Tutti pazzi per il mobile

Inchiesta «mobile money» – Denaro virtuale / 3


Uno dei paesi più poveri del mondo. Privo, quasi, di
risorse. Un popolo tenace e ingegnoso. Forse perché nei secoli ha dovuto
resistere a un clima ostile. Alfabetizzati e non, i Burkinabè sono molto
ricettivi alle nuove tecnologie.

Così, i servizi finanziari su telefono
cellulare hanno avuto un successo insperato. Anche per gli addetti ai lavori. Scopriamo
perché.

Ouagadougou. Roland Ouedraogo è un modesto falegname burkinabè. Il suo atelier si affaccia su una delle tante polverose vie del quartiere «sécteur 29» della capitale. Zona periferica in continua espansione, perché Ouaga – come viene chiamata comunemente la capitale – si allarga a macchia d’olio, non avendo barriere naturali intorno a sé. Roland fa lavorare due ragazzi che imparano il mestiere. Ha moglie e tre figli ed è molto attivo nella sua parrocchia. Dopo aver passato un periodo di crisi economica, è riuscito ad avere una buona commessa per rifare le porte di un grande albergo della città. In passato, ci dice, aveva un conto alla Cassa popolare (una banca di prossimità), ma poi lo ha prosciugato e non è più riuscito a risparmiare.
Ma adesso gli affari vanno meglio. «Ho sentito parlare di Airtel Money e mi interessa sapee di più. Credo che per il mio lavoro possa essere utile. Mi capita di andare a lavorare in un cantiere lontano dalla falegnameria e di avere bisogno di mandare soldi ai miei aiutanti rimasti all’atelier per comprare qualche pezzo. Oppure viceversa se sono io ad avere bisogno di qualcosa».
Airtel Money è il prodotto di mobile banking di Airtel Burkina, una delle tre compagnie telefoniche presenti nel paese.
Continua Roland: «L’ho visto fare a chi lavora nelle miniere d’oro. Mandano dei soldi ai loro collaboratori oppure alle famiglie. Qui in capitale molti amici e colleghi hanno già aperto il conto mobile. Un mio amico è andato ad Airtel. Gli hanno spiegato come fare. All’inizio era un po’ complicato, poi ha capito il meccanismo ed è stato tutto più facile. Voglio andare a informarmi».

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Marco Bello e Gianluca Iazzolino




Missionario fino alla fine

Padre Bruno Del Piero e il Caquetá


Conosco padre Bruno da sempre perché sono nato nel suo paese
d’origine, Roveredo in Piano, un abitato tranquillo nella campagna pordenonese.
Per noi del paese è come se non fosse mai partito. Anche dopo 52 anni di
Colombia era con noi, ogni momento. Lo amavamo tutti. E lui era riuscito a
farci sentire parte del suo mondo. Per questo nel 2012 sono andato una prima
volta nel Caquetá: per passare qualche settimana con il «nostro missionario» e
conoscerlo da vicino.

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Da quel primo assaggio nel 2012, è nata in me la
voglia di sapere di più, di conoscere e condividere quanto desideravo scoprire
sull’avventura missionaria della Consolata in Caquetá. Volevo scrivere della
storia corale di quella missione sui fiumi e nella foresta.

Incoraggiato
da padre Bruno, sono tornato in Caquetá per raccogliere materiale, libri,
documenti e testimonianze intervistando uomini e donne, missionari e non, che
hanno condiviso con padre Bruno più di cinquant’anni d’impegno per il prossimo
in una terra di frontiera di grandi speranze e contraddizioni.

Per
fare tutto questo, ho iniziato a vivere con padre Bruno nella parrocchia del
Torasso, a Florencia, la capitale della regione del Caquetà, la città che il 26
aprile 1952 aveva accolto il primo vescovo della Consolata in Colombia,
l’indimenticabile mons. Antonio Maria Torasso (1914-1960).

Florencia
è una città che vive grazie all’infaticabile opera dei missionari della
Consolata, che hanno plasmato queste regioni, le hanno portate al loro sviluppo
attuale, lavorando a tutto tondo nel sociale, nell’istruzione, nella sanità e
nello spirituale, facendo «il bene, bene» come esigeva il beato Allamano,
fondatore dell’Istituto. E vi assicuro che là il bene è stato fatto davvero
bene. Non lo dico io. Lo dice la riconoscenza della gente, l’affetto verso i
missionari; lo diceva, non a parole, la figura di padre Bruno: con i fatti, il
comportamento, le azioni, il suo spirito, il suo impegno, dal giorno del suo
arrivo fino ai suoi ultimi passi.

Vivendo
a Florencia non avrei mai pensato che avrei condiviso con padre Bruno i suoi
ultimi sei mesi di vita. Per me, che ora scrivo cercando di trattenere
l’emozione, era stato preparato un disegno più grande di quello per il quale
pensavo di essere partito. In Colombia si dice: «Diós sabe como hace sús cosas»
(Dio sa come fa le sue cose).

Padre
Bruno ha lasciato questo mondo e il suo Caquetá il 16 aprile 2014, mercoledì
santo. La sua morte è stata repentina e inaspettata perché aveva una salute di
ferro, era un uomo fortissimo, di quelli che non si vedono più. «È finita la
fabbrica», diceva quando la mia salute zoppicava nell’adattarsi all’ambiente
tropicale così diverso dal nostro. Ci ha lasciati per un infarto diabetico, ma
fino a poco prima stava bene.

E non
solo stava bene, ma continuava a darmi esempio di come bisogna essere «prima
santi e poi missionari», sempre secondo i dettami lasciati dal beato Giuseppe
Allamano.

Quell’ultima sera, prima della corsa all’ospedale:
«Alberto – mi ha detto -, credo di essermi stancato troppo. Pur non sentendomi
in forze ho celebrato la messa, in latino, più di un’ora nella cappella, poi ho
recitato tutto il breviario e infine ho letto un lungo articolo sulla nostra
Chiesa».

Questo
era padre Bruno, come è stato detto alle sue esequie: «Un uomo di Dio, un uomo
della Chiesa, un uomo della gente».

Dal
giorno della sua ordinazione, il 18 marzo 1961, vigilia della festa dell’amato
San Giuseppe, non aveva trascurato neppure un giorno la celebrazione della
messa e la recita del breviario. Era da lì che traeva la sua forza, lì temprava
il suo spirito. Grazie a quel supporto quotidiano era riuscito a superare tutte
le difficoltà della missione, come la mancanza della pace nelle regioni
colombiane in cui ha lavorato, gli assassinii, i problemi sociali. Lui non solo
aveva costruito scuole e chiese, ma aveva contribuito a porre le basi di una
società più fratea. Aveva superato tutto grazie a fondamenta solide: l’amore
per Dio e per la Chiesa, che diventavano amore incondizionato e gratuito per la
gente. Era questo che, agli occhi di uno come me, lo elevava sopra gli altri,
lo rendeva un grande, pur nella sua estrema umiltà.

Già due anni fa mi aveva stupito l’amore che la
gente comune aveva per padre Bruno, l’infinita riconoscenza di generazioni di
persone che lo fermavano in ogni strada per ringraziarlo, per salutarlo, per
chiedere una sua benedizione. Nei sei mesi con lui ho capito il perché di tale
amore.

Padre
Bruno era instancabile, era sempre disponibile per tutti, chiunque venisse al
Torasso con qualsiasi tipo di richiesta era sempre accolto e sostenuto dal suo
sorriso. Era sempre di buon umore e lo trasmetteva agli altri. Anche questo
elemento faceva parte della sua forza. Pur avendo ottantadue anni, si svegliava
ogni mattina alle 4.30 e, dopo un’ora di preghiera, andava all’ospedale per
celebrare la messa e visitare tutti i malati. Mai, in sei mesi, l’ho sentito
dire una volta che era stanco.

Così padre Bruno ha fatto per quasi 52 anni, da
quel 15 novembre 1962 nel quale era arrivato a Florencia, nel suo Caquetá.

Come
hanno detto in moltissimi: mezzo secolo di missione nel quale non si è mai
risparmiato, nel quale ha percorso in lungo e in largo la natura selvaggia del
Sud della Colombia, a piedi, a cavallo, in barca, per raggiungere anche i più
lontani, gli ultimi. Parroco in quasi tutti i centri abitati del Caquetá,
fondatore di città, paesi e di innumerevoli chiese e cappelle. Missionario
vero. L’aveva nel sangue la passione per la missione, una passione che
alimentava a ogni Eucaristia.

L’amore
della gente si è manifestato in modo folgorante nei giorni in cui padre Bruno è
tornato al Padre. Sono stati giorni in cui il cordoglio e l’affetto avvolgevano
chiunque e si potevano toccare, giorni in cui le chiese non riuscivano a
contenere le persone, tutte con gli occhi lucidi carichi di stima e
riconoscenza.

È stato davvero emozionante ed edificante partecipare a
quei gesti di affetto tributati da gente di ogni età e ceto a colui che ha
guidato e sorretto il loro cammino per più di cinquant’anni, consumando se
stesso fino alla fine. Che bello vedere come il seme da lui piantato abbia
fruttificato rigogliosamente e si sia moltiplicato nella gente di quelle
regioni. Che bello aver già visto nascere, in nome di padre Bruno, delle
fondazioni per l’aiuto dei poveri, degli ammalati e dei più bisognosi, i suoi
prediletti che ora potranno continuare a ricevere un sostegno proprio grazie
alle persone formate da lui alla buona vita del Vangelo.

