Laudato si’, per nostra madre terra

La nuova enciclica di
papa Francesco mette in relazione degrado ambientale e umano. Bacchetta i
politici incapaci a trovare risposte. E sprona la società civile nella sua
opera di monitoraggio e pressione. Un documento da leggere e mettere in
pratica.

C’è stato
un tempo in cui i movimenti per la difesa dell’ambiente e quelli per lo
sviluppo del «Terzo mondo» si guardavano con reciproca diffidenza: i primi allarmati
dall’impatto sul pianeta che avrebbe avuto l’eventuale crescita economica della
parte povera del mondo, i secondi insospettiti dall’eco che la questione
ambientale stava avendo sui media mondiali che invece rimanevano indifferenti
alla sorte di metà dell’umanità.

Poi è arrivato il Summit della Terra nel 1992 a Rio de
Janeiro, nel quale gli esperti, tanto capaci quanto disconosciuti, delle
Nazioni Unite, ci hanno fatto comprendere che la questione della povertà e
quella dell’ambiente sono inscindibili, che non si può affrontare l’una senza
tener conto dell’altra e che qualsiasi soluzione parziale è destinata al
fallimento.

Quello di Rio è stato un evento senza precedenti: vi
parteciparono 172 governi e 108 capi di stato, 2.400 rappresentanti di organizzazioni
non governative.

Anche in
termini di scelte politiche, il summit del ‘92 è stato un evento straordinario
che ha prodotto accordi come la Convenzione internazionale sulla Biodiversità,
l’Agenda 21 – una sorta di manuale sullo sviluppo sostenibile declinata a
livello territoriale dai governi locali -, la Convenzione sul cambiamento
climatico da cui è scaturito il Protocollo di Kyoto cinque anni dopo.

Ma, soprattutto, al vertice di Rio è stato messo in
discussione da tutti, rappresentanti politici e della società civile, il
modello di crescita economica senza limiti, basato sull’uso forsennato di
combustibili fossili, sull’industrializzazione a tappe forzate, sulla
produzione infinita di scorie e scarti.

Da
allora si sono fatti piccoli passi avanti nel passaggio alle energie
rinnovabili, nel riciclo e riuso dei rifiuti, nella decontaminazione delle
acque e dei terreni, ma ancora oggi si è troppo lontani da quel progetto di
nuovo modello di sviluppo che il summit della terra aveva delineato.

Purtroppo, con l’avvento della globalizzazione
economica, le relazioni tra paesi sono orientate esclusivamente agli interessi
commerciali, l’azione dei governi si è indebolita, perché la sottomissione
della politica alla finanza ha svuotato i luoghi del governo mondiale.

I vertici e le conferenze sull’ambiente che si sono
celebrati dopo Rio non hanno avuto lo stesso respiro planetario e non si sono
conclusi con agende altrettanto ambiziose.
Eppure i problemi ambientali sussistono, pressanti e drammatici, investono ogni
parte del mondo, basti pensare al cambiamento climatico, e si sommano
drammaticamente all’emergenza sociale che colpisce sia il Sud che il Nord del
mondo. «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non
potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo
attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale»
afferma papa Francesco nella sua Enciclica «Laudato si’». I politici sono
incapaci di trovare una risposta globale perché miopi e senza coraggio o,
peggio, perché si fanno condizionare dal potere economico, denuncia il
pontefice.

Per
questo «è lodevole l’impegno di organismi inteazionali e di organizzazioni
della società civile che sensibilizzano le popolazioni e cornoperano in modo
critico, anche utilizzando legittimi meccanismi di pressione, affinché ogni
governo adempia il proprio e non delegabile dovere di preservare l’ambiente e
le risorse naturali, senza vendersi a ambigui interessi locali o inteazionali».

Allora tocca a noi cittadini, prendere coscienza,
organizzarsi, fare pressione, tenendo sempre assieme la questione sociale:
giustizia, lavoro, difesa dei più deboli, accoglienza dei rifugiati, con la
difesa dell’ambiente.

Perché dobbiamo ascoltare «tanto il grido della terra
quanto il grido dei poveri». L’enciclica papale, lucida e profonda tocca tutti
i nodi irrisolti del nostro tempo, indica le soluzioni, ispira con la fede,
sprona chi governa, ammonisce chi comanda l’economia, conforta chi si impegna.

Un documento che non deve giacere nelle sacrestie, ma va
conosciuto e assimilato in ogni passaggio, per guidare le nostre scelte e le
nostre azioni.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Sufismo sprigionato

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 31

Il sufismo,
dall’Africa sub sahariana all’Estremo Oriente, dall’Europa al Maghreb,
rappresenta la via mistica dell’Islam. Affonda le sue radici nelle origini
della fede musulmana, e attraversa i secoli fino a oggi, con i grandi maestri e
i moltissimi membri dei suoi ordini. Bandito dalla Turchia laica di Ataturk nel
1925, oggi assume nuove forme continuando a nutrire la spiritualità dell’intero
paese.

Il sufismo (tasavvuf) viene
considerato, comunemente, l’ambito mistico della religione islamica. Questo è
parzialmente vero, nel senso che alcuni sufi sono stati o sono dei mistici,
altri semplicemente dei sufi. Se la mistica, infatti, è in un certo senso
l’unione con Dio o, meglio ancora, l’esperienza immediata e diretta della
divinità, allora il sufismo è mistica nel suo obiettivo più elevato.

Un abito di lana grezza

Il termine «sufismo» proviene da una
radice, molto probabilmente siriaca (sûf), che designa un abito di lana
grezza, un po’ come quello di San Francesco. Questo termine passa col tempo a
indicare il povero alla ricerca della saggezza divina. Anche i due termini più
affini indicano lo stesso significato: «derviscio» e «fâqir» (il nostro
fachiro). Al di là dell’aspetto puramente terminologico, quel che è importante
sottolineare riguardo al sufismo è il suo fine ultimo, rappresentato dal
desiderio del sufi di mondare la propria interiorità – specialmente la volontà
che si oppone a Dio – fino ad arrivare allo stadio di completa purificazione in
Dio, di «annientamento» nella divinità (fanâ‘). Come ricorda uno dei
primi sufi, Junayd (morto nel 911): «Il sufismo è che Dio ti faccia morire a te
stesso e ti faccia vivere in Lui». L’aspirazione più intensa del sufi è
raggiungere la libertà più vera. Il sufismo è quindi una via di liberazione
interiore verso l’oceano della divinità, dell’unità divina.

Il sufi non mette in questione
minimamente la professione di fede musulmana, «non c’è alcun Dio all’infuori di
Dio» (lâ ilâha illâ Allah), ma anzi la mette in pratica a tal punto che
non esiste null’altro che l’Essere divino, nel quale si perde come una goccia
nel mare. Si potrebbe allora dire che il sufismo propone una via di
purificazione e di liberazione interiore che conduce lo spirito a uscire dalla
prigione del corpo.

Ansârî (morto nel 1088), altro grande
mistico del sufismo, afferma infatti che senza essere pervenuti a questa
liberazione, si è come in una prigione: «O Dio! Nessun’altra gioia se non nella
Conoscenza tua, nessuna gioia se non nella Manifestazione tua! Colui che vive
senza di Te è come un cadavere in prigione, la vita senza Te è la morte stessa!
Colui che vive in te è eterno». Una liberazione che è tutta interiore, mistica,
e conduce a concentrare tutte le forze nel Dio Uno e Unico.

Seguire un maestro per «annientarsi»
in Dio

Il sufismo è tuttavia un fenomeno
religioso storicamente e socialmente più vasto del solo ambito mistico. Dal XII
secolo a oggi, tutto il mondo musulmano ha visto il fiorire di gruppi di sufi
che si riuniscono intorno a un maestro fondatore di una confrateita (tarikat:
vie). Due sono i principi del sufismo così come esso viene vissuto nelle
confrateite: l’obbedienza cieca al maestro sufi e la pratica della
ripetizione del nome di Dio (zikr). Riguardo all’obbedienza, si potrebbe
pensare che essa sia un principio contrario a una vera liberazione o libertà
interiore, invece, secondo la dottrina sufi, il discepolo si dona interamente
nelle mani del maestro proprio per essere condotto su una via di libertà e di «annientamento»
in Dio. Sia la pratica di affidarsi completamente alla guida di un maestro che
l’aspirazione all’annientamento in Dio solleva dei sospetti nell’Islam più «ufficiale»,
ed è una delle ragioni per cui il sufismo è stato, ed è, perseguito dalle
correnti più rigoriste dell’Islam. Anche se lungo la storia, il sufismo ha
incontrato delle opposizioni, non bisogna cedere alla tentazione di pensare che
esso non faccia parte dell’Islam. Anzi, ne fa parte appieno e in certi casi
esso è addirittura più espressivo del messaggio coranico di altre forme
ritenute più canoniche.

Il sufismo e le confrateite sufi si
diffondono in tutto il mondo musulmano, in tutte le regioni in cui c’è una
presenza islamica. Questo è segno che esso ha una sua potenzialità di libertà
rispetto alle forme più conosciute di Islam, come il wahhabismo e il salafismo,
e infine i gruppi estremi. Il sufismo come interpretazione dell’Islam
indipendente dalla versione «ufficiale», ne fa un movimento estremamente
interessante proprio per comprendere l’evoluzione della religione del Profeta.

Tra Impero ottomano e
Repubblica turca

La storia del sufismo si può grosso
modo suddividere in due fasi: quella dei carismatici sufi della prima ora
(VIII-XII secolo) e quella della seconda ondata legata alle confrateite
(XII-XXI secolo). Nell’arco di questa storia
si può dire che l’Impero ottomano dal XVI secolo in poi, e la Repubblica
di Turchia dall’inizio del XX secolo, costituiscono degli esempi interessanti
di paesi in cui il sufismo si è sviluppato in maniera estremamente capillare.
Durante l’epoca ottomana, il sufismo, attraverso le numerose confrateite
musulmane, era particolarmente vivace. Le tarikat, o vie mistiche di
realizzazione del credente musulmano, avevano diverse provenienze e tendenze.
Alcune di queste erano diffuse in molte regioni del mondo musulmano oltre che
sul territorio ottomano. Altre erano invece tipicamente ottomane perché diffuse
soprattutto nel territorio governato dal Sultano (ad esempio la Mevlevîyye).
Con l’avvento della Repubblica turca (1923), tutti questi gruppi dovettero
subire una grave battuta d’arresto. Nel 1925, infatti, la Grande Assemblea
della giovane Repubblica decretò la chiusura di tutte le confrateite e la
cessazione di tutte quelle pratiche spirituali che potevano imparentarsi con il
sufismo. Nei primi decenni della storia repubblicana, quindi, il sufismo, i
dervisci e la vitalità spirituale delle tarikat vennero espulsi
dall’ambito pubblico e dalla vita sociale e confinati alla vita privata.
Permaneva invece lo spirito sufi che impregnava tutti coloro che erano, prima
della proibizione, legati a una spiritualità o a un cammino iniziatico. A
partire dagli anni ’50 del XX secolo, cioè quando alcune leggi del governo
favorirono la visibilità sociale dell’Islam, anche il sufismo, attraverso le tarikat,
riprese a vivere, anche se sotto un aspetto più culturale e folcloristico. È il
caso tipico dei dervisci danzanti (i Mevlevîs): le antiche confrateite
che avevano subito profonde trasformazioni, potevano, grazie alla formazione
d’associazioni culturali in Turchia, garantire la trasmissione del loro
patrimonio spirituale, ma i nuovi gruppi che s’ispirano al sufismo hanno creato
nuove forme di vita, meno strutturate delle più antiche confrateite.

Le confrateite cambiano
forma

La loro designazione, quella di cemaat
(comunità), indica l’idea di un consorzio più ampio che s’ispira e che
obbedisce al carisma di un maestro e del suo insegnamento. Quello che era
tipico della tarikat, il patto d’obbedienza a un vero maestro spirituale
(shaykh), viene sostituito da una fedeltà che si realizza anche solo
attraverso la lettura dei suoi scritti e un legame interiore alla sua figura.
Le pratiche fondamentali nelle organizzazioni tradizionali, il rito della
ripetizione del nome di Dio (zikr) e la danza sacra (semâ‘), sono
sostituite da altre formule più comunitarie di espressione, come la diffusione
stessa del pensiero del maestro. Il gruppo che oggi è certamente più conosciuto
in Turchia è quello che si richiama alla figura di Fethüllah Gülen (nato nel
1941) che, grazie alla fedeltà di tanti simpatizzanti, ha potuto costituire una
vera e propria comunità spirituale, diffusa sia in Turchia che all’esterno del
paese. Altre organizzazioni, anche di donne, s’ispirano all’antica struttura
delle confrateite sufi che avevano influenzato la religiosità dell’Impero
ottomano. Si potrebbe dire ancora che, come nell’ambito della vita religiosa
cristiana il modello del monaco rimane essenziale, così per il sufismo turco,
il modello della tarikat permane fondamentale.

Nel tessuto del popolo turco

Al di là delle caratteristiche
specifiche dei singoli gruppi, quello che è degno di nota è la grande impronta
che lo spirito del sufismo ha impresso nella religiosità turca. Jelâl ed-Dîn Rûmî
(m. 1273), Yûnus Emre (m. 1320) sono due delle figure del misticismo più
autentico dell’Islam, e i loro scritti, così come il loro pensiero, sono
penetrati nel tessuto del popolo turco. È questa mistica, profonda e anche
tollerante, che ha segnato il carattere spirituale dei Turchi, un aspetto del
sufismo in Turchia ancora poco studiato, che è probabilmente un’eredità della
storia ottomana e una peculiarità dell’Islam in questo paese.

Si potrebbe analizzare in modo
sintetico il sufismo turco tenendo conto di tre elementi che lo caratterizzano.
Il primo elemento è certamente costituito dal pensiero e dagli scritti dei
grandi sufi. Il secondo elemento è rappresentato dal patrimonio che la
tradizione delle confrateite sufi ha consegnato alla storia presente della
Turchia. Infine, il terzo elemento è una certa libertà, tipicamente turca,
nella creazione di nuove modalità e di nuove formule di esistenza spirituale.
Grazie a questi elementi, la Turchia, paese laico, sperimenta una vera
religiosità e una spiritualità profonda.

Una presenza tutt’altro che
marginale


Oggi, tanto in Turchia quanto in
numerosissimi altri paesi a maggioranza musulmana, le confrateite sufi sono
una presenza tutt’altro che marginale. Sono, in certi casi, capaci di cambiare
le sorti di un paese o di orientare tanto la religiosità quanto addirittura la
compagine politica. Nella Turchia repubblicana, questo è evidente nell’azione
delle confrateite più tradizionali e dei nuovi movimenti, le comunità.

Questi caratteri del sufismo, seppur
tratteggiati rapidamente, conducono a una riflessione più ampia sul suo ruolo
all’interno dell’evoluzione del mondo musulmano. Infatti, sia nella storia
primordiale di questo movimento ascetico e spirituale, che nel prosieguo, i
sufi hanno affermato una capacità di resistenza e di affermazione della propria
spiritualità e interiorità a costo di condanne e persecuzioni.

Espressione fedele
dell’Islam

Ancora una volta bisogna affermare
che il sufismo è un elemento interno alla religione del Profeta e che non si
discosta in nulla, nelle sue parti fondamentali, da essa. Il sufismo è semmai
un’interpretazione più interioristica e, certe volte, iniziatica. È forse
questo aspetto che fa sprigionare il sufismo nella sua capacità di formare le
persone alla dipendenza assoluta da Dio – la «classica sottomissione» di cui
parla l’Islam – ma in termini di liberazione interiore. Pur rimanendo legato al
Dio uno e unico dell’Islam, il sufi cerca di sperimentare una purificazione e
una libertà intima. A questo aspetto più spirituale fa seguito anche una certa
passione per la libertà fondata proprio sul desiderio di esprimersi liberamente
nelle confrateite sufi. La libertà interiore a cui aspira il sufi si riflette
quindi anche nel suo desiderio di libertà a livello sociale, soprattutto in
società segnate da un certo contenimento dello spazio individuale.

Alberto Fabio Ambrosio
Fine prima puntata

Sufismo tra rifiuto e
accettazione

Secondo l’Inteational
Religious Freedom 2013
del dipartimento di stato degli Usa, i sufi hanno
subito negli ultimi anni discriminazioni e abusi in diversi paesi nel mondo: in
Somalia Al-Shabaab ha distrutto luoghi di culto e tombe di chierici e religiosi
sufi, ha ucciso civili e funzionari di governo di orientamento sufi tramite
assassinii mirati denunciandoli come non-musulmani o apostati; gruppi salafiti
hanno vandalizzato e distrutto siti sufi in Libia, oltre ad aver rivendicato
l’uccisione di un religioso sufi; salafiti hanno attaccato decine di santuari
sufi anche in Tunisia; attacchi sono stati registrati contro i sufi in
Pakistan, Iran, Iraq, Siria.

Nel rapporto The
World’s Muslims: Unity and Diversity
, pubblicato nel 2012, il Pew Centre
(autorevole organizzazione con base negli Usa) dedica una certa attenzione al
sufismo mostrando come esso e le sue pratiche vengano percepiti nelle diverse
regioni del mondo musulmano: «In Asia meridionale i sufi vengono ampiamente
considerati come musulmani (dal 77% della popolazione, ndr), mentre in
altre regioni tendono a non essere molto conosciuti, oppure a non essere
accettati come parte della tradizione islamica (vengono considerati musulmani
da circa il 50% in Medio Oriente, dal 32% in Russia e nei Balcani, dal 24% nel
Sud Est asiatico e dal 18% nell’Asia centrale, ndr). Opinioni divergenti
ci sono anche per quanto riguarda certe pratiche tradizionalmente associate a
particolari ordini sufi. Ad esempio, recitare poesie o cantare in lode di Dio
sono pratiche generalmente accettate nella maggior parte dei paesi musulmani,
ma la Turchia è l’unico paese in cui la maggioranza dei musulmani accolgono la
danza devozionale come una forma accettabile di culto, probabilmente a causa
dell’importanza storica in quel paese dell’ordine Mevlevi o dei “dervisci
rotanti”».

