro».

Il fiume più venerato è il Gange, che incarna l’energia
divina ed è esso stesso divinità, onorato da milioni di indiani, in quanto
fonte di vita, non soltanto punto di transito da una città a un’altra, ma anche
canale di interconnessione fra la terra e i cieli. È così importante che gli
indiani hanno composto un’ode, il Gangastothra-sata-namavali, dove
vi sono ben 108 nomi attribuiti al fiume Gange (come viene raccontato
dall’ecologista Vandana Shiva nel libro Le guerre dell’acqua).

Nei luoghi sacri lambiti dal Gange si vedono, in
particolari momenti della giornata, uomini e donne di ogni età intenti nelle
abluzioni. In riva al fiume, sui larghi scalini (chiamati gh??) di pietra, grazie ai quali si discende nelle acque, si
osserva il fermento devozionale: sfilate di fedeli compiono il rito della p?j?, con offerte di
coloratissimi fiori profumati e lumini accesi. Bagnarsi nelle acque del Gange,
secondo gli induisti, permette di rimuovere tutte le impurità dell’anima,
generate da azioni non virtuose. Immergersi in esso significa essere accolti
dalla divinità. Un atto compiuto per rigenerarsi, eliminando dal proprio karma qualsiasi forma di
negatività.

Quando
la realtà si confonde col mito

La devozione che gli induisti nutrono verso i fiumi si
percepisce soprattutto in occasione del Kumbha-mel?. Si tratta di un evento che
si svolge, secondo precisi cicli astronomici, in quattro diverse località
indiane: Haridwar, Nashik, Ujjain e Allahabad (chiamata anche Prayag, parola
che significa «confluenza dei due fiumi», infatti qui confluiscono il Gange e
lo Yamuna). Luoghi che si rifanno alla mitologia induista. Per comprendere ciò
che avviene in occasione del Kumbha-mel? è infatti necessario ritornare al mito: senza di esso ciò
che accade sarebbe impenetrabile.

Questo racconto mitologico – riportato nelle antichissime
scritture vediche chiamate Purana e nel testo epico Mah?bh?rata – è strettamente collegato
al mito induista della creazione dell’universo. Si narra che Vi??u, una
delle tre divinità (Trim?rti) induiste più importanti insieme a Brahm? e a ?iva,
riuscì a riconciliare dèi (Deva) e anti-dèi (Asura), dopo un’aspra lotta, in
cambio della loro partecipazione alla creazione del mondo. Deva e Asura si
unirono, e servendosi del monte Mandara appoggiato sul dorso della tartaruga Ak?para,
presero il serpente V?suki come corda e iniziarono ad agitare l’oceano cosmico.
Ne ricavarono l’ám?ta, il nettare dell’immortalità, racchiuso
all’interno di una brocca (kumbh). Al momento della creazione dell’universo nacquero
creature, esseri celesti, la luna e altro ancora. Ma il patto iniziale fra Deva
e Asura si spezzò innescando un altro scontro per il possesso del nettare di
lunga vita. Durante questa lotta, che durò per 12 giorni e 12 notti, alcune
gocce di ám?ta caddero sulla Terra, in corrispondenza di alcuni
fiumi e città.

Secondo il mito l’ám?ta toccò le città, divenute
sacre, di Nashik, Ujjain, Haridwar e Allahabad. Questi sono i quattro siti dove
ogni 12 anni, a rotazione, ha luogo il grandioso raduno del Kumbha-mel?.

Questo intervallo ciclico si spiega con la credenza
secondo cui 12 anni per l’uomo corrispondono a 12 giorni per le divinità. Da
qui l’usanza di celebrare questo festival ogni 12 anni in ognuno dei quattro
luoghi sacri, lungo le rive del fiume Godavari a Nashik, del fiume Kshipra a
Ujjain, del Gange a Haridwar, e alla confluenza tra Gange, Yamuna, e il
Saraswati a Allahabad.

Tra la
moltitudine dei fedeli

Il Kumbha-mel? è la festa più mistica di tutto il subcontinente
indiano, a cui accorrono milioni di fedeli (si parla di 10 milioni). Le
immersioni sacre vengono effettuate secondo un calendario specifico, le cui
date sono scelte in base a precisi calcoli astrologici, stabiliti considerando
sia la posizione del Sole, sia quella del pianeta Giove, che caricano l’acqua
di energie positive. Grazie a queste «irradiazioni benefiche», l’immersione nel
fiume permette al fedele di ritrovare salute, prosperità e il suo karma viene purificato da
ogni contaminazione. Chi compie le abluzioni rituali durante il Kumbha-mel? può
raggiungere inoltre la liberazione (mok?a o anche mukti), interrompendo il
ciclo delle morti e rinascite.

Questa impressionante riunione di fedeli, è l’occasione
migliore per capire l’essenza spirituale dell’India.

Si vede una folla immensa di uomini e donne che
inneggiano a ?iva e ad altre divinità indiane, pronte poi a immergersi a tuo
nella corrente tumultuosa.

Ad Haridwar, si possono scorgere nitidamente le catene
collegate lungo i gh?? o
penzolanti dai ponti, a cui si appigliano i pellegrini per non venire travolti
dalle acque del Gange, spesso impetuose. Durante i Kumbha-mel?
s’incontrano poi personaggi solitamente irraggiungibili e questo è uno degli
elementi centrali che rendono questa festa un evento unico, eccezionale.
Soltanto in questi giorni si possono vedere i misteriosi e talvolta inquietanti
Naga, in genere nascosti negli anfratti impervi dei monti himalayani. Un
rifugio che abbandonano soltanto in particolari circostanze. Sono uomini votati
all’eremitaggio, che si mostrano di rado, completamente nudi, per testimoniare
il loro distacco totale dal mondo e dagli attaccamenti terreni, coperti solo da
una coltre di cenere, simbolo dello stadio ultimo dell’esistenza. Oltre a loro
sono numerosi i s?dhu, gli asceti, e i samny?sin, monaci erranti che hanno
abbandonato ogni bene materiale per vivere solo di pura spiritualità.

Haridwar,
la porta divina


Haridwar rimane una delle città più sacre dell’India del
Nord, protetta dalla trinità indù: Brahm?, ?iva e Vi??u. La
città, sorta alle pendici dell’imponente catena montuosa dei Shivalik, è detta
la «porta del Gange», poiché è il primo luogo dove il sacro fiume incontra la
pianura, dopo essere sceso dalle vette dell’Himalaya.

La vita ad Haridwar pullula attorno al Gange; non a caso,
la struttura urbana si distende lungo le sue rive, dove si trovano i gh??, che permettono di raggiungere le acque. Il più
importante è situato accanto al tempio dove, narra la leggenda, è custodita
l’impronta del piede di Vi??u. Ad Haridwar, essendo una delle città più sacre
dell’India, si radunano migliaia di devoti per i riti di abluzione, o per
adempiere alle cerimonie di cremazione dei defunti. Qui si percepisce la forte
sensazione di essere parte di un immenso flusso esistenziale. Lungo le rive del
fiume il ciclo della vita e della morte si intreccia con la potenza dei quattro
elementi della natura, in occasione dei riti funebri: il fuoco lentamente
consuma il corpo, la terra sostiene il feretro, il vento alimenta le fiamme e
l’acqua trasporta le ceneri nella corrente eterna scandita da un inizio e da
una fine.

La
sacra confluenza

In tempi antichi, era conosciuta con il nome di Prayag,
che in sanscrito significa «luogo del sacrifico», ma è più comunemente chiamata
Allahabad, anch’essa città santa per gli indù. La sua peculiarità è quella di
essere situata alla confluenza dei fiumi Gange e Yamuna, oltre che, narra la
mitologia, del Saraswati, improvvisamente scomparso, che tuttavia ancora
scorrerebbe, invisibile, sotto il suolo e si unirebbe alle altre due correnti
sacre.

Questo importante centro spirituale è talmente rispettato
che il 12 febbraio 1948 furono versate parte delle ceneri del Mahatma Gandhi
proprio alla convergenza dei tre fiumi. «Coloro che si bagnano alla confluenza
dei corsi d’acqua vanno in cielo; coloro il cui spirito è saldamente eretto e
che muoiono qui, raggiungono l’immortalità», si legge nei Rig Veda, uno dei quattro
libri che compongono i Veda, antichi testi rivelati dagli dèi ai ??i, gli uomini saggi. Ad Allahabad, proprio come a
Haridwar, sembra che le differenze tra ricchi e indigenti si annullino,
nell’istante in cui i devoti s’immergono nella sacralità delle acque.


Kumbha-mel?
2015

Nel 2015 Giove e il Sole sono nel segno zodiacale del
Leone e quindi il Kumbha-mel? sarà celebrato a Nashik. Le celebrazioni più importanti
si terranno dal 14 luglio sino al 25 settembre. Situata nel Maharashtra,
nell’India centro-occidentale, a circa 200 km da Mumbai, la città è
attraversata dal sacro fiume Godavari, lungo il quale vi sono templi e gh??. Ma il luogo forse più santo per i fedeli è
Trimbakeshwar, uno dei 12 Jyotirlingas dell’India, ovvero uno dei simulacri della
manifestazione di ?iva nella sua forma di luce infinita. Si narra anche che sia
il luogo in cui nacque Ganesha (chiamato anche Ganapati), il famoso dio
raffigurato come essere umano dalla testa di elefante: una rappresentazione
dell’unità del piccolo essere (microcosmo) che è l’uomo e il grande essere
(macrocosmo) simboleggiato dall’elefante. È proprio a Trimbakeshwar che si
svolgono i rituali principali del Kumbha-mel? 2015, in particolare presso
Kushavarta. Secondo le credenze locali, bagnarsi in questo luogo significa
annullare i propri peccati. Da qui le folle di devoti che si immergono nelle
acque del Godavari. Una scena che si ripete lungo i gh?? di Ujjain, Haridwar e Allahabad. Le moltitudini di
fedeli che accorrono ai Kumbha-mel? e ad altre celebrazioni sacre indiane esprimono qualcosa
che va oltre la dimensione religiosa. Sono eventi di importanza sociale i
pellegrinaggi, poiché ad essi possono partecipare tutti, bambine, bambini,
giovani, anziani, donne, uomini, senza alcuna distinzione di casta.

Silvia C. Turrin

 

Nell’archivio MC: Piergiorgio Pescali,
Donna, è colpa tua, agosto-settembre 2014.

Silvia C. Turrin




Lo scandalo della prescrizione

Toiamo a parlare di
corruzione e dei danni che produce. Pur registrando livelli da primato, nelle
carceri italiane ci sono soltanto una decina di persone (su 54 mila!) detenute
per quel reato. Colpa anche della prescrizione che, da norma di garanzia, si è
trasformata in una scappatornia legale per imputati eccellenti e colletti
bianchi. Le soluzioni ci sarebbero, ma troppo spesso manca la volontà politica.
Così, a 25 anni dall’uscita di «Educare alla legalità», in Italia la situazione
è addirittura peggiorata.

Papa Francesco ha fatto riferimento al tema della
corruzione, dal giorno della sua elezione a Pontefice, in moltissime occasioni,
in particolare nella Evangelii gaudium.
Parole dure egli le ha pronunziate anche in occasione dell’incontro con la
delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale (23 ottobre
2014). Secondo il Papa la corruzione, come gravità, viene subito dopo la tratta
delle persone. È un male più grande del peccato e, più che perdonato, va
curato. È diventata «una pratica abituale nelle transazioni commerciali e
finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti
dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà». Quanto alla sanzione
penale, essa «è come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i
grandi liberi nel mare». Meritano maggiore severità le forme di corruzione «che
causano gravi danni in materia economica e sociale». Per esempio, «le gravi
frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione»; ovvero «qualsiasi sorta di ostacolo frapposto
al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per
le proprie malefatte o per quelle di terzi».

Di
corruzione, purtroppo, ce n’è un po’ dovunque, ma in Italia – almeno rispetto
gli altri paesi europei – di più, se è vero che da noi si registra una
corruzione pari al 50% di quella dell’intera Comunità. Le parole del Papa,
dunque, ci interpellano in modo speciale.

 La prima considerazione da fare è che la
corruzione (nonostante le tante inchieste, da «Tangentopoli» in poi) sembra
riprodursi all’infinito. C’è quindi prima di tutto un problema di regole, di
leggi che riescano a rendere la corruzione non conveniente. Questo problema
investe l’adeguamento delle pene (non solo carcerarie; anche e soprattutto  interdittive, quelle in ultima analisi ancor
più temute e  quindi assai efficaci).
Nonché la definizione delle fattispecie, che una recente riforma (attesa per
oltre vent’anni e tradottasi nella cosiddetta «legge Severino») ha finito per
confondere e annacquare, costringendoci a mettere in cantiere una nuova
riforma. Ma ancor più gravi e urgenti sono i problemi connessi alla certezza
della pena. Se i tempi del processo sono biblici e la prescrizione quasi sempre
inghiotte tutto e lo azzera, o si interviene
efficacemente su questo versante o si continua a ballare sul Titanic.
Per salvarsi bisogna avere coraggio: interrompere la prescrizione quanto meno
con la condanna di primo grado, come accade ovunque nel mondo salvo che da noi
(ed ecco perché i processi non finiscono mai…), e abolire il grado di appello,
che di fatto non c’è nei sistemi accusatori cui anche noi ci siamo allineati
col nuovo codice di procedura penale del 1988.

Occorre
poi prendere atto che la corruzione in Italia non è riconducibile a un circolo
delimitato per quanto esteso, ma  è
sempre più un vero e proprio «sistema», che mette in crisi l’intero apparato
economico-sociale del paese. Per poter fotografare questa realtà, la legge
anticorruzione deve allo stesso tempo essere inserita in un sistema di misure e
interventi che la supportino. Per cominciare vanno incentivate le denunzie
delle situazioni illecite. La corruzione è un fenomeno occulto, e il controllo
più efficace è quello interno (nell’ambito pubblico e privato), per cui sono
indispensabili misure  protettive e
premiali per i collaboratori di giustizia. Va inoltre disciplinato l’impiego di
«agenti provocatori» come fonte di prova. Nello stesso tempo anche il nostro
paese deve dotarsi di forme di difesa tipo Whistleblower
(letteralmente «suonatori di fischietto»), ovvero le vedette civiche che con le
loro segnalazioni possono smascherare comportamenti illeciti. Ovviamente tutto
ciò deve viaggiare di pari passo con un monitoraggio e un potenziamento degli
istituti ispettivi che puntino a uno Stato con mura di vetro e porte blindate,
attraverso la trasparenza integrale della pubblica amministrazione (specie in
punto svolgimento ed esiti di gare e concorsi; dati sull’uso delle risorse;
bilanci). Utili possono essere appositi test di integrità per politici,
amministratori e funzionari. Confisca dei beni e reimpiego per fini sociali
vanno estesi dalla mafia alla corruzione. Per la loro decisiva funzione di
reati civetta vanno perseguiti – con efficacia e non per finta – il falso in
bilancio, l’evasione fiscale, vari reati societari e l’autoriciclaggio
(quest’ultimo dopo una lunga attesa segnata da veti contrapposti, alla fine
vietato e punito, ma con la ambigua esclusione del reimpiego del denaro sporco
per… godimento personale).

 

Va da sé infine che la battaglia va combattuta con
determinazione, senza che gli ammonimenti
del Pontefice restino isolati o peggio senza seguito concreto. Come
invece sembra purtroppo essere accaduto per la nota pastorale della Commissione
ecclesiale della Cei «Giustizia e pace» del 4 ottobre 1991 intitolata Educare
alla legalità, che denunziava come inquietante «la nuova
criminalità così detta dei “colletti
bianchi”, che volge ad illecito profitto la funzione di autorità di cui è
investita, impone tangenti a chi chiede anche ciò che gli è dovuto, realizza
collusioni con gruppi di potere occulti e asserve la pubblica amministrazione a
interessi di parte». Parole energiche e di straordinario valore, ma presto
dimenticate: forse perché non vi è stata quella «mobilitazione delle coscienze»
che i vescovi di allora segnalavano come assolutamente necessaria, e che ancora
oggi è conditio sine qua non per
sperare di  frenare e ridurre i fenomeni
illegali. Perché «non vi è solo paura, ma spesso anche omertà; non si dà solo
disimpegno ma anche collusione; non sempre si subisce una concussione, ma
spesso si trova comoda la corruzione per ottenere ciò che altrimenti non si
potrebbe avere. Non sempre si è vittima del sopruso del potente o del gruppo
criminale, ma spesso si cercano più il favore che il diritto, il “comparaggio”
politico o criminale che il rispetto della legge e della propria dignità».
Peccato che queste parole del 1991 sembrano essere state  come cenere al vento, tanto da poter essere
ripetute pari pari ancora oggi. La speranza è che gli interventi di papa
Francesco riescano finalmente a trasformare le buone intenzioni in vere
attitudini cristiane.

Gian Carlo?Caselli

Gian Carlo Caselli




Dove vita e morte danzano

Diario di un giovane
da Isiro

Un giovane di 22 anni
decide di fare un’esperienza di missione in Congo RD, a Isiro, con i missionari
della Consolata. Parte a settembre 2014, con la prospettiva di tornare in
Italia nel giugno 2015. Ciò che scopre è un mondo diverso, ma soprattutto se
stesso. 

Da subito inizia a condividere con gli amici su Facebook ciò che vive e
vede, senza l’idea di descrivere il Congo, ma semplicemente la sua esperienza.
Una piccola testimonianza fresca, divertente e riflessiva. Gli abbiamo chiesto
di potee pubblicare degli stralci. Eccoli.