Ho avuto il dono di vivere tutto questo in prima
persona. Andato laggiù per frugare nella sua vita, scoprire il segreto della
sua passione missionaria, mi sono trovato ad accompagnarlo alla sua ultima
tappa e a dover rappresentare anche la sua famiglia e il paese che, a causa
della morte così inaspettata, non hanno potuto essere presenti. Ed ero lì non
solo per condividere il dolore di chi lo aveva perso, ma anche la gioia di chi
ha avuto la possibilità di conoscerlo, di conoscere, come dicevano tutti, «un
Santo». Tutti coloro per i quali ha donato se stesso dicono e ridicono che è un
santo.

Padre
Bruno non è stato soltanto un grande missionario, è stato un uomo esemplare per
i valori che viveva con forza e trasmetteva con la testimonianza, per l’impegno
che metteva in ogni singola cosa, per la totale gratuità di ogni suo gesto
rivolto agli altri, per l’elevatezza della sua spiritualità, per la sua
purezza, la sua rettitudine.

Lla sua forza aveva basi solidissime, e padre
Bruno me l’ha dimostrato fino all’ultimo, quando, nella corsa in taxi verso
l’ospedale dopo il malore, mi ha sussurrato le sue ultime parole: «Sono gli
ultimi rantoli prima della morte», rivelatrici della sua intima consapevolezza,
tranquillità, serenità e dell’assenza di ogni timore. Era pronto a passare a
quella vita cui, mettendoci tutto il suo impegno, aveva anelato per
ottant’anni.

In
quell’occasione mi è diventato chiaro un altro episodio vissuto in Caquetá. Era
Natale del 2013. Uscivo da casa per andare in chiesa a festeggiare la nascita
di Gesù. Ero contento perché avevo appena ricevuto la bella notizia che la
moglie di un mio carissimo amico aspettava una bambina. Appena fuori mi hanno
chiamato le suore: una di loro si era sentita male ed era morta, lì, di colpo.
Allora sono corso a chiamare padre Bruno che è arrivato per impartire l’ultimo
sacramento. Io mi sentivo stranito perché in pochi secondi ero passato dalla
notizia di una nascita a quella di una morte. Mi sono poi confidato con padre
Bruno, e lui mi ha detto: «Caro Alberto, non è come la vedi tu. Oggi hai
assistito a due nascite: una per questo mondo, una per l’altro».

Così
padre Bruno vedeva la morte, e anche la propria. Per questo era sereno, pronto,
in pace. Lui stava per nascere nuovamente fra le braccia del Dio che aveva
tanto amato, teso a raggiungere la Consolata e San Giuseppe che l’avevano
protetto nelle sue mille avventure, come i suoi genitori che, non a caso, si
chiamavano Giuseppe e Maria.

Nel
periodo di Pasqua ho scoperto quindi che quelle «nascite» di Natale erano per
me solo una preparazione a ciò che avrei dovuto affrontare durante la Settimana
Santa. Quello che avevo iniziato a capire allora, adesso è diventato più
chiaro.

Padre Bruno Del Piero giace a Cartagena del Chairá,
paese di cui è stato cofondatore, alla base della croce che egli stesso aveva
costruito a lato della cappella del
cimitero. Come è stato detto nei giorni della sua «seconda nascita», nel Caquetá
sono certi che dalla tomba di padre Bruno fioriranno vocazioni, che quel
sepolcro si convertirà in un luogo di pellegrinaggio. Ed è già così. Da ogni
parte migliaia di persone continuano ad arrivare per ringraziare padre Bruno
per tutto quello che ha donato, fino all’ultimo, fino al regalo estremo del suo
corpo affidato alla terra su cui ha fatto nascere e crescere per cinquant’anni
chiese, paesi, persone. Perché la vita, la vera Vita, continui.

Alberto Cancian

Tags: Colombia, missionari, IMC, Caqueta

Alberto Cancian




Cari Missionari

La Morte
Gent.mo padre,
non so se avrà la pazienza di leggermi fino alla fine e
magari rispondere ai quesiti che Le andrò via via sottoponendo. Mi ha
particolarmente colpito la frase espressa nell’articolo dell’agosto-settembre
2013: «Alle prime ore del 3 luglio 2013 il Signore ha chiamato a sé il nostro
fratello, amico e collaboratore Padre Benedetto Bellesi». Leggo poi sulla
rivista di Ottobre 2013 a pag. 9: «Al nostro fratello, amico e collega
Benedetto Bellesi, chiamato alla Casa del Padre lo scorso 3 luglio». Alla pag.
11 dello stesso mese si afferma che nel luglio c’è stata una sua ricaduta nel
tumore, da cui non si è più ripreso, nonostante i massicci interventi. E a pag.
10 Ugo Pozzoli scrive: «Purtroppo questa carogna di una malattia ti ha portato
via troppo presto».

Padre Bellesi è morto perché il Signore l’ha chiamato
oppure è morto in seguito a un tumore, quella carogna di malattia? È proprio
vero che alla nostra morte è il
Signore che ci chiama a sé? O piuttosto è la natura, che, inclemente, detta
legge? […] Dio chiama a sé l’uomo, dice il catechismo e ce lo ripete la
liturgia. Allora: ci stiamo prendendo in giro! La morte certo non è opera di
Dio, né Egli giornisce che i vivi debbano morire.

Ora vorrei chiederLe: è possibile dire alla madre di una
bambina violentata e poi uccisa, che il Signore l’ha chiamata a sé? Quando
giungono le bare con la bandiera tricolore, i Cardinali se ne guardano bene dal
dire che «è il Signore che li ha chiamati a sé».

Ora che dirò: avevo un ragazzo di 12 anni, vivace,
intelligente, artista, una équipe di medici mascalzoni me lo ha ucciso. Al
pensiero che il Signore me lo abbia chiamato, io, quel Signore, non lo voglio
più. La scorsa settimana sono stato avvicinato da una giovane signora che
faceva proselitismo per una setta evangelica e mi ha quasi convinto a cambiare
religione. Come vede, Padre, a me sorgono molti dubbi, ma non mi preoccupo più
di tanto, perché anche molti Santi ne hanno avuti. «Quando si parla di Dio, si
parla di mistero».

Madre Teresa di Calcutta ha affermato che, più ci
avviciniamo a Dio, più aumenta la distanza. Madre Teresa ha attraversato una
lunga crisi spirituale. Nei suoi diari ha scritto che ha sempre cercato Cristo,
ma non lo ha mai trovato. […]

Ero amico di Padre Alberto Placucci della Consolata,
morto nel 1995. Alla sua morte mi sono chiesto: perché a lui e non a me? Lui
avrebbe fatto più bene di me. Se è vero che è stato il Signore che l’ha
chiamato, il Signore ha perso un valido aiuto. Qual è quel padrone che licenzia
un bravo operaio per tenersene uno scadente? Su diciamo la verità: Dio è per la
vita. La morte viene comandata dalla natura.

Nel caso volesse rispondermi però non concluda con: «Caro
figliolo, bisogna aver fede». La ringrazio in anticipo.

Guido
Dal Toso
Somma Lombardo (Va), 25/6/2014

Caro
sig. Guido,
mi sono permesso di mantenere solo l’essenziale della sua lunga lettera (sì,
per una volta una bella lunga lettera, non un’email). Il problema che lei
solleva è talmente grande che la cosa più saggia da fare sarebbe quella di un
umile silenzio. Provo comunque a condividere con lei quello che sto imparando a
mie spese, anche solo in questi ultimi cinque anni, nei quali ho dovuto vivere
da vicino molte morti oltre a quella dell’amico e collaboratore p. Bellesi: da
quella di un’amica che preparandosi al momento mi ha chiesto di far sì che il
suo funerale fosse una festa, ai nove funerali celebrati (o più spesso «assistiti»)
in parrocchia durante lo scorso agosto; dalla morte di una mia sorella più
giovane di me seguita, pochi mesi dopo, da quella di un mio pronipote, vissuto
solo 22 giorni e che ho battezzato il giorno stesso del mio ritorno dal Kenya,
a quella di altri parenti stretti. Dall’uccisione di p. Giuseppe Bertaina al
vedere la morte in faccia quando sulla collina di Mekinduri un infarto mi ha
messo ko.

In
ognuno dei casi si sa benissimo cosa ha causato la morte: tumore, leucemia, età,
violenza, incidente, malattia… La natura ha fatto il suo corso, «inclemente»! È
un dato di fatto inconfutabile. In alcuni casi c’è stato il plauso per la
natura che ha fatto il suo corso, mettendo fine a una lunga vita ben vissuta.
In altri si è accettato in pace che la morte abbia messo fine a lunghe
sofferenze. Altre volte ci si è ribellati perché la morte è stata ingiusta,
improvvisa, impietosa, violenta.

Se
è stato facile celebrare con serenità la morte di uno di 99 anni, meno facile è
stato accompagnare un bimbo di 22 giorni. Se poi si pensa a fatti come quelli
che lei racconta, diventa ancor più difficile farsene una ragione. Eppure,
quando la mia amica Anna mi ha chiesto una «festa e non un mortorio» al suo
funerale, è stato perché aveva capito il segreto della morte, la risposta alla
domanda che tutti tormenta: perché?