Alcuni dati particolarmente interessanti riguardano il
continente africano, per il quale il Pew Centre scrive: «L’identificazione con
il sufismo è più alto in Africa sub sahariana. In 11 dei 15 paesi esaminati
nella regione, un quarto o più dei musulmani affermano di appartenere a un
ordine sufi. Significativo il caso del Senegal nel quale il 92% degli
intervistati dice di appartenere a una confrateita sufi. L’ordine Tijaniyya è
il più comune in tutta la regione, con almeno un musulmano su dieci: Senegal
(51%), Ciad (35%), Niger (34%), Camerun (31%), Ghana (27%), Liberia (25%),
Guinea Bissau (20%), Nigeria (19%), Uganda (12%) e Repubblica Democratica del
Congo (10%). Il secondo movimento più diffuso è la confrateita Qadiriyya, che
è seguito dall’11% dei musulmani in Ciad, dal 9% in Nigeria e dall’8% in
Tanzania. Inoltre, l’ordine Muridiyya è prevalente in Senegal (34%), ma non
dispone di un ampio seguito tra i musulmani negli altri paesi esaminati».

L’affiliazione
ai vari ordini sufi è percentualmente meno rilevante nel resto del mondo
musulmano. Tra i paesi presi in considerazione dall’indagine del Pew Centre,
gli unici con una proporzione di aderenti a qualche confrateita sufi più
ampia del 10% sulle rispettive popolazioni di fede islamica sono: Bangladesh
(26%), Russia (19%), Tagikistan (18%), Pakistan (17%), Malesia (17%), Albania
(13%) e Uzbekistan (11%). Parecchi ordini sono importanti in singoli paesi, come
la Naqshbandiyya in Tagikistan (16% di tutti i musulmani), Chistiyya in
Bangladesh (12%) e Bektashiyya in Albania (12%).

Luca
Lorusso

Danza coi sufi

Il libro di Alberto Fabio Ambrosio, Danza
coi sufi. Incontro con l’Islam mistico
, (San Paolo, Milano 2013, pp. 165, € 9,90) è il racconto di un incontro personale, quello dell’autore
domenicano – uno dei maggiori studiosi cristiani dell’Islam mistico – con il
sufismo: appassionato già di mistica cristiana, scopre che anche la religione
del Profeta ha una sua ricca storia di misticismo. Ma è soprattutto il racconto
dell’evoluzione di questa particolare via della spiritualità islamica,
concentrato in particolar modo sui primi secoli, le prime figure di grandi
mistici, i primi ordini sufi: a partire da Maometto (m. 632), considerato «il
prototipo dei Sufi», passando per Hasan al-Basri (m. 728), Rabi’a al-’Adawiyya
(m. 801), Harith al-Muhasibi (m. 857), fino ai grandi maestri del XIII secolo,
Ibn ‘Arabi (m. 1240) e Mawlana Rumi (m. 1273), quest’ultimo fondatore dell’ordine
dei Mevlevi, più conosciuti come Dervisci danzanti.

«Il sufismo, potremmo dire, è il lato simpatico di un
Islam che rischia sempre di fare paura. I mistici non fanno paura a nessuno,
forse a torto, perché sono i più rivoluzionari di tutti; coloro che cercano di
togliersi l’armatura delle sicurezze umane e di tuffarsi nel mare della divinità».

Il domenicano
Ambrosio non manca di esprimere più volte, nel corso degli otto capitoli, i
dubbi che negli anni gli sono sorti, o gli sono stati posti da altri, circa la
liceità, o anche solo l’utilità, di spendere la sua vita di sacerdote cristiano
nello studio del misticismo musulmano. La risposta a tali dubbi viene da sé,
viene dalla lettura di questo e altri testi che sono nutrimento per il dialogo
interreligioso, e viene anche dai molti legami, le molte analogie, che lo
studioso mette in luce tra il misticismo sufi e il Vangelo: «Quando noto come
la spiritualità cristiana si possa alleare a quella musulmana, mi sembra di
essere più completo, di essere più forte. Forse è per questo che studio,
osservo, contemplo e talvolta mi nutro della spiritualità dei miei amici (sufi,
ndr), in uno spirito di solidarietà e di comunione naturale. […] Il
Cristo per me segna la rotta; ma tutto (e dico proprio tutto) può diventare
barca, remo, vento… soffio dello spirito che mi sospinge verso Lui, perché so
che in ultima analisi, è Lui che mi cerca».

Luca Lorusso
Piccolo glossario

• Misticismo: esperienza immediata di Dio o della divinità.
Molte religioni comportano una parte di misticismo, tra cui l’Ebraismo, il
Cristianesimo e l’Islam.

• Ordine
(confrateita) sufi:
un ordine sufi nasce
da un sufi carismatico che può avvalersi dell’insegnamento di un altro maestro
accreditato. In ogni ordine sufi ci sono dei «conventi», a capo dei quali si
trova un maestro. Attoo al maestro si riuniscono dei discepoli. Un ordine
sufi non ha però una struttura giuridica né spirituale come gli ordini
religiosi cattolici. I sufi non vivono in comunità, ma si ritrovano con
regolarità attorno al proprio maestro, non fanno voto di castità ma vivono nel
mondo, con una professione, e insieme a una famiglia. Rari sono i sufi che non
si sposano.

• Wahhabismo: il movimento di ritorno alle origini
musulmane iniziato con Ibn ‘ad Al-Wahhab nell’Arabia del XVIII secolo. Questa
corrente di interpretazione è diventata il credo ufficiale dell’Arabia Saudita,
e da questo paese si è diffuso nel resto del mondo musulmano (vedi MC
1-2/2015, p.38)
.

• Salafismo: indica di fatto lo stesso movimento
iniziato da Al-Wahhab ma, mentre con wahhabismo ci si riferisce soprattutto al
movimento storico, con salafismo si indica la dottrina e la pratica di ritorno
alle origini. Il salafismo ha conosciuto numerose «riforme» che tentano sempre
di propugnare la purezza iniziale dell’Islam, eventualmente anche con l’uso
della forza, com’è il caso del salafismo jihadista.

• Danza sacra: con questo termine si intende in generale
ogni danza o movimento danzante che tende al raggiungimento di una certa
esperienza spirituale o mistica. Nel caso del sufismo, la danza sacra per
eccellenza è quella dei dervisci danzanti che permette il raggiungimento
dell’esperienza dell’unità divina.

• Shaykh e dhikr: termini riferiti ai due principi del
sufismo, soprattutto di quello che storicamente si incarna negli ordini sufi.
L’obbedienza al maestro (shaykh) il quale è rappresentante del Profeta e, in
ultima analisi, di Allah, e il rituale della ripetizione dei nomi di Dio, lo
dhikr.

• Religione
iniziatica:
è quella in cui per
diventae membro è richiesto un rito «segreto», di accoglienza o di
iniziazione appunto, in cui il candidato, passando delle prove, viene accettato
dagli altri adepti. Anche il cristianesimo, in un certo senso, comporta
l’iniziazione (il battesimo) con la differenza che il rito non è nascosto ma
pubblico.

 

Sufismo: breve
cronologia

• VII-XII secolo: epoca dei «grandi maestri spirituali», tra
cui Bistâmî, Junayd, Rabi’a.

• 922: morte di al-Hallaj. La sintesi della sua
dottrina si può riassumere così: «Se Dio è tutto e io sono nulla, io sono anche
Dio, poiché tutto è nulla e solo Dio è». Il sufismo diventa «ufficialmente»
sospetto.

• XI secolo: Glâzâlî (m. 1111) scrive la Revivificazione
delle scienze religiose, una sorta di Summa theologica islamica in cui viene
ufficialmente trattato il sufismo.

• 1240: morte di Ibn ‘Arabî, filosofo mistico
dell’Islam.

• 1273: morte di Rûmî, uno dei più grandi mistici e
poeti dell’Islam.

• XII-XXI secolo: il sufismo si realizza negli Ordini sufi.

• Dal XVIII secolo: i sufi subiscono la persecuzione dei
wahhabiti in Arabia Saudita e, in seguito, in altre regioni.

• 1925: il sufismo e gli ordini sufi sono banditi
dalla Repubblica di Turchia.

A.F.A.

Alberto Fabio Ambrosio




«Ci sono solo viaggi di andata»

Diario di un giovane da Isiro / 4

Anche prendersi la malaria
fa parte dell’esperienza di missione, così come veder morire chi non si può
curare, oppure contemplare la luna che sorride nella notte. Ecco le ultime
pagine del racconto di Tommaso della sua avventura «dell’essere, piuttosto che
del fare», in Congo RD. Dopo nove mesi di Africa che lo «hanno cambiato», è
tornato in Italia a inizio giugno.

17 Aprile 2015

«Neisu»
in lingua locale significa «cuore». In effetti, starci significa proprio vivere
nel cuore della foresta, e della vita della gente.

Durante
la settimana trascorsa a Neisu mi sono dato all’esplorazione, visitando i
diversi quartieri e soprattutto fermandomi a conoscere la gente.

Una
bambina di 7 anni si è presentata alla missione per chiedere aiuto per sé e per
i suoi fratellini: i loro genitori sono partiti da più di un anno, dicendo che
sarebbero andati a una matanga (funerale), e li hanno lasciati a una
nonna malata che non può sostenerli. La cosa che fa più tenerezza, e pena, è
l’attesa di quei bimbi che ancora sperano nel ritorno dei genitori. Comunque
abbiamo contattato il capo del villaggio in modo che risolvesse la situazione e
trovasse qualcuno a cui affidarli.

È la
stagione dei manghi: alberoni enormi gonfi di frutti. In missione ce ne sono
troppi, ne mangiamo due per pasto, e ancora sovrabbondano. Credo che presto mi
metterò a fae la marmellata. Per restare in tema di frutta, ho riscoperto
l’avocado: se si prende la sua polpa e si mischia con miele o zucchero sembra
mascarpone. E se aggiungi un po’ di caffè ti ritrovi il tiramisù. Forse
incomincio a essere in astinenza da cibo italiano.

Ho
assistito al giorno del grande mercato: una distesa dei più vari prodotti,
alimentari e non. Ho visto pure qualcuno che girava con un intero macaco morto
per venderlo. Sono stato molto criticato perché facevo foto o video. Il
problema è che la gente pensa che noi «bianchi» facciamo foto per andare in
Europa a dire che loro sono poveri per farci dare soldi. Questa cosa mi ha
fatto riflettere. Effettivamente è vero: queste foto, per noi, mostrano la
povertà, ma per la gente di questo villaggio è sbagliato e forse addirittura
offensivo chiamare «povertà» la loro quotidianità.

25 Aprile 2015

Come
dicono alcuni, «non hai vissuto veramente l’Africa se non hai preso la malaria».
Beh, ecco: ho ricevuto il battesimo dell’Africa. Tornato da Neisu, dopo un paio
di giorni, mi è salita una febbre da cavallo. La malaria è una malattia un po’
antipatica perché in certi momenti ti senti come in una sauna, in altri tremi
dal freddo. Comunque sono andato all’ospedale per fare gli esami del sangue: la
mattina ero in fase «tremo come una foglia», quindi immaginate la scena comica
per tenermi fermo e prelevare il sangue, poi sono entrato in fase «vulcano»
mentre mi visitava la dottoressa. Per far scendere la febbre mi hanno fatto
un’iniezione, e io sono svenuto come una pera. A quel punto ho iniziato simpaticissime
perfusioni di chinino: quattro ore per volta, per due volte al giorno, per due
giorni. Consiglio vivamente la perfusione nella fascia oraria tra mezza notte e
le quattro. Ad ogni modo, tra la dose di chinino e la valanga di farmaci presa,
ora sto bene.

Ho
capito cosa provano i locali martoriati dalla malaria più volte l’anno.  Immaginate chi ha a malapena i soldi per i
farmaci, o chi è solo. Moltissime persone, soprattutto bambini, di malaria
muoiono. Penso che le migliaia di persone che ancora oggi, nel 2015, muoiono
per malattie curabili (diarrea, malaria, febbre tifoide, ecc.) rappresentino
uno scandalo enorme e un’ingiustizia. Eppure tutto tace, nessuno fa nulla, e la
gente muore. È incredibile l’assenza dell’Africa nei nostri telegiornali. C’è un
disperato bisogno di pace. Come dice madre Teresa: «Se oggi non abbiamo la pace
è perché ci siamo dimenticati che quell’uomo, quella donna, quel bambino è mio
fratello o mia sorella».

 


08 Maggio 2015

La
povertà è una realtà che turba la coscienza, viene istintivo cambiare strada o
girare la testa dall’altra parte. Qui però la povertà è talmente grande e
diffusa che qualunque strada tu prenda, o dovunque giri la testa, la incontri.
Un giorno ho accompagnato Ivo a fare la spesa in un negozio. Mentre eravamo lì,
è comparsa una signora (un po’ fuori di testa) che ha iniziato a domandarci
soldi. La scena è durata una trentina di minuti: lei domandava soldi, noi
rifiutavamo, lei continuava a domandare soldi. In una realtà come questa non è
giusto dare a destra e a manca: oltre al fatto che non ce n’è per tutti, si
rischierebbe di creare una mentalità di dipendenza. Fatto sta che, nonostante
fossimo nel «giusto», rifiutare di donare 10 centesimi a quella donna, mentre
il bancone si riempiva di merce, mi ha, in un certo modo, infastidito. Forse
perché mi risuonavano nelle orecchie parole come: «Ero affamato e non mi avete
dato da mangiare», ma qui gli affamati li incontri ogni dieci metri.

Se
solo le ricchezze fossero incanalate nel modo giusto!

La
malaria, grazie a Dio, è passata e mi sono rimesso al 100%. Ora non potete
immaginare cosa provo quando a Gajen incontro i bambini che soffrono di
malaria, quando sento il loro corpo che scotta e vedo la stanchezza nei loro
occhi.

Non
so se vi ricordate di Jefthen, un membro della banda bassotti di qualche tempo
fa, guarito e rientrato a casa. Ho ricevuto la notizia che è morto: una volta
tornato nel villaggio ha preso la malaria, lo hanno curato con le medicine
tradizionali pensando che fosse un’infiammazione della milza (sintomo possibile
della malaria nei bambini). Di conseguenza la malaria è peggiorata velocemente
e l’ha ucciso. Mentre riguardavo foto e video del periodo in cui era a Gajen,
non ci potevo credere che fosse morto, e ho provato un certo senso di rabbia nel
pensare che era «morto per niente», che se avessero subito identificato e
curato la malaria Jefthen sarebbe ancora vivo. Morire per colpa dell’ignoranza è
una cosa che proprio non riesco ad accettare, eppure qua è «normale»: in quasi
tutte le famiglie che ho conosciuto, almeno un figlio è morto in situazioni
analoghe. Come direbbe padre Tarcisio: «Cosa non abbiamo visto in 40 anni di
Congo!». Anche io, in meno di un anno, ne ho viste veramente tante.

L’altra
mattina è arrivato un ragazzo (23 anni) che cercava un donatore di sangue per
suo figlio malarico. Era una specie di corsa contro il tempo, tra la vita e la
morte del figlio. Qui, i donatori vengono pagati. Questo significa che, se non
hai i soldi, stai senza trasfusione e muori. Negli ospedali non c’è una banca
del sangue, anche per le difficoltà di conservazione, per cui, se hai
un’urgenza, prima di tutto devi trovare il donatore, e poi trovare i soldi per
pagarlo. «Cosa non abbiamo visto…».

 
18 Maggio 2015

Al
centro è arrivato un piccoletto di due anni. È accompagnato dalla zia perché ha
perso la mamma quando aveva meno di un anno. Questo dolore lo ha segnato:
rifiuta di parlare, annuisce soltanto, e inoltre non gioca con nessun bambino. È
veramente una pena vederlo così.

Con i
bambini del quartiere ho organizzato una serata con balli intorno al fuoco. C’è
da dire che qui in «città», rispetto ai villaggi di Makpulu, non sono abituati
a farlo, quindi siamo finiti per ripetere sempre gli stessi 5-6 canti a
ripetizione. Comunque ci siamo divertiti un sacco, e mi hanno chiesto se
possiamo farlo ancora.

Sta
per iniziare l’ultimo periodo di questa esperienza. Dopo tutto questo tempo è
difficile immaginare di partire. Incomincio a sentire che non sarò qui per
sempre, e che quando me ne andrò continuerà tutto senza di me, che non sono
essenziale. Mi consola il fatto che la mia non è mai stata un’esperienza del
fare, quanto piuttosto dell’essere.

Padre
Tarcisio, per motivi di salute, da Kinshasa deve rientrare in Italia. Vi chiedo
di ricordarlo nelle preghiere, è una grande persona e qua tutti ne sentiamo la
mancanza.

 
26 Maggio 2015


Ora
capisco quando mi dicevano che «l’inizio della stagione delle piogge è il
periodo della malaria». Le pediatrie sono piene di bambini ricoverati che
purtroppo spesso vengono portati troppo tardi.

È
incredibile come, anche dopo diversi mesi, ogni giorno continuo a stupirmi di
questa realtà. Ciò che amo dell’essere all’equatore è che qualche volta, la sera,
quando guardo il cielo, vedo la luna che mi sorride.

Sono
esemplari i sacrifici che alcuni studenti fanno per pagarsi gli studi
universitari. Thérese, una donna che sta studiando medicina, ci da una mano
nell’orto in cambio di un aiuto. Mi ha detto che i soldi ricevuti li consegna
direttamente all’università. Quando finirà gli studi curerà di più la sua
bellezza e i suoi vestiti. È un grande sacrifico per una donna di qua, perché
l’esteriorità è molto importante. Sono storie difficili quelle di questi studenti,
soprattutto se si pensa che, nel paese in cui vivono, non sanno se gli studi
universitari che conducono con grandi sforzi daranno loro una vita migliore.

 
30 Maggio 2015

Lasciare
Isiro non è stato semplice, eppure nemmeno difficile come pensavo. È stato
bello salutare tutte le persone e scambiarci gli auguri di una buona vita.

Nella
sala d’attesa dell’aeroporto di Isiro contemplo la meravigliosa foresta che
riempie il panorama oltre le vetrate. Padre Andrés che mi ha accompagnato, mi
dice che per i missionari non ci sono viaggi di ritorno, ma solo viaggi di
andata.