16 settembre 2014

Ore
4.45 am, partenza. Sto per intraprendere un viaggio che non immagino
minimamente! Come prima cosa, leggo sul biglietto aereo una clausola che dice: «La
compagnia si riserva di rispondere a eventuali danni, ferite o morte» (Ah,
partiamo bene!).

Quando
arrivo a Isiro in un aeroporto senza finestre, una struttura fatiscente in
mezzo alla foresta, e vedo le strade di terra rossa e il verde infinito, penso:
«Questa sì che è la vera Africa!». Dopo un’accoglienza calorosissima di padre
Flavio (Pante), padre Rinaldo (Do) e Ivo (Lazzaroni – volontario laico), ci
avviamo alla missione: sono in un posto meraviglioso. L’aria che si respira è
carica di voglia di mettersi in gioco.

19 settembre

Oggi
prima mattinata passata a Gajen (il Gruppo d’appoggio a giovani e bambini
bisognosi), una realtà fatta di centro nutrizionale, scuola matea della
diocesi e il mitico foo! Senza dimenticarsi dello zoo di fratel Domenico
(Bugatti).

Il
centro nutrizionale accoglie i bambini malnutriti (portati generalmente dai
loro fratellini e sorelline) e le loro mamme (che arrivano in seguito), tra le
7 e le 8. Vengono dati un pasto alla mattina e uno per pranzo (inoltre vengono
fatte visite e somministrate medicine varie).

La
scuola matea è piena di bambini che mi chiamano già père Tommaso (qua
funziona così: bianco = missionario). Sono troppo belli quando ripetono in coro
ciò che imparano in francese, o quando mi studiano toccandomi le braccia e i
capelli, come fossi un alieno.

Arriviamo
al foo: è uno spettacolo! Vengono fatti pane e biscotti poi venduti per
strada. Stamattina mi hanno fatto fare l’impasto per i biscotti. Mi sono
divertito un sacco. Io ho sfoderato la mia «esperienza» da pasticcere e mi
hanno fatto i complimenti. Infine lo zoo di fratel Domenico: gattini,
cagnolini, polli, anatre, conigli e, colpo di scena, una scimmia. Credo che
diventeremo presto amici: oggi le lanciavo oggetti che lei prendeva al volo. Fa
troppo ridere!

Al
pomeriggio sono andato con il mitico padre Tarcisio (Crestani) a giocare a
pallavolo. Non l’avessi mai fatto: siamo arrivati in questo campo della
Consolata, dove tutti i pomeriggi si trovano dei giovani a giocare, e abbiamo
fatto una partita tiratissima, a dei ritmi da matti. Modestamente si sono
complimentati con me, ma ora sono a pezzi. Mi hanno chiesto di tornare anche
domani. Se non imparo in fretta a dire no, non sopravvivo più di un mese.

La
cosa che mi ha colpito di più oggi sono stati i bambini malnutriti. Dovete
sapere che la denutrizione si manifesta con un’eccessiva magrezza, oppure con
pance e piedi gonfi e capelli sbiaditi. Ma ciò che mi fa più impressione sono
quegli occhi grandi, spenti e profondamente vuoti. Questi bambini, che
sarebbero per eccellenza l’esuberanza e la vitalità, appaiono come prosciugati,
e si trascinano in giro come se anche la vita pesasse su di loro. Quello
sguardo che non reagisce a sorrisi, peacchie, scherzi e smorfie, è difficile
da mandare giù. Credo che mi dovrò «abituare», ma non credo che l’abitudine
toglierà il senso di angoscia e impotenza, e quella domanda: come può succedere
questo mentre c’è tanta ricchezza e spreco nel nostro mondo?

23 settembre

Il
mio servizio di questi mesi lo svolgerò la mattina al centro nutrizionale di
Gajen. Per la comunità invece curerò l’orto. Poi, per lo «svago», farò parte
della squadra di pallavolo. Mi ripeto che devo cercare di vivere giorno per
giorno, perché altrimenti vengo inghiottito dal tempo stesso.

Al
centro stamattina mi sono dovuto ancora confrontare (a volte con il groppo in
gola) con i bambini denutriti. Spesso dietro la malnutrizione si cela un
discorso molto più ampio di problemi a livello familiare, come quello delle
ragazze madri che non sanno gestire i figli, o devono ancora andare a scuola, o
quello dei figli nati da violenze.

C’è
un bambino, tra i più gravi, che lotta tra la vita e la morte, ricoperto di
piaghe. Anche se mangia, queste non guariscono. La madre ha una faccia talmente
rassegnata che potrebbe prendere da un momento all’altro e andarsene.

Oggi
sono andato anche in carcere. Bè, non che mi abbiano arrestato… per adesso.
Ogni due settimane viene portato un pasto, un pezzo di sapone e la celebrazione
della messa. La prigione è un capannone che non ha finestre, ma solo qualche
feritornia per la luce. Dentro questo unico spazio ci sono circa cinquanta
persone con una quindicina di letti in legno, stretti come delle cuccette, e
sparpagliati per la stanza che è anche sala da pranzo, gabinetto e quant’altro.
In questi giorni ho letto il «Diario» di Etty Hillesum, ebrea deportata nei
campi di concentramento, bè, quando sono entrato nella prigione mi è sembrato
di essere finito in un lager. Dopo la messa abbiamo distribuito il pasto. Non
nascondo di essermi messo vicino alla porta, pronto a scappare in caso di
necessità!

24 settembre

Mentre
sono perso nei miei pensieri sulla lontananza da casa, arrivo al centro e vengo
investito da un dolore a cui non sono preparato: sono grida di disperazione.
Vedo la mamma del bimbo con le piaghe inginocchiata fuori dalla cameretta.
Grida diverse parole. Ne riconosco una: Nzambe (Dio).

Non
ero pronto alla vita di questo posto, figuriamoci alla morte.

È
impossibile trattenere la commozione: vedo il padre sul letto del figlio, in
lacrime, mentre la madre raccoglie le poche cose che ha con sé (qualche
scodella, tazza e lenzuolino). La preghiera insieme davanti al corpicino del
bimbo. Vedo il padre che gli socchiude le palpebre e gli mette sul viso un
piccolo panno bianco, e poi esce dal cancello con il corpo del figlio avvolto
in un panno e fissato al petto. Per tornare a casa, con quel figlio come in
grembo, devono fare 25 Km a piedi. Non immagino la lunga agonia del viaggio di
ritorno.

Ho
potuto «solo» pregare, non sapevo fare altro.

Questa
è stata una mattina di pioggia a Gajen, pioggia dal cielo e dagli occhi. Eppure
in questo strano equilibrio in cui vita e morte danzano follemente, un’ora
dopo, tutto era tornato normale: di nuovo al lavoro per preparare il cibo ad
altri bambini.

Mi
sono confrontato con un mistero troppo grande e non so se mai lo comprenderò.

28 settembre

Sono
passati appena pochi giorni eppure è come se fossi qua già da mesi, come è
possibile? Qui la giornata sembra più lunga e piena forse perché si gusta
tutta, ora per ora, minuto per minuto: dalle cose semplici a quelle
straordinarie. Anzi, se si fa attenzione, sono le cose semplici a diventare
straordinarie. Qui le persone non hanno grandi programmi e si gustano la
giornata senza essere proiettati all’impegno della sera o del week end, senza
perdersi il presente.

Ieri
abbiamo disputato il primo match di pallavolo contro un’altra squadra. È stata
una partita combattuta. Io mi son guadagnato il soprannome di «Boucanier»,
perché faccio le schiacciate. Del resto i miei compagni si chiamano Mosè,
Messia, Geremia, Isacco, Elia, Miracolato (perché quando è nato non si sapeva
se ce l’avrebbe fatta), e Aristotele: non potrei essere in mani migliori.

Anche
questa domenica la messa in lingala, celebrata in un corridoio dell’ospedale, è
stata accompagnata da grida e lamenti di una trentina di persone a causa della
morte di qualcuno, così la morte quatta quatta mi si ripresenta come a dire: «Faccio
parte della vita, non puoi ignorarmi».

La
coppia fatta da fratel Domenico e padre Tarcisio fa morire dal ridere. Il
primo, per leggere lodi o vespri, usa la lente d’ingrandimento e si addormenta
ovunque; il secondo, per die una, si fa tostare il pane bello duro e poi lo
ammolla nell’acqua. Dopo pranzo, ma soprattutto la sera, mi metto a guardare la
«televisione» con padre Tarcisio: ci sediamo dietro al cancello e guardiamo
fuori, l’unico programma disponibile è la vita. Quante cose si vedono! Una
marea di gente che passa e saluta. Se ne vedono di tutti i colori (bè, in realtà
sono tutti neri, ma avete capito). Anche tante persone che vengono a chiedere
aiuto, e stanno lì fino a sera per avere 100 franchi (10 centesimi di Euro). Vi
racconto un aneddoto: avevo buttato uno spazzolino molto vecchio. Mentre siamo
sulla porta, arriva uno di quelli che lavorano in casa. Sta andando via e in
mano ha un sacchetto di pane in cui spicca qualcosa di blu… il mio spazzolino!
Cioè, capite che questa povertà non si può ignorare? Quante cose abbiamo noi e
ci lamentiamo? È vero, saremo in un momento di crisi, ma qui ci farebbero la
firma per essere nella nostra «crisi».

02 Ottobre

Sorella
morte ormai è di casa: è morta la sorella di una delle cuoche, inoltre un cuoco
(in servizio da 24 anni) si è ammalato gravemente. D’altra parte la vita, dal
canto suo, si fa sentire a gran voce con la sua più bella melodia: l’amore. Al
centro è arrivata una mamma sordomuta con il suo bimbo, è veramente commovente
guardare come se ne prende cura. Anche se non è riuscita (per ignoranza o
mancanza di beni) a dargli cibo correttamente, di sicuro l’ha fatto sempre
sentire amato. È un bimbo di dieci mesi bellissimo, sorride a tutti e mi saluta
sempre con la manina. Il caso di una mamma così è raro purtroppo: ci sono
troppi bambini nati da mamme troppo giovani, e magari abbandonate dal loro
uomo, che non sanno prendersene cura. La mancanza di amore provoca ferite
visibili quanto la malnutrizione.

In
questo vortice di vite intrecciate mi sono chiesto cosa potessi fare io. La
risposta l’ho trovata in un libro letto per «caso» (il caso è lo pseudonimo che
Dio usa quando non si firma personalmente): «Ama più ancora, e altri intorno a
te ameranno. Chi ama, fa amare». E allora mi son messo ad animare i bambini
malati, e soprattutto le loro sorelle più grandi con bans e giochi (dato che
non ci capiamo, vi lascio immaginare le risate) e, perché no, ho animato anche
le mamme che si fanno delle grandi risate. Non vi nascondo l’emozione nel
vedere alcuni bimbi che, pian piano, mi conoscono e mi cercano invece di
evitarmi o piangere. Forse almeno in un posto, sono riuscito a cambiare
l’immagine che la gente ha del bianco = soldi da chiedere.

Al
centro è arrivato un altro bimbo con grave malnutrizione. Sembra che le
medicine facciano effetto. Detto questo, non posso però ignorare le sue grida
di dolore, che mi risuonano nelle orecchie durante la giornata.

Malembe
malembe
(piano piano) imparo qualche cosa di lingala.


6 Ottobre

Stamattina
al centro abbiamo fatto gli auguri a un lavoratore che è diventato papà: lui ha
19 anni e la mamma 16! Quando mi hanno chiesto la mia età, è scattata la
domanda: quanti figli hai? Mi son scusato dicendo che ero un po’ indietro.

Sono
arrivati cinque nuovi bambini. Eritié (con grave malnutrizione) continua a
strillare, ma tra me e me penso che almeno è ancora vivo e anzi sta
migliorando, inoltre è tanto bello vedere tutta la famiglia (mamma, papà e
fratellino) che sta insieme a lui e non lo lascia mai solo.

Tra
tutti i bimbetti ce n’è uno particolarmente «aggressivo» che mi ha preso di
mira e mi insegue di continuo «picchiandomi». Si chiama Radis. Ho scoperto che
si comporta così perché non viene considerato, e allora, da quando ho iniziato
a stuzzicarlo, è diventato la mia ombra.

9 Ottobre

La
vita scorre tranquilla a Isiro, anche se la stagione delle piogge ogni tanto,
con la sua simpatia, smuove le cose. Ieri mattina c’era un gran caldo, poi nel
pomeriggio sono arrivati i nuvoloni neri e si è scatenata la fine del mondo,
acqua a secchiate e vento. Oggi al centro le mamme non arrivavano in orario e
ho chiesto come mai, mi hanno risposto che dipendeva da come si era ridotta la
loro casa, essendo fatte per lo più di terra e quattro pali, non è raro che
vengano distrutte dall’acqua.

Al
centro tutte le mattine un matto che sta alla porta mi accoglie come se fossi
il presidente, cantando e salutandomi in un misto di francese, inglese e
lingala. Il fatto è che continua per tutta la mattina, e mi urla addirittura «I
love you», facendo il saluto dei militari. E come dimenticarsi della grande coco
(significa nonna) che viene due volte alla settimana: è malata e sola, quindi
le diamo una mano. Passiamo i nostri venti minuti a parlare (lei in lingala e
io in italiano), mentre le dò una tazza di fagioli, una di riso, una di
zucchero, tre banane e mille franchi (un euro). Poi ci salutiamo e siamo
contenti così.

Oggi
ho provato la canna da zucchero! Praticamente si staccano dei morsi e si
succhia. Poi si sputa. Se non fosse che bisogna avere mascelle da cavallo per
mangiarla, è davvero buona!

Stamattina
è stato fatto il peso settimanale dei bambini. Quando ho visto una ragazza che
pesava 20 kg, le ho chiesto quanti anni avesse, e lei mi ha risposto 13.

Radis
continua a importunarmi.

Domattina
parto! Andrò a Bayenga, nella foresta equatoriale, per l’ordinazione di un
sacerdote. Ho preparato il mio zaino: oltre a vestiti e solite cose, dietro
consiglio dei più saggi, ho preso un rotolo di carta igienica, sapone e imodium
(consigli incoraggianti insomma).

14 Ottobre

Bayenga:
che avventura! Partiti venerdì alle 8, siamo arrivati alle 17. Per il ritorno
invece siamo partiti lunedì (ieri) alle 8 e siamo arrivati a mezzogiorno di
oggi.

Con
il senno di poi il viaggio di andata è stato buono, anche se mi rifiuto di
chiamare strade quelle che abbiamo attraversato: un campo arato in confronto è
il paradiso.

La
missione è bellissima, immersa nella foresta, uno spettacolo per gli occhi. Qui
viene in particolare seguito un programma con i Pigmei per sostenere la loro
cultura. Sì, anche qui c’è del razzismo: i Pigmei sono considerati inferiori e
sfruttati dalla altre tribù locali. Nel breve tempo a disposizione, ho visitato
un loro accampamento nella foresta. Piante curative, sistemi di caccia,
pitture, danze: qualcosa di così «antico» e puro non avrò la fortuna di
rivederlo. Ho già chiesto di tornare.

Mentre
tutti sono indaffarati nei preparativi della festa, io mi metto a giocare con i
bambini: io faccio la verticale e loro mi insegnano dei passi di danza.

Il
giorno della festa c’erano veramente tante persone! La messa è durata dalle 9
alle 13, ma con i canti della corale e i balletti dei bambini, non si è sentita
la lunghezza. Dopo c’è stato il pranzo, e a seguire, per tutto il pomeriggio, i
balli di gruppo e quelli dei pigmei. È stato un giorno pieno di sguardi, volti,
sorrisi, comunicazione, emozioni.

Arriviamo
così al viaggio di ritorno, su cui potrebbe essere girato un film. Siamo
partiti alle 8, e dopo 15 minuti ci siamo fermati per un camion impantanato,
rimanendo ad aspettare fino alle 14. A quel punto, data l’assenza di progressi,
abbiamo pagato dei ragazzi che stavano lì seduti a guardare (e che non
aspettavano altro). Hanno letteralmente costruito la strada. Prima hanno tolto
l’acqua a secchiate, poi hanno spalato il fango, sono andati con il macete a
tagliare dei tronchi in foresta per metterli a terra, e infine ci hanno buttato
sopra della terra asciutta e dura. Alle 18 siamo riusciti a partire. Un ragazzo
che era lì ad aspettare come noi mi ha detto: «Questa è la sofferenza del
Congo. I congolesi sono abituati a soffrire».

Dunque
il viaggio riprende mentre cala la notte. Ci ritroviamo in un buio pesante, in
un rettilineo nel mezzo della foresta. Incontriamo l’ennesima buca e ci
blocchiamo. Scendiamo dalla macchina che ora è in obliquo. Dalle 19 a
mezzanotte si susseguono spalate e tentativi dell’autista di uscire dal fango.
A condire il meraviglioso buio ci sono i suoni della foresta che di notte non
sono troppo incoraggianti. Decidiamo di dormire. Naturalmente incomincia a
piovere e quindi ci rifugiamo tutti dentro l’auto. Ero pronto a dormire in
macchina, ma non in una macchina mezza rovesciata nel fango! Il mio posto è
dietro al conducente nel lato opposto a quello affondato, quindi per non cadere
addosso agli altri sto tutto il tempo attaccato al finestrino mezzo aperto con
un braccio di fuori. In più tra noi c’è un autentico russatore. Verso le 5,30
inizia ad albeggiare. Alle prime luci dell’alba vedo dall’altra parte della
strada alcune capanne. Dunque io mi chiedo: ma nelle 5 ore in cui abbiamo fatto
una confusione tremenda tra grida, frizione dell’auto a manetta, vangate, ecc.,
nessuno poteva alzarsi e venire a vedere cosa succedeva? Mah!