Molto
mi aveva fatto capire mia madre, che ha avuto solo 70 giorni di tempo dalla
diagnosi alla morte. Abbiamo passato l’ultimo mese insieme, una grazia grande,
nella consapevolezza che non c’era più cura per lei. Ed è stata lei che ha
preparato noi, suoi figli e figlie, non alla sua morte ma al passaggio, alla
nascita, all’incontro faccia a faccia con Dio e con tutte le persone amate che
l’avevano preceduta, mio padre per primo, oltre quella soglia che apre alla
Vita. Aveva 66 anni, compiuti da neppure un mese. Ovviamente è stato duro, ma
ci siamo detti «arrivederci, a Dio».

La
morte è l’evento più giusto di tutti, perché non fa distinzioni: tutti si
muore. Ci sono culture nel mondo che hanno imparato ad accettare la morte per
quel che è: un fatto naturale fuori del nostro controllo. Noi invece,
inorgogliti dai nostri successi tecnologici, attaccati alla nostra logica
economica del dare e avere, siamo passati dall’accettazione al rifiuto,
soprattutto se «il come e il quando» della morte non rientrano nei nostri
canoni e puzzano d’ingiustizia e diseguaglianza: perché alcuni «muoiono» e
altri invece «sono uccisi»? Un articolo lo chiedeva a proposito di Israeliani e
Palestinesi durante la tremenda crisi di Gaza; noi ce lo chiediamo per chi
muore di morte naturale e per chi invece è vittima di malattie, incidenti,
violenza.

La
morte è un fatto naturale e Dio non va mai contro le leggi della natura che lui
ha fatto. Davvero inutile arrabbiarsi con Lui.

Perché
allora diciamo «Dio chiama»? Chiaramente questo è un linguaggio simbolico
comprensibile per chi ha fede. Nella fede l’evento naturale della morte diventa
segno della chiamata di Dio. I detti e le parabole di Gesù sono pieni di questi
simbolismi. Ma non solo. è solo
Gesù, il figlio di Dio costretto a un’orribile e ingiusta fine, che ci ha fatto
capire come la morte non significhi «fine», ma «inizio, nascita». Quella che
noi viviamo qui non è tutta la vita, è solo la preparazione, quasi una
gestazione alla Vita. Non siamo fatti per finire e consumarci in questo tempo e
in questo spazio, il nostro io più profondo chiama l’infinito. Siamo fatti per «diventare
dei»! Il nostro Dna vero è quello di essere «immagine/icona» di Dio, non
polvere che sparisce nel nulla.

Allora,
se quella dopo il trapasso è davvero la Vita, non abbiamo ragioni per temere la
morte. S. Paolo scriveva che per lui «vivere è Cristo e morire (è) un guadagno»
(Fil 1,21) e soltanto l’amore per «coloro che aveva generato» alla fede con
tanta fatica gli rendeva sopportabile l’idea di dover ancora attendere prima di
riuscire a conquistare Colui che si era impadronito di lui (cfr. Fil 3,12)
sulla strada di Damasco. «Per Paolo come per ciascuno di noi la vita si può
vivere solo dove vive Colui di cui si è innamorati. Per i cristiani,
sull’esempio di San Paolo desiderare la morte non solo è lecito, ma anche segno
di maturità nella fede, dal momento che la morte è l’ingresso nella visione di
Dio faccia a faccia. Se i cristiani fossero coerenti dovrebbero correre verso
la morte, che dopo la risurrezione di Gesù, ha perso il suo pungiglione di
paura e di terrore (cfr. 1Cor 15,55-56) per diventare quello che dovrebbe
essere: la pienezza della vita» (P. Farinella).

Ebola

Caro don Gigi,
vorrei condividere con lei, sempre così attento a tutto ciò che succede nel Sud
del mondo, un problema che mi angustia: il dramma dell’ebola e le conseguenze
che potrebbero arrivare anche a noi, attraverso le migrazioni, purtroppo
inarrestabili, o, almeno, inarrestabili sino a quando non si interviene in
qualche modo nei luoghi di partenza. Ora, io seguo da sempre il dramma di
quelle popolazioni, anche con un coinvolgimento indiretto (sono operatrice del
Commercio Equo e Solidale e socia dell’Accri, ong di cooperazione
internazionale: tanto per farle capire come tutto questo sia per me motivo di «sofferenza»
e non di «insofferenza»). In breve, mi sembra più che giusto, soprattutto come
cristiana impegnata, condividere i problemi dei popoli impoveriti, ma
condividere anche l’ebola, va al di là della mia capacità di accoglienza:
eppure temo che presto o tardi con questo dramma dovremo confrontarci: e
allora? Già la tubercolosi, da tempo debellata, è tornata a preoccupare le
strutture sanitarie, assieme ad altre malattie frutto della promiscuità,
dell’assenza di precauzioni igienicosanitarie, e così via: lei che ne pensa? So
bene che tante malattie sin dall’inizio del periodo coloniale le abbiamo
portate noi, giungendo sino a sterminare gran parte, ad esempio, delle
popolazioni indigene del continente americano, ma non mi sembra una ragione sufficiente… Aspetto con ansia una
sua risposta, e cordialmente la saluto, congratulandomi ancora per la validità
della vostra-nostra rivista.

Silva Duda
Trieste, 25/6/2014

Con
Silva ci siamo già scambiati delle email a proposito dell’ebola. È grazie al
suo stimolo che in questo numero trovate un breve dossier sul quale i nostri
redattori hanno lavorato sodo. L’ebola è una malattia che fa paura perché sfida
la nostra illusione di onnipotenza e ci fa sentire fragili. Eppure c’è chi ci
specula sopra, pregustando i possibili lauti guadagni. È nel 1976 che i primi
280 morti in Congo RD hanno fatto notizia. Come è possibile che oggi ci si
trovi così impreparati? È forse perché non era ancora un affare abbastanza
remunerativo? E tutto quel diffondere notizie allarmanti, è davvero segno di
interesse per i malati o è un altro modo per far pressione e trasformare il
tutto in un grande business?

Quel
che è triste è costatare che ci sono due aree che permettono a chi è senza
scrupoli di fare soldi a palate sulla pelle degli altri: le guerre e le
malattie. E guarda caso, in questo nostro mondo non più controllato dalla
politica ma da una finanza senza freni, le guerre prosperano più che mai
muovendo fiumi di denaro.

Per
restare alla sua domanda sul «condividere l’ebola» come espiazione dei contagi
che un tempo noi abbiamo portato ai popoli indigeni dell’America e dell’Africa,
certamente non credo che sia il caso. Gli errori del passato non si compensano
certo con errori del presente. In più, tutte le statistiche a riguardo (vedi la
ricerca
Istat del 12 febbraio 2014, Cittadini stranieri: condizioni di salute,
fattori di rischio, ricorso alle cure e accessibilità dei servizi sanitari
)
dicono che la stragrande maggioranza degli stranieri che arrivano da noi sono «persone
in buona salute, che devono affrontare un viaggio lungo e pericoloso, che
portano come capitale da investire nel paese in cui emigrano il proprio corpo
sano. Il migrante si ammala nel paese in cui arriva come ospite a causa delle
insalubri condizioni di vita in cui spesso è costretto a inserirsi (scarsa
alimentazione, ambienti sovraffollati, lavoro faticoso e spesso senza
protezione)».

Secondo
il parere dei medici del Comitato di Collaborazione medica di Torino (Ccm), da
noi consultati, «sulla base (dei dati a disposizione) e di quanto evidenziato
in merito al concetto di “migrante sano”, è veramente improbabile che possano
insorgere epidemie, nel nostro paese, determinate da patologie d’importazione,
se non in focolai circoscritti e di scarsa rilevanza epidemiologica, come nel
caso della Chikungunya (malattia febbrile acuta virale, epidemica, trasmessa
dalla puntura di zanzare infette – it.wikipedia.org) nel Ravennate nel
2007».

Quanto
al ritorno di malattie da noi considerate debellate, come la tubercolosi, credo
che esso coinvolga più fattori: dalla sempre maggior resistenza degli agenti
patogeni agli antibiotici spesso usati troppo disinvoltamente, ai sempre
maggiori contatti globali, non solo per i flussi migratori ma anche per la
crescita esponenziale del turismo internazionale; dall’allentamento della
guardia delle nostre strutture sanitarie, alla scarsa conoscenza di queste
malattie.

Sfortunatamente
tutto questo rischia di finire per ritorcersi contro i più deboli, proprio i
migranti, visto che non manca chi è pronto a cavalcare la disinformazione per
sostenere le proprie agende xenofobe.

Il gas del Mozambico
Cari amici di MC,
ho letto su Il Sole 24 Ore del 20/7/2014 che
l’Eni avrebbe fatto la «più grande scoperta di gas della sua storia» in
Mozambico. Si tratta di 2,4 miliardi di metri cubi che consentirebbero di
soddisfare il bisogno degli italiani per 30 anni». Premesso che anch’io consumo
gas e che cerco di utilizzarlo il meno possibile per non sprecarlo (e pagarlo),
mi piacerebbe sapere per favore da voi delle Missioni della Consolata quanto di
quel gas rimarrebbe a disposizione dei poverissimi abitanti del Mozambico. Lo
sfrutteremmo tutto noi? Quale sarebbe il vantaggio per il paese africano? Che
cosa cioè guadagnerebbe dall’operazione in una parola? Ed è morale e giusto che
Mauro Moretti, attuale A.d. dell’ENI, guadagni quel che guadagna? Non è
l’Italia in condizioni disastrose? E il Mozambico come sta? Grazie.