Quindi
salgo sul piccolo aereo e compio serenamente a ritroso quello stesso viaggio
che qualche mese fa mi aveva traumatizzato. Noto un cambiamento: non ho voglia
di ascoltare musica isolandomi, contemplo la realtà dell’aereo: i passeggeri,
il personale, ecc., e faccio conoscenza con il mio vicino. È un libanese che
lavora a Isiro e sta rientrando a casa per le vacanze. Il tempo vola immerso in
questa «musica alternativa» che è l’umanità che mi circonda. Atterriamo a
Kinshasa. Nell’attesa dei bagagli mi si presenta uno dei tanti omini che ti
vogliono aiutare in cambio di soldi. Che soddisfazione poter sfoderare il mio
lingala: «Dio mi ha dato due mani per portare le cose, faccio da solo, grazie
papà». Dopo un primo momento di sconcerto, si mette a ridere e non insiste più.
Io e Alì (il mio compagno libanese) recuperiamo i bagagli e usciamo
salutandoci. Vado in strada da padre Santino e padre Mathias che mi attendono.
Arrivo alla missione di Saint Hilaire, nella periferia della grande e caotica
capitale del Congo. Stradine tutte uguali con case e persone ovunque, musica a
ogni angolo della strada a volume altissimo. Dopo la tranquillità di Isiro,
ammetto che Kinshasa mi traumatizza parecchio. Comunque la voglia di conoscere
anche questo ambiente è grande.

Accompagnato
dal giovane padre Mathias esploro il quartiere e l’organizzatissima parrocchia.
Anche qui è presente tra i giovani un gran numero di analfabeti e l’Aids è
tremendamente diffusa.

Un
giorno vedo un gruppo di ragazzi vicino a un semaforo, quando i taxi pulmini
rallentano, questi vi si aggrappano, e dopo un po’ scendono per tornare
indietro. Domandano di trasportare i sacchi di cibo (25-50 kg) dei passeggeri
in cambio di qualcosa. Se un passeggero accetta, loro rimangono attaccati al
pulmino e accompagnano a casa il cliente, altrimenti saltano giù.

Dopo
qualche giornata movimentata, ricevo un regalo inaspettato. La prima volta mi
avevano detto che era il «buongiorno dell’Africa», questa volta penso sia «l’arrivederci».
Dopo una notte passata in bagno per la nausea, vado all’ospedale a fare gli
esami, e l’esito è quello che ci aspettavamo: malaria. Unico problema: fra due
giorni devo prendere un altro aereo per tornare in Italia.

 
01 Giugno 2015

Fortunatamente
la malaria questa volta è molto meno forte della prima, allora decidiamo che
posso imbottirmi di farmaci e viaggiare comunque. La sera padre Symphorien mi
accompagna in aeroporto. La partenza è alle 4,40 della notte, ma noi ci avviamo
verso le 23,00 per evitare il rischio del banditismo, frequente in quegli
orari. Quando salgo sull’aereo finalmente posso dormire un poco. Arrivo a
Casablanca per aspettare il volo su Bologna: l’aeroporto mi disorienta, troppi
negozi, troppi cibi, troppa superficialità, troppi bianchi. Quando si fa l’ora
di imbarcarsi mi metto in fila e sento parlare i classici turisti italiani di
una certa età che si lamentano di ogni cosa: mi viene la nausea.

Sull’aereo
il mio posto è di fianco a Iole, signora italiana che torna da una vacanza in
Marocco. Ci presentiamo e mi dice che sembro suo figlio: ho in testa un
cappello uguale al suo. Scopro poi che suo figlio è morto, e che amava
viaggiare. Quando le dico che rientro dopo tanto tempo dal Congo si commuove.
Ci facciamo compagnia per tutta la durata del volo. Arrivati a Bologna ci
auguriamo buona fortuna e ognuno prosegue per la sua strada.

Con
la malaria di mezzo non ho ancora realizzato di essere rientrato in Italia.

Sono
qui ora. Il mio «viaggio di andata» mi ha portato alla mia nuova destinazione,
in questi giorni un’altra persona che non scorderò mai ha fatto il suo ultimo
viaggio di andata, padre Tarcisio: destinazione paradiso.

Tommaso Degli Angeli

Essere, piuttosto che
fare

Una secchiata d’acqua fredda, ecco com’è vivere il
ritorno alla vita occidentale. La semplicità, l’accoglienza, la povertà,
l’essenzialità, nel «nostro mondo», sembrano così difficili da vivere! Eppure
sono proprio le cose che ci renderebbero più felici.

L’esperienza in Congo mi ha
cambiato. È cambiato il mio modo di guardare le persone e le cose, è cambiato
il mio modo di vivere e percepire la realtà. Questa è soltanto un’intuizione a
caldo, sono sicuro che l’Africa illuminerà la mia vita con il tempo. Certamente
ora ho chiaro quali sono lo stile di vita e i valori che mi rendono felice. La
sfida sarà quella di viverli qui, anche con il rischio di non essere capito.

Mio dovere
sarà anche impegnarmi perché queste convinzioni non scoloriscano con il tempo.
Posso farlo perché in questo tempo non ho solamente partecipato alla vita, ma
l’ho vissuta.

Vorrei
evitare di passare buona parte della mia vita a cercare modi per impiegare il
tempo che mi sono affannato a risparmiare, vorrei stare dentro ogni momento, ed
essere piuttosto che fare. Ogni giorno essere consapevole delle cose bellissime
che ci sono in questo mondo e imparare qualcosa di nuovo su me stesso e sugli
altri. Mettere al centro delle relazioni le persone, togliendosi gli occhiali
del pregiudizio o del profitto, ed evitare che la finestra del nostro cuore
diventi uno specchio. Essere vero ed essere me stesso, avere la serenità di
sostenere uno sguardo e di entrare in contatto con un altro meraviglioso
universo misterioso. Vorrei evitare, preso dal vortice degli impegni
quotidiani, di dimenticare quella luce che è dentro di noi e di lasciarla
spegnere.

L’Africa mi ha regalato anche una
bellissima preghiera: «Signore, fa di me una lampada. Brucerò me stesso, ma darò
luce agli altri». Non siamo fatti per vivere soli. Nel «bruciare noi stessi»,
oltre a portare luce nel buio, illuminiamo, e quindi possiamo vedere i volti
dei fratelli intorno a noi.

I pensieri sono tanti, i ricordi e
le emozioni ancora di più. La riconoscenza per le comunità che mi hanno accolto
è enorme. Si conclude così questo viaggio che in realtà è stato la preparazione
per il viaggio più grande: la vita.

T.D.A.

Tommaso Degli Angeli




Cooperazione senz’anima

Un libro,
un’esperienza di vita, una proposta concreta.
Un ex volontario. Uno
che ci crede. Ritorna in Africa dopo 15 anni e trova un sistema cambiato: sono venute meno le motivazioni di un tempo. Propone una
riflessione ad ampio spettro. Per un cambiamento: andare verso il futuro, ripartendo
dai valori di una volta.

Alberto Zorloni, classe 1961, è nato e cresciuto in montagna, e là
di quello che un tempo si chiamava «Terzo Mondo» non si parlava proprio, non si
conosceva nulla. A Milano, nel corso di un processo di ricerca su come
concretizzare i suoi ideali, entra in contatto con alcune Ong e gli si apre un
mondo. «Per me l’incontro con le Ong è stata una cosa fantastica. In esse si
realizzava una sintesi ideale tra i valori cristiani nei quali credevo (e
ancora credo) e gli ideali di giustizia propugnati, ma, negli anni ’70 del mio
liceo, poco praticati dalla tradizione di sinistra».

«Le
Ong, come le ho conosciute negli anni ’80, non solo erano l’unione teorica tra
questi due discorsi, ma lo erano anche in pratica. Davano la possibilità a
tanti giovani, come me, di partire per paesi lontani e impegnarsi in
realizzazioni concrete».

La prima partenza

E così
Alberto, diventato medico veterinario, decide di far seguire a questa «sintesi»
un impegno pratico, e parte volontario per un progetto nel Sud Kivu, in Congo
RD. È l’epoca dello Zaire di Mobutu: «Lavoravo in una zona poverissima –
ricorda – una situazione quasi di emergenza. Secondo me, non c’erano le
condizioni minime per un progetto di sviluppo».

«Ero partito con molto entusiasmo e molta carica e, pur
nelle mille difficoltà logistiche che ho trovato sul posto, è stato un periodo
molto bello». Alberto è grato a quella Ong per la preparazione ricevuta prima
della partenza: «Mi aveva offerto un corso di formazione ottimo. Quello che ho
imparato è stato poi fondamentale in tutte le esperienze africane. Tagliare i
fondi per una formazione seria ai volontari in partenza (come succede oggi, ndr) è un suicidio».

 
L’impegno in Italia

Poi
il rientro. Ma Alberto intende il volontariato internazionale come «un ponte a
doppio senso». Il suo impegno diventa parlare in prima persona dell’esperienza
vissuta, nell’ambito di quella che viene chiamata «educazione allo sviluppo»: «Quando
si tornava, bisognava contribuire a dare un’informazione corretta. E su questo
io ho investito molto negli anni ‘90. Ho fatto almeno una cinquantina di ore in
scuole di ogni ordine e grado della mia zona e mi ero trovato bene».

Ma non basta. Sempre in linea con i suoi valori di base,
Alberto si occupa di commercio equo e poi di finanza etica. Fonda insieme ad
alcuni amici un’associazione di volontariato. Oltre al volontario, fa il
veterinario, e completa la sua formazione professionale seguendo un corso di
medicina veterinaria tropicale al Anversa, allo scopo di migliorare le sue
competenze che mette a disposizione in brevi esperienze nei paesi del Sud.

«È stato un periodo di “successo”, anche se, come avviene
spesso in Africa, si fanno dei progetti che però non si traducono in vero empowerment»
(termine usato per definire un aumento della consapevolezza delle proprie
capacità e della possibilità di farle valere, ndr). Alberto lamenta però
che queste belle esperienze restano spesso circoscritte.

 
Ripartire

Alberto
rimane quindi nell’ambiente del volontariato internazionale, pur non
effettuando più missioni lunghe. Però l’idea di ripartire cova dentro. «A un
certo punto mi sono deciso: volevo ripartire per l’Africa. Dopo alcune
selezioni non andate a buon fine, finalmente una Ong mi propone un posto in
Etiopia, dove hanno urgentemente bisogno di un veterinario». Così Alberto
riparte, a 15 anni dalla prima esperienza. «Sono partito con un contratto di 13
mesi, ma mi sono trovato del tutto spaesato. I valori, la carica ideale erano
venuti meno, e al loro posto c’era tutta una serie di comportamenti, quasi un
teatrino, un castello di carta vuoto, fatto di rapporti scritti, relazioni,
budget, fund raising (raccolta
fondi, ndr). Si giocava a fare i manager». Alberto non accetta il nuovo
approccio della cooperazione, e inoltre vive anche una serie di disavventure
con l’Ong che lo ha assunto e il suo personale italiano in Etiopia.

«I
valori che provavo a propugnare, che erano state le Ong stesse a infondermi,
provocavano ilarità. Come se mi fossi vestito alla maniera dell’800 e,
vedendomi andare in giro, la gente si domandasse: “Ma da dove esce questo?”».

 
Il rapporto con gli africani

Con i colleghi etiopi, al contrario, Alberto instaura un
ottimo rapporto, e sperimenta un modo di lavorare molto arricchente. «Non sono
stato io a mettere in piedi un approccio partecipativo con i locali, ma sono
stati loro. Io sono semplicemente stato disponibile, e mi è piaciuto molto,
perché è stato qualcosa che hanno preso in mano loro. Mi hanno dato coraggio.
Io mi sono sentito strumento, ma mai oggetto. Strumento in un ruolo che
valorizzava la mia soggettività: l’apertura, la disponibilità alla cultura, ai
mezzi locali, anche se non ortodossi secondo noi occidentali, anche se non
facilmente inquadrabili nei nostri schemi. Io ero aperto al loro modo di fare,
e loro hanno “preso il potere”. Per me è stato molto bello, mi sono sentito
responsabilizzato e al tempo stesso valorizzato e questo mi ha restituito la
motivazione, che ormai pensavo di aver perso».

Alberto,
che è sul punto di abbandonare a causa dei comportamenti dei colleghi italiani,
decide di restare proprio grazie al rapporto instaurato con l’équipe locale. Con
alcuni di loro rimarrà in contatto anche dopo il rientro in Italia, e aiuterà
un giovane collaboratore molto promettente a studiare in Europa.

«Una persona molto in gamba. Lui è riuscito a valorizzare
me per quella che era la mia apertura ai sistemi locali, e io ho valorizzato
lui per quelle che erano le sue capacità».

I
problemi invece ci sono con gli italiani. «Era vero e proprio mobbing –
sostiene Alberto -. Perché il rappresentante dell’Ong nel paese faceva da padre
e padrone. Questo anche perché dall’Italia le attività in Etiopia erano seguite
da una persona che non parlava l’inglese, che quindi non poteva neppure leggere
progetti e rapporti».

Il
rappresentante si era fatto largo a gomitate, aveva lavorato in condizioni
eroiche, si era fatto una famiglia. In Italia l’Ong non sapeva niente, per cui
l’Etiopia, per quella Ong, era identificata con quella persona che aveva le sue
regole monolitiche. Tra esse c’era quella per cui il volontario che arrivava
per primo doveva diventare il capo progetto.

«Il
mio collega diretto, arrivato sei mesi prima di me, era un giovane neolaureato.
Il progetto da realizzare era in ambito veterinario. Per questi motivi il
responabile ero io, ma a loro due questo non andava giù. Pur senza mettersi
d’accordo, tendevano sempre a fare rilevare la mia inefficienza. Ovvio, ero
arrivato lì e non mi avevano detto quasi niente. Non sapevo neanche i nomi dei
villaggi. è stata un po’ dura
all’inizio. Ma lo staff locale ha fatto tutta un’altra scelta. Alla fine è
stata una bella esperienza per me».

Alla
scadenza del contratto c’è ancora la possibilità – e la necessità – di
continuare, e l’Ong propone un rinnovo ad Alberto, salvo poi fare dietrofront,
sotto le pressioni dei due colleghi italiani. Un epilogo un po’ triste.
Probabilmente Alberto si è trovato in una situazione particolarmente
sfortunata, perché normalmente le relazioni tra volontari espatriati, nei paesi
più diversi e complessi, sono molto buone e costruttive.

 
Un’idea, un libro

Alberto rientra in Italia e riprende il suo lavoro di
veterinario alla Asl di Domodossola. E intanto matura l’idea di scrivere un
libro. Ma poi va oltre, con un’idea per il futuro del volontariato
internazionale.

«Quando
ero in Africa scrivevo delle lunghe lettere a un indirizzario di diverse decine
di persone, con le quali avevo condiviso l’impegno negli ambiti di commercio
equo e finanza etica. Illustravo la situazione. Loro mi hanno sempre suggerito
di pubblicarle».

Alberto
inizia una collaborazione con l’Università di Pretoria (Sudafrica) che sfocerà
poi in un master di ricerca per approfondire i metodi tradizionali di cura dei
pastori nomadi dell’Etiopia, proprio sulla scia del lavoro effettuato in quel
paese. «È stato un periodo molto impegnativo. Nel 2009 ho ripreso in mano 18
lettere, e ho cercato di trasformarle in un libro. Inizialmente il testo aveva
una forte impronta storica, perché l’Etiopia ha una storia entusiasmante e io
ne sono un appassionato. Lo sottoposi allo storico Angelo del Boca, il quale mi
disse: “La parte storica è molto valida, ma
la tolga tutta”. Perché? chiesi. “Molte cose interessanti sono state scritte
sulla storia dell’Etiopia, diversi studiosi seri ci si sono cimentati. Al
contrario non ho mai letto una presentazione del volontariato internazionale
che fosse così scevra da tentativi di commuovere o raccogliere fondi, o di
mostrare interessi di parte, o di come siamo bravi. è piuttosto una critica dall’interno che propone un
cambiamento positivo. E dal punto di vista intellettuale è indipendente ed
emotivamente sofferta, in prima persona. Non come altre critiche fatte
guardando solo i conti e i bilanci”.». Così, dopo quasi sei anni di lavoro e un
paio di decine di versioni, è nato nel 2015 il libro «Ripartire da ieri, la
nuova sfida del volontariato internazionale» (ed. Emi, 2015), che oltre a
contenere parte della storia personale e professionale di Alberto Zorloni, in
particolare riguardante l’esperienza etiope, propone un nuovo concetto di
volontariato internazionale, che ha radici nel passato.

La proposta

«La
mia proposta è rilanciare il volontariato internazionale “partendo da ieri”, da
quelle motivazioni e da quella spinta valoriale che abbiamo lasciato cadere. E
non vale solo per questo ambito. Infatti, tornato in Italia, parlandone con
diverse persone, ho capito che è lo stesso in politica, nel sindacato, nella
scuola, nell’assistenza sociale. Non capiamo più dove stiamo andando, non ci
riconosciamo più in quello che stiamo facendo. È un libro in cui c’è una
riflessione arricchita anche dal confronto con altri. Questo è un primo punto:
il bagaglio di valori non è una zavorra che riduce l’efficienza, ma è qualcosa
grazie al quale si riesce a essere più efficienti.

Le
Ong devono cercare di esprimere motivazioni e ridare valore agli ideali,
cercare di staccarsi il più possibile da un arido elenco di dati. Riaprire il
discorso alle valutazioni del proprio lavoro, discutere su quello che si fa,
sul senso che ha. In Etiopia, quando cercavo di far ripartire queste
discussioni, mi dicevano “ma cosa me ne frega, è previsto nel budget, lo
facciamo e chiuso”.

Secondo punto: va finalmente messo in pratica il concetto
per cui il volontariato deve essere uno scambio. Io sono stato valorizzato
dagli africani, mi hanno aiutato. Vivo le cose in modo molto intenso, per cui
sono anche soggetto ad ansia, ma loro hanno saputo costruirmi attorno un
contesto, nel quale io mi sentissi sicuro, tranquillo e potessi operare al
meglio. Ho visto che anche questo è uno strumento che ti fa lavorare bene, più
efficace di altre amenità tecnologiche, come l’impiego del satellite o altro.
Una serie di strumenti avanzati possono essere utili all’Africa, per noi
invece, visto come stanno andando le cose nella società, sarebbe importante
avvalersi di questi strumenti relazionali, comunitari, che erano anche nostri
in passato. In Africa resistono ancora, anche se, di questo passo, pure gli
africani li stanno perdendo. Il tutto in un’ottica di scambio.