In
ogni caso, la gente spunta fuori e arriva come se già sapesse di doverci
aiutare (dietro ricompensa ovviamente). Questa volta riusciamo a liberarci
verso le 7, e ripartiamo. Dopo dieci minuti l’auto si spegne, ma ripartiamo
dopo mezz’ora. Poco più avanti si spegne di nuovo, e questa volta sembra che il
motore non voglia proprio sapee. Mentre qualcuno prova a cercare aiuto, il
motore, non si sa come, riparte (a detta dell’autista e di tutti gli altri è un
miracolo). Ripartiamo per l’ennesima volta e, dopo un altro lungo pezzo di
strada e un altro stop con relativo aiuto (dietro compenso) di alcuni giovani,
finalmente arriviamo a casa.

21 Ottobre

Bula,
Bula, Bula
! Pioggia, pioggia, pioggia! Molti prodotti
alimentari non arrivano, e i prezzi di quelli locali schizzano alle stelle.

È la
seconda notte che non dormo, causa matanga dei vicini. La matanga
è una sorta di veglia funebre, ma in pratica è un’occasione per spolpare la
famiglia in lutto che deve offrire da bere e mangiare. La povertà arriva a
intaccare anche i valori, e anche la morte diventa occasione per mettere
qualcosa sotto i denti.

La
malattia attuale più grande non è l’ebola o la malaria, ma il sentimento di
essere indesiderabile, disprezzato e abbandonato. Mi rendo conto di come la
ricchezza e la povertà rendano ciechi (la prima per superbia e egoismo, la
seconda per disperazione e logoramento) davanti alla grande verità che solo un
essere umano può rendere felice un altro essere umano. Infatti l’idea che
traspare dai nostri paesi più ricchi è che la felicità la fanno le cose e i
soldi. Questa logica malata purtroppo inquina anche questi luoghi, dove la
gente brama il denaro per imitarci. E così, oltre a rovinare noi stessi,
roviniamo anche quei popoli che avrebbero tanto da insegnarci.

Eritié
è migliorato e non peotta più al centro. Radis continua a menarmi, ma in
fondo l’ho conquistato: a volte viene e appoggia la testa sulle mie gambe.

26 Ottobre

Prima
di partire non avrei mai immaginato che avrei vissuto il razzismo sulla mia
pelle. Sono in un paese sconosciuto, da solo e non conosco la lingua. Ma
soprattutto sono mundele (bianco). Qui sembra che l’unica relazione
possibile con i bianchi sia finalizzata ad avere soldi. Mi ritrovo a girare per
strada a testa bassa, perché non è facile sostenere quegli sguardi, alcuni dei
quali ti giudicano. E come biasimarli del resto? Io sono ricco, ho un sacco di
possibilità. Non posso non sentirmi in colpa, benché, effettivamente, che colpa
posso avere?

Spesso
mi metto a osservare la gente che passa: questo popolo non avrà da mangiare, ma
è sempre in cammino. Non si lascia paralizzare dalle difficoltà. Sembra dire: «Non
ci sto a rimanere con la faccia nella polvere, comunque vada c’è qualcosa che
quasi nessuno può togliermi: la vita».

29 Ottobre

Qua a
Isiro l’istruzione risente, come tutto il resto, della povertà. Se avessi fatto
questa esperienza anni fa, avrei riconosciuto il vero valore della scuola.

Girando
per strada vedo sempre studenti con zappe e macete. Allora un giorno ho chiesto
loro il perché. Dunque dovete sapere che gli stipendi statali degli insegnanti
non arrivano mai. Quindi vengono tolti dei soldi dalla tassa di iscrizione
(molto cara), e in più, diversi docenti fanno lavorare gli studenti nei campi e
a casa loro.

Questa
settimana a Gajen ho seguito la scuola matea. Ovviamente i bambini stavano la
maggior parte del tempo girati verso di me invece di seguire l’insegnante. A
parte qualche balletto e canzoncina la mattina, per il resto non esistono
attività o giochi. Durante le lezioni i bambini ripetono a macchinetta e in
coro quello che dice l’insegnante, anche perché devono imparare il francese.
Comunque io mi sono divertito un mondo! Facevo le smorfie e, da bravo studente,
ripetevo in coro con loro canzoncine e poesie. Una frase dice: «L’anima
guarisce stando con i bambini». Cavolo, è proprio vero!

Per
il resto tutto bene. Volente o nolente il lingala lo sto assorbendo. Sono
sempre stato abituato a fare e fare, ma in questo momento mi viene chiesto «solo»
di vivere: sono due cose diverse e non è per niente facile comprenderlo.

Novità
delle ultime ore. Domani partirò per la missione di Neisu di nuovo nella
foresta, quindi pronti per una nuova avventura.

Tommaso degli Angeli*
(1 – continua)

*
Dopo aver studiato all’Istituto tecnico agrario, ho conseguito la laurea
triennale presso la Facoltà di Tecnologie alimentari a Bologna. Ho 22 anni.
Abito a Bagnarola di Cesenatico (Forlì-Cesena). Ho conosciuto la Consolata
grazie a padre Francesco Giuliani. Dopo aver fatto insieme a lui e altri
giovani un percorso di animazione missionaria e due brevi viaggi (Gibuti nel
2011, Kinshasa, Congo Rd nel 2013), è nato in me il desiderio di vivere
un’esperienza più lunga e intensa. Allora ho deciso di prendermi un tempo per
riflettere su me stesso e sulla mia vita mettendomi al servizio del prossimo.
Padre Francesco mi ha suggerito Isiro, e a settembre 2014 sono partito. Ciò che
faccio è principalmente aiutare il centro nutrizionale di Gajen.
Il
diario è nato dall’idea che è importante scrivere le cose per rendere materiale
ciò che vivo nel cuore (e per essere testimone).
Tra
le motivazioni del viaggio, la più importante è la fede: mi sentivo chiamato a
vivere lo stile di vita missionario, così mi sono buttato, senza tante
sicurezze, spinto dallo Spirito che me lo suggeriva.

Tags: Gajien, laici missionari, volontariato, vita missionaria, testimonianze, CongoRD, Tommaso

Tommaso Degli Angeli




Punti di non ritorno sui quali ritornare continuamente

In margine al
convegno di Sacrofano
È calato il sipario
sul convegno di Sacrofano (20-23 Novembre 2014) e tutti siamo tornati a casa,
nelle rispettive Chiese locali con il desiderio di poter iniziare cammini ed
esperienze nuove. Probabilmente ci stiamo ancora chiedendo cosa fare, da dove
iniziare e con chi. Il convegno ha restituito alcuni punti di non ritorno per
vivere la Missione.

Vale la pena di sottolinearli, in un momento nel quale c’è
chi è tentato di rimetterli in discussione e noi stessi corriamo il rischio di
perderli di vista, non considerandoli importanti. In questa prospettiva
proviamo a fare alcune considerazioni e proporre alcuni orientamenti per tenere
vivo l’interesse su Sacrofano e incentivare la ricerca di strade nuove. Per
tenere vivo il «fuoco della missione» che il convegno ha contribuito a
riaccendere.

VANGELO ED
EVANGELIZZAZIONE

Il primo punto di non ritorno è «Vangelo e evangelizzazione», cioè la centralità del riferimento a Gesù, da una parte, e alla
responsabilità di tutti i battezzati, dall’altra. Questo richiede di coltivare
una famigliarità con la Parola di Dio tale da regalarci l’esperienza della
presenza misericordiosa del Maestro nella nostra vita e da stanarci dalle
nostre chiusure verso le periferie, chiamandoci alla sequela e alla ricerca.
Senza questa esperienza di amore non è possibile praticare una condivisione
cordiale e allo stesso tempo mantenere una resistenza evangelica, per cui
diventa anche troppo facile arrendersi alla logica mondana dell’affermazione,
del potere e del risentimento.

Solo così il Vangelo potrà alimentare un dinamismo di uscita
verso «il mondo» con uno sguardo di simpatia e di speranza. Da una parte
l’incarnazione del Figlio e, dall’altra, lo stile di Gesù ci regaleranno la
gratitudine e la fiducia necessarie per intraprendere il cammino al quale siamo
chiamati. È un andare (itineranza) che implica l’esperienza dell’ospitalità,
che prima di essere offerta sarà richiesta confidando sul buon cuore di chi
incontreremo. In ogni caso sarà un’itineranza che ci porterà all’incontro con i
poveri. Essi accoglieranno il Vangelo e a loro volta ci evangelizzeranno,
secondo quella regola dell’evangelizzazione per la quale chi dona il Vangelo lo
riceve di nuovo e in modo nuovo da coloro ai quali lo ha donato.

LA NATURA MISSIONARIA
DELLA CHIESA

Il secondo punto di non ritorno riguarda «la Chiesa e la sua natura
missionaria». «La missione non serve alla Chiesa,
piuttosto la Chiesa serve alla missione», scrive il teologo Gianni Colzani. La
Chiesa esiste, cioè, per la missione e la missione è per il bene dell’umanità.

Oltre a richiamare una rinnovata teologia del Regno di Dio, dove
tutti e tutte siamo impegnati nel servizio reciproco, la natura missionaria
della Chiesa pone la questione del «popolo di Dio» come soggetto
dell’evangelizzazione. Di «carismi e ministeri» non parliamo più da tempo. Del sensus fidei ricominciamo a parlare
adesso, con lo stupore di chi si chiede come abbiamo potuto dimenticare tanto a
lungo un «magistero» così importante (e che il Concilio ci aveva indicato).
Esso domanda con urgenza di imparare di nuovo a vedere l’opera dello Spirito di
Gesù nelle esistenze concrete della gente che incontriamo («segni dei tempi»),
dentro e fuori la Chiesa.

Con due caratteristiche: la Chiesa nel mondo è minoranza che sperimenta la fragilità.
Minoranza

La Chiesa è oggi una minoranza (piccolo gregge o lievito nella
pasta) nel nostro mondo. Questo suscita reazioni diverse. Non sono pochi coloro
che si percepiscono sotto assedio e rimpiangono ancora i bei tempi passati.
Sembra che il lutto per la fine della «civiltà cattolica» non sia stato ancora
elaborato.

Da qui la metafora della «comunità sotto
assedio» e dei tre diversi comportamenti che in teoria si possono assumere quando
si è sotto assedio. Il primo è arrendersi, o venire a patti, trattare la
resa. Il secondo comportamento è resistere. Attrezzarsi per resistere
all’infinito, sviluppando tutti i vissuti tipici della persona sotto assedio:
vittimismo, chiusura, incapacità di cogliere i nuovi contesti e le diverse
occasioni di interazione con essi, dogmatismo, ecc. Il terzo atteggiamento è uscire, sortire dall’assedio,
aprire le porte, abbattere le mura, correre il rischio di camminare su spazi
sconosciuti, avere il coraggio di affrontare nuove domande e nuove sfide,
lasciare il centro per rischiare la vita nelle periferie. Questo perché le
periferie sono il luogo antropologico e teologico decisivo per capire il
Vangelo, cioè chi è Dio e chi siamo noi, anche come Chiesa.

Fragilità

Un altro luogo antropologico e teologico significativo è quello
della fragilità. Le periferie ne sono spesso segnate. Anzi, alcune sono tali
proprio perché la esprimono al massimo (povertà materiali e culturali, peccati,
devianze, ecc.) e questo spiega anche il perché non ci si vada volentieri. Le
periferie che Gesù ha visitato e addirittura abitato erano rese o quantomeno
mantenute tali da un «centro» che si riteneva (anche con qualche ragione) a
posto, puro, perfetto.

La condizione per vivere un reale atteggiamento di uscita verso le
periferie che diventi condivisione  è
allora quella di farle diventare in qualche modo nostre. Anzi, di riconoscerle
già presenti nella nostra esperienza. Senza assunzione seria delle nostre
miserie non ci può essere da parte nostra alcuna autentica misericordia.

Se partiamo dal fatto che tutti siamo fragili, allora assumeremo
le nostre difficoltà e limiti non (solo) come ostacoli da superare, ma (anche)
come risorse per presentarci agli altri quali compagni di viaggio nel
ricercare, desiderare, costruire, sperare, amare… insieme!

Prospettive per la
nostra pastorale missionaria

Offro qualche indicazione, poco più di un elenco perché non ci
sono ricette o scorciatornie possibili. Ogni comunità dovrà fare la giorniosa
fatica del proprio concreto discernimento.

A) Centro e
periferie

Gesù fu un uomo delle periferie. «Ebreo marginale» lo chiama un
grande studioso della sua vicenda, John P. Meyer. Si mosse lontano da
Gerusalemme, passava per città e villaggi della Galilea, periferia dell’impero
romano, incontrava pagani, peccatori, malati, donne disprezzate e peccatrici,
povera gente. Proclamava beati i poveri. Affermava che prostitute e pubblicani
avrebbero preceduto tutti nel regno di Dio. Dalle periferie annunciò che il
Regno di Dio era in mezzo a noi e che iniziava a realizzarsi con lui. Al
banchetto del Regno Dio avrebbe riempito la sala con «poveri, storpi, ciechi,
zoppi» (Lc 14,21), «buoni e cattivi» (Mt 22,10), dopo il rifiuto dei primi
invitati. Morì maledetto come un malfattore con la morte peggiore per il suo
tempo, circondato da un piccolo gruppo di seguaci impauriti.

Ricollochiamo Gesù di Nazareth al centro della nostra vita
personale e comunitaria: tutto Gesù, quello pasquale e glorioso naturalmente,
ma anche quello cosiddetto pre-pasquale, messianico, liberatore. Messo Gesù al
centro, scopriremo subito che egli cederà volentieri il posto a coloro che
stanno ai margini: li metterà nel mezzo, farà loro spazio, concederà loro il
primo piano sulla scena, intercederà per loro!

Allora guardiamole queste periferie, cerchiamo di conoscerle e di
vedere in esse se e come lo Spirito sta agendo. Il «se» è certo; il come è da
disceere.

B) Sensus
fidei/fidelium

Quello che a livello istituzionale si fa
fatica a smuovere, bisogna tentare di cambiarlo con coraggio e serena
intraprendenza a livello di «popolo di Dio». Non perché non si ami
l’istituzione, ma proprio perché non possiamo abbandonarla a se stessa e alla
sua autoreferenzialità. La vogliamo diversa, più al servizio nostro e della
nostra missione. Ma dobbiamo essere in grado di dirle che cosa ci serve per
un’evangelizzazione maggiormente efficace, in un atteggiamento di dialogo e
ascolto.

Allora se ad alcuni non è dato il giusto
riconoscimento, riconosciamoli noi, in nome di un servizio, di frutti e di «profezie»
che abbiamo sperimentato e che possiamo raccontare. Li possiamo abilitare
prestando loro ascolto e facendo spazio a ciò che hanno da dire o da mostrare.

C) Sinodalità
(camminare insieme)

Abbiamo bisogno tutti, sempre, gli uni degli altri. Nessuno può
farcela da solo. Ma dobbiamo crescere nella capacità di vivere una vera alterità
che è fatta di differenze che collaborano e condividono lo stesso sogno. Nella
comunità di Gesù l’essere altro non sarà mai tolto, e anzi i doni dello Spirito
lo accentueranno. Questo richiede non solo una grande capacità di dialogo e
ascolto ma anche di intesa e mediazione. Non è per niente facile. Tuttavia non
si può evitare la fatica di intendersi, di cercare insieme, di collaborare
nella diversità di doni e carismi, pena la perdita della propria libertà e lo
svilimento del Vangelo. Anche qui dobbiamo elaborare atteggiamenti e buone
pratiche in modo tale da istruire le questioni sempre e solo con il consiglio
di molti. Arriveremo un giorno non solo a sopportare (quando va bene) i
consigli pastorali, ma addirittura a desiderarli? Non è la missio ad gentes
a dirci che «perdere» tempo a elaborare insieme le cose è stata la migliore
garanzia di risultati duraturi e degni del Vangelo?

D) Oltre il
rancore e il risentimento

Giona, il missionario tipo del convegno, non era affatto
desideroso di andare verso Ninive. Viviamo in un tempo in cui il rischio più
forte è lasciarsi prendere da quello che Zygmunt Bauman chiama il demone della
paura: ci sentiamo incerti, fragili, insicuri, incapaci di controllare la realtà,
pronti a trattare gli altri come nemici. La paura come nemica della speranza.
La paura che ci spinge a fare come Giona che «si mise in cammino per fuggire a
Tarsis, lontano dal Signore». Siamo attratti anche noi, spesso, dalle sirene di
Tarsis. Incapaci non tanto di uscire ma di farlo dalla parte giusta, nella
direzione di Ninive.

All’improvviso, però, Dio sconvolse il suo ordine irrompendo
nella sua vita come un torrente in piena, privandolo di ogni sicurezza e
comodità: lo (ri)inviò a Ninive, «la grande città», simbolo di tutti i reietti
ed emarginati, luogo di tutti i mali, per proclamare la sua Parola, per
ricordare a tutti gli uomini smarriti che le braccia di Dio erano aperte e che
Lui avrebbe offerto loro il suo perdono e la sua tenerezza.

La chiamata rivolta a Giona, risuona incessante anche per noi e
ripete l’invito a vivere l’avventura di Ninive, ad assumerci il rischio di
essere i protagonisti di una nuova missione, frutto dell’incontro con Dio.
Questo incontro è sempre una novità e ci sprona a rinunciare alle abitudini, a
metterci in marcia verso le periferie e le frontiere, là dove si trova l’umanità
più ferita e dove i giovani, dietro la loro apparenza di superficialità e
conformismo, non si stancano mai di cercare una risposta alle proprie domande
sul senso della vita. Aiutando i nostri fratelli a trovarlo, anche noi
comprenderemo, in modo rinnovato, il senso dell’azione e la gioia della
vocazione educativa, la ragione delle nostre preghiere e il valore della nostra
dedizione.