Piergiorgio S.
20/7/2014

L’assalto
alle materie prime africane è vecchio di secoli: Romani, Egiziani, Arabi,
Indiani e perfino Cinesi hanno depredato l’Africa per secoli, se non millenni.
Poi è scoppiato il colonialismo, e dopo il colonialismo la dipendenza
economica, l’indebitamento cronico e l’instabilità politica, e poi sono tornati
i Cinesi affamati di energia e materie prime, e le crisi mediorientali che
hanno reso appetibili grandi riserve di petrolio e gas prima troppo costose. Da
sempre il nostro paese ha cercato, proprio con l’Eni, di restare indipendente
dal monopolio delle «sette sorelle» (le più grandi compagnie petrolifere
inteazionali) creando la sua rete di sicurezza per un paese come il nostro
sempre più affamato di energia. Non stupisce allora, lo dico con tristezza, che
in questa durissima competizione per le risorse, anche l’Eni si sia adeguata ai
metodi dei suoi competitori. I Cinesi prendono tutto chiudendo gli occhi su
giustizia e diritti umani e facendo lavorare i loro carcerati; i Francesi e gli
Inglesi si tengono bene legate le loro ex colonie, le multinazionali non
guardano in faccia nessuno e l’Eni paga tangenti esorbitanti che approfittano
della corruzione e l’alimentano (vedi Nigeria per fare un esempio).

Quello
che l’Eni fà rientra perfettamente nella logica economica di oggi, che è senza
scrupoli, anche se qualche volta ammantata di verde ma non certo del rosso
dell’amore e della giustizia. Questo vale per l’Eni, e si può dire delle
multinazionali del cibo, dei fiori, delle comunicazioni. L’Africa non è solo
una grande riserva di materie prime, è anche un grande bacino di manodopera a
basso costo (schiavi) per alimentare il nostro benessere e la ricchezza
ingiusta di pochi.

Non
entro in merito ai compensi di Mauro Moretti o di quelli come lui. È fin troppo
facile dire che certi stipendi sono fuori di testa e ingiusti. Anche se uno è
un dirigente, che diritto ha di prendere 10, 20, 100 volte di più di un suo
dipendente del Nord del mondo e magari anche 1000 o 2000 volte in più di uno
del Sud del mondo?

Quanto
al Mozambico (o ai vari Mozambico del mondo): se da noi va male, da loro
va certamente peggio, anche se il Fondo Monetario Internazionale dice che il
Pil delle nazioni africane è in crescita. Per l’Onu il Mozambico è 183° su 187
nella scala dello sviluppo, ma sembra andare controcorrente: da 20 anni gode di
una crescita annua del 6% e in questi ultimi anni sta sperimentando una
migrazione inversa con l’arrivo di europei alla ricerca di una vita nuova e
fortuna. In realtà chi ci guadagna è una piccola minoranza straricca, mentre i
poveri diventano sempre più poveri. La sfida cade allora sulle élite locali che
sono a un bivio: amministrare la nuova ricchezza per il proprio tornaconto o
per il vero sviluppo del proprio paese e la creazione di servizi per uscire
dalla spirale di povertà.
Certo, le storie delle bustarelle, non sono proprio incoraggianti.

Risponde il Direttore




Ebola: Virus di famiglia

Testimoni da Guinea e Liberia
Sembra il virus fatto per
l’Africa: dove la famiglia si prende cura del malato. Dove i legami famigliari
sono più importanti di tutto. Dove ci si dà la mano ogni momento. E così il
contagio è assicurato. L’Ebola cambierà i costumi sociali degli africani? La
famiglia allargata sopravvivrà?

Guinea


Colpevoli di solidarietà

Simona Guida è un’operatrice della
Ong Cisv, è rientrata a fine agosto dalla Guinea dove è stata per una missione
breve. Responsabile di alcuni progetti del consorzio di Cisv con l’Ong Lvia, ci
racconta la situazione che ha trovato: «Fin da marzo è stata presa la decisione
di non sospendere le attività e di non evacuare il personale espatriato, anche
se ci era stato consigliato di farlo. Gli stessi cooperanti del consorzio, in
servizio nel paese, hanno detto per primi che volevano rimanere, che potevano
prendere tutte le precauzioni e gestire la psicosi da epidemia».

I progetti di Cisv-Lvia in Guinea sono in campo agricolo
e ambientale. «In effetti non sono attività
che mettono direttamente a rischio gli operatori. Però abbiamo rallentato le
riunioni, gli incontri, gli scambi tra diversi gruppi». L’epidemia sembrava
arginata a maggio, ma non è stato così, e un mese dopo ha ripreso a
diffondersi. A luglio il governo ha decretato lo stato di emergenza, con un
certo ritardo. Simona racconta: «Respiravo una doppia sensazione. Da una parte
quella che il governo non avesse fatto abbastanza. Non è stato proibito cibarsi
di cacciagione, portatrice del virus, come invece le autorità hanno fatto in
Burkina Faso con un decreto ad hoc. Non c’è stata comunicazione tempestiva,
come sulle norme di igiene, per esempio lavare la frutta dagli escrementi dei
pipistrelli, ecc.».

«La seconda considerazione è che la
paura dipende dal luogo in cui sei e se hai incontrato direttamente la malattia
oppure no. La differenza la fa la sfiducia in questo stato da sempre debole e
lontano dai cittadini. Chi si fida prende le precauzioni, chi si sente isolato
gestisce la cosa a modo suo. Ci sono storie di villaggi in cui c’è stato un
malato che è stato isolato bene, in altri casi la famiglia ha voluto fare in
modo diverso e la malattia si è propagata».

Simona: «Quello che ho percepito è
l’inumanità, “l’inafricanità” della malattia. La famiglia in molti paesi
africani è l’unico vero luogo di cura, e l’Ebola costringe la famiglia a non
prendersi cura del malato per il rischio contagio. Le strutture sanitarie non
sono all’altezza: in Guinea ci vai a morire in ospedale. Prima si cerca di
guarire in casa, poi dal guaritore tradizionale».

La gente è convinta che l’Ebola non
lasci scampo. Anche per questo i malati non vengono portati nelle strutture. «Si
sta facendo comunicazione per spiegare che si può guarire, che bisogna curarsi».

«Ma con l’Ebola non puoi curare il
familiare e non puoi neppure fare il funerale come la ritualità vorrebbe. Due
grandi fattori emotivi per cui non si riesce a dare uno stop alla propagazione
del virus in certe zone più tradizionali, più isolate».

In effetti il grande problema è
proprio quello del contagio famigliare, dovuto a queste abitudini.

A Conakry, la capitale, sono
spuntati ovunque, all’ingresso di uffici e servizi, bidoni con acqua e
candeggina per lavarsi le mani. «Ho anche notato che le persone tendono a non
darsi più la mano».

Simona pensa che l’epidemia sarà
fermata, ma anche che potrebbe lasciare dei segni di cambiamento sociale.

In capitale ci sono stati molti
casi di malati, perché la gente arriva da tutto il paese. Simona ha constatato
che la paura dell’epidemia è palpabile, soprattutto per chi abita in un
quartiere in cui l’Ebola è presente, o per chi lavori a contatto con persone più
esposte.

«Il nostro partner Sabou guinéen,
è un’associazione guineana che ha aperto diversi centri per bambini che si
spostano in Africa dell’Ovest per motivi vari, in particolare per studi
coranici. Adesso ha bloccato l’accoglienza.

In Africa dell’Ovest la mobilità di
persone è molto elevata, ed è impossibile chiudere veramente le frontiere.
Senegal e Mali hanno preso misure protettive e questo ha ridotto le loro
importazioni danneggiando la già fragile economia guineana.

Simona spiega come la presenza
degli operatori sia motivo di speranza: «I nostri partner sono molto contenti
che non abbiamo chiuso i progetti. Vuol dire che non c’è solo l’Ebola in
Guinea. Loro hanno la sensazione di essere stigmatizzati: c’è una malattia
importante e non la sanno gestire. Il problema è che non hanno i mezzi e le
competenze, mentre occorre un buon dispositivo sanitario. Solo negli ultimi
tempi la comunità internazionale sta stanziando ingenti somme per fermare
l’epidemia, mentre su malattie endemiche come malaria e tubercolosi, per le
quali la gente muore, i soldi non ci sono».

In Guinea l’Ebola ha fatto ancora
più sentire la di-sparità tra due mondi: «La gente capisce che c’è un
intervento solo perché europei e statunitensi hanno paura che la malattia
arrivi nei loro paesi».

Inoltre: «Si sentono quasi in colpa
per il loro sentimento di solidarietà, come dire: non riusciamo a bloccare la
malattia perché siamo così. Mentre invece è un loro punto di forza».


 
Liberia


L’esercito contro il virus
 

La Liberia è un piccolo paese in
Africa dell’Ovest con una superficie che è circa un terzo di quella
dell’Italia. Ha una storia singolare perché è nata da una strana
ricolonizzazione, iniziata nel 1821, da parte di schiavi emancipati
statunitensi su un territorio già colonia britannica. Negli Usa solo gli stati
del Nord avevano abolito la schiavitù, che sarebbe stata eliminata anche al Sud
dopo la guerra civile (1861-1865). I neri americani giunti in Liberia erano
molto diversi dagli africani, per lingua, usi e cultura. Costituirono l’élite
di potere e sfruttarono i nativi. La Liberia di oggi mantiene un legame molto
stretto con gli Usa. È il paese più colpito dall’epidemia di Ebola e Barak
Obama ha annunciato l’invio di 3.000 soldati e l’apertura di una base di
comando regionale a Monrovia, la capitale. La base dipenderà da Africom, il
comando Usa per l’Africa. Nel suo discorso del 16 settembre scorso, Obama ha
paragonato questo intervento a quello Usa ad Haiti, all’indomani del terremoto
del 2010. Anche quella fu un’operazione di forza, completamente ingiustificata.
Oggi suona strano che per combattere un evento sanitario servano i marines,
considerando poi che i soldati sono l’unica risorsa che negli stati africani
non manca.