Io
come veterinario sul campo, ho avuto la fortuna di conoscere quell’Africa che
dicono non ci sia più. Conoscendo lo swahili, ho potuto relazionarmi con
persone la cui voce non si sente o non si è mai sentita.

In
generale i dirigenti di Ong africane o piccoli imprenditori della classe media
europeizzata, sono impostati sul nostro modello di società e vedono di buon
occhio l’arrivo di qualunque investimento. Ma con l’aumento delle già enormi
differenze tra ricchi e poveri, ho notato anche una maggiore presa di coscienza
da parte delle Ong locali. La società civile africana è cresciuta, questo è
positivo. Si sono resi conto che è in gioco la cultura, l’essere africani».

 


«Professione volontario»?

Ci
chiediamo se ha ancora senso la cooperazione internazionale. «Io sono per il sì.
Sono sicuro». Ma ormai è diventato un lavoro come un altro, senza le
motivazioni di ieri. Esistono pure dei corsi universitari per prepararsi. È
come se il volontariato si fosse professionalizzato.

«Ribalterei il discorso. Secondo me si è
deprofessionalizzato, perché le Ong hanno avuto una grande occasione per far
valere la propria maggiore professionalità, ad esempio il fatto di relazionarsi
in un certo modo con le persone, avere una visione che parte da determinati
valori. Quella dei valori non è una questione morale, è proprio uno strumento
che ti permette di lavorare meglio. Quindi una parte della professionalità,
anche quella di accontentarsi di stipendi bassi, che non incidano troppo sul
budget del progetto, è una caratteristica professionale perché avrai più fondi
da investire nelle attività aumentandone l’efficienza».

Alberto
non ha molti riscontri sul suo libro da parte del mondo Ong, nonostante la
tematica.

«Ho avuto tante risposte positive da parte di persone
comuni, anche gente che non si occupa dell’argomento o di Africa. Da parte
delle Ong ho avuto solo due feedback: uno diretto e l’altro tramite la presentazione del
libro sul sito istituzionale dell’organizzazione.

Al di
fuori di questo non ho ricevuto né critiche, né apprezzamenti, pur avendo
scritto a molti, comprese le federazioni di Ong».

 
Qualcosa di più

Le
riflessioni contenute nel libro di Alberto sono estese a livello ampio
all’intera società.

«Sento
la necessità di un nuovo umanismo. Ma non intendo fare una nuova associazione.

È un
cammino da fare a livello individuale, fin dalle più piccole cose: mettere
determinati valori in cima alla scala delle proprie scelte quotidiane, ad
esempio nel consumo, le scelte di sobrietà, ecc. Sono convinto che, se si dà
importanza a queste cose, se non le si considera delle bazzecole, ma cose
importanti per la nostra vita, ci si ritroverà concordi su obiettivi comuni.
Occorre un cambiamento di priorità di valori». Un cambiamento sulla lunga
scadenza ma con risultati in tempi ragionevoli: «Altrimenti si perde fiducia.
Penso a un nuovo che però riparta dal vecchio, dai valori che già c’erano».

 
Esperienze

«Mi
piacerebbe che tutte le persone, anche in altri campi, che sentono questa
esigenza, riuscissero a fare una cosa comune. Come un sito web in cui
presentare le esperienze che già funzionano in questo “ripartire da ieri”. Per
dare un messaggio che le cose si possono realizzare. L’importanza del fare, del
concreto. Vorrei che uscissero allo scoperto quanti condividono questo pensiero
e insieme si riuscisse a concretizzarlo, realizzando progetti in Africa in un
certo modo. Per me non è un sogno, deve essere una realtà».

Marco
Bell
o

Nota:

per volere dell’intervistato e coerenza con il libro, in
questo testo non si fanno nomi di persone o enti. Tuttavia i «non nomi», come
li chiama Zorloni, corrispondono a persone e fatti realmente accaduti.

Marco Bello




Nyaatha è Beata

Da Nyeri, Cronache
della Beatificazione

Narrare un evento
come quello della beatificazione di suor Irene Stefani, a Nyeri, non è facile.
Ogni cerimonia avrebbe bisogno di pagine e pagine, le quali tuttavia non
riuscirebbero a trasmettere a chi non era presente i sentimenti e le emozioni
che hanno attraversato la vita di chi vi ha partecipato.

La cronaca dei tre
giorni – 22-24 maggio 2015 – potrebbe essere paragonata a un trittico, opera
pittorica divisa in tre parti autonome ma complementari, che, pur mostrando
forme e colori in tre spazi ben distinti tra loro, cerca di armonizzare una
scena, o un soggetto: nel nostro caso, la bellezza della vita e della missione di
Irene Stefani.

1. Gekondi, il villaggio
di Nyaatha

Vigilia
di Tutti i Santi del 1930, la piccola comunità cristiana di Gekondi, sugli
altopiani centrali del Kenya, era già in chiesa e si meravigliava del ritardo
del missionario per la messa. Quando finalmente arrivò, aveva il volto triste e
annunciò: «Carissimi, la notte scorsa alle 10,30 suor Irene, la vostra Nyaatha,
è stata chiamata nella casa del Padre». La sorpresa e il dolore si impadronì
dei presenti. Tutti cominciarono a piangere e a scuotere il capo sconsolati.

La
notizia della morte di suor Irene si propagò velocemente, e tutti – cattolici,
protestanti e «pagani» – si ritrovarono uniti in un profondo cordoglio.

Il 1°
novembre la salma composta nella bara fu trasportata, su un camioncino, da
Gekondi a Nyeri, per essere tumulata nel cimitero della missione del Mathari.
Una grande folla giunse per dare l’ultimo saluto alla mware mwendi ando,
«la suora che vuol bene a tutti». Il 2 novembre, il funerale fu un vero
trionfo.

Ottantacinque
anni dopo, il 22 maggio 2015, di nuovo una fiumana di gente si snoda sulle
strade che salgono verso Gekondi, non più per piangere la scomparsa di suor
Irene, ma per celebrare le meraviglie che Dio ha compiuto in quella giovane donna,
che aveva promesso di «Amare la carità più di se stessa» e che in questa terra,
domani 23 maggio, sarà proclamata Beata.

Alle
16,00, la chiesa dedicata alla Madonna della Divina Provvidenza e tutti gli
spazi attorno sono gremiti. Due maxi schermi permettono a tutti di seguire la
veglia di preghiera. La celebrazione inizia con una danza eseguita da un gruppo
di ragazzine che indossano i costumi di diverse etnie. Due di loro sono vestite
da musulmane. La danza vuole sottolineare una delle caratteristiche della vita
di suor Irene Stefani: l’accoglienza e l’attenzione verso tutti senza
distinzioni etniche o religiose.

La
veglia continua con la lettura tratta da Siracide 44 che tesse l’elogio degli
antenati. Al termine, un ritratto di suor Irene viene portato in processione e
deposto ai piedi dell’altare. Poi il sacerdote legge uno stralcio da
Matteo  28 che riporta il mandato di Gesù
agli apostoli: «Andate in tutto il mondo, battezzate, insegnate».

Dopo
avere ascoltato la Parola, vengono proposti flash della vita di suor
Irene alternati a canti. Inizia quindi la carrellata dei testimoni. Don
Rutilio
, parroco di Anfo per quarant’anni, ringrazia per l’esempio e la
vita di questa giovane donna consacrata a Dio e alla missione. La superiora
generale delle suore di Maria Immacolata di Nyeri, fondate da mons. Filippo
Perlo, Imc, sottolinea come suor Irene sia considerata la loro «mamma», perché
lei aveva accompagnato gli inizi della Congregazione insegnando alle future
suore, con l’esempio, cosa significasse consacrarsi al Signore.

Toccante è la testimonianza di tre persone che hanno
conosciuto suor Irene. John Mbutia (95 anni), ricorda che la missionaria
convertì suo nonno e suo zio e a lui, che faceva il chierichetto, insegnò a
rispondere, in latino, alle preghiere della santa messa. Per dimostrare che ciò
che dice è vero, con voce ferma e decisa, comincia a cantare in latino, come
suor Irene gli aveva insegnato, il Kyrie, il Gloria, il Santus.

Elizabeth
Wangui
, centenaria, racconta che suor Irene era molto buona e faceva
chilometri e chilometri per raggiungere i bisognosi e curare i malati, ma era
anche molto esigente verso le giovani a cui insegnava i principi della fede e
molti canti per onorare la Madonna. Poi, all’improvviso, con grande stupore dei
presenti, Elizabeth comincia a cantare l’Ave Maris Stella, in latino.

Elizabeth
ricorda che sua mamma fu mandata alla missione del Mathari, Nyeri, ad avvisare
la superiora che suor Irene stava male. Purtroppo, nonostante la lunga corsa,
quando questa arrivò a Gekondi, la missionaria era già morta.

Milka
Wambui Itunde
(95 anni), protestante, rammenta che era facile
scorgere suor Irene anche da lontano, perché indossava un grande cappello
bianco e rotondo (il casco coloniale) e un lungo vestito bianco che, per la sua
camminata veloce, svolazzava. Irene, continua Milka, conosceva bene la lingua
kikuyu, perciò la gente si confidava con lei. «Un giorno la missionaria seppe
che io, i miei fratelli e le mie sorelle avevamo una malattia che consumava le
dita dei piedi; subito, anche se non eravamo cattolici si affrettò a
raggiungere la nostra abitazione e a curarci. Toò parecchie volte finché
fummo guariti. Ho detto ai miei figli che senza le cure di suor Irene non avrei
potuto camminare!». L’anziana protestante termina la sua testimonianza cantando
un ritornello che l’assemblea ripete danzando: «Cosa posso fare per ripagare la
bontà di suor Irene?».

Prima
di terminare la veglia di preghiera, padre Gottardo Pasqualetti,
postulatore della causa di beatificazione, riassume i passi fatti per giungere
a questa meta, mentre padre Giuseppe Frizzi narra il miracolo di Nipepe,
Mozambico.

Infine,
madre Simona Brambilla, superiora generale delle missionarie della
Consolata, conclude indirizzando una lettera a suor Irene, che esprime
sentimenti di gioia e di ringraziamento.

I
canti ci accompagnano mentre, verso le 21, usciamo dalla chiesa di Gekondi e,
quasi «portati» dalla folla, scendiamo l’unica strada sterrata che porta ai
piedi della collina. La luce della luna, e ancor più la presenza di suor Irene,
madre misericordiosa, rischiara il nostro cammino.

2. Irene beata

L’ampia
area verde della Dedan Kimathi University alle porte di Nyeri, il 23
maggio 2015, è diventata una chiesa all’aperto e senza confini, sì perché le
persone che la gremiscono sono arrivate non solo dai vari angoli del Kenya
(Meru, Nanyuki, Loyangalani, Mombasa…), ma anche da altre nazioni dell’Africa,
Europa, America e Asia, per celebrare la beatificazione di suor Irene Stefani.

Alle
7 del mattino, per entrare nell’area assegnata alle suore si passa per parecchi
chilometri tra due ali di folla in attesa. Niente, neppure il calore del sole
riesce a fermare la gente che vuole essere testimone di un evento mai avvenuto
in questo scampolo di terra.

Dalla
zona dell’altare posto in alto, il colpo d’occhio lascia senza fiato: 300 mila
persone riempiono la spianata di prati verdi. I vestiti dai colori sgargianti e
caldi dell’Africa, le acconciature accurate, i canti accompagnati dai tamburi,
le danze, i volti sorridenti, contribuiscono a creare un’atmosfera di gioia e
ringraziamento.

La
bandiera del Kenya e quella del Vaticano sventolano ai lati dell’altare e nella
zona dove il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, e i membri del suo governo
sederanno per partecipare alla cerimonia.

Alle
10,00, la danza di una cinquantina tra bambine e bambini del Children
helping children
(Infanzia Missionaria) accompagnate dai canti del coro
composto di 600 membri appartenenti a 49 Parrocchie della Diocesi di Nyeri,
apre il corteo dei Vescovi (28) e dei Sacerdoti (500 ca.).

Il
primo saluto è quello dell’arcivescovo di Nyeri, mons. Peter Kairo, che
descrive suor Irene Stefani come modello di virtù che ogni cristiano dovrebbe
imitare per seguire il Maestro.

Suor
Linda Hill, missionaria della Consolata, legge una breve biografia di suor
Irene. Poi l’inviato del papa, l’arcivescovo di Dar-es-Salaam, Tanzania, il
cardinal Polycarp Pengo, legge la Bolla papale della beatificazione in latino e
il cardinale di Nairobi, John Njue, la ripete in inglese concludendo che la
festa liturgica della Beata Irene Stefani, sarà il 31 ottobre, giorno della sua
morte.

Dopo
la lettura della Bolla, il prolungato battimani dei partecipanti e gli
armoniosi trilli di gioia delle donne risuonano e rimbalzano in ogni parte
dell’assemblea. Quando viene srotolata la tela che ritrae la nuova Beata,
mentre madre Simona ne porta all’altare il reliquiario, il coro intona un
ritornello, ripetuto più volte dalla gente: «Ni Baraka» (è una benedizione).

Il reliquiario consegnato da madre Simona al cardinal
Njue verrà  dato al parroco della chiesa
di Gekondi, segno della continua presenza della Beata su quelle colline dove
aveva annunciato con la vita che l’Amore non ha confini.

Poi
una lunga processione danzante porta la Bibbia verso il leggio. Dalla Parola,
in controluce, emerge il volto e la vita della nuova Beata.

La
prima lettura, da Isaia 52, 7-10, esalta la «bellezza» dei piedi e dei passi di
coloro che fanno risuonare la «buona notizia», che diventano messaggeri di
pace, di gioia e che proclamano la salvezza. La prima lettera di san Paolo ai
Corinti, 13, 1-13, descrive le caratteristiche della carità. Mentre il Vangelo
di Matteo, 25, 31-40, svela le azioni che identificano i seguaci del maestro.

Il
cardinal Njue, nell’omelia sollecita i presenti ad attualizzare il messaggio di
suor Irene: «Oggi, il Signore ci chiede di guardare la beata Irene Stefani, che
ci insegna ad amare e apprezzare la bellezza dell’umanità unita e in pace, ad
andare al di là delle diversità di cultura, nazionalità e religione. Non
importa da dove veniamo, o il gruppo etnico a cui apparteniamo, importa ciò che
siamo, che valori ci guidano; solo camminando in questa direzione diventeremo
come la nuova Beata: strumenti di pace e di unità. Sì, oggi è il momento di
guardare al passato e di sottolineare che cosa questa umile missionaria ha
fatto, ma è anche il tempo di guardare avanti e avere il coraggio di assumerci
le nostre responsabilità: tocca a noi curare e fare crescere il seme da lei
piantato, affinché porti frutto».

Il
cardinal Njue poi si rivolge ai giovani invitandoli a «coltivare i veri valori
e a impegnarsi nel tessuto della società per renderla migliore». Ai genitori,
invece, chiede di «assumere le proprie responsabilità nel crescere i figli in
maniera adeguata e saggia».

Chiudendo
l’omelia incoraggia le Congregazioni religiose a imitare la vita della Beata
affinché «la gente possa amare e servire Dio».

Al
termine della celebrazione vari membri del governo centrale e della Contea di
Nyeri si alternano per ringraziare e sottolineare gli aspetti significativi
della figura della nuova Beata. Il presidente, Uhuru Kenyatta, concludendo
questo grande evento nazionale sottolinea: «La beatificazione di suor Irene
Stefani ricorda a tutti i kenioti l’importanza dell’umiltà, la forza e la
potenza della misericordia e la bellezza dell’amore. Questa lezione non è per i
politici, ma ogni singola persona deve incominciare questo cammino, il solo
capace di cambiare la società, di portare pace e unità». Il presidente, con
forza poi ribadisce: «Il Kenya rispetta tutte le religioni perché non c’è una
fede superiore a un’altra, per questo continueremo a proteggere tutti, sicuri
che insieme saremo capaci di fare prevalere la tolleranza e la beata Irene ci
guiderà su questa strada».

Verso le 16,00, questa lunga giornata si conclude ed
entra nella storia e nei cuori dei presenti e di chi ha seguito l’evento in
diretta Tv oppure in streaming. L’augurio è che tutti siano toccati
dalla vita di questa umile missionaria che ha saputo scegliere e vivere
l’Amore, incarnando il proposito: «Gesù solo! Tutta con Gesù! Nulla da me!
Tutta di Gesù! Nulla di me! Tutta per Gesù! Nulla per me!».

3. Camminando con Suor
Irene

Il 24
maggio 2015, mentre a piedi, dietro le spoglie di suor Irene, percorro i 7
chilometri dalla parrocchia del Mathari a Nyeri, mi rivolgo alla mia Beata
consorella.

«Suor
Irene carissima, il tuo ultimo passaggio nella terra dei Kikuyu che, mentre eri
in vita percorrevi calzando i tuoi duri e scomodi scarponi chiodati per portare
il messaggio del Vangelo a tutti coloro che con libertà di cuore ti
ascoltavano, è stato un trionfo.

Quest’ultima
camminata non l’hai affrontata da sola, ma ti sei lasciata portare, prima a
spalle dai militari della British Army, commilitoni di coloro con i
quali avevi collaborato per curare i soldati feriti durante la prima guerra
mondiale. Poi, i tuoi resti sono stati posti su di un furgoncino sul quale sono
salite alcune tue consorelle, vescovi e rappresentanti legali. Mentre quattro
poliziotti a cavallo ti scortavano, una fiumana di gente: uomini, donne,
bambini, giovani e vecchi vestiti a festa, ti seguiva.

Umiltà,
povertà, obbedienza, preghiera, ospitalità, perdono, ma soprattutto la carità
è stata la molla, il “fuoco”, che ha acceso la tua vita e, per riflesso, tutte
le persone che ti hanno incontrato nel tuo rapido passaggio nel tempo e nella
storia. Oggi, sugli antichi sentirneri, ormai divenuti strade asfaltate, la gente
ti ripete, pregando e cantando, che ha capito il tuo messaggio: la carità non
si racconta, ma si vive con gratuità e diventa compassione, condivisione,
servizio.

La
tua vita, segnata da gesti discreti, semplici, ha rivelato che l’Amore è il
filo conduttore che si dipana e, nel tempo, tesse la nostra storia, come la
spola del tessitore che corre avanti e indietro sul telaio mentre il tessuto
cresce e il disegno, prima invisibile, si va completando.