La soluzione peggiore consiste nel trincerarci nel nostro piccolo
mondo emettendo giudizi amari sulle condizioni in cui versa la società. Non ci è
permesso di trasformarci in «scettici» a priori. Dobbiamo invece lanciare
messaggi positivi: vivere noi per primi in pienezza e farci testimoni e
costruttori di un nuovo modo di essere uomini e donne. Ma questo non
succederà se perseveriamo nello scetticismo: bisogna convincersi che le cose non
solo «si possono» cambiare, ma che la rivoluzione di cui ci facciamo portatori è
una «imprescindibile necessità» (Cfr. Jorge Mario Bergoglio, Messaggio alle
comunità educative
, Buenos Aires 2007).

E) Uscire per
cambiare mentalità

Ormai abbiamo capito, dopo 50 anni di mancata applicazione del
Concilio, che il problema è la mentalità da cambiare (metànoia) e che
non basta un cambio di struttura (anche se a un certo punto è indispensabile).

Per questo occorre partire dalla missione. A mio avviso il
problema è quello di potere e sapere leggere la missione che lo Spirito sta già
suscitando adesso, con i suoi profeti e i suoi protagonisti, le sue pratiche,
le sue frontiere e periferie, i suoi incontri. Questo è un punto che dobbiamo
assolutamente credere! E su questa base vogliamo motivare una maggiore, più
decisa e meglio illuminata estroversione e animazione missionaria. Il nostro
problema principale è uscire, e la promessa che ne sostiene il dinamismo è che
così facendo ritroveremo la gioia del Vangelo e di conseguenza potremo anche
individuare passi di riforma della Chiesa. In poche parole: (re)imparare la
missione da ciò che accade, da coloro ai quali siamo inviati, dal lavoro dello
Spirito nel mondo.

L’accento mio è che solo guardando fuori e dicendosi (lasciandosi
dire) cosa si vede e si sperimenta, si capisce cosa fare di diverso e meglio
della nostra animazione. Per non correre il rischio di parlarci addosso. Per
una volta dimentichiamoci un po’ di noi e chiediamoci che cosa ci dona la città
(Ninive, la periferia) e di che cosa ha bisogno. Saremo allora capaci di vedere
tracce e odorare profumi di Vangelo intorno a noi e anche lontano da noi, ma
certo fuori di noi. Poi vedremo cosa possiamo fare e cosa cambiare. Se siamo
autoreferenziali, non si esce davvero. Se invece ci confrontiamo con qualcosa
di veramente altro, allora forse cominciamo a cambiare.

F)
Evangelizzati dai poveri

«I poveri sono i compagni di viaggio di una Chiesa in uscita,
perché sono i primi che essa incontra. I poveri sono anche i vostri
evangelizzatori, perché vi indicano quelle periferie dove il Vangelo deve
essere ancora proclamato e vissuto» (dal messaggio di Papa Francesco ai
partecipanti al convegno, 22/11/14).

Per stare al convegno e alle sue relazioni: Ninive e Dio
convertono Giona; i poveri e lo Spirito istruiscono Gesù; la missione e i suoi
profeti riorientano la nostra azione; la città e le sue risorse interpellano la
nostra animazione; il perdono ricevuto e la benevolenza divina ci aiutano a
trovare il volto amabile del mondo. Da qui possiamo eventualmente ripensare la
nostra responsabilità per la missione ed evangelizzazione.

Ogni giorno che passa mi convinco sempre di più che il nostro
mondo ecclesiale e missionario con i suoi schemi sta finendo. O forse è già
finito. È vero: alcune nostre proposte non passano o non sono mai passate, e
forse sarebbe opportuno rifarle; ma forse hanno fallito anche perché sono
esattamente sulla lunghezza d’onda (tipo l’ossessione per l’identità, la
collocazione, il ruolo, lo specifico…) di quelle realtà che ci tengono ai
margini. Occorre rischiare strade nuove. All’inizio sarà inevitabile sbagliare
e anche trovarsi un po’ confusi, ma quale sorpresa poi cominciare a intravedere
ciò che davvero appare nuovo. Credo che il convegno abbia tentato di mettere le
premesse per fare spazio e incoraggiato la creatività nel cercare e inventare
strade nuove nella missione.

G) Ninive è
la novità di Dio

Il convegno ha suscitato in noi almeno l’interesse per Ninive.
Lasciando allora che la città ci cambi con le sue domande e inquietudini,
disagi e ferite. Se posso essere anche più esplicito: dobbiamo decentrarci
perché ci deve stare a cuore Ninive (anche se non ne vogliamo proprio sapere)!
Perché i cambiamenti delle nostre comunità, dei gruppi, associazioni e istituti,
avverranno solo dopo aver raccontato quali segni di grazia vediamo in Ninive e
sul territorio e che cosa o chi infiamma il nostro cuore di nuova comprensione
dell’evangelo e di rinnovata responsabilità missionaria. Perché se di segni non
ne vediamo e di fiamme in cuore non ne abbiamo, avremmo davvero un grande
problema. A quel punto neppure la migliore delle riforme strutturali ci
servirebbe granché.

Perché Dio ci sta parlando nella «novità» di Ninive. E la novità ci
fa sempre un po’ di paura, perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto
controllo, se siamo noi a costruire, a programmare, a progettare la nostra vita
secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti.

E questo avviene anche con Dio. Forse non come Giona, ma spesso anche
noi Dio lo seguiamo, lo accogliamo, ma fino a un certo punto; ci è difficile
abbandonarci a Lui con piena fiducia, lasciando che sia lo Spirito Santo
l’anima, la guida della nostra vita, in tutte le scelte. Abbiamo paura che Dio
ci faccia percorrere strade nuove, ci faccia uscire dal nostro orizzonte spesso
limitato, chiuso, egoista, per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la
storia della salvezza, quando Dio si rivela porta novità – Dio porta sempre
novità -, trasforma e chiede di fidarsi totalmente di Lui.

Non è la novità per la novità, la ricerca del nuovo per superare
la noia, come avviene spesso nel nostro tempo. La novità che Dio porta nella
nostra vita è ciò che veramente ci realizza, ciò che ci dona la vera gioia, la
vera serenità, perché Dio ci ama e vuole solo il nostro bene. Domandiamoci
oggi: siamo aperti alle «sorprese di Dio»? O ci chiudiamo, con paura, alla
novità dello Spirito Santo? Siamo coraggiosi per andare per le nuove strade che
la novità di Dio ci offre o ci difendiamo, chiusi in strutture caduche che
hanno perso la capacità di accoglienza? (Cfr. Papa Francesco, piazza San Pietro
domenica 19 maggio 2013).

H) Tra
continuità e discontinuità

Il cambiamento avverrà in modo graduale. L’importante è che non
diventi un semplice prolungamento (e magari miglioramento) del presente, ma che
sia caratterizzata dall’irruzione di elementi sorprendenti, inattesi, che
determinano un sostanziale mutamento qualitativo.

Si tratta di imparare a contemplare l’oltre verso cui la
missione ad gentes deve protendersi. Il punto al quale noi siamo giunti,
nelle realtà e nei contesti in cui operiamo in Italia e nel mondo, non può
essere considerato come il modello di un perpetuo ritorno per rifare le stesse
cose, ma il semplice punto di partenza per qualcosa di nuovo che va oltre sia a
livello geografico che contenutistico.

Hannah Arendt ha scritto in Vita activa: «Il fatto che
l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso,
che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è
possibile perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo
qualcosa di nuovo nella sua unicità».

Sì, perché abbiamo ancora bisogno di utopia, abbiamo bisogno di
speranza e di fede, abbiamo bisogno di vivere amando anche ciò che non potremo
vedere realizzato. Questo amore è una potenza feconda e generante: è una forza
profetica che crea futuro, dà speranza, apre orizzonti di senso, dà forza per
vivere nella storia e nel mondo attendendo il regno di Dio, che è il fine della
storia e il futuro del mondo.

Concludo con l’accorato appello fatto da Papa Francesco ai
partecipanti al convegno: «Vi esorto a non lasciarvi rubare la speranza e il
sogno di cambiare il mondo con il Vangelo, con il lievito del Vangelo,
cominciando dalle periferie umane ed esistenziali. Uscire significa superare la
tentazione di parlarci tra noi dimenticando i tanti che aspettano da noi una
parola di misericordia, di consolazione, di speranza. Il Vangelo di Gesù si
realizza nella storia. Gesù stesso fu un uomo della periferia, di quella
Galilea lontana dai centri di potere dell’Impero romano e da Gerusalemme.
Incontrò poveri, malati, indemoniati, peccatori, prostitute, radunando attorno
a sé un piccolo numero di discepoli e alcune donne che lo ascoltavano e lo
servivano. Eppure la sua parola è stata l’inizio di una svolta nella storia,
l’inizio di una rivoluzione spirituale e umana, la buona notizia di un Signore
morto e risorto per noi. E noi vogliamo condividere questo tesoro».

Andiamo avanti con speranza!
Antonio Rovelli

L’articolo è debitore in vari modi e forme alla relazione di
Aluisi Tosolini tenuta al Convegno e ad alcuni contributi e riflessioni di Luca
Moscatelli fatte in occasioni diverse.



Dio ama gratis
di Gustavo Gutiérrez

Evangelizzazione

Comincio commentando tre frasi. La prima di Paolo VI che
nella Evangelii Nuntiandi ha detto che «la Chiesa esiste per
evangelizzare
». Questa è la ragione d’essere della Chiesa, evangelizzare, e
(non si può dire che) la Chiesa esiste prima e evangelizza dopo. Esistenza e
impegno per l’evangelizzazione sono una sola cosa. Se la Chiesa non evangelizza
non esiste, non è Chiesa, è un gruppo di persone.

La seconda frase viene da papa
Francesco: evangelizzare è fare presente il regno di Dio nel mondo.
Semplicemente questo. È fare presente il regno che è il centro della
predicazione di Gesù. Gesù è venuto per questo, per dire (che) il regno è qui,
ma non pienamente. Questa definizione di evangelizzazione è molto ricca.

La terza è sempre di Francesco: la
motivazione dell’evangelizzazione è l’amore di Dio che noi abbiamo ricevuto
.
È una espressione dell’amore di Dio. Questa è la radice. Senza amore non c’è
evangelizzazione. Dobbiamo amare come Gesù ha amato. Nei Sinottici dice: noi
dobbiamo dare gratuitamente ciò che abbiamo ricevuto gratuitamente. Qui
l’accento è sulla gratuità dell’amore di Dio. Credo che qui abbiamo una
questione molto centrale in tutta la Bibbia, primo e secondo testamento:
l’amore di Dio è gratuito. Certamente quando dico gratuito non dico arbitrario.

Abbiamo visto questo parlando del
libro di Giona. Una perla. Quello che Giona non ha capito è la gratuità
dell’amore di Dio. Non ha saputo capire il senso dell’amore di Dio che ama
tutte le persone.

Nel Concilio abbiamo un documento, l’Ad gentes,
che ha ricuperato il senso globale della evangelizzazione. All’inizio del
documento dice che l’evangelizzazione della Chiesa è un prolungamento delle due
missioni, quella del Figlio e dello Spirito Santo. Questo è molto ricco, perché
lega la missione della chiesa alla missione della Trinità. Quella della chiesa è
una missione che viene da lontano. Questo testo risente della mano del padre
Yves Congar. È un punto teologico molto importante. La missione deve creare la
comunione con la Trinità, una comunione con il dio della nostra fede, una
comunione fra gli esseri umani e tra noi. È il senso di una parola importante
nella Bibbia: koinonia. Ha tre sensi. Koinonia fra le persone
divine. Koinonia sull’essere umano con Dio, La koinonia tra le
persone umane. La colletta per aiutare i poveri è chiamata koinonia.
[…]

Grazia e impegno

Giona è un credente ma
rifiuta di agire secondo la fede nell’amore gratuito di Dio, non ha capito che
Dio è un Dio di tutti. Questo è anche oggi, c’è chi rifiuta (questa verità).
Quando si dice il Dio del perdono. Per-dono: dono è regalo, per è
superlativo, (quindi) è un gran regalo. (Noi) dobbiamo comprendere che non c’è
un regalo senza una esigenza. Le beatitudini sono molto chiare in questo. Amare
come Gesù ci ha amato. Gesù ringrazia parecchie volte e allo stesso tempo è
molto presente al suo momento storico.

Accettare il dono di essere figli
di Dio non significa una chiamata a (diventare) suore, a fare amici, perché il
dono (è) … In tedesco c’è una espressione. Grazia si dice gaben,
obbligazione si dice ausgaben. (Così) dicono che la vita cristiana è tra
la gaben e la ausgaben, fra la grazia e l’esigenza. Mons. Romero
ha mostrato questo.

Le due grandi dimensioni della vita
cristiana sono la preghiera e l’azione per cambiare quello che non è degno
della persona umana. Cercare di capire che qui non c’è una opposizione (tra le
due) è molto importante per il credente nel Dio incarnato. Grazie.

_____________________

Dalla registrazione della conferenza
di Gustavo Gutiérrez
a Sacrofano. Nostra trascrizione, non rivista dall’autore.

 

Antonio Rovelli




Berretta rossa per il popolo

Chibly Langlois,
incontro con il primo cardinale della storia di Haiti

Nato da una famiglia
umile di contadini del Sud, la sua è una vocazione adulta. Da subito impegnato
con i ragazzi più poveri. Si distingue dopo il terremoto. Da oltre un anno
tenta una mediazione per risolvere la crisi di Haiti.

Monsignor Chibly Langlois è il primo cardinale della storia di Haiti.
Vescovo di Fort Liberté nel Nord Est dal 2004 e poi di Les Cayes, Sud, dal
2011, è anche presidente della Conferenza episcopale haitiana (Ceh) dal
dicembre dello stesso anno. Papa Francesco lo nomina cardinale il 12 gennaio
2014, quarto anniversario del terremoto ad Haiti. È durante il concistoro del
22 febbraio dello stesso anno che mons. Langlois riceve le insegne
cardinalizie.

«Accolgo questa nomina come una grazia per Haiti»
dichiara in una prima intervista all’agenzia Alterpresse il
giorno della nomina.

Tra i cardinali più giovani (56 anni), mons. Langlois è
figlio di contadini del comune La Vallée de Jacmel, zona rurale e impervia nel
Sud Est di Haiti.

Uomo estremamente dinamico, si è subito distinto dopo il
terremoto del 2010 per la ricostruzione morale e materiale del paese.

Ha assunto, inoltre, un importante ruolo di mediazione
politica nella grave crisi tra il presidente della Repubblica, i partiti e
altre parti sociali, tra fine 2013 e il 2014, promuovendo l’iniziativa di
riconciliazione nazionale «Insieme per il bene di Haiti».

È attualmente membro del Pontificio consiglio Giustizia
e Pace e della Pontificia commissione per l’America Latina.

Molto disponibile, nonostante la sua agenda
sovraccarica, ha accettato di incontrare MC in esclusiva lo scorso 31 gennaio
ad Haiti.

Papa
Francesco ha richiamato l’attenzione su Haiti convocando un incontro
internazionale in Vaticano il 10 gennaio scorso. Quali risultati ha portato?

«Abbiamo
accolto con gioia l’organizzazione (da parte del Pontificio Consiglio Cor
unum
e della Pontificia commissione per l’America Latina, ndr) di
questo incontro. Ci attendevamo molto da esso. A cinque anni dal terremoto
volevano sapere come è andata la ricostruzione, e che speranze abbiamo ad
Haiti. Io sono soddisfatto di questo incontro, perché ha avuto il risultato di
incoraggiare le “chiese sorelle” e gli organismi che hanno l’abitudine di
aiutare Haiti. C’è stata una risposta molto positiva e massiccia da parte degli
invitati a questo incontro.

La strada è stata tracciata dal Papa stesso che ha
insistito sul fatto che l’essere umano è al centro dell’azione ecclesiale.
L’evangelizzazione concee gli uomini e le donne, comprendendo l’ambiente e
tutto quello che aiuta a sviluppare le dimensioni dell’essere umano, e ne aiuta
la realizzazione.

Il secondo punto verteva sulla comunione che ci deve
essere tra chiese sorelle e la chiesa locale e pure tra le diverse istituzioni
facenti parte della chiesa haitiana. Il papa ha sottolineato che dobbiamo agire
uniti, perché siamo tutti membra di un corpo, e per questo è importante la
cornordinazione delle azioni ecclesiali e l’unità tra i diversi attori sul
terreno.

Nel terzo punto il papa ha sottolineato l’importanza
della chiesa locale, perché è attraverso essa e le sue istituzioni che la
missione si fa molto più tangibile. Ecco perché occorre rinforzarla. E penso
che questo sia particolarmente importante ad Haiti perché abbiamo una chiesa
che si cerca ancora, nel senso che sta cercando di rendere solide le proprie
basi per meglio rispondere alle esigenze di evangelizzazione nel paese.

Questi tre punti orientano le azioni da realizzare sul
terreno, e le relazioni con le chiese sorelle e le diverse istituzioni. Per me è
già un buon risultato sapere che abbiamo queste indicazioni. Dobbiamo dunque
lavorare per avere dei risultati palpabili, concreti. Noi della Conferenza
episcopale e le diverse istituzioni dobbiamo lavorare per materializzare quello
che il papa ha detto il 10 gennaio, così gli organismi e i diversi
partecipanti, devono lavorare in concerto con noi».