Suor Annella Gianoglio, missionaria
della Consolata di Savigliano (Cn), vive nel paese dal 1977. «Siamo in tre
missioni – ci racconta -: Ganta al confine tra Guinea e Liberia, Harbel a 80 km
da Monrovia e Buchanan». In tutti i posti si è propagata l’epidemia. «Il primo
morto lo abbiamo avuto ad Harbel. Una donna era andata ad assistere un
ammalato, così ha preso l’Ebola. Aveva figli e marito. Poi sembrava che
l’epidemia si fosse fermata, allora la gente non aveva molta paura, poi invece è
esplosa. Adesso c’è ovunque in Liberia. Abbiamo una clinica a Buchanan: è morta
una persona, poi l’infermiera che l’assisteva».

«La gente pensa sempre che la morte
naturale non esista, ma sia causata da qualcuno. Il giu giu, una specie
di malocchio. Ad esempio a una convention di una chiesa protestante ci
sono stati 36 morti. Il pastore aveva negato che fosse l’Ebola, dicendo che
l’acqua del pozzo era stata avvelenata.

Per questo motivo all’inizio
nessuno seguiva le precauzioni. Adesso almeno bruciano i cadaveri.

Un altro problema è che continuano
ad andare a cacciare e pescare e a nutrirsi di selvaggina. E questo è fonte di
contagio».

Suor Annella ha una profonda
conoscenza del popolo liberiano, e si vede che anche lei è spiazzata di fronte
al fenomeno. «Quando la prendi è molto probabile morire. Ma c’è anche molta
confusione con altre malattie. Nell’ospedale cattolico in cui è morto il padre
spagnolo, di cui si è parlato, sono morte otto persone. Adesso cercano di
riorganizzarlo».

Intanto sono stati creati centri
sanitari per l’Ebola in diverse zone. Sono tende nelle quali si isolano i casi
e si impediscono i contatti con il resto della popolazione. «Però vengono
trascurati gli altri malati. Si continua a morire di malaria».

In Liberia lo stato ha preso in
mano la situazione utilizzando l’esercito. Le scuole sono rimaste chiuse, i
raduni sono proibiti, e si cerca di non far spostare la gente.

«I soldati hanno circondato intere
zone, villaggi dove magari c’è stato un caso. E sparano a vista contro chi
volesse entrare o uscire. Così diventa difficile trovare da mangiare, o andare
a vendere i propri prodotti agricoli. L’economia informale è rallentata e la
povertà aumenta. Anche noi siamo bloccate nelle missioni. A Ganta abbiamo il
centro dei lebbrosi e tubercolotici. Vi lavorano due suore, una volontaria e un
dottore. Cercano di non muoversi e non far entrare gente dall’esterno. Un po’
ovunque sono stati messi secchi con acqua e candeggina per lavarsi le mani». A
livello sociale l’epidemia è «un disastro, divide le famiglie». Continua suor
Annella: «Un ragazzo che lavora in missione ha il villaggio isolato, e non può
tornare a casa da settimane. Una donna che si è ammalata è stata portata in un
centro, ma i suoi figli li hanno tutti isolati per paura che siano già
contagiati».

I liberiani hanno appreso che sono
state testate delle medicine su malati occidentali e si sono convinti che i
ricchi le possono avere e loro no. Poi però hanno visto che anche gli stranieri
muoiono. «Qui ci sono pochissimi mezzi. Non hanno ambulanze, tute di isolamento.
È una spesa enorme che deve venire da fuori».

Le missionarie della Consolata sono
presenti in Liberia da 50 anni. Oggi sono in 10 nelle tre missioni.

«Lo stato liberiano è rovinato
dalla dipendenza dagli Usa. Non prende iniziative, aspetta sempre un’imbeccata.
L’attuale presidente, Ellen Johnson Sirleaf, è liberiana ma di origini
statunitensi».

Tanti liberiani hanno amici e
parenti in Usa, e adesso cercano di lasciare il paese in attesa che passi un
po’ di tempo e l’epidemia.

Marco Bello

Marco Bello




Ebola: Prigionieri di un incubo

Paesi e popolazioni
allo sbaraglio.

Govei e popolazioni di Sierra Leone, Guinea, Liberia e
Nigeria sono alle prese con un’emergenza sanitaria probabilmente senza
precedenti. In paesi con strutture sanitarie inesistenti o inadeguate,
l’epidemia di Ebola potrebbe avere conseguenze difficilmente immaginabili.
Soltanto l’intervento internazionale può evitare che la situazione precipiti.
In attesa di un vaccino che ancora non esiste. Nel frattempo il virus è
arrivato in Spagna e negli Stati Uniti.

Leggi tutto il dossier sul pdf sfogliabile. Clicca qui.

Anno
2013. Inizio di dicembre. Il piccolo di due anni non sta bene, ha la febbre, è
molto debole, sembra gli facciano male i muscoli, la testa, la gola. È piccolo:
difficile capire. Potrebbe essere un’infezione virale, passerà. Ma poi compare
vomito, diarrea. Sarà una forma gastrointestinale, ce ne sono spesso in giro,
meglio portarlo dal pediatra. Il bambino però non è in Italia, è in Africa:
vive in Guinea, Guéckédou, una regione boschiva. Non è così facile portarlo da
qualcuno che lo visiti. E possono essere tante le cause del suo malessere:
potrebbe essere malaria, tifo, colera, meningite o una delle altre patologie
infettive diffuse in questo continente, spesso con nomi sconosciuti o
dimenticati da molti nel Nord del mondo.

La situazione non migliora perché questa non è una delle
solite malattie con cui quotidianamente la popolazione si confronta, spesso
avendo la peggio.

Ecco, si potrebbe immaginare così l’inizio dell’ultima
epidemia di Ebola, una febbre emorragica causata da un virus che l’Africa ha già
conosciuto. La prima volta è stata nel 1976. Poi l’Ebola si è ripresentata, con
epidemie mortali in alta percentuale. Questa volta, dalla vittima morta
a dicembre e identificata (ma soltanto il 22 marzo) come il «caso indice» (noto
anche come «paziente zero»), il primo dell’epidemia (forse)1,2,3,
l’infezione si è diffusa con velocità, dimensioni e portata assai maggiori
rispetto alle occasioni precedenti, passando dalla Guinea ai paesi vicini,
Liberia e Sierra Leone, e poi arrivando anche in Nigeria e Senegal.

Secondo i dati diffusi all’Organizzazione mondiale della
sanità (Oms)4, al 7 settembre 2014 i casi (tra probabili, confermati
e sospetti) in Africa occidentale erano quasi 4.400, con circa 2.200 morti,
praticamente uno su due. Nel continente non c’è però un sistema sanitario che
permetta di avere dati certi che coprano tutto il territorio, comprese le zone
rurali più distanti. E poi la gente ha paura e non tutti – lo vedremo più
avanti – vanno a farsi visitare. Per questo le cifre potrebbero essere
incomplete o non precise. Senza contare che sarebbero da aggioare ogni giorno
(dati più recenti a pag. 43).

Dopo Guinea, Liberia e Sierra Leone, a fine luglio 2014
l’infezione è arrivata anche in Nigeria, con la morte di un paziente liberiano
arrivato in aereo a Lagos. Nell’ultimo rapporto dell’Oms in Nigeria sono stati
contati 21 casi (tra confermati, probabili e sospetti) e 8 morti4.
Infine, è stato segnalato un caso anche in Senegal, a fine agosto: un paziente
arrivato a Dakar dalla Guinea. Al 7 settembre i casi erano tre, nessun morto.
L’8 agosto, a nove mesi dall’ipotizzato inizio dell’epidemia, il direttore
generale dell’Oms ha dichiarato l’Ebola un’emergenza di sanità pubblica di
rilevanza internazionale5 e il 28 agosto ha pubblicato una roadmap per
assistere governi e partner nei piani di risposta all’epidemia e cornordinare il
supporto internazionale6.

All’inizio di agosto sono stati segnalati casi anche
nella Repubblica Democratica del Congo, ma a inizio settembre l’Oms ha
affermato che quest’epidemia è slegata da quella che sta flagellando l’Africa
occidentale da fine 20137. In ogni caso, anche in Congo R.D. l’Ebola ha seminato
morte, con 35 decessi (7 fra operatori sanitari) su 62 casi8.

 
Quel fiume in Congo

Era il 1976 quando, nella Repubblica Democratica del
Congo e in Sudan, fu identificato per la prima volta il virus responsabile
della malattia. Allora si era trattato di due epidemie contemporanee, causate
da due sottotipi diversi (sono in tutto cinque) del virus: quello chiamato «Zaire»,
responsabile anche dell’epidemia attuale, e il tipo «Sudan»9.

Il nome Ebola deriva dall’omonimo fiume, vicino alla
zona del Congo ove si era verificata l’epidemia (Yambuku). Da allora varie
segnalazioni di casi singoli e di epidemie (24, la maggior parte causate dal
sottotipo Zaire) si sono succedute in diversi paesi africani. Le ultime
segnalazioni del 2012 provenivano dall’Uganda e ancora dalla Repubblica
Democratica del Congo. La letalità è stata diversa, passando dalla più bassa
del 25 per cento (dunque, un malato morto ogni quattro) alla più alta del 90
per cento (nove morti ogni dieci malati).