I tuoi gesti non sono rimasti statici, incatenati a uno
spazio, o a un luogo, ma sono liberi e sono certa che lo Spirito che ti ha
spinta su e giù per le colline vicino a Gekondi per annunciare l’Amore di Dio,
muoverà anche chi ti sta accompagnando nella tua nuova “dimora”, a impegnarsi
per migliorare la propria vita e a lasciarsi toccare dalle necessità del
“prossimo”, come tu hai fatto, cara Nyaatha. Aiutaci a riappropriarci
della gioia della fede, della gioia dell’annuncio, della fierezza e
dell’audacia della testimonianza cristiana.

La
Chiesa, le tue consorelle, la gente del Kenya, non possono fare altro che
cantare con gioia: “Grazie Beata Irene!”».

Maria Luisa Casiraghi

Maria Luisa Casiraghi




Il microfono dei frati

Nata nel 1997, Rádio
Santa Clara è un’emittente Am di Floriano. I proprietari sono i frati minori,
che dall’Italia arrivarono nella città del Piauí nel 1967. Subito molto attivi
nel campo educativo e sociale, i francescani divennero ben presto
un’istituzione radicata e rispettata.

Floriano (Piauí). Davanti al mixer siede Paulo Henrique, tecnico del suono. «Frei
Erivelton non c’è» ci dice. I locali sono quelli di Rádio Santa Clara, una delle principali emittenti della città, «la prima
nel cuore della gente» (a primeira no coração do
povo), se vogliamo dare credito allo slogan.

Paulo
ci suggerisce di cercare il direttore, frei Erivelton Pereira de Passos, al convento
francescano, nel bairro Ibiapaba, non lontano
da qui.

Una storia italiana

L’entrata del convento, stretto tra la chiesa e la scuola
appartenenti allo stesso ordine francescano (Ofm), si trova davanti a una
piazzuola di palme e fiori sul cui selciato risalta una grande scritta: Paz e Bem, il saluto dei francescani.

Frei Erivelton è minuto e scattante. È brasiliano, ma parla un
ottimo italiano, perché la storia dei frati di Floriano è una storia italiana
che inizia nell’Irpinia, a metà degli anni Sessanta. I francescani di quella
regione decidono di aprire una missione nel Piauí, uno degli stati più
arretrati del Brasile.

Frei Antonio

Il primo ad arrivare nella città di Floriano è frei Antonio Curcio
nel 1967. L’anno seguente dall’Italia arrivano altri quattro confratelli, tra
cui frei Vincenzo Cardone. Saranno questi due frati – attraverso la fondazione «Nostra
Signora delle Grazie» (Nossa Senhora das Graças) – l’anima della missione francescana.

Subito dopo la costruzione del convento e della chiesa, frei
Antonio dà inizio alla sua opera più ambiziosa. In un paese dove l’istruzione
pubblica è troppo spesso scadente, nel 1969 fonda una scuola, il Colégio Industrial São Francisco de Assis, che guiderà fino alla sua scomparsa (avvenuta nel giugno 2012)1. L’istituto diventa ben presto uno
dei migliori della regione e oggi conta circa 600 alunni tra scuola primaria e
secondaria2.

Non è certo da meno frei Vincenzo (Vicente), attivissimo nel campo
sociale. Promuove ad esempio il sindacato dei lavoratori rurali e
l’associazione dei piccoli produttori agricoli. E, nel 1995, acquista
un’emittente locale, la futura Rádio Santa Clara.

Frei Vicente

Quando lo incontrammo, pochi mesi prima della sua scomparsa
(avvenuta nel luglio 2014), il francescano di Pietrelcina (il paese di Padre
Pio), già indebolito dalla malattia e dal peso dei suoi 88 anni, ci raccontò
delle difficoltà burocratiche che l’acquisto aveva comportato e dei costi per
mantenerla, ma era convinto della bontà dell’operazione. «Non abbiamo dati
ufficiali – ci spiegò -, ma secondo le nostre rilevazioni alcuni programmi sono
stati seguiti da un pubblico di 5mila persone». E aggiunse: «Ad un certo
momento mi si è anche presentata la possibilità di avere un’emittente
televisiva locale, ma non essendo sicuro delle forze disponibili ho desistito.
Però ammetto di averci pensato. Bisogna accompagnare i tempi».

Racconta frei Erivelton: «Rádio Santa Clara è nata ufficialmente
l’11 agosto del 1997. Fra’ Vicenzo aveva capito le potenzialità del mezzo per
la diffusione del messaggio cristiano e dell’evangelizzazione. Possiamo
raggiungere facilmente migliaia di persone, diceva. E aveva ragione: questa è
una radio Am e dunque può arrivare lontana. Fino a 100 chilometri da Floriano».

In un paese dove le antenne paraboliche si trovano anche nei
luoghi più impensati, chiediamo a frei Erivelton se la radio sia ancora uno
strumento di comunicazione diffuso. «Secondo una recente inchiesta, su 100
persone 95 vedono la televisione ma di queste 80 ascoltano anche la radio. E questa
è una buona notizia. Quanto a internet, essa è ancora sotto il 50%, anche per
problemi di collegamento. Di certo però la radio non può rimanere da sola,
slegata dai nuovi mezzi di comunicazione. Per questo anche Rádio Santa Clara ha
una pagina web e usa internet per trasmettere in streaming».

L’emittente mette in onda musica, informazione, sport e
intrattenimento. «Abbiamo – spiega il direttore – quasi 17 ore di
programmazione dal vivo. La radio inizia a trasmettere in diretta alle 5 del
mattino con le notizie giornalistiche».

Un’attività impegnativa che richiede un organico adeguato. «A Rádio
Santa Clara lavorano 15 persone: 7 persone fisse più 8 collaboratori. Non
abbiamo professionisti veri e propri, ma soltanto persone appassionate3».

Domandiamo al direttore se esista qualche programma particolare. «Forse
“Siga bem caminhoneiro”, un programma dedicato ai camionisti, una categoria molto
importante in un paese come il Brasile, enorme e privo di ferrovie».

Un cambio di mentalità

A
chiusura della nostra conversazione chiediamo a frei Erivelton un giudizio sul
Brasile. «Rimaniamo la nazione delle disparità in cui molti hanno niente e
pochi hanno tutto. E ciò è legato (anche) a un problema di mentalità: a troppi
va bene o non importa che le cose siano così. Il futuro nasce dal cambiamento
di questa mentalità. Prima la gente si conformava alla situazione (“è sempre
andata così”), adesso invece reagisce. Sicuramente non dobbiamo illuderci, ma
pian piano le cose stanno cambiando».

Magari
una radio serve anche per questo: ad aiutare le persone a cambiare mentalità.

Paolo Moiola
(Fine quinta puntata – continua*)

Paolo Moiola




Le due piazze di Caracas

1. Un paese diviso
Colloquio col professor Giulio Santosusso

2. Anarchia, populismo e
bugie

Colloquio con padre
Pablo Urquiaga Feández

Indice:
1. Un paese diviso
2. Anarchia, populismo e bugie


1. Un paese diviso

Colloquio con il professor Giulio Santosusso

Il crollo del prezzo
del petrolio ha messo in ginocchio l’economia venezuelana. A questo evento
esogeno si aggiunge un clima interno di feroce contrapposizione politica,
acuita dalla decisione di Obama di dichiarare il paese una «minaccia» alla
sicurezza nazionale degli Stati Uniti. In questo scenario il Venezuela si appresta
alle elezioni parlamentari previste per il 6 dicembre. Analizziamo la
situazione attraverso due interviste. Entrambe fuori dal coro

Nato a Roma, una laurea summa cum laude in matematica,
Giulio Santosusso lascia l’Italia per il Venezuela nel lontano 1968. Dopo
essere stato professore presso l’Universidad de Oriente di Cumaná e l’Universidad
Simón Bolivar di Caracas, nel
1985 fonda la Editorial Galac, una casa editrice che si propone l’obiettivo di «appoggiare
la società nel cambio di paradigma verso l’economia della conoscenza». Egli
stesso è autore di due libri di successo: «Reinventar a Venezuela» (1992) e «Socialismo
en un paradigma liberal» (1999). A dispetto dell’età e del fisico minuto,
Giulio Santosuosso è una forza della natura.

Professore, a sentire
i principali media italiani e inteazionali il Venezuela è una dittatura senza
se e senza ma.

«È impressionante come i giornali abbiano perso la
capacità d’informare. E fanno realmente ridere

quando usano la parola “dittatura”. In Venezuela, negli
ultimi 15 anni si sono celebrate 19 elezioni e con un sistema elettorale che,
nel settembre 2012, Jimmy Carter, ex presidente degli Usa, ha dichiarato essere
il migliore del pianeta.

Mi chiedo: sono coscienti del fatto che stanno mentendo?

Siamo la prima dittatura nella storia del pianeta che
vuole che la gente sia istruita, colta. Non si può non ridere pensando che
esistono persone che chiamano dittatore un presidente come Chávez che affermava
“il libro libera” e che, nel suo programma televisivo (Aló Presidente),
suggeriva i libri da leggere (tra cui, una volta, anche uno mio). Un altro
dato, molto importante, secondo me. A inizio dicembre ci saranno le elezioni
per il parlamento. I candidati del Psuv (Partito socialista unito del
Venezuela, il gruppo principale della coalizione “Gran Polo Patriótico”, ndr) sono stati scelti lo
scorso 28 giugno dalla base attraverso le primarie alle quali hanno partecipato
quasi 3,2 milioni di persone. Dovevano scegliere tra 1.152 cittadini, dei quali
il 60% donne, e il 49% minori di 30 anni. Anche i partiti dell’opposizione hanno
fatto (il 17 maggio) le primarie, però con alcune “piccole” differenze: chi si
candidava doveva pagare 150.000 bolivares (equivalenti, al cambio
ufficiale, a 23.800 dollari); si sono presentati 110 candidati (dei quali
solamente il 10% donne) e in meno della metà delle circoscrizioni elettorali
(33 su 78). Per finire, hanno votato meno di 550 mila persone».

I media sostengono
però che il presidente Maduro e il suo governo imprigionano i propri avversari
politici…

«Le persone che stanno in prigione, chiamate dai mezzi di
disinformazione “prigionieri politici”, sono Leopoldo López, Daniel Ceballo e
Antonio Ledezma. Per colpa della loro chiamata alla protesta (guarimba), tra febbraio e
marzo 2014 ci sono stati 43 morti e più di 800 feriti. Ma c’è di più. La quasi
totalità dei morti erano sostenitori del governo o poliziotti!».

In un articolo del Corriere della Sera (6 giugno) Leopoldo
López viene descritto come un eroe senza paura e senza macchia.

«Ricordo che egli ha fondato il partito Primero Justicia (dal
quale è poi uscito) con fondi della compagnia statale Pdvsa di cui la madre era
una dirigente. Ma soprattutto, quando era sindaco di Chacao, ha partecipato
attivamente al golpe dell’aprile 2002. È uno dei primi responsabili delle
violenze del 2014. Gli aggettivi per questo “eroe senza paura e macchia” è
meglio che me li tenga in testa…».

Insisto su questo
tema. Su un altro quotidiano (La Stampa, 3 marzo), Antonio Ledezma è descritto
come un martire e Maduro come un affamatore.

«Prima di fare un’intervista, un giornalista dovrebbe
informarsi adeguatamente sulla persona alla quale rivolgerà le proprie domande».

Molti degli
oppositori di oggi appoggiarono a vario titolo il golpe del 2002.

«Che dire? In un eccesso di bontà, a fine dicembre 2007
il presidente Chávez amnistiò tutti. Lo ripeto sempre nelle mie conversazioni:
lui era un ingenuo».

La situazione
economica del Venezuela viene descritta come al limite del default. E ancora:
inflazione molto alta, carenza di beni di prima necessità, dollarizzazione
dell’economia. Come stanno le cose?

«I mezzi di disinformazione parlano della scarsezza, però
non riferiscono quasi mai notizie di segno opposto come il ritrovamento nei
magazzini di migliaia di tonnellate di un prodotto che scarseggia, volutamente
sottratto alla distribuzione. L’inflazione è senza dubbio molto alta, però la
grande domanda è: in che misura è indotta dalla speculazione? Una delle ipotesi
che si fanno è che molte imprese fissano i prezzi del prodotto usando il
dollaro parallelo come unità di misura (da cui la “dollarizzazione”
dell’economia), mentre li importarono con un dollaro a 6,3 bolivares (Bs).
Riguardo alla valuta americana, è poi importante leggere i numeri: più del 70%
dei movimenti in divisa si fanno con il cambio ufficiale a 6,3. Più del 20% si
fanno con il dollaro Sicad (per esempio: gli acquisti via internet e i dollari
per il turismo all’estero), che sta a 12 Bs. Infine, una quantità che non
arriva al 5% si fanno con il dollaro Simadi, che gira intorno ai 200 Bs. Però
chi vuole gridare alla pessima situazione economica del Venezuela usa il DollarToDay, una
pagina web in mano a gente dell’opposizione, che dice che il dollaro sta a più
di 400 Bs. A me piacerebbe molto sapere se veramente esiste gente che compra un
dollaro a 400 Bs. Neanche un narcotrafficante lo farebbe!».

Il Venezuela è uno
dei primi produttori mondiali di petrolio. Eppure non siete riusciti a gestire
adeguatamente questa ricchezza.

«Non sono affatto d’accordo! Io credo che la ricchezza
derivante dal petrolio sia stata gestita molto bene. I risultati lo dimostrano.
Per esempio, lo scorso aprile è stata consegnata la casa n. 700.000 della Gran Misión Vivienda.
L’obiettivo è che, entro il 2019, nessun venezuelano viva più in una baracca.
Una enorme quantità di barrios, specialmente quelli su colline pericolose, che con una
forte pioggia possono crollare, oggi non esistono più e tutti i loro abitanti
vivono in appartamenti donati dalla missione governativa (e completi di cucina,
scaldabagno, mobili, etc.). Quindici anni fa la povertà riguardava quasi il 50%
della popolazione, oggi il 27%. E poi uno dei numeri più importanti in
assoluto, è – io credo – l’investimento delle entrate petrolifere nel sistema
educativo. Nel 2005 l’Unesco dichiarò il Venezuela paese libero dall’analfabetismo.
Oggigiorno la percentuale di studenti universitari è la seconda a livello
latinoamericano e una delle prime a livello mondiale. In questi quindici anni
(dal 1999 al 2014), si sono spesi nell’area sociale – educazione, salute, casa,
etc. – ben 782 mila milioni di dollari, una cifra corrispondente al 62% delle
entrate statali. Guardando ai numeri, io dico che Venezuela è il primo paese
nella storia che sta trasformando in realtà la dichiarazione universale dei
diritti umani».

Il Venezuela importa
tutto o quasi tutto. È una grave debolezza, non crede?

«Non è vero che importiamo tutto o quasi tutto, ma è vero
che importiamo molto. Il problema è che finora abbiamo vissuto sulla cosiddetta
renta petrolera. Per fortuna, ogni medaglia ha due facce, e la faccia
(secondo me) positiva della discesa del prezzo del petrolio è che si comincia a
discutere sul tema. Ad esempio, si sta promovuendo molto l’agricoltura».

Tutti i principali
rapporti inteazionali attribuiscono al Venezuela altissimi tassi di criminalità.

«Il grande problema del Venezuela è di stare tra la
Colombia, il maggiore produttore di droga del pianeta, e gli Usa, il maggior
consumatore. La droga entra dalla frontiera colombiana, all’Ovest del paese, ed
esce dallo stato di Sucre, all’Est del paese, da dove va, si dice, a Trinidad e
da qui agli Usa e al resto del mondo. La grande maggioranza degli atti
delinquenziali è legato alla droga. Per esempio, la grande maggioranza degli
omicidi sono “aggiustamenti di conti” fra bande rivali, per il dominio del
territorio. Io vivo a Caracas da 45 anni, vado camminando da tutte le parti e
non sono mai stato testimone di un atto delinquenziale e una sola volta mi
hanno derubato del portafogli sulla metropolitana. Però, quando lo racconto,
molto spesso mi rispondono che sono una persona super fortunata! Quanto ai
sequestri, altro crimine molto diffuso, essi sono generalmente realizzati da
paramilitari colombiani. Altro dato importante: le inchieste dicono che la
percezione di insicurezza è maggiore della insicurezza reale».

Secondo il presidente
Obama il Venezuela è una minaccia per gli Stati Uniti…

«Quindici anni fa, gli Usa dominavano il mondo intero.
Oggi la maggior parte dei paesi va per un altro cammino, soprattutto grazie a
Chávez. La consacrazione definitiva del nuovo corso è avvenuta nella “Cumbre de las Américas” (il
vertice dei paesi americani, ndr), tenutasi a Panamá lo scorso aprile, durante la quale
tutti i convenuti si sono espressi contro il decreto esecutivo di Obama, al
punto che il presidente se n’è andato per non sentir parlare contro di lui. Una
vera e propria fuga, la dimostrazione palese di una disfatta».

Il Venezuela ha
sempre aiutato economicamente Cuba. Adesso Cuba ha fatto pace con gli Stati
Uniti, il nemico di sempre. Cosa cambierà per voi?

«Questa è una lettura sbagliata della situazione. Credo
sia molto importante spiegare meglio la relazione tra Venezuela e Cuba. Se è
vero che noi l’abbiamo sempre aiutata economicamente, è altrettanto vero che
Cuba ha sempre ricambiato con le missioni sociali. Pensiamo ai medici cubani.
Prima di Chávez la gran parte dei venezuelani non aveva mai fatto una visita
medica. Oggi tutti le fanno, a poca distanza della propria casa e gratis. Se si
provasse a calcolare il valore monetario di tutte le consulte mediche,
operazioni, protesi, etc., è possibile che quella cifra risulterebbe maggiore
dello sconto fatto a Cuba sul prezzo del petrolio venezuelano».

I rapporti con la
vicina Colombia sono piuttosto tesi. Come mai?