La
chiesa cattolica ha giocato un ruolo importante in questi cinque anni dopo il
terremoto. Può tracciare un bilancio?


«A livello di ricostruzione la priorità è stata data
all’accompagnamento delle vittime. Ci sono stati feriti, morti, famiglie molto
colpite. Ci sono state conseguenze non solo dal punto di vista fisico ma anche
psicologico, e sul piano della fede. La chiesa ha accompagnato donne, uomini,
bambini e giovani a riprendersi. Accompagnamento psicologico, ma anche
materiale: alloggio, cibo, salute, educazione. In tutte le diocesi. Perché
molte persone hanno lasciato Port-au-Prince per andare nelle altre diocesi.
Allora ci accordavamo su come accogliere questi profughi. Quindi la priorità è
stata data alla ricostruzione della persona umana. Anche dal punto di vista
della fede.

C’è stato chi ha diffuso l’idea che il terremoto sia
stato voluto da Dio per castigare Haiti. Noi abbiamo detto che è stata una
catastrofe naturale. Dio ci ama e ci aiuta e certo non ha voluto colpire gli
haitiani. Abbiamo accompagnato dunque le persone affinché potessero riprendere
coraggio.

In secondo luogo abbiamo dovuto anche lavorare per la
ricostruzione materiale. Abbiamo messo in piedi delle istituzioni con le chiese
sorelle degli Usa, Germania, Francia, Repubblica Dominicana. Abbiamo potuto
fare la nostra parte. Si va avanti lentamente, occorre costruire con tecniche
anti sismiche e anti cicloniche, in modo diverso rispetto a prima. Anche per
questo è stato necessario molto tempo.

Ma occorre anche che i fondi siano gestiti in modo
trasparente. Per questo motivo abbiamo creato un’équipe che aiutasse nella
gestione. Ricostruire bene e gestire bene è necessario per restare in perfetta
comunione con i nostri partner, che da parte loro devono rendere conto di
quello che fanno per Haiti.

Ultimamente abbiamo usato dei fondi per la ricostruzione
di chiese, e questo costa caro oggi. A Port-au-Prince la priorità è stata data
a chiese, canoniche, scuole, conventi distrutti. Così anche a Jacmel e a
Nippes. Le chiese di Grand Goave, Miragoane, una chiesa a Pétion-Ville. E
l’importante chiesa del Sacro Cuore a Pacot, in capitale. Abbiamo anche
ricostruito alcune scuole a Port-au-Prince con l’aiuto di Cor unum. Sono
dei passi che sono stati fatti, ma ad Haiti noi vorremmo che si andasse avanti
molto più rapidamente. C’erano molte diocesi che aspettavano aiuti anche prima
del terremoto, ma con l’evento si è fermato il processo in corso per rispondere
all’emergenza. C’è una certa impazienza, ma occorrono fondi, tecnica, buona
gestione.

L’équipe della Ceh ha inventariato i bisogni: sulla
lista di 200 progetti, circa 130 non sono ancora stati attivati».

Il
paese attraversa oggi una grave crisi politica, e c’è anche un contesto sociale
esplosivo. La chiesa cattolica sta giocando un ruolo molto importante. Può
spiegarcelo?

«Abbiamo assunto un ruolo di mediazione e anche di
accompagnamento. La chiesa ha sempre accompagnato il popolo haitiano nei
momenti difficili. Per questo, l’anno scorso abbiamo offerto il nostro servizio
per aiutare gli attori politici a dialogare. Abbiamo organizzato degli incontri
di lavoro. Siamo riusciti a raggiungere un accordo tra le parti che però,
purtroppo, non ha portato ai risultati desiderati. Ma ha aiutato la gente ad
andare avanti nel dialogo e nel cercare altre soluzioni. Siamo arrivati a oggi.
È vero che c’è una situazione piuttosto esplosiva, ma finalmente non si possono
evitare le elezioni, occorre organizzarle (vedi box).

Ancora oggi la chiesa non è lontana da questa realtà ma
continua ad accompagnare nella misura delle sue possibilità. Siamo sempre
pronti ad aiutare gli attori a dialogare. La situazione è piuttosto delicata,
dobbiamo trovare il modo di favorire la realizzazione delle elezioni e avere
delle persone elette dalla popolazione che possano gestire il paese secondo dei
criteri democratici».

Ma
qualcuno potrebbe dire che la chiesa non deve immischiarsi nelle questioni
politiche. Cosa risponderebbe?

«Bisogna evitare la confusione in quelli che chiamiamo “affari
politici”. C’è l’impegno in attività politiche, che riguarda persone attive nei
partiti e poi nella gestione di beni e del potere. Noi non interveniamo a quel
livello. Noi siamo impegnati ad aiutare gli attori a incontrarsi e a dialogare,
per trovare il cammino che possa portare a gestire meglio il paese e a offrire
alla popolazione la possibilità di una società più giusta, la pace e la serenità
per occuparsi delle loro attività. Noi non siamo dunque impegnati in modo
attivo nella politica. E quindi ci ritireremo e continueremo il nostro lavoro
di evangelizzazione, con atti di carità e con tutte le nostre istituzioni, le
parrocchie, le commissioni episcopali e parrocchiali, per accompagnare fedeli e
popolazione».

E
papa Francesco vi ha incoraggiati in questo ruolo di mediazione?

«Non abbiamo bisogno di una parola diretta del papa su
questa realtà per incoraggiarci. Di fatto il papa ci incoraggia tramite la
Commissione pontificia Giustizia e Pace, di cui io faccio parte. Questo
significa che il papa accoglie favorevolmente l’accompagnamento che diamo qui,
perché è suo desiderio che la chiesa susciti la giustizia sociale, ovvero
favorisca un ambiente in cui le persone possano sentirsi fratelli, nella realtà,
senza vivere gli uni contro gli altri, come se fossimo in guerra. Siamo
chiamati sviluppare una una cultura di giustizia e una cultura dell’amore e
della carità. E qui la chiesa ha il suo ruolo da giocare».

La
mediazione sta continuando o siamo in una fase di puro accompagnamento?

«In maniera esplicita, come abbiamo fatto prima (durante
il 2014, ndr), la mediazione non continua, ma con l’équipe che è
stata messa in piedi continuiamo a riflettere per vedere quando e come
intervenire in modo tale da migliorare la situazione. Facciamo degli incontri
per riflettere sulla realtà e portare il nostro apporto nella risoluzione della
crisi».

Guardando
la situazione di oggi, con un governo non legittimato, un Parlamento non
funzionante e un nuovo Consiglio elettorale (vedi box), secondo lei cosa
succederà? Che speranze ci sono?

«Siamo a un bivio per cui il governo non può non
organizzare le elezioni, perché altrimenti conosceremo una situazione ancora
peggiore. Per far questo ognuno deve portare il suo contributo per la
costruzione di un contesto che possa aiutare allo svolgimento dello scrutinio.
Se questo avvenisse è sicuro che si andrebbe verso una normalizzazione della
situazione. È questo che speriamo e dovrebbe essere il desiderio di tutti.
Volere che il paese ritrovi una situazione di pace. Per questo pensiamo che la
maggioranza degli haitiani vuole le elezioni, per cambiare i dirigenti a
livello del governo e avere della gente capace di gestire il paese secondo
criteri democratici attraverso istituzioni democratiche».

La
comunità internazionale ha sempre giocato un ruolo molto forte in Haiti. Come
vede la sua influenza nel contesto di oggi?


«Non possiamo funzionare in modo isolato. Ai giorni
nostri il pianeta è interconnesso. Vuol dire che abbiamo bisogno dell’apporto
della comunità internazionale per arrivare all’organizzazione di buone elezioni
nel paese, avere osservatori inteazionali, un aiuto finanziario, consigli per
risolvere la crisi. Non possiamo tagliare le relazioni con la comunità
internazionale. Quindi è buona cosa che ci accompagni, ma ben inteso, non
significa fare al nostro posto, quanto piuttosto darci l’illuminazione affinché
noi siamo in grado di organizzare delle buone elezioni e scegliere i politici
idonei per ben gestire il paese».

E
cosa pensa delle organizzazioni inteazionali sbarcate in gran quantità dopo
il terremoto?


«Il papa ha appena detto che occorre rinforzare la
chiesa locale: qui c’è la Caritas Haiti e in ogni diocesi c’è una Caritas
diocesana. Occorre dunque rinforzare queste Caritas. Succede invece che vengono
dati soldi ad organizzazioni terze venute dall’estero. È importante che la Cei
e Caritas Inteationalis sostengano direttamente la nostra Caritas.

Se il papa parla in questo modo è per evitare che si
moltiplichino in eccesso gli interventi sul terreno, a nome della chiesa. La
chiesa locale deve assumere la sua responsabilità nei confronti della gente, ma
per questo ha bisogno dell’appoggio della comunità internazionale e delle
istituzioni sorelle.

Sarebbe importante non frammentare i diversi interventi. È
quello che è successo dopo il terremoto: diverse Caritas sono arrivate ad Haiti
e si sono installate. Molte hanno aiutato la Caritas Haiti, ma allo stesso tempo
hanno fatto i loro progetti. A volte c’è stata duplicazione, a volte molti
soldi sono stati spesi in amministrazione o nell’acquisto di veicoli e affitto
di case. E questo ha fatto sì che la popolazione alla quale questi soldi erano
destinati abbia ricevuto solo una piccola parte di essi. Ci lamentiamo molto di
questa situazione in Haiti.

Se un’altra istituzione viene a lavorare ad Haiti deve
farlo in cooperazione, in comunione con la struttura locale, per dare anche una
visibilità alla chiesa locale. Non escludiamo il partenariato».

 

A
livello sociale vediamo un grande scontento rispetto all’esecutivo attuale,
perché forse la gente sperava in qualcosa che non è arrivato. E la crisi è
peggiorata. Cosa bisognerebbe fare e che programma ha la chiesa a livello
sociale?

«A livello sociale la situazione è molto tesa. Occorre
dire che la gente sta vivendo un momento disastroso, nel senso che molte
famiglie vivono in povertà, manca lo stretto necessario. Per questo è una
situazione davvero esplosiva. Sarebbe importante che noi chiesa riuscissimo ad
accompagnare le nostre comunità per arrivare a una normalizzazione della
situazione sociale. Ma la chiesa ha potuto dare l’accompagnamento nei limiti
delle sue capacità. Noi chiesa haitiana viviamo la crisi del nostro paese. Per
questo sarà ancora necessario il supporto delle chiese sorelle per aiutare la
gente. Ma chiese e istituzioni sorelle devono intervenire per fare in modo che
la chiesa haitiana faccia il lavoro di accompagnamento e di evangelizzazione
della popolazione. Gli haitiani conoscono la loro chiesa e sanno che ha
attualmente ha grossi problemi economici».

Marco Bello




Anno 2015: elezioni
necessarie per uscire dalla crisi infinita

I fantastici 9 per
salvare il paese

Il
paese sta attraversando una grave crisi politico – sociale. L’esecutivo del
presidente Michel Martelly non è stato in grado di organizzare alcun tipo di
elezione, alcune delle quali, le amministrative, sono in ritardo di 4 anni.
Scaduti i sindaci e i consigli comunali, il presidente ha proceduto per nomine
dirette dal ministero dell’Inteo. L’ultima impasse, dell’ottobre 2014, è
anche dovuta ad alcuni senatori che bloccano la modifica della legge
elettorale.

Si è arrivati quindi, al 12 gennaio scorso, alla
scadenza del mandato della camera dei deputati e di due terzi dei senatori (ad
Haiti il Senato si rinnova un terzo ogni due anni, mentre la camera ogni 4 anni
e il presidente della Repubblica resta in carica 5 anni). Il Parlamento è
dunque tecnicamente «non funzionante» con solo 10 senatori attivi.

La
crisi, che si trascina dal 2013, ha visto un tentativo di mediazione importante
da parte della Conferenza episcopale haitiana. Solo a fine 2014, il presidente
Martelly, allarmato soprattutto dalla pressione delle manifestazioni di strada,
aveva iniziato a cedere su alcuni punti con l’opposizione. A dicembre il primo
ministro Laurent Lamothe, fedelissimo di Martelly, aveva dato le dimissioni,
per essere sostituito dall’oppositore Evans Paul, politico di lungo corso,
cresciuto nei movimenti sociali. Ci si aspettava un grosso cambiamento di
governo con l’ingresso massiccio dell’opposizione. In realtà, Evans Paul ha
cambiato solo una parte dei ministri, e qualcuno parla di «governo fotocopia».

Il primo ministro non ha fatto però in tempo a
presentare la sua politica al Parlamento e avere la fiducia, perché questo è
scaduto, e il suo è diventato un «governo de facto».

Importante l’accordo, in extremis, dell’11 gennaio tra
il presidente Martelly e alcuni partiti d’opposizione. I partiti più radicali
non negoziano, piuttosto fomentano le folle e organizzano manifestazioni che
chiedono le dimissioni del presidente. Si tratta di Fanmi Lavalas, il partito
di Jean-Bertrand Aristide, della coalizione Mopod, e di Pitit Dessaline.

«L’accordo dell’11 gennaio ha fatto sì che il paese non
sia esploso, perché sarebbe stato possibile. Il presidente ha accettato di
rifare completamente il Consiglio elettorale provvisorio (Cep)», ci dice
Ricardo Augustin, vice preside all’Università Notre-Dame d’Haiti e già membro
nell’équipe di mediazione politica condotta dalla Ceh nel 2014.

Il punto è cruciale: il Cep è l’organo che gestisce le
elezioni. Da quando è stato eletto, Martelly ha voluto imporre la maggioranza
dei propri uomini sui nove membri che lo compongono. È la prima volta che cede
e accetta che il Cep sia fatto secondo i dettami dell’articolo 289 della
Costituzione: ovvero ogni membro sarà espressione di un settore della società
civile, e non di partiti politici o dei tre poteri. È il quinto Cep dell’era
Martelly, ed è l’unico segno di speranza nella crisi.

 

Il
23 gennaio il nuovo Cep è entrato in funzione con l’obiettivo di organizzare,
entro l’anno, elezioni amministrative, politiche e presidenziali. Ricardo
Augustin ne fa parte in qualità di rappresentante scelto dalla Conferenza
episcopale haitiana
(Ceh). «Si può dire che è l’unica istituzione che
attualmente ha una certa legittimità» ricorda Augustin in un perfetto italiano.
«Fino adesso non sento sfiducia nei confronti del Cep, anche grazie al profilo
delle persone che lo compongono. I diversi settori dicono: vediamo i primi
passi. Io, dopo la nomina, sono stato subito chiamato da un politico
dell’opposizione radicale, mi ha fatto i complimenti».

Il nuovo Cep si è subito messo al lavoro. Occorre
verificare i tempi tecnici e i mezzi economici e definire un calendario
elettorale. Le opzioni sono due: dividere le legislative dalle presidenziali,
iniziando le elezioni a luglio per poi passare a ottobre, oppure indire
elezioni generali. «Abbiamo delle scadenze che ci vincolano. La lista
elettorale deve essere chiusa 90 giorni prima della data delle elezioni. Ma
oggi almeno un terzo degli elettori ha la tessera scaduta. Questa è un’altra
preoccupazione su cui decidere» ricorda Augustin.

Il 10 febbraio il Cep propone un calendario elettorale
con la prima opzione, ma viene duramente criticato dai partiti politici.

«Adesso non c’è aggressività nei confronti del
consiglio. Suppongo perché questo Cep è composto da tecnici e quindi non ci
sono interessi politici immediati. La sfida per noi è riuscire a mantenere una
coesione nel gruppo, fare sì che le decisioni al nostro interno siano sempre
democratiche, con votazione per ogni decisione: siamo 9 e quindi si decide
almeno in 5».

Le
manifestazioni dei gruppi più radicali, che hanno spesso risvolti violenti,
possono avere una grande influenza su questo processo così delicato: «Per noi
l’obiettivo è anche creare un clima che permetta la realizzazione delle
elezioni. Se continuano queste manifestazioni la situazione diventa critica. La
questione è politica. Con questo comportamento possono arrivare a bloccare
tutto e impedire le consultazioni. Ma se non si fanno, è peggio per tutti».

Marco Bello

 

Marco Bello




Terra viva di pescatori e migranti (2)

Storie di «ordinaria»
migrazione

Libertà a caro prezzo
Nei centri di prima
accoglienza le giornate passano tra la noia, la sfiducia accumulata in mesi di
attesa e la tensione per l’incertezza sul proprio futuro. Mustaqim dal
Bangladesh, Sheriff dal Gambia raccontano un pezzo delle loro storie. Bakari è
«rinchiuso» nel centro di accoglienza di Mineo da più di un anno. Mammut vi è
stato trasferito da appena due mesi, dalla tendopoli di Messina, e già pensa
alla fuga. Ma c’è anche chi lì dentro attende da più di tre anni una risposta
sul proprio destino. Rifugiati, perseguitati, migranti in cerca di una vita
migliore, sopravvissuti all’indicibile, sono condannati a una vita sospesa.

Dopo
lo sbarco, i minori stranieri sono condotti nei centri di prima accoglienza: a
Pozzallo, in un palazzetto dello sport messo a disposizione per la stagione
estiva da un privato, dove una trentina di ragazzi egiziani dormono su
materassi di gommapiuma e il loro unico svago è ballare al ritmo della musica
rap araba trasmessa da due grandi amplificatori, e ad Augusta, in una scuola in
disuso. Per le centinaia di ragazzi che arrivano nel porto della città a bordo
delle navi della Marina militare, nel cortile della «Scuola Verde» sono state
predisposte brandine di fortuna, mentre al piano superiore le aule sono state
adibite a camerate, ciascuna occupata da otto ragazzi, divisi per nazionalità.