Cosa favorisce la
diffusione

Riguardo all’epidemia attuale – iniziata in Guinea
sudorientale nel dicembre 2013 -, sembra che i primi pazienti si siano ammalati
perché esposti a cacciagione locale infetta e che la diffusione sia poi stata
veicolata dalla partecipazione a cerimonie funebri che hanno portato al
contatto con persone morte per l’Ebola o con persone già infettate10.
L’Oms ha segnalato tre fattori principali responsabili della diffusione
dell’Ebola11. In primis, aspetti culturali come la mancanza di
fiducia, preoccupazione e resistenza nei confronti delle raccomandazioni di
sanità pubblica volte a prevenire la diffusione e bloccare il contagio. Rientra
in questo anche la mancata ricerca dell’assistenza sanitaria (in paesi in cui
la rete sanitaria è fragile e precaria), la scelta di curare i malati a casa e
di tenerli nascosti, la partecipazione a cerimonie funebri con rituali che
espongono al contagio. Un altro aspetto critico è rappresentato dai massicci
spostamenti delle persone sia all’interno dei paesi che attraverso le
frontiere. Un terzo fattore è venuto dalla non completa copertura dell’epidemia
con misure di contenimento efficaci, quindi una risposta inadeguata alla
dimensione e diffusione del contagio. 

La trasmissione

Il virus dell’Ebola causa una febbre emorragica molto
pericolosa e spesso fatale negli esseri umani, tanto da poter uccidere fino a
nove persone su dieci infettate12. Finora le epidemie si sono
verificate in villaggi isolati, vicino alle foreste tropicali, in Africa
centrale e dell’Ovest. Il virus viene trasmesso alle persone da animali e un
tipo particolare di pipistrello – appartenente alla famiglia Pteropodidae
– ne viene considerato l’ospite naturale (si veda l’infografica a pag. 42).
L’infezione viene trasmessa dal contatto con sangue, secrezioni o altri fluidi
del corpo di animali infettati dal virus. Una volta passato dall’animale
all’uomo, il virus si trasmette da una persona all’altra secondo modalità
analoghe, attraverso il contatto diretto o indiretto con sangue e fluidi del
corpo13.

I riti attorno al
defunto

Uno dei problemi affrontati dagli operatori sanitari
nella prevenzione della diffusione del virus, è quello delle cerimonie di
sepoltura, come racconta Maria Cristina Manca, antropologa di Medici senza
frontiere
, che ha lavorato diverse settimane in Guinea, proprio a Guéckédou
dove pare tutto sia iniziato. «Le ritualità intorno alla morte – ci racconta –
sono fondamentali. Sia i malati, sia i morti, vengono appoggiati, seguiti,
aiutati da tutte le persone che sono loro vicine. Per i malati ciò accade a causa
della mancanza di un servizio sanitario. L’unico servizio presente è a
pagamento: per questo le persone non vanno a farsi curare o comunque ci vanno
soltanto se sono molto gravi. Quando arriva la morte, vi sono una serie di
congiunti che lavano il corpo, lo vestono, lo abbracciano, lo baciano. Più
l’individuo deceduto era importante, più cresce il numero di soggetti
coinvolti. Addirittura, se il morto era influente nel villaggio, la salma viene
portata a “salutare” una serie di persone. Tutto questo significa circolazione
del virus tra chi lava il corpo, chi si trova nel luogo in cui viene portato,
chi arriva da lontano per salutarlo: a questa mobilità enorme corrisponde
un’enorme diffusione. Per il rischio di contagio, è chiaro che il corpo non si
deve né toccare, né lavare, né abbracciare. Ci sono tuttavia alcune cose che si
possono fare. L’Ebola è una malattia terribile, che obbliga a soluzioni
drastiche. Personalmente, quello che ho cercato di fare è stato di non vietare
il rito ma di trasformarlo, nei limiti del possibile. Per esempio, nel sacco
bianco, dove bisogna porre il corpo del malato morto di Ebola, si possono
collocare gli oggetti rituali che in genere vengono messi nella tomba; le
persone, con guanti e protezioni adeguate, possono prendere il sacco e
tumularlo; si può anche esporre il corpo, purché a metri di distanza e con le
precauzioni del caso; infine si può concedere un ultimo saluto, un’ultima
preghiera prima che il sacco venga chiuso».

Senza medici e
infermieri

L’incubazione della malattia – dal momento
dell’infezione all’inizio dei sintomi – può variare da 2 a 21 giorni. I sintomi
comprendono febbre, debolezza intensa, dolori muscolari, mal di testa e mal di
gola, cui seguono vomito, diarrea, segni sulla pelle, malfunzionamento di reni
e fegato e in alcuni casi, sanguinamenti sia estei sia interni (grafico
dei sintomi a pag. 43
). Le persone sono infettive finché il sangue e le
secrezioni contengono il virus, che può rimanere per un certo periodo anche
dopo la guarigione14. In questa epidemia è stato alto il prezzo pagato da
chi lavora per curare gli ammalati. Infatti, proprio la modalità di
trasmissione dell’infezione espone a un alto rischio il personale sanitario,
anche a causa dei sintomi che all’inizio sono poco specifici (la conferma di
infezione da Ebola è possibile solo tramite esami di laboratorio). Al 7
settembre erano 144 gli operatori sanitari deceduti in Guinea, Liberia e Sierra
Leone su 301 casi di contagio15. E questo in paesi dove vi è una
scarsità di base di personale sanitario, sia medico che infermieristico: già
prima della morte degli operatori sanitari, vi erano soltanto 90 medici in
Liberia e 136 in Sierra Leone, paesi che ne avrebbero bisogno rispettivamente
per circa dieci e venti volte di più. E in Guinea la situazione è solo
lievemente migliore, con 1.000 medici per più di 11 milioni di persone16.

Clara Frasson, di Medici con l’Africa-Cuamm,
all’ospedale di Pujehun in Sierra Leone per un progetto di aiuto a mamme e
bambini, descrive la devastazione di un paese in ginocchio: «A causa
dell’epidemia, il sistema sanitario, messo in piedi con grandi sforzi, è in
crisi. Le mamme non fanno più le visite prenatali, non portano i bambini a
vaccinare; le gravide riprendono a partorire in casa senza assistenza; i
malnutriti non vanno più ai centri dove potrebbero essere nutriti
correttamente, curati e salvati. Questa emergenza è paragonabile alla guerra.
L’economia del paese è allo stremo, il commercio è interrotto, le compagnie
aeree non fanno più scalo a Freetown. Molte zone del paese sono chiuse e la
popolazione non può più muoversi liberamente. Il cibo comincia a scarseggiare,
non è ancora la stagione del raccolto e purtroppo le persone stanno usando le
scorte alimentari destinate alla vendita o alle sementi. Tutte le persone
(familiari, amici, ecc.) che hanno avuto contatto con un malato vengono poste
in quarantena per 24-25 giorni. Con il team sanitario del distretto noi
organizzazioni distribuiamo cibo, che però non è mai sufficiente. I prelievi di
sangue di persone con sintomi di Ebola vengono portati a Kenema, dove c’è
l’unico laboratorio nazionale in grado di testare il virus. Se il risultato è
positivo, il paziente viene trasferito in uno dei due centri di trattamento del
paese, che non bastano più. È stato programmato un controllo casa per casa in
tutta la Sierra Leone per trovare tutti i malati di Ebola, dato che purtroppo
si nascondono, e tutte le persone e familiari che sono stati a contatto con
loro e che sicuramente verranno contagiati. Qui la foresta è grande ed è facile
nascondersi. Per fermare questa epidemia l’unica soluzione è trovare le persone
malate, isolarle, trattarle e cercare di tenerle in vita. Abbiamo visto che, se
si cura precocemente, la sopravvivenza è alta. Usiamo tutti i mezzi possibili
per informare la popolazione, perché abbia fiducia nel sistema sanitario: non è
facile ma è la nostra sfida. Un sistema che ora è al collasso e che, dopo
l’Ebola, bisognerà riorganizzare completamente. Questa nuova emergenza ha
portato ancora povertà, morte e disperazione. I nostri colleghi africani hanno
paura che ce ne andiamo. Ogni giorno ci cercano, se non ci vedono mandano
messaggi, telefonano, chiedono dove siamo. Per loro siamo una speranza ed è per
questo che teniamo duro: rimaniamo nonostante il rischio reale».

Costruire il presente
e il futuro

Oltre alla difficile diagnosi, alla modalità di
diffusione, alla mortalità alta, al rischio per il personale sanitario in paesi
dove la situazione assistenziale di base è già assai precaria, si aggiunge un
altro punto critico di questa infezione: la mancanza di una terapia specifica.
Al momento non vi sono infatti vaccini disponibili (anche se sono allo studio),
non vi sono farmaci, e quelli sperimentali provati non hanno ancora dato
risultati certi e non sono diffusamente disponibili17,18.
Al momento quindi la terapia possibile è solo quella di reidratazione, supporto
e assistenza del paziente. La prevenzione, il monitoraggio, il controllo
rappresentano quindi una strada fondamentale da percorrere per arginare e
interrompere le epidemie da Ebola, e far sì che una diffusione del genere non
si ripeta.