«La Colombia è un paese realmente misterioso. Tutti
quanti sanno che Alvaro Uribe Vélez è uno dei suoi principali narcotrafficanti,
collocato al n. 82 nella lista stilata dalla Dia, l’agenzia d’intelligence
statunitense, però lo hanno eletto presidente, e adesso senatore. È il creatore
dei paramilitari, e quindi il responsabile morale di centinaia di migliaia di
morti. L’attuale presidente, Juan Manuel Santos, ha occupato incarichi
importanti durante la presidenza Uribe, e questa è una confessione di disonestà.
Oggi ci sono in Venezuela circa sei milioni di colombiani che sono scappati dal
proprio paese per la povertà, la guerra civile, la violenza. Troppi di loro
svolgono però attività disoneste, ad esempio comprano prodotti in Venezuela e
li vanno a rivendere alla frontiera colombiana. Al presidente Maduro, che il 4
di giugno aveva detto che i colombiani “vengono qui portando necessità e povertà,
e cercando educazione, lavoro, salute e casa”, il presidente Santos ha risposto
dicendo che “Colombia genera
prosperidad y no exporta pobreza”».
Un’affermazione francamente ridicola».

Secondo Freedom House
in Venezuela i mezzi di comunicazione non sono liberi.

«Quando Orson Welles, nella sua famosa pellicola “Il
cittadino Kane”, parla della stampa come del “quarto potere”, non immaginava
che qualche decennio dopo sarebbe diventata il primo!

Le dichiarazioni sulla mancanza di libertà di espressione
in Venezuela sono realmente comiche e il fatto che tanti media occidentali le
ripetano in maniera automatica e acritica è un pessimo segnale. Come non
rendersi conto della contraddizione esistente nell’affermare che “in questo
paese non abbiamo libertà d’espressione” davanti a decine di giornalisti che
poi fanno domande sul tema? Non è forse questo un sintomo evidente di
“analfabetismo funzionale”?

Nel 2000 in America apparve un libro, The Twilight of American Culture (Il crepuscolo della cultura americana), di Morris
Berman, in cui, alla pagina 42, afferma che “il numero di adulti realmente
istruiti negli Stati Uniti è il 3% della popolazione”. Cioè il 97% è analfabeta
funzionale. Io ripeto sempre che a quel libro occorrerebbe cambiare il titolo
in The Twilight of
Occidental Culture, perché quello che l’autore
dice sugli Usa si applica a tutto l’Occidente.

Quando vado a fare il turista a Roma, passo sempre a
salutare un amico, proprietario di una libreria dove cinquanta anni fa compravo
molti libri. Lui mi dice: “Giulio, io sopravvivo vendendo guide ai turisti…
Nessuno più compra un libro…”. Qui in Venezuela è esattamente l’opposto: tutti
gli anni aumenta il numero di libri che si vendono».

Paolo Moiola

2. Anarchia, populismo e
bugie

Colloquio con padre
Pablo Urquiaga Feández





Lo avevamo
intervistato subito dopo la morte del presidente Chávez. Due anni dopo, Pablo
Urquiaga, parroco in un quartiere di Caracas, è più critico e disilluso. Contro
il populismo del governo e le manovre (sporche) dell’opposizione. Ma non ha
perso la speranza.

Padre Pablo Urquiaga Feández è
parroco della chiesa La Resurrección del Señor nel quartiere di
Caricuao, a Caracas. Lo abbiamo ricontattato a due anni dalla nostra prima
intervista (giugno 2013).

Padre Urquiaga, a sentire i principali media italiani e inteazionali,
il Venezuela è – senza alcun dubbio – una dittatura.

«Dittatura? Certamente no. Anzi, è vero il contrario. Parlamento e
governo fanno leggi che nessuno rispetta e ognuno fa ciò che gli pare. Nel
Venezuela del 2015 c’è anarchia. Mi pare che dittatura e anarchia siano
incompatibili, no? Il problema è che l’impunità genera corruzione e delinquenza
senza freni».

Che dire delle persone in carcere?

«Certamente ci sono “politici incarcerati” che però non è lo stesso di
“prigionieri politici” (il gioco di parole è evidente in spagnolo: “politicos
presos” e “presos politicos”, ndr). Io credo che in nessuna parte del
mondo dovrebbero esistere “prigionieri politici”, siano essi del governo o
dell’opposizione, a meno che non abbiano commesso delitti da essere provati
davanti alle competenti autorità».

La situazione economica del paese viene descritta come al limite del
default. E poi: inflazione molto alta, scarsità di beni di prima necessità,
dollarizzazione dell’economia. Come stanno le cose?  

«A partire dallo scorso anno la situazione economica si è deteriorata
in maniera considerevole. L’inflazione alle stelle e la scarsità di alcuni
prodotti di prima necessità hanno più di una causa: una è la mancanza di
produzione di alcun prodotti, un’altra è il contrabbando di alcuni prodotti
verso l’estero e infine c’è la “guerra economica” allo scopo di danneggiare il
processo rivoluzionario. Da una parte, il populismo cerca di compiacere il
popolo per guadagnare voti, non pretende lavoro e responsabilità nella
produzione e regala le cose senza esigere sforzo e sacrificio. Dall’altra,
l’opposizione s’approfitta dell’inefficacia e inefficienza di questo governo
per peggiorare la situazione. Anche se gli imprenditori hanno qualche valida
ragione; non si può produrre con tanta instabilità economica. Non si può
soffocare chi produce e senza produzione non si può distribuire come sarebbe
dovere dello stato e del governo».

Il Venezuela è uno dei primi produttori mondiali di petrolio. Tuttavia,
forse non ha saputo gestire adeguatamente questa ricchezza. La causa risiede
nella corruzione?

«La questione del petrolio non dipende soltanto dalla “corruzione
amministrativa”, ma anche dalla mancanza di efficacia nella gestione delle
finanze pubbliche. È certo che la maggior parte delle entrate petrolifere è
stata utilizzata per migliorare le condizioni di vita dei più poveri
(investimenti sociali). Allo stesso
tempo è certo che molte di queste entrate hanno arricchito dei falsi
rivoluzionari. Dovremmo “seminare” il petrolio. Voglio dire: sviluppare
un’industria petrolchimica come, grazie a Dio, si è finalmente iniziato a fare,
anche se troppo tardi».

Le statistiche dicono che il Venezuela e in particolare la sua capitale
hanno i più alti tassi di criminalità al mondo. Per le strade di Caracas lei si
sente insicuro?

«L’insicurezza è uno dei nostri mali più terribili anche se sappiamo
che essa è conseguenza dell’impunità e della mancanza di etica che corrompe
ogni cosa. Il populismo cerca di essere blando con coloro che commettono
crimini, soprattutto se appartengono ai settori popolari. Qui non si tratta di
fare vendetta, si tratta di applicare una “giustizia correttiva”. Per questo
abbiamo necessità di istituti correttivi e non di carceri (che alla fine si
trasformano in vere scuole del crimine). C’è molta insicurezza. Tanto che noi
abbiamo dovuto sospendere gli orari nottui delle nostre attività ecclesiali.
Quanto alla mia persona, mi sento tranquillo perché credo che Dio mi protegga».

Stando all’«ordine esecutivo» firmato dal presidente Obama lo scorso 9
marzo, il Venezuela costituisce una minaccia per la sicurezza nazionale degli
Stati Uniti.

«Senza dubbio oggi noi siamo più rispettati come repubblica sovrana e
indipendente. Con la maggioranza dei paesi le nostre relazioni si sono
rafforzate. Pensiamo alla Russia, alla Cina, all’Europa (Italia inclusa) e
soprattutto ai paesi latinoamericani con cui ci sono progetti in comune (Alba,
Mercosur, Petrocaribe, ecc.). Nonostante negli ultimi anni si siano deteriorate
le relazioni con Washington, il Nord America è importante per il nostro
commercio esterno e noi amiamo i suoi abitanti. Il Venezuela non rappresenta
una minaccia per nessuno e per nessun popolo. Però lo è per qualsiasi Impero
(sia di dove sia) che voglia dividerci o voglia convertirci nel proprio
“cortile di casa”».

Secondo il rapporto 2015 di Freedom House, il Venezuela è un paese «non
libero» (not free) per quanto attiene i mezzi di comunicazione. Nella
classifica mondiale si piazza al 176.mo posto. Lei come giudica la situazione
dei media venezuelani?

«Freedom House, Paolo? Chiunque viaggi in Venezuela e accenda
una radio o una televisione o compri un giornale si rende conto che nel nostro
paese c’è piena libertà di espressione. Anzi, io direi che c’è una sorta di
“libertinaggio d’espressione”, che non è la stessa cosa. Credo che non dovrebbe
essere consentito utilizzare un mezzo di comunicazione per dire qualsiasi cosa
passi per la testa. La libertà d’opinione non dovrebbe prescindere dalla
comunicazione vera dei fatti senza cioè alterarli od ometterli per meschini
interessi di parte. In Venezuela la maggioranza delle emittenti radio e
televisive sono in mano a imprese private che rispondono agli interessi
dell’opposizione. Quello che dico vale anche per i media in mano allo stato».

Pare che la gerarchia della Chiesa cattolica venezuelana sia sempre
schierata con l’opposizione contro il presidente e il governo. È così, padre?

«Alcuni dell’“alta” gerarchia (ma anche della “bassa”) si oppongono a
tutto ciò che fa il governo fino all’estremo di non essere capaci di
riconoscere quanto di buono è stato fatto per i più poveri. Alcuni di noi
stanno lavorando (senza per questo essere affiliati a qualche parte politica)
affinché si correggano le distorsioni e la situazione migliori, soprattutto per
coloro che hanno più bisogno. L’“opzione preferenziale per i poveri” non può
continuare a essere uno slogan, ma deve trasformarsi in fatti concreti».

Papa Francesco è stato molto importante per il nuovo corso di Cuba. Lei
crede che potrà anche aiutare a promuovere la pacificazione in Venezuela?

«Se ci fosse buona volontà da entrambe le parti, il papa potrebbe senz’altro
favorire una riconciliazione che sarebbe una vittoria per tutti. Non
dimentichiamo che il pontefice ha nominato un nunzio (mons. Aldo Giordano, ndr)
che ha dato prova di essere una persona di spessore con il suo comportamento
umile e semplice, vicino al nostro popolo e lontano dai privilegi. Papa
Francesco ha aiutato a chiarire che stare a fianco dei poveri non è comunismo,
ma puro cristianesimo».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Cari Missionari

EXPO 2015: la Carta di
Milano

Con l’avvio di Expo 2015 è stata resa pubblica la Carta
di Milano
. È chiesto alla società civile di aderire. A questo proposito
avanziamo 5 considerazioni:

1 – La Carta di Milano
presenta una lunga lista di suggerimenti. Si tratta di elementi ampiamente
condivisibili sulla necessità di migliorare il modello di produzione e di
consumo, di ridurre radicalmente lo spreco, con impegni da parte di tutti,
società civile e imprese, ma sorge una serie di preoccupazioni soprattutto
rispetto a quello che viene omesso.

2 – In questa lunga lista
di suggerimenti non vengono poste le priorità. I messaggi essenziali non
emergono. Ad esempio la questione della giustizia sociale per un’equa
distribuzione del cibo, enunciata con forza da papa Francesco, non viene mai
avanzata come priorità essenziale e ineludibile (solo con riferimento alla
distribuzione di cibo che altrimenti verrebbe sprecato). Allo stesso modo non
emerge con forza la necessità del cambiamento del modello di sviluppo, delle «strutture
di peccato», che causano da un lato fame e dall’altro sovrabbondanza. Gli
impegni delle imprese vanno nel senso di migliorare la produzione e la
distribuzione ma niente viene detto sul controllo dei mercati, sulla questione
della proprietà intellettuale, sulle sementi, sulle catene del valore.

3 – Non viene
colta la necessità di sostenere la piccola agricoltura familiare quale misura
indispensabile per lottare contro la fame nel sud del mondo. L’impostazione
della Carta risente di un forte approccio occidentale. Manca di una visione
veramente internazionale e di attenzione verso i paesi e i gruppi sociali più
poveri.

4 – Nonostante la lunga lista, non viene dedicata alcuna
attenzione alla questione della speculazione finanziaria e alla necessità di
adottare una tassa sulle transazioni finanziarie così come una regolazione più
stringente sui mercati finanziari. Così come non viene dedicata alcuna
attenzione alla questione delle guerre e dei conflitti, che invece sono le
prime cause di fame nei paesi fragili. Speculazione finanziaria e conflitti
sono peraltro enunciate con forza nella campagna «Cibo per tutti» promossa da
Focsiv, Caritas ed altri 25 soggetti cattolici in Italia.

5 – La rilevanza politica
della Carta è minima, in considerazione del fatto che nel 2015 le vere partite
negoziali si giocano ad Addis Abeba con riferimento alla finanza per lo
sviluppo, a New York con riferimento ai nuovi obiettivi dello sviluppo
sostenibile post 2015, ed a Parigi rispetto al cambiamento climatico. A questo
proposito la Carta di Milano manca di prendere posizione rispetto a questi
eventi.

Per queste considerazioni proponiamo di portare
all’attenzione e proporre questi emendamenti alla Carta, altrimenti non saremo
in grado di potervi aderire.

Assemblea
Focsiv
(www.focsiv.it)
Roma, 23-24/05/2015

Delusione

Spettabile redazione, mi ha dato molta tristezza la
lettura dell’articolo di Luca Bressan sul numero di giugno […].

Mi sembra un’omelia fatta di belle parole. Sinceramente,
dalla vostra rivista che conosco da tanti anni e apprezzo mi sarei aspettato un
articolo «differente». Tanti saluti e buon lavoro.

Daniele
Engaddi
23/06/2015

Il
testo, scritto prima dell’inizio dell’Expo, presenta con ottimismo le ragioni e
le speranze della presenza della Chiesa. Per quanto possibile cercheremo di
offrire un bilancio approfondito e critico a Expo conclusa.

Difficoltà a firmare
il 5×1000

Buongiorno, sono un lettore della rivista e vorrei
segnalarvi un problema nella scelta per le donazioni sul modello 730 di
quest’anno (redditi 2014).

Mi avvalgo da anni dell’assistenza del Caf ma, a
differenza degli anni precedenti, nell’ultima dichiarazione presentata non mi è
stato possibile validare la scelta del 5 e quella dell’8×1000.

Io ho sempre compilato le apposite caselle e firmato
negli spazi dedicati, sulla dichiarazione cartacea da me pre-compilata. Mio
figlio poi (io ho 80 anni e da 10 sono sulla sedia a rotelle causa ictus),
consegnava il tutto e ri-firmava al mio posto sul modello che veniva stampato
al momento al Caf, dopo le necessarie verifiche a cura dell’impiegata, delle
detrazioni/deduzioni per le spese mediche.

Secondo le nuove disposizioni dell’Agenzia delle Entrate
(così mi hanno riferito al Caf), per le scelte in oggetto, avrei dovuto recarmi
a firmare personalmente, altrimenti la mia volontà sarebbe stata disattesa,
come in effetti è avvenuto. Aggiungo che, stante il peggioramento delle mie
condizioni di salute, sono costretto a chiamare l’ambulanza per i miei
spostamenti.

Lo stato, in tal modo, è riuscito scorrettamente a
risparmiare un po’ di soldi, almeno nei casi simili al mio (che non devono
essere pochi). Oppure cosa più semplice, onesta e corretta, oltre alla
scansione di tutti gli scontrini e fatture delle spese mediche, avrebbe potuto
prevedere la scansione del foglio della denuncia dei redditi con le varie
scelte e firme da me effettuate a domicilio relativamente a 5 e 8×1000.

Spero che la mia segnalazione possa consentire alle
organizzazioni Onlus meritorie come la vostra di risolvere il problema, almeno
per il prossimo anno. Vi saluto cordialmente.

Luciano
Zacchero Gambro
Seregno (MB), 09/06/2015

Grazie
della segnalazione. Saremo felici di ospitare altre opinioni o esperienze di
lettori, mentre chiediamo a chi ha competenza in materia un parere su come il
sig. Luciano (e chi come lui) possa risolvere il problema.

Cioccolato, Ferrero e
Olio di Palma

«La coltura dell’olio di palma rispetta ambiente e
popolazione». Questa risposta che la Ferrero ha dato a Ségolène Royal dopo il
suo invito a non mangiare Nutella, non depone a favore della azienda
dolciaria italiana. Non si risponde con le bugie a chi, sia pure in modo goffo
e non troppo simpatico (né la Ferrero né tantomeno la Nutella possono diventare
il capro espiatorio di un problema come quello della deforestazione…), cerca
di invitare l’opinione pubblica a mettere in pratica il titolo di Expo 2015 e
quindi dare anche qualche scossa per stimolare un consumo alimentare più
responsabile, che tenga conto delle esigenze di tutti gli abitanti del pianeta.

I prodotti, alimentari e non, che richiedono
l’impiego di olio di palma sono tanti, e domandarsi se sono davvero così
necessari, entrare nell’ordine di idee di diminuire questa enorme produzione e
questa dipendenza, è fondamentale per la sopravvivenza di tante specie,
compresa quella umana.

La caduta di stile della Ferrero è molto più grave
di quella della Royal: come si fa a sorvolare sul fatto che le piantagioni di
palma da olio, in paesi come l’Indonesia e la Malaysia, hanno sì creato tanti
posti di lavoro, ma tanti ne hanno fatti sparire?

Che intende la Ferrero quando dice «popolazione»? Intende
i dipendenti delle piantagioni di palma da olio (come anche di caffè, di ananas,
di banane, di cacao e del mai abbastanza vituperato tabacco), o anche i popoli
indigeni, le minoranze etniche, linguistiche e religiose, le persone che non
hanno accettato lo stile di vita che i proprietari delle multinazionali
pretendono di imporre a tutti?

Cosa intende la Ferrero quando dice «ambiente»? Intende i
padiglioni dell’Expo, intende gli zoo, intende i giardini in cui sono
immerse le ville e i palazzi dei nababbi d’Oriente e d’Occidente, o intende
anche i parchi nazionali, intende gli oceani, intende gli habitat d’acqua
dolce, intende quel poco di foreste naturali che è riuscito a sopravvivere alle
guerre, ai saccheggi, al cinismo e all’indifferenza?

Chi si è tanto scandalizzato per la presa di posizione
della Royal, provi a confrontare lo status attuale della tigre, del
rinoceronte, dell’orango, della nasica, del gibbone, dell’elefante asiatico,
con quello di cent’anni fa, di cinquant’anni fa o di trent’anni fa, e poi
chieda lui (o lei) scusa per le cose che ha detto e scritto, ma anche
per ciò che ha prodotto e per come lo ha prodotto.