Nella stanza dei bengalesi, considerata la più pulita e
ordinata, ci riceve Mustaqim il «retto». Indossa una maglietta con la scritta
United Colours of Benetton; non sa nulla del crollo del Rana Plaza, la fabbrica
tessile alla periferia di Dacca che nell’aprile del 2013 era costato la vita a
più di 1.000 suoi connazionali. Doveva essere già in viaggio. È pettinato come
uno studente di un college inglese, forse per apparire più giovane. In effetti
aspetta un permesso per minore età. Mostra la foto dei genitori: la mamma,
avvolta in un sari viola, sembra piuttosto anziana. Comunque Mustaqim è il
maggiore di nove fratelli e spetta a lui il compito di mantenerli. Dice che la
sua famiglia ha chiesto un prestito in banca per pagare il costo del viaggio.
Ma è più probabile che dietro ci sia una catena transnazionale di «imprenditori»
del traffico di persone che chiede ai migranti e alle loro famiglie interessi
esosi.

È un universo «invisibile» quello dei migranti dal
Bangladesh, da cui si registrano i primi arrivi in Italia già nel 1982. Non
possono chiedere lo status di rifugiato politico – ciò creerebbe all’Italia
tensioni con un governo democraticamente eletto – né di profugo ambientale –
categoria che non gode ancora di un riconoscimento giuridico -, definizione che
calzerebbe perfettamente su coloro che fuggono dal paese asiatico, il cui
territorio, notoriamente, è flagellato da pesanti inondazioni e ora sempre più
soggetto a periodi di siccità.

Le giornate passano tra la noia, la sfiducia accumulata
in mesi di attesa e la tensione per l’incertezza sul proprio futuro. La «Scuola
Verde» non è certamente il luogo più adatto a ospitare dei minori: era già
stata dichiarata non agibile, e i ragazzi sono lasciati soli nelle ore
nottue. Molti di loro però hanno costruito relazioni positive con il
territorio: operatori, volontari, tutori che li hanno avuti in consegna per
mesi.

Il mattino del 21 ottobre arriva il trasferimento
a sorpresa: saranno portati tutti in una nuova struttura, un altro centro di
prima accoglienza a Melilli, nella frazione Città Giardino.

Proprio come Kunta
Kinte

Sheriff arriva dal Gambia, dal villaggio di Badibù, lo
stesso di Sarjo, ma lui è partito prima.

Appartiene al gruppo etnico Mandinka, proprio come Kunta
Kinte, il protagonista di Radici, fortunato film per la televisione
tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore afroamericano Alex Haley. Erano gli
anni ’70 e un’intera generazione di ragazzi italiani fece il tifo per quel nero
forte e coraggioso che lottava per i suoi diritti. Per Sheriff, Kunta Kinte è
esistito davvero: «È il nostro eroe nazionale», dice. Lui ha seguito il destino
del suo illustre antenato imbarcandosi su una modea nave negriera, verso un
luogo in cui la libertà si conquista ancora a caro prezzo.

Anche il suo è stato un viaggio lungo e difficile.
Sheriff mostra un tesserino da giornalista e racconta che, grazie a una borsa
di studio, aveva iniziato uno stage presso la radio privata «Kids with talents»
(Kwt 107.6 fm) che si occupava di sport e giovani di talento. Sheriff aveva
visitato alcune comunità rurali per raccogliere le opinioni degli abitanti
sulla decisione del presidente Jammeh Yahya1 di vietare il gioco del calcio
durante la stagione delle piogge – giugno-ottobre – per indurre i giovani a
lavorare nei campi di arachidi, principale prodotto di esportazione. Un
intervistato aveva espresso delle critiche, e Sheriff poco tempo dopo aveva
ricevuto una telefonata: la cosa era arrivata alle orecchie di Yahya, che non
aveva gradito il contenuto dell’intervista. Avrebbe potuto mandare i suoi jungullers
(una specie di milizia privata al soldo del dittatore) a ucciderlo. Sheriff
allora non ha perso tempo ed è fuggito. Ha percorso 200 km a piedi per entrare
in Senegal, di lì in Mauritania, e poi in Marocco da dove ha tentato più volte
di raggiungere l’Europa. Per pagare il resto del viaggio, ha lavorato per un
periodo come muratore a Tangeri, dove viveva in edifici abbandonati alla
periferia della città. Ma una notte è stato costretto a scappare per una retata
della polizia. Raggiunta Tetouàn, si è nascosto nella foresta di Cassiago, dove
erano accampate centinaia di «fratelli» di altri paesi del West Africa.
Per entrare a Ceuta, l’enclave spagnola, ci sono due modi: attraversare a nuoto
quel lembo di mare che la separa dal Marocco, oppure scavalcare il muro fatto
di recinzioni alte sei metri e sormontato da reticolati di filo spinato2.
Sheriff era su quel muro quando è stato catturato. In prigione, i poliziotti
marocchini gli gridavano sporco negro e lo hanno lasciato senza mangiare per
due giorni. Al secondo tentativo è stato deportato alla frontiera con
l’Algeria. Superato il confine, è stato nuovamente arrestato a Maghnia, dove è
stato costretto a passare la notte dentro a una buca. Fuggito di là, ha capito
che la sua ultima speranza era la Libia.

Ora vive con Sekou «il Saggio», che ha incontrato a
Tripoli ed era con lui sulla barca che lo ha portato in Sicilia, in un
appartamento dello Sprar (il Sistema di Protezione per Migranti e Richiedenti
Asilo) ad Aci Sant’Antonio, proprio sotto al Vulcano. «La notte sembra che la
casa si muova e abbiamo paura».

Sekou, che ha una brutta ferita sul viso ed è orfano di
entrambi i genitori, parla bene italiano, ma fa finta di non capire. Dice di
essere in contatto diretto con Ousainou Darboe, un avvocato per i diritti
umani, leader del principale partito dell’opposizione in Gambia. Sekou e
Sheriff sarebbero potuti rientrare nel loro paese prima del previsto se il
colpo di stato, tentato nella notte tra il 29 e il 30 dicembre scorso, non
fosse fallito.

C’è ancora qualcuno
che nasce o muore nel centro di Mineo

Sheriff e Sekou sanno di essere stati comunque più
fortunati di tanti loro compagni di viaggio. Bakari è «rinchiuso» nel centro di
accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo (Cara)3
di Mineo da più di un anno. Mammut vi è stato trasferito da appena due mesi,
dalla tendopoli di Messina, e già pensa alla fuga. Ma c’è anche chi lì dentro
attende da più di tre anni una risposta sul proprio destino. Malgrado il
recente scandalo denominato dalla stampa «Mafia capitale» che ha riguardato
l’intero «sistema italiano dell’accoglienza» e, in particolare, proprio la
gestione del centro nato nel 2011 sull’onda dell’ennesima emergenza, c’è ancora
qualcuno che a Mineo nasce o muore.

Pochi chilometri separano il centro dalla base
aeronavale Usa di Sigonella. Percorriamo la statale che da Catania porta a
Caltagirone, e di lì a Gela. Alla nostra destra c’è la distesa di filo spinato
che protegge la base, interrotta solo da qualche cespuglio dove si nascondono
le prostitute, tutte ragazze africane ospiti del Cara. Più avanti, sulla
sinistra, vediamo sbucare all’improvviso un gruppo di villette tutte uguali,
color pastello e, poco oltre, un agrumeto. Ha il nome bucolico di Residence
degli aranci, ma per entrare ci vuole «un’autorizzazione speciale», dicono i
funzionari all’ingresso. Anche per uscire, gli ospiti devono passare il badge e
sono obbligati a rientrare entro 48 ore.

Il primo centro abitato sulla strada, Mineo appunto, è
arroccato sulla collina ed è difficilmente raggiungibile a piedi. Sulla
striscia d’asfalto che separa il centro dai campi lasciati incolti, un pastore
pascola le pecore, sorvegliate da un cane che zoppica. Mentre la foto,
pubblicata sul web, che mostra i migranti appesi al «muro» di Ceuta e gli
spagnoli, dall’altra parte, che giocano a golf, fa il giro del mondo, sulla
strada del ritorno, anche noi abbiamo un flash: dietro la recinzione che cinge
il perimetro di Sigonella, un militare in maniche corte passeggia con la figlia
– i capelli biondi e lo stesso diafano pallore – su un prato all’inglese
perfettamente curato e di un verde talmente intenso da sembrare finto.

Ci giriamo un’ultima volta verso il «villaggio della
solidarietà» (il Cara di Mineo è stato chiamato anche così) dove centinaia di
uomini e donne nel fiore dell’età, dopo essere sopravvissuti all’indicibile,
sono condannati a una vita sospesa, che ha più il sapore di una morte lenta che
di una seconda nascita a un’esistenza nuova, dall’altro lato di questo mare nostro.

Note alle pagine
44-47:

1
Jammeh Yahya era balzato agli onori della cronaca nel 2013 per aver
definito, nel corso di un’assemblea generale dell’Onu, i propri concittadini
omossessuali una «sciagura», e l’omosessualità la «maggiore minaccia per l’esistenza
umana». Per rimanere su questo tema, già nel 2008 aveva ammonito gay e lesbiche
a lasciare il paese, se non volevano vedere le loro teste tagliate. Nel
febbraio 2014, parlando alla televisione di stato dichiarava: «Combatteremo
questi animali infestanti chiamati omosessuali nello stesso modo in cui stiamo
combattendo le zanzare portatrici di malaria». Lo scorso agosto l’assemblea
nazionale del Gambia ha approvato un disegno di legge che prevede l’ergastolo
per il reato di «omosessualità aggravata», ovvero per coloro che ripetono il
presunto crimine in forma recidiva, e per le persone che hanno contratto l’Hiv.


Ceuta e Melilla, enclave spagnole in territorio marocchino, hanno
rappresentato per tutti gli anni Novanta due porte d’ingresso per l’Unione
europea. Per questo sono state separate dal Marocco da una doppia rete
metallica alta inizialmente tre metri, e poi raddoppiata a sei. Nell’estate e
autunno del 2005 le due enclave sono state oggetto di veri e propri assalti di
migranti che tentavano, in alcuni casi riuscendoci, di scavalcare il muro.
All’inizio del 2014, l’uso di proiettili di gomma e il lancio di lacrimogeni da
parte della Guardia Civil spagnola avrebbero causato la morte di 15 migranti.
Il nuovo giro di vite spagnolo ha fatto storcere il naso all’Unione europea,
che pure aveva finanziato, con 20 milioni di Euro, la recinzione.


Riprendendo alcune intuizioni di Hannah Arendt e di Giorgio Agamben,
alcuni studiosi di scienze sociali hanno mostrato come ci sia una continuità di
logica tra i campi di concentramento e i vari centri di identificazione,
detenzione e accoglienza, in quanto spazi in cui viene normalizzata una
condizione di eccezione al diritto, essendovi reclusi soggetti che non hanno
commesso alcun reato.

Decisamente rilevante,
a questo riguardo, è la difficoltà, anche per parlamentari, giornalisti e
avvocati, di essere ammessi in queste strutture.

Silvia Zaccaria




Terra viva di pescatori e migranti (1)

Reportage dalla Sicilia sull’«emergenza sbarchi»

Sicilia, tappa di un’umanità in fuga


Dove gli eroi non sono dèi

 

Nel canale che divide la Tunisia dalla Sicilia passa il
confine tra due continenti, tra il Nord e il Sud del mondo. Ma i confini sul
mare sono per loro stessa natura liquidi ed effimeri, così come i confini tra i
gesti degli dei dell’antichità classica e quelli dell’umanità ferita che oggi
nell’isola di Verga vive e resiste. In quel mare nostrum si mescolano i destini
dei pescatori siciliani con quelli dei migranti. Lì si consuma quel fenomeno
strutturale, inarrestabile e prevedibile che impropriamente politici e media
chiamano «emergenza sbarchi».

Ad
Aci Trezza, in provincia di Catania, tutti conoscono «Grillo» il pescatore. «Da
giovane mi chiamavano Fellini», dice accennando un sorriso sotto la barba
bianca. Quando lo vediamo uscire dall’acqua con la sua preda, a noi ricorda
piuttosto Tritone, il figlio del dio del mare, per metà uomo e per metà pesce.

Carlo Levi, durante uno dei suoi viaggi nella Sicilia
del secondo dopoguerra, esperienza da cui nacque il libro Le parole sono
pietre
(1955), ebbe modo di visitare il borgo marinaro immortalato da Verga
ne I malavoglia e da Visconti ne La terra trema, e raccolse le
impressioni di una signora straniera che, come lui, viaggiava alla scoperta
dell’isola: «Camminando per le vie di Aci Trezza, le era parso “di passare in
mezzo a un popolo di dèi tanto era chiaro in ciascuno che il suo viso, i suoi
gesti, le sue vicende, il suo destino, erano fissati ed eterni, non seguendo
una storia individuale ma uno stile o un costume a tutti comune ed immutabile.
Non mi sembrano uomini, donne, bambini di oggi, ma alberi di una foresta, o
esseri antichi, come gli dèi. Mi pare che qui tutto debba essere sempre stato
così e che sarà sempre così”».

Grillo-Fellini ha catturato da poco una murena: «Nel
mese di maggio – spiega ai turisti che si accalcano curiosi attorno a lui – le
vipere in calore si spingono sugli scogli e si accoppiano con certe specie di
pesci e così nascono le murene».

Nella cultura popolare gli eroi non sono dèi, ma piccoli
uomini, persone comuni le cui gesta però, nel momento in cui essi superano il
confine dei mondi, assumono contorni mitici. Mito e fiaba, infatti, raccontano,
in modo più o meno diretto, soprattutto viaggi di scoperta, in cui la
conoscenza di sé e la generosa apertura verso l’Altro a volte costa il
sacrificio dei loro protagonisti. Così, se nella mitologia greca Tritone può
trascinare fino al Mediterraneo la nave Argo arenata nel deserto della Libia
grazie ai suoi poteri soprannaturali, nella leggenda sicula, Colapesce, un
pescatore di Messina1 trasformato in una creatura anfibia da una maledizione,
può salvare la Sicilia decidendo di rimanere per sempre in fondo al mare per
sostituirsi a una delle colonne che sorreggono l’isola, quella consumata dal
fuoco dell’Etna2, e per essere d’aiuto ai marinai.

Per la gente di Sicilia «Colapisci» non è morto, e un
giorno toerà sulla terra: quando nessun uomo soffrirà più per dolore o per
castighi, per quell’atavica condizione d’ingiustizia che Levi trovò radicata nella terra siciliana, «antica, composita,
enormemente stratificata che forze etee, oscure e prepotenti tengono da
sempre in soggezione». Lo scrittore riteneva di poter comprendere quella terra «solo
indugiando su quanto ancora in Sicilia ristagna e imputridisce, di violento
investe, di penoso sgomenta, di dolce sfiora, di mitico-storico-poetico torna
alla memoria».

Tappa di un’umanità
in fuga

Tappa di passaggio per naviganti della mitologia antica,
l’isola è oggi sulle rotte di un’umanità in fuga «che si imbarca, senza
geografia, da qualunque spiaggia, verso qualunque approdo»3,
estremo baluardo, suo malgrado, di quella «fortezza Europa»4
che proprio nel mito classico va a cercare i nomi per le sue operazioni di
controllo delle frontiere, forse nell’intento di dare un’aura eroica alle
imprese poco gloriose del presente: Hermes, Aeneas, Poseidon, fino all’ultima
Triton, che però, per l’appunto, della divinità benevola, capace di calmare le
acque e d’indicare la rotta agli Argonauti, non ha nulla.

Con questa stessa retorica classicheggiante era cominciata
anche Mare Nostrum, la missione militare e umanitaria tutta italiana di «sorveglianza
e soccorso in mare», inaugurata pochi giorni dopo il naufragio in cui morirono
annegate, a largo di Lampedusa, più di 360 persone, e chiusa il primo novembre
scorso, sostituita dalla più modesta missione europea Triton.

È il 3 ottobre 2014, primo anniversario della tragedia:
la commemorazione ufficiale si svolge sull’isola con la passerella delle
autorità e le contestazioni delle associazioni locali (Askavusa, «a piedi
scalzi» in dialetto lampedusano, in primis), mentre i parenti delle vittime e i
superstiti5 sono ricevuti dal Papa. In piazza dell’Esquilino, a
Roma, si tiene una sommessa cerimonia interreligiosa: un imam legge un passo
del Corano, un prete ivoriano intona l’Ave Maria e un esponente delle «religioni
tradizionali» suona una specie di olifante come a evocare gli spiriti dei
morti. Si leggono le testimonianze dei sopravvissuti e poesie di scrittori
africani: «Per ognuno di noi c’è una stella nel cielo, ogni persona che muore è
una stella che non sopravvive». Le donne eritree, avvolte in un leggero panno
bianco, con cui nascondono il viso dai fotografi, hanno in mano una candela
accesa. La sera c’è l’anteprima del film documentario Io sto con la sposa,
dove il senso dell’incredibile viaggio di un gruppo di profughi palestinesi e
siriani attraverso le frontiere europee è espresso nei versi di un poeta
tunisino: «Se devi vivere, vivi libero. Se devi morire, muori come un albero,
immobile».