Questa tragedia ha sottolineato ancora una volta la
debolezza e fragilità dei sistemi sanitari africani. E la necessità di
investire nel loro rinforzo perché possano far fronte alle emergenze, ma anche
ai bisogni sanitari della quotidianità.

Valeria
Confalonieri


Fonti bibliografiche

1 – Ebola: a failure of
inteational collective action
, The Lancet (editoriale), 23 agosto 2014.
2 – Gostin LO, Ebola: towards an Inteational
Health Systems fund
, The Lancet, 5 Settembre 2014.
3 – «Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute», www.epicentro.iss.it.
4 – World
Health Organization, Ebola Response
Roadmap Situation, Report 3, 12 September,
www.who.int.
5 – World
Health Organization, Who Statement on
the Meeting of the Inteational Health Regulations Emergency Committee
Regarding the 2014 Ebola Outbreak in West Africa.
6 – World
Health Organization, Ebola response
roadmap, 28 agosto 2014.
7 – World Health Organization, Virological analysis: no link between Ebola outbreaks in west Africa and Democratic Republic of Congo.
8 – World
Health Organization, Ebola virus disease
– Democratic Republic of Congo, 10 settembre 2014.
9 – World
Health Organization, Ebola virus disease. Fact sheet N. 103.
10 – Fonte
citata, nota 3.
11 – World
Health Organization, Ebola virus disease, West Africa – update. Disease
outbreak news
, 3 July 2014.
12 – Fonte
citata, nota 9.
13 – World
Health Organization, Frequently asked questions on Ebola virus disease.
14 – Fonte
citata, nota 9.
15 – Fonte
citata, nota 4.
16 – Fonte
citata, nota 2.
17 – Fauci
AS, Ebola –
Underscoring the Global Disparities, in
Health Care Resources, New England Joual of Medicine, 13 agosto 2014,
www.nejm.org.
18 – Goodman
JL., Studying “Secret
Serums” – Toward Safe, Effective Ebola Treatments,
New England Joual of Medicine, 20 agosto 2014, www.nejm.org.

Info
e aggioamenti:

• World Health Organization: www.who.int

• Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza
e Promozione della Salute: www.epicentro.iss.it
• Centers for Disease Control and Prevention
(Atlanta, Usa): www.cdc.gov.

L’autrice
dell’articolo:

Di formazione medico, dopo alcuni anni di esperienza in
ospedale, Valeria Confalonieri (1965) ha deciso di dedicare il suo lavoro
esclusivamente al giornalismo medico-scientifico. Si occupa in particolare di
argomenti sanitari e sociali nei paesi impoveriti e in generale di diritto e
accesso alla salute delle popolazioni più vulnerabili. Su tali temi ha
collaborato con diverse testate on line e cartacee e alla scrittura di libri. È
membro dell’«Osservatorio italiano sulla salute globale».

Interviste a cura
di:

Marco Bello, redazione MC.

Le foto delle
copertine:

• In prima pagina: Guinea, Conakry, personale con indumenti protettivi
trasporta una vittima dell’Ebola nel centro gestito da Medici senza frontiere, vicino
all’ospedale Donka (settembre 2014).
• In ultima pagina: Costa D’Avorio, Abidjan, bambini osservano il poster
sui sintomi dell’Ebola in una scuola del quartiere di Koummassi (settembre
2014).

Dossier a cura di:
Paolo Moiola, redazione MC.

Valeria Confalonieri




Itinerari Mozambicani /1

Il Mozambico affronta, questo mese di ottobre, la sua quinta elezione presidenziale dal 1994, anno dell’introduzione del multipartitismo dopo una devastante guerra civile durata vent’anni e conclusa con la pace di Roma del 1992. In queste pagine racconto il viaggio che, come responsabile dell’ufficio progetti della MCO, ho fatto lo scorso giugno nel paese lusofono. Una panoramica sulla situazione politica e qualche istantanea della quotidianità nelle missioni.

Leggi Cooperando nello sfogliabile. Clicca sulla foto.

Chiara Giovetti




Sul tetto dell’Africa

Amin e Nyerere: figli per la riconciliazione
Due figli di due potenti capi di stato del passato. Due paesi che hanno visto la guerra. La montagna sacra dell’Africa e un regista ardito quanto esperto. Così nasce un documentario dal profondo messaggio di riconciliazione.

Leggi tutto nello sfogliabile. Clicca sulla foto.

Tags: Tanzania, Uganda, Amin, Nyerere, riconciliazione

Silvia C. Turrin




i sogni europei di Chişinău



Ai confini dell’Europa (2): la Moldavia


Indipendente dal 1991, la Moldavia è il paese più povero d’Europa. Un terzo della sua popolazione vive all’estero. In Italia i moldavi sono 150 mila. Lo scorso giugno il paese ha salutato con entusiasmo l’«Accordo di associazione» con l’Unione europea. Ma la strada per uscire dalla condizione attuale è ancora lunga e complessa.

Alle spalle del bulvardul Ştefan cel Mare, il viale principale della capitale, c’è il mercato. Tutto il groviglio di strade qui intorno è un bazar all’aperto. Ma, rispetto ai bazar orientali, non ha nulla di caratteristico. Polvere e confusione, marciapiedi rotti e fustini di detersivi colorati, merce scadente proveniente dalla Cina e quarti di bue poggiati sui grossi banchi di cemento. E in mezzo la gente, i moldavi, che brulicano attorno alle masserizie tutti i giorni dell’anno, tanto ai 40 gradi d’agosto quanto ai meno 20 di febbraio, pur di risparmiare qualche leu. Perché qui la roba arriva dalle campagne, o dai furgoni che di notte passano la frontiera con l’Ucraina, e costa meno che nei negozi.
Sorina viene al bazar a comprare i suoi vestiti, ma non le piace che si sappia: non è chic. «Ogni tanto vado a fare una passeggiata nel Mall Dova, ma lì di fare shopping non se ne parla con uno stipendio normale». Il centro commerciale Mall Dova gioca con le parole. È l’unico vero mall di tipo occidentale in tutta la Moldavia, ma senza le code alle casse e la ressa per i saldi. L’edificio in vetro e cemento si staglia tra le strade fangose. Le insegne dei marchi globali pendono silenziose sul marmo lucido della galleria e i commessi non si ammazzano certo dal lavoro. Sorina ha studiato in Italia, e un giorno vorrebbe tornarci per viverci. «Allora, quando avrò i soldi, mi comprerò un sacco di vestiti italiani». Come molti moldavi della classe media, vuole scrollarsi di dosso quell’alone di miseria che circonda il suo paese, e lo fa con un paio di jeans di marca o una borsetta. Non fa niente se vengono dal mercato.
Chişinău è la vetrina della Moldavia, in tutti i sensi. Qui vedi parcheggiare i grossi Hammer extralusso davanti alle boutique di Gucci e Prada, ma anche la povera gente delle periferie e delle campagne con una busta lisa in una mano mentre cerca di mettere insieme il pranzo con la cena.

In fuga da Mosca

La Moldavia è il paese più povero d’Europa, ma è anche quello tra i paesi del partenariato orientale ad aver fatto i progressi più rapidi per arrivare alla firma dell’«Accordo di associazione» con l’Unione europea. Partita in forte svantaggio rispetto ad altri paesi come l’Ucraina, la Moldavia è riuscita ad arrivare alla fatidica firma lo scorso giugno. Non è certo come essere entrata nell’Ue, obiettivo quanto mai lontano, ma la firma è stata salutata a Chişinău con uno sventolio di bandiere blu, a sottolineare la voglia di Europa dei suoi abitanti. Non è una cosa scontata. La Moldavia è un paese giovane, indipendente dal 1991, fortemente condizionato da un pesante passato di repubblica socialista sovietica e da una cospicua componente etnica russa e ucraina. Durante la travagliata conquista dell’indipendenza, nel momento in cui l’Urss si scioglieva in 15 nuovi stati, la Moldavia perdeva una fetta del proprio territorio – la Transnistria (MC luglio 2014, ndr) – abitata in prevalenza da russi e ucraini, mentre ancora oggi nella meridionale Găgăuzia – regione autonoma abitata dai găgăuzi, una popolazione di origine turca – si fanno sentire spinte secessioniste, accentuate proprio dal recente avvicinamento all’Europa. Ucraini e bessarabi, ebrei e lipovani (ortodossi russi scismatici, ndr), russi e romeni, turchi e tatari, găgăuzi e mongoli hanno calpestato questa terra: la Moldavia è un gilgul (ciclo, groviglio) di anime che vortica nella steppa.
Parte della storica Bessarabia, che condivide con le vicine Romania e Ucraina attorno al delta del Danubio, fu abitata dai Daci sin dall’antichità, prima di entrare sotto il controllo romano e poi dell’Impero bizantino. La Moldavia è sempre stata un crocevia delle rotte verso l’Asia e il suo territorio è stato attraversato dalle ondate dell’espansione delle tribù orientali – mongoli, tatari di Crimea, turchi – per tutto il Medioevo. Conobbe il suo periodo di massima espansione nel XVI secolo sotto il regno di Ştefan cel Mare, Stefano il Grande, l’eroe nazionale a cui sono intitolate strade e piazze in tutto il paese. La Moldavia ha avuto una storia recente travagliata con ripetute unioni e separazioni dalla Romania, cui l’accomunano le tradizioni e la lingua neolatina, fino a divenire una repubblica dell’Urss e infine l’attuale stato indipendente dopo la dissoluzione sovietica. È stato allora che le province a maggioranza russa e ucraina al di là del fiume Nistru hanno dichiarato l’autonomia della Transnistria. Ne è seguito un conflitto tuttora congelato e che ha lasciato la situazione immutata dal 1992.
Con la firma dell’Accordo di associazione, la Moldavia ha compiuto una scelta di campo. Chişinău ha voltato le spalle alla Russia e alla sua Unione economica eurasiatica, chiudendo definitivamente il capitolo del proprio passato sovietico, e ha intrapreso un lungo percorso di avvicinamento economico e politico all’Europa. L’entusiasmo con cui la Moldavia ha compiuto questo passo è stato testimoniato dalla stupefacente rapidità con cui il parlamento ha ratificato l’accordo: soltanto tre giorni. Gli effetti si possono già vedere. I cittadini moldavi possono finalmente viaggiare all’interno dell’area Schengen senza bisogno di alcun visto (per massimo 90 giorni e non per motivi di lavoro, ndr). È un risultato importante per chi ha un parente che lavora in Europa, vale a dire per almeno un terzo dei moldavi, ma anche una grande prova del soft power europeo sui paesi del Partenariato orientale.