Non discuto la squisitezza della Nutella, del Ferrero
Rocher, del Moncherì e delle uova di cioccolata: è evidente però che chi
racconta certe frottole, assolvendo con formula piena il business della
palma da olio, ovvero contraddicendo una realtà che da decine di anni è sotto
gli occhi di tutti, non fa buona pubblicità ai suoi prodotti.

L’industria della cioccolata non può crescere
all’infinito, i primi a preoccuparsi del futuro dell’albero del Theobroma (minacciato
da parassiti antichi e modei, minacciato dalla drastica riduzione della
diversità biologica) e della qualità, oltre della quantità, dei semi contenuti
all’interno delle spettacolari capsule, sono proprio gli operatori del settore,
sono le grandi firme della gastronomia e dell’arte culinaria, sono gli
industriali, sono i buongustai. Una maggiore attenzione verso le foreste
naturali, a cominciare da quelle dei parchi indonesiani e malesi assediati
dalle piantagioni di palma da olio, procurerà dei vantaggi anche alle industrie
dolciarie italiane. Meglio qualche cioccolata in meno sugli scaffali dei
supermercati e qualche tribù autoctona in più in quei paesi tropicali a
cui dobbiamo tanto.

Colgo l’occasione per augurare una serena e proficua
estate.

Francesco
Rondina
19/06/2015

Non
è mia intenzione fare il difensore d’ufficio della Ferrero, della Nutella e
neppure dell’olio di palma. Le preoccupazioni sollevate dal sig. Francesco sono
condivise da questa rivista.

Ma
come diversi quotidiani hanno riportato dal 19 giugno: «La dottoressa Eva
Alessi, responsabile sostenibilità del Wwf, promuove la Ferrero, che dal 1°
gennaio di quest’anno utilizza esclusivamente olio di palma certificato al 100%
come sostenibile dalla “Tavola Rotonda sull’Olio di Palma Sostenibile” (Roundtable
on Sustainable Palm Oil
– Rspo). “È l’unica certificazione esistente che
assicura che le palme vengano coltivate solo in certe aree, per esempio campi
già destinati all’agricoltura, senza intaccare le foreste, e che l’irrigazione
venga fatta in modo sostenibile e consapevole, senza un utilizzo sconsiderato
di pesticidi. L’Rspo tutela non solo l’habitat naturale e le specie
animali ma anche le comunità locali che spesso vengono sfruttate dalle
multinazionali per la produzione”» (vedi box).

Scritto
questo, il problema resta. Lo denuncia con forza anche papa Francesco nella sua
recentissima «Laudato si’», soprattutto nei paragrafi 32-42, che cominciano così:
«Anche le risorse della terra vengono depredate a causa di modi di intendere
l’economia e l’attività commerciale e produttiva troppo legati al risultato
immediato». Per questo tutti devono cambiare rotta e mentalità: «Prima di tutto
è l’umanità che ha bisogno di cambiare» (n. 202). Tutti.

Pregiudizi sulla Turchia

Gentile redazione,
scrivo a proposito del mio articolo sulla Turchia pubblicato sul numero di
luglio. Non sono d’accordo a chiamare l’Akp partito «islamico». Nel testo non
lo definisco mai così. Al limite può andare bene chiamarlo «islamico moderato»
o «di ispirazione islamica». La parola «islamico» non compare né nello statuto
del partito, e nemmeno nel suo nome. Dato che ci sono già un’infinità di
pregiudizi sulla Turchia, temo che utilizzare questa etichetta non faccia altro
che creare una barriera che ostacola la comprensione delle dinamiche complesse
del paese. Spero si possa farlo sapere ai vostri lettori.

Fazila
Mat
Istanbul, 24/06/2015

Grazie
a Fazila Mat per le sue precisazioni. Pubblicando il suo articolo non era certo
nostra intenzione aumentare i pregiudizi verso il popolo turco, piuttosto
offrire elementi per una comprensione più rispettosa e oggettiva di un grande
paese che da sempre ha giocato un ruolo importante nella storia.

Sud Sudan dimenticato

Gentile direzione, mi permetto di farvi notare che nel
numero ultimo di MC di luglio, a pagina 42, manca il Sud Sudan, nuovo stato
ufficiale africano nato dopo una guerra di oltre 25 anni contro il governo
islamista di Khartoum. Sembra strana questa mancanza quando nella stessa
cartina mettete (giustamente) la nazione del Sahara Occidentale non ancora
(ahimè) riconosciuta ufficialmente dall’Onu. Voglio pensare ad una svista, non
so. Tanti saluti e sempre complimenti del vostro prezioso lavoro.

Alfio
Tassinari
Cervia, 27/06/2015

Vero,
verissimo. Ed è stata proprio una bella svista. Il problema è semplice: nei
repertori di cartine geografiche disponibili per i programmi di grafica, è
presente sì il Sahara Occidentale, registrato dal 1963 nella lista Onu dei
Territori non autonomi, ma non ancora il Sud Sudan la cui indipendenza risale
solo al 2011. Dovremmo saperlo bene, visto che nella mappa pubblicata a centro
rivista a gennaio 2015, ci siamo preoccupati di inserirlo. Spero che i
cittadini del Sud Sudan ci perdonino.

Per
concludere sulle sviste – questo mese ne abbiamo collezionate diverse – anche
uno dei miei confratelli mi ha detto scherzoso: «Sai che ho trovato un errore
in MC?». «Uno solo?», ho risposto. «Mons. Lerma non è portoghese, ma spagnolo!»
(Mc 7/2015, p. 35; in effetti è nato a Murcia, nel Sud della Spagna).

Speriamo
proprio che monsignore abbia fatto una bella risata, come abbiamo fatto noi.

Mal di Pancia

Carissimo padre Gigi,
nel leggere il tuo bellissimo articolo di fondo del luglio 2015 mi si è aperto
il cuore e non posso che congratularmi per la chiarezza dell’esposizione che
hai voluto donarci, una sintesi perfetta come portatore di fede e poi anche
come cittadino attento e sensibile alle situazioni sociali del nostro
incasinatissimo paese dove 67 milioni di italiani hanno tutti la ricetta magica
per occupare cattedre universitarie sullo scibile umano.

Bisogna però dire che anche la Chiesa deve ammettere le
sue colpe. Hanno purtroppo ragione tanti sociologi nel dire che la Chiesa
denuncia solo ciò che è già risaputo e nel tempo rimane solo un monito.

Senza essere considerato retrogrado, ricordo
sommariamente le severe prese di posizione della Chiesa, avute per molto meno,
nei lontani tempi dove chi professava il credo marxista era considerato eretico
e scomunicato; mia moglie spesso mi ricorda che suo nonno iscritto al Psiup non
aveva neanche la benedizione natalizia con grande dolore della nonna matea.

L’annuncio evangelico attualmente mi sconcerta quando
sento e vedo che anche qualche vescovo e tantissimi preti avallano con il loro
comportamento i mal di pancia sostenendo candidature che nella sostanza
portano in sé valori da far tremare il pensiero della madre Chiesa. Leghisti
che di fatto frequentano consigli pastorali e sagrestie di potere.

Ora padre mi chiedo, come si può essere cristiani e
fedelissimi del credo padano, sciupatori di inginocchiatorni e nello stesso tempo
assertori di crudeltà verso i fratelli meno fortunati?
Dobbiamo rassegnarci o pagare a caro prezzo questa nuova morale a fisarmonica?
La morale cristiana, a che livello (di interpretazione) personale vogliamo
spingerla? «Pace e bene fratelli, vogliamoci bene perché la chiesa è matea,
ma la coscienza è nostra e ce la gestiamo noi». Una bella porcata oppure no?

Sarebbe bene che la Chiesa adotti, pur rispettando la
libertà di ogni credente, una soglia o delle regole per un cattolico che vuol
essere tale a costo di rendere il gregge meno numeroso ma più fedele agli
insegnamenti evangelici.

Padre Gigi, questo è il mio mal di pancia che è continuo
e non mi lascia tregua in questi tragici momenti dove l’egoismo impera e
travalica la più bieca impudicizia.

Grazie per aver potuto leggere anche l’amico e fratello
in Cristo Paolo Farinella, prete.

Giovanni
Besana
01/07/2015

Grazie
della condivisione. Un breve commento. Non credo sia necessario che la Chiesa
detti delle «soglie minime di cristianità»: per chiunque voglia essere un po’
serio con la sua fede, c’è materiale più che abbondante a disposizione:  dal Vangelo al «Catechismo della Chiesa
Cattolica» del 1997, dal Concilio Vaticano II alle tante encicliche, non ultima
la «Laudato si’». Bisogna però sperare che questi testi non rimangano nella
libreria di casa (sempre che ci sia), e che non si preferiscano a essi il
gossip televisivo e il vento altalenante dei social.

Risponde il Direttore




Sono anch’io Italia

Sogni non impossibili
Racconti di donne «straniere»

di Rahma Nur, Federica Ramella Bon, Chou Mei
Chen Susanna,
Maria Enrica Sanna e Keréne Fuamba
Per gentile concessione del «Concorso
letterario nazionale Lingua Madre»

Questo Dossier narrativo, curato da Gigi Anataloni per MC, è
dedicato a tutte quelle donne coraggiose che, sradicate spesso a forza dalla
loro terra, lottano per un futuro di pace, armonia e frateità in questo
nostro paese di grande generosità e accoglienza, ma attraversato da pericolosi
brividi di intolleranza e razzismo.

Le foto delle autrici dei racconti sono state foite da
Lingua Madre. Tutte le altre foto sono puramente simboliche e non strettamente
connesse con le storie raccontate.

 
Indice


Volevo essere miss Italia


Spazio arcobaleno


Panini verdi


Con gli occhi di Keréne
       Lingua Madre
 
Volevo essere miss Italia
Rahma Nur [Somalia](*)

Denny
Mendez sorrideva anche se le lacrime di gioia e sorpresa le rigavano il bel
viso da adolescente. La sua bella e scura massa di morbidi capelli ricci era in
contrasto con quella coroncina di luci brillanti da Miss che cercava di tenere
in equilibrio sulla testa, mentre le altre ragazze del concorso la assalivano
per congratularsi con lei, invidiose e sorprese anche loro che avesse vinto!
Lei, una Miss Nera! Ma mica siamo in America qui, ma cosa sta succedendo mai?

Io e mia madre non eravamo così
appassionate di concorsi televisivi, men che meno di Miss Italia. Ma quell’anno
ci mettemmo davanti alla TV ogni sera, incuriosite da quella ragazza dominicana
che cercavamo con lo sguardo durante il programma. Non sapevamo se tifare per
lei o no, ma stavamo lì a guardare trepidanti. Poi scoprii che mia madre tifava
eccome! Era orgogliosissima di vedere finalmente una ragazza nera che competeva
con le classiche bellezze italiane. Io ero scettica, forse anche un po’
invidiosa. Be’, non è che io avessi mai parteggiato per i concorsi di bellezza,
li trovavo anche mortificanti a dirla tutta. Ero solo invidiosa di questa
ragazza dominicana, arrivata in Italia solo pochi anni prima, che ancora non
parlava un italiano fluente e probabilmente non sapeva nulla né di Manzoni né
di Lucio Battisti! Ma che diritto aveva? Mi sentivo defraudata, di cosa ancora
non lo sapevo, ma ero un po’ scocciata. Speravo che a rappresentare la parte più
colorata di tanti italiani come me fosse proprio una ragazza italiana, nata o
cresciuta qui come me e tanti altri immigrati di seconda generazione. Invece,
guarda un po’ chi era riuscita ad arrivare fino a lì!
Ok a livello fisico non potevo proprio competere con la bella Denny. Lei era
una giovane adolescente, alta, magra, bella, con splendidi capelli lunghi. Ora,
non è che io fossi brutta, anzi, a detta di molti ero una bella giovane donna
somala, con i classici lineamenti somali: bocca piccola, naso piccolo e occhi
scuri; una caagione color cioccolato Lindt; ma avevo superato da qualche anno
l’età massima per essere accettata ad un concorso di bellezza; poi c’erano
alcuni problemi tecnici come la mia altezza che era ben al di sotto del minimo
richiesto ed altre piccole cosette, nonché, last but not least, non
credo che due superbe stampelle azzurre e un’elegante camminata claudicante
fossero nella lista dei requisiti per diventare una Miss. Forse avrei potuto
aspirare a Miss Disabile…!

Con questo non pensate che io ce l’avessi con Denny
Mendez, forse un pochino sì, ma poi, chi sono io per giudicare una ragazzina in
cerca del suo momento di celebrità?

Il
giorno dopo, i giornali erano pieni di immagini di Denny. C’era chi giorniva
perché sembrava che in Italia qualcosa stesse per cambiare: finalmente si erano
accorti che c’erano persone diverse, ragazze bellissime anche se non
esattamente come le solite copie di Sofia Loren o Gina Lollobrigida; ma c’era
anche chi polemizzava e vedeva questa vincita come un’ingiustizia. Io mi
trovavo tra due fuochi; se qualcuno si diceva contrario, io mi arrabbiavo e confutavo
che oramai in Italia c’erano italiani diversi e che era ora di aprire gli occhi
alla realtà dell’immigrazione e che Denny era un’apripista per tutti noi (anche
se sotto sotto, la vedevo come un’usurpatrice: io ero più italiana di lei!).

Un giorno mi trovai con una mia cara amica e iniziammo a
parlare del concorso; pensavo che lei fosse felice che avesse vinto Denny
Mendez, essendo mia amica; invece la trovai molto critica su questo argomento.
Disse che non era giusto che avesse vinto perché lei non rappresentava la
classica bellezza italiana, la cultura e la storia italiane. Mi sentii
sprofondare: rimasi senza parole. Di certo non mi aspettavo una critica così
dura da una mia amica. Allora le chiesi: se avessi partecipato io, con la mia
lunga storia di immigrata, arrivata in Italia da piccolissima, cresciuta a
spaghetti, Battisti e letteratura italiana, sarebbe stato meglio?

Lei rispose che era la stessa cosa: non rappresentavo la
classica bellezza italiana; anche io come Denny ero nera, ricciolina e
proveniente da un altro continente! Mi offesi a morte: ma come? Ai suoi occhi
non ero più italiana di Denny Mendez? Non dissi una parola, mi sentivo
profondamente ferita, discriminata e disillusa. Eppure parlavamo di musica, di
film, di libri e ci trovavamo così simili, così complementari. Avevamo
respirato la stessa aria, ascoltato le stesse canzoni, studiato gli stessi
autori e amato le stesse storie. Eravamo affini in tantissime cose. Avevamo
trascorso ore e ore a parlare di tutto; anche se io provenivo da una famiglia
diversa, somala, africana; anche se io mangiavo a volte cibi diversi che lei
aveva imparato ad assaporare; anche se la mia famiglia aveva una religione
diversa, tradizioni diverse, io e lei ci ritrovavamo in tante cose. Parlavamo
anche di politica e anche lì le nostre idee combaciavano. Com’era possibile che
ora, per un banale concorso di bellezza, ci fosse una differenza così abissale
tra di noi? Non ero anch’io italiana come lei?

In
quel momento ripercorsi la mia storia come un veloce flashback. L’Italia
ero anch’io, mia cara! Molto più di tante persone di mia conoscenza. L’Italia
ero anche io perché l’amore per questa terra me lo ero conquistato giorno dopo
giorno con le difficoltà che ho dovuto affrontare fin dall’età di cinque anni
mezzo, quando il fato mi aveva condotta qui molti anni fa. L’Italia ero anch’io
in fila davanti alla questura di Roma per rinnovare il permesso di soggiorno e
poter continuare a frequentare la scuola dove studiavo i classici latini o lo
Stil Novo; le regioni e i fiumi italiani; la Giovine Italia e le Guerre
d’Indipendenza. L’Italia ero anch’io quando salivo sull’autobus strapieno e a
volte mi capitava di urtare la solita vecchietta petulante che, appena si
girava verso di me, stringeva la borsetta e borbottava: «’Sti negri, ma perché
non se ne tornano a casa loro!», e io rispondevo freddamente astiosa: «Mi
dispiace per lei ma casa mia è proprio a due fermate da qui, scendo subito non
si preoccupi!». L’Italia ero anch’io quando, in Canada in vacanza, soffrivo le
pene dell’inferno perché non riuscivo a trovare i pomodori pelati giusti per
fare un bel ragù e mangiare le tagliatelle come avevo imparato da mia mamma o
cercavo canzoni italiane alla radio e trovavo solo nostalgiche note cantate da
Mino Reitano o Peppino di Capri che non amavo particolarmente, invece di
Baglioni o Battisti che avevano accompagnato la mia adolescenza. L’Italia ero
anch’io quando, dopo tanti anni di permessi di soggiorno rinnovati finalmente
ero riuscita ad ottenere la cittadinanza. Per anni mi ero sentita né carne né
pesce, né somala né italiana. Ero straniera nella mia stessa terra; se volevo
andare a fare un corso all’estero non potevo perché non mi rilasciavano il
visto; se pensavo di cercarmi un lavoro, desistevo subito: chi mai avrebbe
assunto una straniera e per di più disabile? L’Italia ero anch’io e forse anche
di più quando arrivò il momento del giuramento e l’ufficiale comunale mi fece
alzare la mano destra, sentii il cuore accelerare il battito e la gola seccarsi
– «Ripeta dopo di me», disse il messo comunale, ed io con voce tremante recitai
dopo di lui: «Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana, di osservae
lealmente la Costituzione e le leggi, riconoscendo la pari dignità sociale di
tutte le persone». Parole bellissime che ripeterni lentamente, assaporandone il
significato, pensando agli articoli della Costituzione Italiana da cui erano
stati presi e che avevo studiato a scuola nelle lezioni di educazione civica;
che menti illuminate avevano redatto una sessantina di anni prima, quando
l’Italia si stava riprendendo dalla disperazione, dalla devastazione della
Seconda guerra mondiale; quando quelle stesse menti di giovani uomini avevano
lottato per la libertà di pensiero ed espressione, per l’uguaglianza tra gli
uomini e le donne. Forse quelle stesse parole che avevo appena detto,
dovrebbero essere recitate da tutti gli italiani che nascono e crescono in
questa meravigliosa terra e non si rendono conto della ricchezza e della
profondità che si cela dietro quel trascurato libro che raccoglie gli articoli
della Costituzione.