E mentre ancora si commemorano le vittime di Lampedusa,
alle operazioni di controllo e soccorso in mare si affiancano quelle di
monitoraggio delle frontiere «estee», aeree, marittime e terrestri: Mos
Maiorum6 (letteralmente «costume degli antenati», locuzione che
nell’antica Roma indicava i valori cui conformarsi per essere parte della
civiltà romana, ndr) è lo slogan della maxi retata lanciata tra il 13 e
il 26 ottobre 2014 dal ministero dell’Inteo italiano, in collaborazione con
l’Agenzia europea Frontex, per schedare gli immigrati irregolari presenti sul
nostro territorio europeo. Il richiamo al «costume dei padri», quasi a indicare
una presunta – ma fittizia – identità culturale comune a tutti i paesi membri
dell’Ue, assume inquietanti connotazioni xenofobe.

Fenomeno strutturale,
non emergenza

Al mercato del pesce di Aci Trezza il signor Liberato prepara le reti per l’indomani. Gli diciamo che siamo in Sicilia per
seguire l’«emergenza sbarchi». «Ma è vero – ci chiede – che Mare Nostrum costa
all’Italia 9 milioni di Euro al mese?».

«Tempo fa», racconta Liberato, «trovai una barca in
avaria con dei clandestini a bordo vicino a Cassibile. Chiamai la polizia marittima di Siracusa. Mi risposero: “Siamo in zona!”. Ma arrivarono quattro ore dopo e
trovarono solo il capitano. I clandestini erano già stati caricati su una barca
più piccola e portati fino alla costa. Mi chiamarono addirittura dal tribunale
per farmi l’interrogatorio: “Quanti erano?”. Ma io ci dissi: “Mentre li
salvavo, non li contavo mica”. Lo sa che c’è, signora? La prossima volta mi
faccio i fatti miei. La giornata di lavoro persa non me la paga nessuno». (Cfr.
Box pagina 35
)

La risposta alla domanda sul costo di Mare Nostrum del
signor Liberato si trova scritta a chiare lettere sul sito della Camera dei
deputati7, nel quale si legge che l’operazione è stata finanziata
per un terzo «dalle entrate dell’Inps derivanti dagli oneri di regolarizzazione
degli immigrati» dell’ultima sanatoria8, nonché da «corrispondente
riduzione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di
tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura», la quale ha comportato
un taglio senza precedenti proprio nella Regione chiave di Cosa Nostra.

Spenti i riflettori sull’operazione Mare Nostrum,
sostituita da Triton, si è interrotta anche la «cronaca degli sbarchi» che
riportava, come un bollettino di guerra, il numero dei dispersi e dei salvati.
(Cfr. Box in questa pagina)

L’uso improprio del termine «sbarco» da parte dei media
e della politica, automaticamente collegato nell’immaginario collettivo
all’immigrazione irregolare, ha alimentato la retorica del «flusso
straordinario e fuori controllo», e quindi dell’«invasione», legittimando la
dichiarazione di «stato d’emergenza» che dal 2002 viene prorogato di anno in
anno da tutti i governi che si sono susseguiti9.
Quello degli «sbarchi», come il flusso migratorio in generale, è invece un
fenomeno strutturale, fortemente esposto alle variazioni del contesto
geopolitico, il cui andamento somiglia a un fiume carsico, con stagioni di
particolare dinamismo e improvvisa accelerazione, come quella attuale, seguite
da fasi di quiete.

Morire lontano dai
sassi che ti conoscono

Nel suo viaggio nel paese dei Malavoglia, Levi
era rimasto colpito dall’atteggiamento dei pescatori di fronte alla vita e alla
morte, dalla loro tenace accettazione di un destino stretto tra mare e vulcano.
«Un mondo pieno di luce, calmo e chiuso in gesti armoniosi», come quelli dei
marinai che riparano le reti o di quel vecchio che col pennello rinfresca la
vernice della sua barca dipinta:

«Eravamo scesi intanto tra le barche, tirate in secco
sulla spiaggia tra le grandi pietre violette e levigate, l’una vicina
all’altra, sì da rendere difficile il passaggio: erano come fiori colorati,
come carri siciliani senza ruote». Sulla prua, al posto dei Paladini di Francia
raffigurati sulle miriadi di carretti che Levi vedeva passare per le strade «come
una continua emigrazione di un popolo che non può star fermo», c’era San
Francesco da Paola, protettore dei pescatori, e l’immancabile occhio «scaccia
guai», che, oltre alla funzione apotropaica (di allontanare le influenze
maligne), aveva quella di elevare la barca a rango di persona umana.

Allo scalo di Aci Trezza, di quelle imbarcazioni
variopinte del tempo che fu, quando la pesca era abbondante e il mare faceva
ancora paura – e quindi il pescatore, per ingraziarselo, dava il meglio di sé
oando la propria barca come una «zita» («promessa sposa», in dialetto
siciliano) -, ce ne sono rimaste solo due: Venere e, naturalmente, Provvidenza,
che però stanno lì solo per bellezza, decorate da qualche amatore nostalgico.

Al porticciolo turistico oggi c’è movimento: vicino alla
banchina si scorge la sagoma sinistra di un peschereccio quasi completamente
sott’acqua con la scritta, ancora leggibile a poppa, «Water World»: il destino
nel nome. «Era tutto di legno, di legno buono. Forse era libico», commentano i
pescatori dilettanti che la sera si ritrovano sul molo, come Maurizio, il quale
di giorno fa l’operatore ecologico a San Berillo, nel centro di Catania. «C’è
crisi. Almeno per cena mi faccio una bella zuppa cu sauru».

Quando è stato ritrovato in mare aperto, all’interno del
peschereccio c’erano ancora abiti, pacchetti di sigarette. Ora una scarpa
spaiata galleggia sullo scafo. E un giornale locale titola: «È affondato il
barcone dei clandestini»10.

Ad Aci Trezza non si costruiscono più pescherecci, anzi
una ventina di essi sono stati «rottamati» per ottemperare a una normativa Ue.
Lo storico cantiere dei Rodolico, famiglia di maestri d’ascia che fece della
marineria trezzota una delle più importanti della Sicilia e di tutto il
Mediterraneo, somiglia a un museo privato di tradizioni marinare, che al
tramonto diventa il ritrovo degli anziani del paese. Loro sono sempre lì: in
silenzio, l’uno accanto all’altro, a fissare l’orizzonte. Sono quelli che non
se ne sono mai andati, ligi al monito di verghiana memoria: «Per me io voglio
morire dove sono nato. Ringrazia Dio piuttosto, che t’ha fatto nascer qui; e
guardati dall’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono».

Il continente
liquido: confine di mescolamento tra Nord e Sud

Fino a tempi recenti, erano pochi i pescatori che
sapessero nuotare, come i migranti che oggi affrontano il mare senza averlo mai
visto, immaginandolo come il Niger, il Gambia, o come il fiume del loro
villaggio.

«Contadini del mare» vennero definiti i pescatori da De
Seta in un documentario del 1955. Le loro sortite infatti non erano che un
intervallo o un secondo lavoro rispetto a quello del contadino. «Perché il mare
è amaro e incute timore, il mare è fatica e insicurezza, il mare è guerra».

Come «la guerra del pesce»11
che i pescatori siciliani combattono da quarant’anni nel canale di Sicilia, in
cui, per una tragica ironia della sorte, i loro destini s’incrociano con quelli
dei migranti, e che dal 2011, anno dell’«emergenza Nord Africa», si è
aggravata: a sequestrare le unità da pesca italiane in acque inteazionali ora
sono anche le motovedette foite tempo fa a Gheddafi dal governo italiano per
contrastare l’immigrazione clandestina. Il maggiore ambito di azione nelle
acque inteazionali riconosciuto alle motovedette a bandiera libica ha dato il
colpo di grazia a un settore come quello ittico già messo in ginocchio dalla
concorrenza spietata di paesi poco regolamentati (come il Giappone) e dalle
stringenti regole provenienti da Bruxelles, nonché all’intera marineria
siciliana, sui cui pescherecci sono imbarcati, da ormai quasi mezzo secolo,
anche numerosi lavoratori tunisini.

L’immigrazione tunisina in Sicilia però ha poco a che
vedere con il complessivo fenomeno della globalizzazione e va inquadrata
piuttosto nel contesto di una lunga storia tutta mediterranea. Bisogna
ricordare infatti che in passato i siciliani avevano formato una consistente
comunità nello stato maghrebino, prima e anche dopo che diventasse protettorato
francese nel 1881.

Nel canale che divide la Tunisia dalla Sicilia passa il
confine tra due continenti, tra il Nord e il Sud del mondo; ma i confini sul
mare sono per loro stessa natura liquidi ed effimeri. Il mare non conosce
discontinuità né cesure e quel breve tratto di poche miglia è sempre stato
parte capitale del «continente liquido» descritto da Ferdinand Braudel, spazio
di comunicazione e di scambio, terra di mezzo12.
«Il mare – scrive Verga – non ha paese nemmeno lui ed è di tutti quelli che lo
stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole».

Uno su dieci si perde
sul fondo

Non assomigliano di certo alle «zite» le «carrette del
mare», rese «umane» solo dalle pene degli uomini che vi hanno viaggiato. Vita e
morte si stringono dentro questi scafi. Il costo di un viaggio in coperta, «al
sicuro», può costare fino a cinquemila dollari; «solo» duecento per i bambini.
Molto minore il prezzo della stiva, il luogo più pericoloso, riservato
solitamente ai subsahariani, dove in caso di incidente nessuno sopravvive.

«Di questi viaggi, uno su dieci si perde sul fondo»13.
Come quello dei genitori di A., profughi siriani rifugiati in Sudan, dove il
nonno paterno fa il manager per una importante compagnia aerea araba, ai quali
non bastava appartenere a una famiglia benestante ed essere scampati alla
guerra per sentirsi liberi. Il sogno di ottenere la cittadinanza europea, una
qualsiasi, aveva spinto la coppia – con un bambino non ancora adolescente e A.,
che aveva meno di due anni – a recarsi in Libia, e lì a salire su una barca
diretta in Italia.

C’erano anche loro tra le vittime del naufragio del 24
agosto 2014, costato la vita a 24 persone. Del suo nucleo familiare, A. è
l’unica sopravvissuta: ritrovata miracolosamente aggrappata a una tavola e
tratta in salvo da un connazionale. Affidata per quattro mesi alle cure di una
coppia di Augusta, è stata rintracciata dal nonno, anche grazie all’intervento
di Save the Children, e riportata in Sudan.

Anche Sarjo è scampato a un naufragio.
«Che si fa in quelle circostanze?», gli chiediamo.

«Preghiamo! In barca, in mare aperto, si prega cinque
volte al giorno».

Era partito nell’agosto 2013 dal Gambia; aveva percorso
a piedi il Senegal, il Mali, prima di entrare a Sebha, in Libia, e di lì
arrivare a Tripoli. Un libico ha pagato il prezzo della traversata come
compenso per il lavoro che aveva fatto per lui. Adesso, dopo più di un anno dal
suo arrivo a Catania, Sarjo ha in tasca un permesso di soggiorno per motivi
umanitari. Alla commissione che ha esaminato la sua richiesta, ha raccontato
una storia fantasiosa: «“Sono rimasto orfano e nella famiglia adottiva c’erano
due fratelli che mi picchiavano – ha mostrato una ferita sulla tibia dovuta a
una caduta nell’infanzia – e allora sono scappato”. Ho dovuto raccontare questa
storia perché un giorno voglio tornare in Gambia»14.
«Dove pensi di andare adesso?», gli chiediamo.

Svezia, Germania, Svizzera, sono le destinazioni più
ambite dai migranti per le migliori condizioni di welfare offerte da quei
paesi.

«Anywhere, but not in Italy», dovunque, ma non in
Italia, ci risponde lui.

 

Note alle pagine
34-41:

1  Si
tratta di uno dei racconti popolari più noti e antichi della Sicilia
(risalirebbe al XII sec.) giunto a noi in tante versioni differenti: secondo
quella ripresa da Italo Calvino in Fiabe italiane, Colapesce è nato a
Messina. In altre versioni è originario di Napoli, Catania, Bari, Genova, ma lo
ritroviamo anche in Francia, Spagna, Grecia e addirittura sull’altra sponda del
Mediterraneo.

2  È
Colapesce, costretto dalla fatica a cambiare la mano di sostegno, a provocare
di tanto in tanto le scosse telluriche.

Cfr.
Erri De Luca, In mezzo a questo mare nostro, in «Ventiquattro»,
21/03/2007.

4
Definizione elaborata da Saskia Sassen in Migranti, coloni,
rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa
, Feltrinelli,
Milano 1999. Secondo Asher Colombo (cfr. Fuori controllo? Miti e realtà
dell’immigrazione in Italia
, Il Mulino, Bologna 2012) la «fortezza Europa» è
un’immagine più che altro suggestiva, che sopravvaluta il grado di
impenetrabilità e chiusura del continente.

I
superstiti, quasi tutti eritrei, furono iscritti nel registro degli indagati e
accusati di reato di clandestinità. Nessuna inchiesta o indagine è stata aperta
invece in merito a eventuali errori o ritardi nei soccorsi.

6  «In
linea con analoghe attività pianificate a livello comunitario […], la
Presidenza italiana del Gruppo Frontiere/Comitato Misto ha programmato, dal 13
al 26 ottobre 2014, l’operazione “Mos Maiorum” […]. Scopo principale
dell’operazione sarà quello di raccogliere informazioni sui flussi migratori
nei paesi dell’Ue, con particolare riguardo alla pressione nei singoli stati
membri, alle principali rotte utilizzate dai trafficanti di esseri umani, le
principali mete di questi ultimi, i paesi di origine e transito, i luoghi di
rintraccio e i mezzi di trasporto utilizzati». Dal sito web della presidenza
italiana del consiglio dell’Unione europea,
http://italia2014.eu/it/news/post/ottobre/mos-maiorum/

7  Cfr.
www.camera.it/leg17/465?tema=immigrazione_clandestina.

8  Nel
2012, con il nome di «ravvedimento oneroso», si è dato avvio a un nuovo
provvedimento di emersione dei lavoratori non comunitari irregolarmente attivi
sul nostro territorio. Il dossier Unar 2013 sottolinea come lo stato italiano
abbia fatto ricorso ordinario a uno strumento «straordinario» per definizione.
La sanatoria prevedeva il versamento di 1.000 Euro più le somme dovute a titolo
retributivo, contributivo e fiscale, per un periodo non inferiore a 6 mesi.
Conseguenze: traffico di falsa documentazione e consolidamento della prassi per
la quale sono i migranti stessi a pagare gli oneri della regolarizzazione, e
non i datori di lavoro.

Nei
primi mesi del 2011, in piena «emergenza Nord Africa», per l’arrivo di 15.000
profughi soprattutto a seguito della rivoluzione dei gelsomini e dell’inizio
della guerra civile in Libia, esponenti del governo allora in carica parlarono
di «catastrofe», «tsunami umano», «esodo biblico».

10  Nel
2008, l’Ordine dei giornalisti, condividendo le preoccupazioni dell’Alto
Commissariato per i Rifugiati, ha firmato un Protocollo d’intesa denominato «Carta
di Roma», cioè un codice deontologico che obbliga a usare in modo opportuno i
termini «rifugiato», «richiedente asilo», «migrante forzato», «migrante» tout
court (chi lascia il proprio paese per ragioni economiche), «immigrato
irregolare». Nel linguaggio giornalistico dei paesi del Maghreb i migranti
illegali sono definiti harraga, letteralmente «quelli che bruciano» (le
frontiere, oppure i documenti per evitare il rimpatrio).

11  Una
guerra costata diversi morti tra i pescatori siciliani, feriti, 130 pescherecci
sequestrati dai militari dei paesi della sponda Sud del Mediterraneo, 150
marittimi detenuti, anche a lungo, nelle carceri tunisine, libiche, egiziane e
algerine.

12  Cfr.
www.istitutoeuroarabo.it/DM/immigrazione-e-dinamiche-linguistiche-una-ricerca-a-mazara-del-vallo.

13  Erri
de Luca, In mezzo a questo mare nostro.

14  Il
Gambia, nazione di poco più di un milione di abitanti, che gli opuscoli
turistici britannici descrivono come «The smiling coast of Africa», la costa
ridente dell’Africa, si rivela a sorpresa uno dei principali paesi di
provenienza dei minori non accompagnati: il 29% degli 11.000 segnalati in
Italia nel 2014.

Silvia Zaccaria




Luce nelle tenebre

 

Ricordo una veglia pasquale di tanti
anni fa, 1991, a Maralal: ci fu un black out totale proprio pochi minuti
prima dell’inizio. Buio completo. Alla luce di candele quella è stata una delle
veglie più suggestive che abbia mai celebrato. Un ricordo tira l’altro.
Febbraio 1983, prima domenica di quaresima. Accompagno il compianto padre Oscar
Goapper a celebrare il primo passo dell’iniziazione cristiana dei catecumeni in
un villaggio di Neisu, dove allora stava sorgendo la missione che oggi vanta il
miglior ospedale dell’Alto Huele, Nord-Est del Congo RD, allora Zaire. È buio
presto all’equatore, uniche luci, le stelle. La celebrazione comincia attorno
al fuoco e poi, pian piano, come per magia, la notte si illumina: una, dieci,
centinaia di candele si accendono. Salgo su un termitaio per essere sopra
quelle piccole luci che danzano nella notte. Stelle cadute dal cielo, gocce di
gioia e pace, isola di luce nell’oscurità della foresta. Ma too al ricordo di
Maralal. Dal fuoco nuovo viene acceso il cero pasquale. Entrare in chiesa al
buio non è un problema per la maggior parte dei presenti, abituati a vivere
senza elettricità. Entra la Luce, «Mwanga wa Kristu!» (la luce di Cristo) canto.
Piccola luce di un cero, ma grande luce di Cristo, che tutti illumina.