Emigrazione e rimesse

Il sabato sera a Chişinău c’è lo struscio. Il bulvardul è affollato di giovani che ciondolano tra il McDonald’s e il parco della cattedrale. Sull’immensa piazza Marii Adunări Naţionale l’enorme palazzo del Governo è un transatlantico bianco che solca un mare d’asfalto. Nei tempi sovietici era usata per le magniloquenti parate militari. Oggi ci pensano i ragazzi in skateboard a renderla più vivace e colorata. Cezar beve da una bottiglia di birra vicino a un chiosco e aspetta che si faccia l’ora di andare in discoteca. Si presenta come Cesare, in italiano. Ha vissuto alcuni anni in provincia di Verona, dove c’è una grossa comunità moldava. «Sono dovuto venire via perché non c’era più lavoro. Qui, però, è ancora peggio. La gente scappa, il lavoro è poco e pagato una miseria. Forse tornerò in Italia» (dove i moldavi sono 150 mila, ndr). Si calcola che quasi due milioni di moldavi abbiano lasciato il paese in cerca di un vita migliore. Su una popolazione residente di quasi quattro milioni di abitanti significa che un terzo dei moldavi vive all’estero. È una percentuale enorme, che lecitamente fa parlare di tragedia dell’emigrazione, un’emorragia che prosciuga il paese delle sue risorse migliori. D’altro canto però, le rimesse dei migranti sono la prima fonte di ricchezza nazionale, contando per circa il 40% del Pil.
Anche se Chişinău non è una città facile, è il posto migliore del paese per chi ha le carte giuste da giocare. Nella vicina boulange Crème de la crème non c’è da sgomitare per trovare un tavolo libero, ma non si può dire che manchino i clienti. C’è una sorta di selezione naturale, ed è la colonna di destra del menù a farla. Il tipo che gli si adatta parcheggia il Suv sul marciapiede proprio davanti all’entrata, indossa vestiti italiani e ha una serie completa di gadget elettronici con una mela luminosa sul dorso. Il locale non poteva avere un nome più appropriato.
Al calare del sole, ragazze su tacchi vertiginosi scendono lungo il viale come trampolieri aggraziati, mentre una limousine lunga e bianca come un panfilo passa con una musica tanto alto che i bassi fanno tremare i vetri. Cesare guarda di sottecchi e tira un altro sorso di birra. «Ai moldavi piace apparire. Siamo un po’ tutti squattrinati, ma se guardi quelle ragazze sono tutte firmate dalla testa ai piedi. Qui a Chişinău sembra che la gente se la passi bene, ma basta andare fuori città per rendersi conto di com’è messa la Moldavia». La distanza tra la capitale e il resto del paese è siderale. La vita notturna di Chişinău può competere con quella di qualsiasi capitale europea, ma la vita della maggior parte dei moldavi è ben lontana dai fumi e dai laser delle piste da ballo.

Ortodossi contro ebrei

Il sabato non è solo il giorno dello struscio e delle discoteche. Nella sinagoga di strada Habad Liubavici ci si prepara a festeggiare la fine dello Shabbat. Agli inizi del Novecento si contavano una settantina di sinagoghe e una dozzina di scuole ebraiche. Ed erano sempre piene. All’incirca metà degli abitanti di Chişinău erano ebrei, il calendario delle festività ebraiche cadenzava la vita della città e l’yiddish era la seconda lingua dopo il rumeno. Non poteva durare. L’onda d’urto dell’antisemitismo moderno stava accumulando la sua tensione in tutta la Russia zarista, alimentata dalla pubblicazione dei falsi «Protocolli dei savi di Sion» (in cui si parlava di una cospirazione ebraica, ndr). Lo tsunami d’odio si abbatté, con una veemenza mai vista prima, su Chişinău nel 1903, con il primo grande pogrom del Novecento, e poi di nuovo nel 1905. La macchina del male assoluto s’era messa in moto, e non si sarebbe più fermata. È qui che ha avuto inizio il secolo della Shoah.
Rabbi Avrhom è un omone largo e robusto come una credenza in noce. Indossa un pesante pastrano nero di foggia ottocentesca e lo shtreimel, il tradizionale colbacco degli ebrei ashkenaziti. Sembra che porti un pastore tedesco acciambellato sulla testa. «La vita qui non è facile per nessuno, nemmeno per noi. La gente deve trovare il modo di vivere, alla giornata. La povertà a volte è un terreno fertile per l’intolleranza». Qualche anno fa l’amministrazione cittadina aveva acconsentito a erigere un grosso hanukkiah – un candelabro (menorah) a nove braccia usato nei riti Chabad – in pieno centro città. Ma per i fedeli ortodossi si trattò di un affronto alla Moldavia cristiana. Un corteo sfilò per le vie del centro cantando inni sacri e sventolavano striscioni che inneggiavano a Cristo. Il prete che lo guidava tirò giù l’hanukkiah a colpi di martello e al suo posto piantò una croce. I pezzi furono poi posati ai piedi della vicina statua di Stefano il Grande che, disse il prete, aveva «difeso la patria da tutti i tipi di giudei». Il fatto è che la coesistenza di religioni diverse è ancora oggi tutt’altro che scontata. E, benché le autorità si siano affrettate a rimettere a posto l’hanukkiah, gli episodi di antisemitismo non si contano e non passa giorno che dalla facciata della sinagoga si debbano cancellare svastiche e simboli delle SS.

La vita fuori da Chişinău

La R1 è disseminata di buche. Eppure è una delle strade principali che portano dalla capitale al confine con la Romania. Uscire da Chişinău e dai suoi grandi viali ortogonali è come fare un salto in un’Europa che non c’è più. Un’Europa rurale di carri trainati dai cavalli e contadini a piedi con la vanga in spalla, e dove i covoni di paglia non sono ancora stati sostituiti dalle rotoballe. Vasile è seduto coi piedi ben puntati al pavimento e si regge alla maniglia del furgoncino stipato di persone. Su queste strade si balla. Suo fratello è in Italia, fa il badante. «Adesso che si può, voglio andare anche io a Milano per dargli una mano, e magari trovare anch’io qualcuno che ha bisogno di me». Intanto oggi va in pellegrinaggio al monastero di Căpriana per chiedere una grazia per la sua anziana madre. Non ci si pensa mai abbastanza, ma ogni badante che viene ad accudire i nostri vecchi lascia qualcuno qui di cui nessuno si prende cura. Per Vasile e suo fratello è una mamma malata.
Il monastero è a un’ora da Chişinău. È un luogo sacro dal XV secolo, ma oggi è anche la meta preferita per le gite domenicali degli abitanti della capitale. Qui le giovani coppie amano venire a sposarsi nella bella stagione. Le funzioni sono finite da poco, silenzio e penombra riempiono di nuovo la navata. Vasile accende un cero, il volto della Madonna si dipana alla luce tremula. «Bisognerà che prima o poi qualcuno si prenda cura di questa nostra terra, magari saranno i nostri figli che torneranno ad abitarla», dice lasciando cadere qualche leu nella cassetta delle offerte. Il rumore risveglia per un attimo un monaco che sembrava addormentato in un angolo. Emergere nel sole accecante è come venire alla luce una seconda volta. Le spose frusciano leggere sulle scale, gli sposi si muovono impacciati negli abiti nuovi di zecca e le mamme piangono a dirotto. Insieme a loro tutto il paese guarda al futuro con occhi di speranza.

Danilo Elia

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Roraima 1: Foreste, Savane e Popoli indigeni

Terra amazzonica di foreste e savane, Roraima è lo stato brasiliano con la maggiore percentuale di popolazione indigena. I cui diritti sono stati conquistati con una lotta quasi sempre cruenta (e tuttora non conclusa). A Boa Vista, capitale di Roraima, abbiamo visitato la Casa de Saúde Indigena (Casai), scoprendo che i «mondi indigeni» resistono nelle proprie diversità.

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Tag: Roraima, Yanomami

Paolo Moiola




Ancora e sempre Taliban

Tante ombre sul dopo Karzai.
Le lunghissime elezioni presidenziali hanno evidenziato (ancora una volta) la divisione etnica del paese. Davanti al costoso fallimento dell’intervento occidentale e all’espansione dei campi di oppio, in Afghanistan a vincere sono sempre i Taliban, sebbene anch’essi divisi in vecchi e nuovi gruppi.

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Piergiorgio Pescali