Il cero pasquale, icona di Cristo, icona della missione della Chiesa.
Mi affascina che in questo nostro tempo di lampade sempre più potenti, di luci
che illuminano a giorno, si continui a usare questo segno debole che è il cero
pasquale. Una luce piccola e fragile che però ha dentro una forza dirompente:
condivisa, può illuminare il mondo e incendiare la terra. Per vederla devi
essere al buio. Per lasciarti illuminare devi avvicinarti. Per sentirne il
calore devi ridurre le distanze. Per accenderti devi lasciarti toccare. E
toccato ti infiammi. Infiammato, ti consumi. Consumandoti, doni luce, accendi
speranze, scacci il buio e le sue paure, fai vedere il bello, comunichi gioia.

Ma sembra che oggi si abbia paura a
guardare questa luce che ti fa vedere dentro, che ti obbliga a incontrare te
stesso e gli altri. Altre luci ammaliano, attirano e accecano. Denaro,
divertimento, sesso, droga, potere. Luci che falsano i colori e rendono normale,
accettabile, giustificato quello che non lo è: dalla corruzione al rave,
dal sesso a tredici anni alla volgarità esibita in Tv, dalla coda per uno smartphone alla protesta contro i
rifugiati, dall’evasione alla satira senza rispetto per niente e nessuno,
dall’aborto all’eutanasia, dall’indottrinamento gender allo sfruttamento
dei precari e stranieri sottopagati e schiavizzati, … Anche il fanatismo
ideologico alla maniera dell’Isis è una delle luci che accecano tanti. Dico
fanatismo ideologico e non religioso, perché il dio dell’Isis non è Dio, ma un
mostro, una aberrazione dell’orgoglio umano che si è costruito un dio a misura
della sua superbia. Una luce violenta che esplode ogni tanto lungo la storia
dell’umanità, con nomi diversi, ma sempre gli stessi frutti di morte e
distruzione.

Niente di nuovo in quanto sto scrivendo. Ma è anche vero che noi
abbiamo la memoria corta e abbiamo bisogno di rinfrescarci le idee. Quante
volte abbiamo sentito nella nostra vita il racconto della passione, morte e
risurrezione di Gesù? Eppure ogni anno abbiamo bisogno di ridircelo, non solo
per ricordare ma per rivivere. Per rispondere alla domanda «C’eri tu alla croce
di Gesù?», «Sì, ci sono, oggi!». «Ci sono» alla sua morte e alla sua
resurrezione, perché oggi la sua morte e resurrezione danno senso alla mia
vita. E quello che «vedo e tocco» oggi dell’amore di Dio per me, lo testimonio,
lo canto, lo vivo. La luce debole del cero pasquale mi ricorda questo, fa
riconoscere dentro di me che l’amore di Dio in Gesù non è qualcosa del passato,
ma è un fatto che mi riguarda adesso, ogni adesso. E accendendo la mia candela
da quel cero, ne condivido sì la fragilità e debolezza, ma nello stesso tempo
ne moltiplico la forza. Quello che ho veduto, quello che ho ascoltato, quello
che ho toccato, quello che ho sperimentato come amore gratuito e liberante,
questo oggi annuncio e testimonio. E la tenebra è meno oscura, grazie alle
innumerevoli piccole luci che si sono lasciate toccare dalla Luce di Cristo e
come Lui si lasciano consumare per amore.

Buona Pasqua.

Gigi Anataloni




Amico

Si
avvicina l’ora – ed è già compiuta – in cui la luce spezza le tenebre, quelle
tanto amate perché stendono l’oblio sul nostro male, procurato, subito,
partecipato. «Gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce» (Gv 3,19)
perché le loro opere non venissero riprovate, perché identificavano se stessi
con i loro peccati e iniquità. Viene l’ora – ed è già compiuta – in cui la luce
sulla nostra realtà non fa più paura, non perché la realtà sia migliore di come
credessimo, ma perché è amata, salvata, e quindi sì, perché è migliore: non è
sola, giudicata, abbandonata.

Arriva l’ora in cui Lui, il Dio
innalzato (Gv 12,20-33), conclude con noi un’alleanza nuova, e incide
direttamente sul nostro cuore il suo amore: non su tavole di pietra, estee,
ma sui tessuti molli e allo stesso tempo tenaci del nostro nucleo vitale (Ger
31,31-34).

Ecco l’ora in cui Lui attira
tutti a sé. In cui conosciamo già e non ancora il nostro Signore. In cui
scopriamo impressa in noi la sua immagine, e in Lui la nostra dimora.

È forte, in quest’epoca ambigua
di terrorismo, di crisi finanziarie, di pandemie, di impoverimento e disparità
crescenti, la tentazione di credere più alle tenebre che alla luce. Eppure Lui è
qui, ci attira a sé, ci innalza con Lui.

E a quelle persone che ci
chiedessero «vogliamo vedere Gesù» possiamo indicarlo nel loro battito
cardiaco, nell’ombra che le protegge, nell’altitudine a cui è attratto il loro
spirito, nella vita morta che risorge, in ciò che di vero e bello già
conoscono.

Con l’augurio di sentire
fortemente il desiderio di «vedere Gesù»,

buon
cammino da amico.

Luca Lorusso

Luca lorusso




2. Massimiliano Kolbe

Massimiliano
Maria Kolbe nasce in Polonia a Zdunska-Wola, una cittadina nei pressi di Lodtz,
l’otto gennaio del 1894. Giovanissimo entra nell’Ordine dei Frati Minori
Conventuali e, pur ammalato di tubercolosi, svolge un intenso apostolato
missionario prima in Europa e successivamente in Asia. Durante
l’occupazione della sua patria da parte dei nazisti, nel 1941 è fatto
prigioniero e deportato ad Auschwitz. In questo campo di sterminio offre la sua
vita al posto di quella di un padre di famiglia, suo compagno di prigionia. Condannato a
morire di fame, è finito con un’iniezione letale il 14 agosto 1941.


Padre Kolbe, il tuo
conterraneo papa san Giovanni Paolo II ti ha chiamato: «Patrono del nostro
difficile secolo». Si riferiva ovviamente a tutto il Novecento, secolo di
progresso ma caratterizzato da tragedie immani come le due Guerre Mondiali.
Puoi parlarci un po’ di te e della tua infanzia?

Sono nato a Zdunska-Wola, nel cuore della Polonia, l’8
gennaio 1894, i miei genitori erano ferventi cristiani. Mio papà Giulio,
operaio tessile, era un patriota che non sopportava la divisione della Polonia
di allora in tre parti dominate rispettivamente da Russia, Germania e Austria.
La nostra era una famiglia che aveva scarse risorse finanziarie e, a causa di
questo, solo mio fratello maggiore poté frequentare la scuola.

In quanti fratelli
eravate?

Eravamo cinque fratelli, ma solo tre riuscirono ad
arrivare all’età dell’adolescenza. Non potendo frequentare regolarmente le
scuole, imparai a leggere e scrivere con l’aiuto di un sacerdote e del
farmacista del paese. I Frati Minori Conventuali che conoscevano la difficile
situazione della mia famiglia proposero ai miei genitori di accogliere me e i
miei fratelli nel loro collegio.

Si può dire allora
che fin da piccolo il rapporto con i Conventuali Francescani ebbe un’importanza
fondamentale per te e per la tua famiglia.

Proprio vero. Il destino volle che un po’ tutta la
famiglia si legasse sempre di più all’Ordine dei Conventuali Francescani, sia
il papà che la mamma divennero terziari francescani e noi tre fratelli passammo
direttamente dal collegio al loro noviziato.

Una famiglia
esemplarmente francescana dunque.

Sì, ma mio fratello Francesco dopo alcuni anni lasciò la
vita religiosa per dedicarsi alla carriera militare. Prese parte alla Prima
Guerra Mondiale e, dopo essere stato catturato, morì in un campo di prigionia.
L’altro, finiti gli studi, si inserì nel mondo lavorativo.

Tu invece?

Dopo il noviziato fui inviato a Roma, dove restai sei anni
laureandomi in filosofia all’Università Gregoriana e in Teologia al Collegio
Serafico. Nella «Città Etea» venni ordinato sacerdote il 28 aprile 1918.

Che ricordi hai di quel
periodo della tua giovinezza vissuta a Roma?

Ricordo due fatti in particolare: un giorno, mentre
giocavo a pallone, cominciai a perdere sangue dalla bocca. Fu l’inizio di una
malattia, la tubercolosi, che tra alti e bassi mi accompagnò per tutta la vita.
In secondo luogo, prima di diventare sacerdote, fondai la «Milizia
dell’Immacolata», un’associazione religiosa avente per finalità la conversione
di tutti gli uomini per mezzo di Maria.

Dopo aver completato
gli studi hai fatto ritorno nella tua patria, che compiti ti furono affidati?

Pur essendomi laureato a pieni voti, a causa della mia
salute malferma che mi impediva di parlare a lungo, ero inadatto
all’insegnamento e alla predicazione. Così, una volta ritornato nella mia
Polonia, pensai di fondare un giornale di poche pagine, «Il cavaliere
dell’Immacolata», per alimentare lo spirito e la diffusione della «Milizia».

E le cose come
proseguirono?

A Grodno, una cittadina situata a 600 chilometri da
Cracovia, dove ero stato destinato dai miei Superiori, impiantai la tipografia
per la stampa del giornale con vecchi macchinari. Nel contempo con mio grande
stupore, molti giovani desiderosi di condividere una vita francescana e allo
stesso tempo di dedicarsi a una nuova forma di apostolato legata alla nascente
editoria cattolica, cominciarono a confluire nella mia comunità.

Pur nella limitatezza
dei mezzi a disposizione, la tua intraprendenza e il tuo ardore fecero il
miracolo di attirare sempre più gente accanto a te.

Effettivamente la Provvidenza ci venne in aiuto in maniera
formidabile: un conte ci donò un terreno vicino a Varsavia, e lì fondai «Niepokalanow»,
la «Città di Maria». Quello che avvenne negli anni successivi ebbe del
miracoloso. Dalle prime capanne si passò a edifici in mattoni, dalla vecchia stampatrice,
si passò alle modee tecniche di stampa e composizione, dai pochi operai agli
oltre settecento religiosi di dieci anni dopo. Il «Cavaliere dell’Immacolata»,
inoltre, raggiunse la tiratura di milioni di copie. A esso si aggiunsero altri
sette periodici.


La tua terra però ti
stava «stretta» e tu volevi spaziare su orizzonti più vasti.

Sì, nel 1930 partii per il Giappone
dove, a Nagasaki, con l’aiuto della piccola ma tenace comunità cattolica
locale, impiantai una tipografia e feci sorgere una cittadella sul modello
della «Città di Maria» che avevo lasciato in patria.

E come reagì la
comunità cattolica nipponica?

Anche in Giappone la Provvidenza fece meraviglie: la
tiratura delle nostre riviste raggiunse ben presto 18.000 copie e, pur essendo
i cattolici una piccolissima minoranza, riuscimmo a produrre dei giornali che
attiravano l’interesse anche dei giapponesi che non professavano la nostra
stessa fede.

Ma anche l’Estremo
Oriente non ti fu sufficiente, volevi allargare sempre più il tuo campo d’azione.

È vero, per conoscere maggiormente la realtà asiatica feci
un viaggio con la Transiberiana e mi misi a studiare il russo. Tra i miei sogni
c’era anche il progetto di una missione in India. Inoltre, vista la buona
tiratura dei nostri giornali, pensavo con i miei collaboratori di stamparli in
diverse lingue e diffonderli in tutto il mondo.

Ma
un’attività così intensa certamente avrà prostrato il tuo fisico considerando
anche la tua malattia.

Il poco riguardo per la mia salute portò la mia
tubercolosi a un vistoso peggioramento, perdevo sangue in maniera più
consistente e più frequentemente. I miei superiori mi imposero perciò una
visita medica approfondita. Il responso fu abbastanza crudo: i medici dissero
che mi restavano pochi mesi di vita. Decisi allora di tornare in Polonia. In
patria ebbi modo di curarmi e la salute migliorò.

Alla fine degli anni
’30 la Polonia viveva tempi difficili…

Purtroppo, dopo che Hitler ebbe annesso alla Germania
l’Austria e la Cecoslovacchia, il primo settembre 1939 le truppe naziste al
comando del generale Guderian, invasero la mia terra. Duemila aerei della
Lutwaffe bombardarono Varsavia, dando così inizio alla Seconda Guerra mondiale.

L’occupazione nazista
fu particolarmente brutale nei vostri confronti.

Secondo la loro ideologia esisteva la
razza ariana superiore a tutte le altre, e noi popoli slavi eravamo visti come
mano d’opera che doveva servire i nuovi padroni. I nazisti arrivarono ai
cancelli della nostra comunità il 19 settembre del 1939 e ci arrestarono tutti
perché il nostro giornale non era gradito al governo di occupazione.

Dove vi portarono?

Ci divisero e ci sbatterono in diverse carceri dei paesi
occupati, a volte ci spostavano senza darci nessun preavviso. Questi viaggi
avvenivano in vagoni bestiame riempiti all’inverosimile, senza servizi, con le
porte sprangate dall’esterno. Regnava fra i prigionieri un clima di
rassegnazione: tutti temevano il peggio. Ebbene io mi feci forza e intonai un
canto religioso cui subito si unirono molti altri. Questo nostro modo di fare:
cantare su carri bestiame diretti ai campi di sterminio, la ritengo una delle
forme più alte di preghiera che in quel momento potevamo fare.

Quale fu la tua
destinazione finale?

Il 28 maggio del ’41 mi trasferirono ad Auschwitz insieme
ad altri 320 compagni di sventura. Una volta arrivati in quel tristemente
famoso campo di sterminio, fui messo insieme agli ebrei perché sacerdote, e mi
diedero una casacca con il numero 16670.

Com’era la vita al
campo?

Ricordo con sofferenza gli appelli che le guardie si
divertivano a fare a tutte le ore, anche nel cuore della notte, per vedere se
qualche prigioniero era fuggito. Io venni inserito nella squadra adibita ai
lavori più umilianti come il trasporto dei cadaveri raccolti nelle camere a gas
e destinati al crematorio. La vita di ognuno non contava proprio nulla agli
occhi degli aguzzini di Auschwitz. Alla fine di luglio fui destinato alla
squadra addetta alla mietitura nei campi, un lavoro certamente più dignitoso di
quello che ero stato costretto a fare fino ad allora.

Quindi, pur nella
terribile condizione di prigioniero in un campo nazista, perlomeno potevi
uscire per mietere il grano.

Questo, che innegabilmente era, rispetto allo standard
della vita dei prigionieri, un vantaggio, si trasformò in un incubo quando uno
dei miei compagni riuscì a sottrarsi al controllo delle guardie e a fuggire.
Secondo l’inesorabile legge che vigeva ad Auschwitz, per ogni prigioniero che
fuggiva, altri dieci venivano destinati al bunker della morte. Ci radunarono
quindi nello spiazzo centrale e a caso i nazisti prelevarono dieci disgraziati
da sopprimere.

Chissà che tortura anche per chi non era
punito, assistere a quelle scene.

Effettivamente… una volta scelti i dieci disgraziati, vidi
uno di loro disperarsi lanciando alte grida al cielo, urlando che lui era un
papà di famiglia e che i suoi figli aspettavano la fine della guerra per
rivederlo. Presi allora la decisione di offrirmi al suo posto.

Un uomo con una forte
personalità come la tua, che aveva ottenuto risultati brillanti in ogni parte
del mondo, si ritrovava così nella condizione terribile e sublime allo stesso
tempo di offrire la propria vita per salvae un’altra.

In quel preciso istante mi sentii per un attimo un «perdente»
sotto ogni aspetto, ma subito risuonò in me la parola del Signore che diceva: «Non
c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Capii
allora che se volevo contribuire a vincere l’iniquità del peccato calato su
tutta l’Europa, era necessario donare tutto me stesso, perdermi totalmente nei
gorghi del male per ritrovare nuovamente la mia vita trasformata in Cristo.

Questo
per i nazisti non comportò nessun problema?

No, per loro dovevano essere giustiziati dieci
prigionieri, non importava chi fossero. Ci rinchiusero pertanto in minuscole
celle dove potevamo a malapena sederci. Le celle vennero poi murate. La
condanna prevedeva la morte per mancanza di cibo e acqua. Un’agonia lunghissima
che si consumava tra disperazione e atroci sofferenze. Decisi allora di
alleviare la disperazione dei miei compagni pregando ad alta voce e innalzando
canti religiosi al Signore.

E i tuoi compagni di
sventura come reagirono a questa tua iniziativa?

Alcuni unirono le loro voci alle mie preghiere e ai miei
canti, dopo alcuni giorni però i più deboli cominciarono a spegnersi. Dopo ben
quattordici giorni in quattro eravamo ancora in vita. I nazisti decisero allora
di sopprimerci con una iniezione di acido fenico. Così ebbero termine le nostre
sofferenze.

Padre Massimiliano Kolbe si spense il 14 agosto
1941, le sue ultime parole, mentre gli facevano la letale iniezione nel braccio,
furono: «Ave Maria». Insieme ai suoi compagni venne quindi gettato nel foo
crematorio e le sue ceneri si mescolarono a quelle di tanti altri sventurati.
Così finì la vita terrena di una delle più belle figure del francescanesimo
della Chiesa polacca e universale. Papa Paolo VI lo beatificò il 17 ottobre
1971, mentre papa Giovanni Paolo II lo proclamò Santo il 10 ottobre 1982. Il
suo fulgido martirio resta una testimonianza esemplare della coerenza cristiana
vissuta in tempi e ambienti terribili.

Don Mario Bandera,
Missio Novara


Mario Bandera