Io
sono l’Italia, quella di oggi, modea, multiculturale e multietnica, ricca di
sfumature e diversità, «bianca, nera, rossa, gialla perché, Lui ci vede uguali
davanti a sé» come recita una canzone che cantavo da bambina.

L’Italia sono anche io e non importa il colore della mia
pelle o le mie origini; non importa se non rappresento il classico canone di
bellezza italiana perché ci sono altri canoni che rappresento: quelli
culturali, quelli di pensiero, quelli di educazione e di vita trascorsa: ho
tutti i diritti di essere Miss Italia, perché è l’Italia di oggi che
rappresento!

L’Italia sono anch’io e siete tutti voi, italiani da
generazioni o da prime, seconde, terze generazioni.

___________________

 (*)   Rahma Nur, Volevo essere Miss Italia, pubblicato su Lingua
Madre Duemiladodici – Racconti di donne straniere in Italia
, Edizioni
SEB27.
Il racconto di Rahma Nur ha vinto il Premio Speciale Rotary Club Torino Mole
Antonelliana
al VII Concorso letterario nazionale Lingua Madre, 2012.

RAHMA NUR nasce a
Mogadiscio, in Somalia, il 14 dicembre 1963. Arriva in Italia nel 1969 in cerca
di cure mediche a causa di un serio problema di salute. Qui, infine, si
stabilisce e nel 1989 riesce ad acquisire la cittadinanza italiana. Vive e
studia a Roma e dal 1993 insegna in una scuola primaria statale.

 
Spazio arcobaleno

Federica Ramella Bon [Italia](*)
In collaborazione con le alunne del CTP di Cuneo

Viaggio introspettivo
tra piccoli miracoli


Il mio registro è
colorato, parla lingue sconosciute, racconta storie lontane e vicine, di vite
nuove, spezzate, appena nate. Il mio registro canta con voce potente, con
melodie roche, con tristi nenie. Il mio registro sono loro, donne, madri,
figlie, nonne. Vite intrecciate, vite rallentate, vite accelerate, vite
esagerate. Vite di donne in cammino.

Olivia

«Da grande farò la scienziata. Sì, voglio studiare la Terra,
la luce, l’acqua. Voglio analizzare le particelle che compongono una bolla di
sapone, voglio contare le linee di simmetria di un fiocco di neve e ammirae
ogni volta la perfezione».

Questi pensieri mi hanno tenuto compagnia durante il
volo Belfast-Torino, lo scorso agosto. Guardavo giù: il lago Neagh si
allontanava e i soffici monti Moue sembravano ormai tane di lepri. Quando poi
anche il Foyle si è mostrato in tutta la sua interezza, ho capito che l’Irlanda
era ormai lontana e il sogno Italia più vicino. «It’s a miracle!»1.
Un anno intero. Trecentosessantacinque giorni e forse qualcosa in più.
Incognite, quante incognite. L’idea di dedicare un anno della mia vita
all’Italia mi è venuta due anni fa, nel giorno del mio ventiquattresimo
compleanno. Sul cartoncino di auguri di Sean c’era scritto «Fly over the moon,
Olivia!». Vola oltre la luna. Mi spiegò che nella vita aveva imparato ad
allargare i confini, a dilatare spazio e tempo e a rimpicciolire le paure. Ma
non aveva mai voluto cancellare i suoi sogni. Sean aveva vissuto i Troubles2,
e i Troubles avevano fatto di lui un uomo.

Dall’alto le nuvole mi ricordavano la panna montata e
l’aereo diventava un cucchiaino d’argento che si tuffava e si riempiva ingordo.
È iniziata così la mia avventura italiana, con ingordigia, sulla scia di
quell’aereo.

Ed eccomi qui: ragazza alla pari presso la casa di
un’ostetrica, madre di due gemelli. Non appena acclimatata con le mie nuove
mansioni di cuoca-baby-sitter-donna di servizio, ho cercato una scuola che
potessi frequentare per imparare l’italiano. Ora, seduta su questa sedia
ballerina, mi accarezzo un ricciolo guardandomi intorno: questa classe è troppo
piccola per ospitare tutto questo mondo. Si sentono accenti africani, sapori
arabi, profumi orientali; si respira quella tipica complicità di chi condivide
uno spazio neutro, nuovo, tutto da gustare. Mi sento piccola tra queste donne,
io che ho potuto scegliere di venire qua. Il cucchiaio d’argento sprofonda
sempre di più nell’universo di panna montata, nel punto in cui diventa densa,
nel punto in cui sente di dover tollerare un peso, prima di riemergere carico.
Nel banco accanto al mio è seduta Malaika, una giovanissima capoverdiana,
incinta all’ottavo mese. Chissà, magari anche in Africa chi scorge il primo
dentino del neonato deve comprargli un paio di scarpette. Arrossisco, incredula
di aver davvero formulato questo pensiero innocente. Sposto lo sguardo oltre a
questo pancione coperto di rosso e osservo le mani delle altre compagne, le
loro rughe, le loro scarpe, i loro sguardi disorientati, i loro monili di
legno. L’insegnante inizia a fare l’appello ed è come se capissi che tutto il
mondo non è paese, che il segreto è nella scoperta, nella tacita convivenza in
questo spazio arcobaleno di storie non raccontate, di desideri inseguiti, di
tenacia. E di nostalgie addomesticate.

 
Inese

Sta scorrendo
l’elenco, ecco, ci siamo quasi. «Ines?»… Lo sapevo. Scontato. «Inese. Mi chiamo Inese!». L’insegnante prende
dall’astuccio una matita e traccia un piccolo segno orizzontale sul registro,
forse proprio sotto quella “e” del mio nome che gli italiani non vogliono pronunciare.

Oggi è il mio primo giorno di scuola, di scuola
italiana. Mio marito Giorgio mi ha proposto questo corso di alfabetizzazione,
ma io sono scettica, decisamente scettica. Conosco un solo linguaggio
importante, quello della musica, quello che da Riga mi ha catapultata fin qua,
sulle arie di Enescu, di Ravel, di Brahms. Quel linguaggio che da bambina mi ha
affascinata così tanto da obbligarmi a vendere i pattini da ghiaccio per tre
lezioni di solfeggio in più; quel mondo che poi, da adolescente, mi ha permesso
di ricomprarli, quei pattini, con i guadagni dei concerti al Teatro dell’Opera
Lettone.

Ho quarant’anni e quattro figli, rimasti a Jourmala con
i nonni. Ora sono parcheggiata qui, “mamma-musicista-sognatrice utopica”. Una
bellissima donna, mi dicono. Un enigma impossibile, ribatto io. Mi manca il
Golfo di Riga, con quella sua macchia scura centrale a forma di cuore: quanta
vita ho dedicato ad ammirare quel piccolo isolotto, Ruhnu, immaginando le sue
spiagge deserte, il gusto del freddo e di una skābputra3
fumante, sorseggiata in silenzio. Quel silenzio. Brīnums4,
mi veniva da pensare, era un miracolo. Seguivo il volo delle cicogne e cercavo
le ali degli angeli tra le nuvole. Non avrei mai creduto di avere il coraggio
di abbandonare tutto.

Italia per me significa amore, rinascita, speranza. Ma
significa anche abbandono, rischio. Fallimento. Il mio ego musicista ha trovato
l’Eden: uno spazio per esprimersi, per mettersi in gioco, per farsi adulare e
applaudire. Una parte del mio cuore è riuscita a scorgere un nido, ad
assaporae il tepore, a desiderae la protezione come una droga; cosa rimane
invece della Inese mamma? Cosa rimane di quella donna dolce e premurosa, quella
che il sabato preparava gli sklandu rauši5
per i suoi bambini? Mi sento svuotata. Svuotata come una cartuccia di
inchiostro rosso appena finita, in cui il colore ha lasciato traccia di sé;
presto però non ne rimarrà che l’involucro, uno sterile pezzo di plastica.
Capricciosa ed egoista. Questo è il mio pensiero mentre l’insegnante mi scruta,
sono stata egoista.

Non riesco a spostare lo sguardo: la massa di riccioli
fulvi che cadono a grappoli sulle spalle della ragazza seduta davanti a me, mi
cattura, mi penetra negli occhi. Quella ribellione di forma e colore mi ricorda
una sonata di Hindemith, note intrecciate in tempesta, da districare con il mio
archetto con movimenti secchi, il gomito alto e lo sguardo fiero. La ragazza
parla di sé in un italiano piuttosto incomprensibile, ma l’espressività dei
suoi occhi mi basta per capire che in lei c’è trasparenza, c’è bontà, c’è un
animo ancora innocente. Ora tocca a me, devo presentarmi e non c’è un direttore
d’orchestra a indicarmi il tempo da seguire.

 
Luciana

Il chiarore lunare
emanato dal volto della mia vicina di banco mi fa male agli occhi. Perché è così timida? Perché ha detto solo tre
parole, perché tocca già a me? Che cosa posso dire io, ora? Questa Inese ha
raccontato che è una musicista, che suona la viola all’Opera, che è madre… E
io? Sarò concisa, sarò sincera. Questo corso di Italiano io lo devo fare. Sono
obbligata a venire a scuola tre volte alla settimana, dopo o prima del tuo.
Se voglio tenermi stretto il lavoro all’ospedale devo imparare a parlare questa
lingua. Me l’ha detto tante volte la Signora Mirella: «Luciana, ieri ti ho
detto di andare nel reparto F, non di pulire gli uffici del terzo piano! Se
continui a non capire ciò che ti dico, ti dovrò sostituire». E allora
impariamolo questo italiano, questa musica in «a» e in «e», queste parole
lunghissime e queste frasi romanzate. Lo so, non mi sono mai sforzata, cercavo
di capire con gli occhi, di cogliere tra le sfumature degli sguardi ciò che la
gente aveva intenzione di dirmi. Sul lavoro però non ha mai funzionato, bisogna
essere veloci, nessuno ripete, nessuno scandisce lentamente la frase «I bagni
del reparto ortopedia sono ancora da pulire», oppure «La mensa è un inferno,
corri a sistemarla». Un inferno, chiamare la mensa un inferno… Questa è
bella… Trenta milioni di poveri in Colombia, l’ho letto lunedì su El
Espectator. Io sono stata obbligata a partire. Li ricordo bene quei giorni:
all’improvviso tutto è diventato insustancial, impalpable6. Era come correre dietro ad un sasso lanciato con rabbia nel
Caquetà. E io correvo, correvo, sapevo di doverlo prendere ma come in un incubo
i miei piedi erano pesanti, ancorati al rosso stridente della mia terra; il
fiume non rallentava la sua corsa, anzi, scorreva sempre più rapido e pareva
ridesse mentre i miei occhi tentavano di penetrae le acque, cercando quel
sassolino tra una miriade di altri sassolini. Impossibile. Serviva un milagro7.

Un giorno poi un aereo è decollato e atterrato. Per tre
volte. Italia, freddo, ciao Orinoco, ciao Antioquia. Vagavo tra i ricordi, mi
perdevo tra gli scai rimasugli del mio io, mi sforzavo di sentire nella bocca
il sapore salato della pelle di mia madre, volevo toccarla, volevo pizzicarla,
fingevo di farmi trasportare dagli alisei oltre al Maracaibo. Ma no, nulla, di
fronte a me. Solo grigio, fumo, macchine, grigio, freddo, fumo. E ancora
grigio, e ancora fumo.

Sono passati tre anni e adesso, in questa classe,
circondata da altre donne che hanno sensazioni comuni alle mie, sento di voler
essere felice mentre tento di presentarmi. «Ciao a tutte, sono Luciana e sono
colombiana. Sono arrivata da Bogotà tre anni fa e il mio sogno più grande è
quello di entrare ancora una volta nel santuario di Las Lajas per mano a mia
madre, durante la processione del Corpus Cristi. Per me Italia significa
ossigeno, dopo una lunga apnea. Un po’ come gustare una fetta di lechona8
sorseggiando un tinto9 bollente».

Teste che si voltano verso di me, mi sento studiata e
provo disagio, ma in un attimo tutto cambia e tutto l’universo femminile
racchiuso qui mi dà pace, mi dà conforto, mi aiuta a liberarmi dal fantasma del
fiume che scorre veloce, dalla mia corsa senza fiato, dal muro nero che mi
aspetta sempre alla fine di quella pazza corsa. I miei occhi vagano nella
classe, tra capelli ispidi e treccine, tra niqab e dashiki, tra maglie di
cachemir e unghie laccate di rosso; mi blocco sulle braccia muscolose di
Judith, una donna namibiana che trasmette energia, le cui vibrazioni positive
giungono fino a me e mi pervadono di quella magia che solo l’armonia può
creare. Il muro nero diventa luce, la luce diventa sentimento, il sentimento
diventa azione. E l’azione mi rende donna, tra altre donne, in corsa per mano
alla vita.

Kim ovvero Suor
Marie-Agnes

Forse
ho sbagliato a venire. Ma no, no! Non devo demoralizzarmi così. Ho imparato
tante cose nella vita senza perdermi d’animo, imparerò anche l’italiano. Ma è
così difficile, sarà un’impresa ardua. Suor Zyma mi ha avvisata, «Vedrai,
all’inizio ti sembrerà impossibile riuscire a capire qualcosa, figurati
parlare!», non si sbagliava. Non c’è nulla che accomuni il coreano
all’italiano, nulla, non un suono, non una parola, non un gesto. Una cantilena,
ecco cosa mi ricorda sentire parlare questi italiani, una di quelle cantilene
che le nonne sussurrano ai nipoti per farli addormentare, sugli argini del
fiume Han. Analizzo chi mi sta di fronte, chi mi sta accanto, chi mi sorride
mentre io faccio finta di comprendere ciò che sta avvenendo qui, intorno a me,
elargendo sorrisi compiaciuti a tutti. A tuo le mie compagne di classe parlano,
chi sorridendo, chi arrossendo, chi con uno sguardo severo. La donna che ha
parlato per ultima ha dei lunghi capelli lucenti, scuri come il sesamo nero che
noi coreani mettiamo un po’ dappertutto. Gli occhi di questa giovane donna
sorridevano, poi si sono riempiti di nero per intenerirsi di nuovo dopo un
breve istante. Chissà cos’ha raccontato, vedevo la sua mente vagare tra i
ricordi, le sue mani accartocciarsi una sull’altra, le sue dita fremere; ho
letto la sua storia attraverso quelle unghie rosicchiate, come in segreto. Ora
però tutti gli occhi sono puntati verso di me, l’insegnante mi sorride, mi
chiama per nome e con la mano fa un gesto che interpreto come: «Tocca a te, Kim».
E allora io raddrizzo le spalle, mi accomodo meglio sulla sedia, mi schiarisco
la voce, faccio finta di non capire che tocca proprio a me e guardo la mia
vicina di banco con sguardo interrogativo. Lei con un’occhiata mi rimanda
all’insegnante e allora decido di dire le tre parole che so, quelle che ho
voluto conoscere subito, appena arrivata a Milano, dopo un volo di diciotto ore
proveniente da Seoul. «Io sono Marie-Agnes, suora missionaria, perché Dio è
amore». Sorridono tutte, come inebriate dalla mia rivelazione, come se un
anelito della mia devozione le avesse avvolte in un abbraccio caldo, come se il
nome del nostro Dio fosse solo Amore, carità, fratellanza. Mi scrutano,
impazienti che il mio racconto si gonfi di particolari ma «Non so italiano»,
bisbiglio. Nasce forte in me il desiderio di raccontarmi, di aprirmi a loro; il
potere del sorriso delle mie nuove amiche riesce ad allontanarmi dall’odore
della violenza che la mia Terra ha subito, il ricordo di tutti quei poveri e
della loro corsa verso il buio, nelle braccia putrefatte della segregazione.
Qui c’è dolcezza, c’è un nido per un piccolo che sta per emettere il suo primo
vagito, c’è forza, c’è coraggio. Vorrei raccontare a tutte loro che anch’io un
giorno sono stata coraggiosa e ho voluto inseguire Gesù, fino in fondo. Fino a
Cuneo. Proprio qui, dove il Movimento Contemplativo Missionario ha accettato la
mia richiesta di permanenza, dove i miei sessanta anni non hanno spaventato
nessuno, dove la mia esperienza è necessaria e il mio aiuto importante. Qui,
dove sto dimenticando il sapore del Kimchi e mi sto arricchendo di nuove
sensazioni, qui dove nessuno vende bachi da seta ai lati delle strade e dove le
formiche rosse sono un pericolo, non un sollievo per il mal di stomaco, qui
dove i fiori non si mangiano ma si mettono nei vasi. Qui, uno spazio nuovo,
colorato, dove l’insegnante mi guarda e con un gesto accarezza tutte noi. E io
dico: «Qui è gijeok10, qui è miracolo».

 


Malaika


Mi guardo le mani, le
mie mani callose, ora umide, ora gelide. Stringo tra le dita una penna nuova di zecca e aspetto il mio tuo, qui, in
quest’angolo di pace. Mi sembra che i miei polmoni necessitino di più ossigeno,
adesso che Malik sta per affacciarsi sul mondo. Oggi scalcia più del solito e
nemmeno la radice di zenzero mi aiuta a calmarlo. Poso la penna, dopo aver
scritto «Scuola-Italiano» sulla prima pagina di questo quaderno sgangherato. Mi
piace proprio essere dove sono, anche se le mie mani non hanno fermezza; le
guardo e penso a tutti gli anni in cui mi hanno seguita, in cui hanno raccolto
fagioli, bacche di caffè, hanno pulito pesci, aragoste, hanno lavato conchiglie
e coralli, hanno asciugato lacrime e hanno stretto altre mani con passione.

Il corallo, che incanto il corallo. Mi porto le dita al
naso ma non è rimasto nulla di quell’odore di sale, di schiuma, di mare. Sogno
spesso di essere ancora sulla barchetta di legno di John: il silenzio navigava
con noi, seduto sulla cassa dipinta di giallo, rispettato come un ospite atteso
da tempo. Quando raggiungevamo il luogo scelto iniziavamo a canticchiare e
andavamo avanti per ore, finché il buio non ci intimava di tornare a riva.

Mio figlio invece non crescerà con il mare
all’orizzonte, mio figlio nascerà in questa città piena di luci e di rumori,
piena di macchine che corrono, piena di persone che si svegliano in un luogo
chiuso per recarsi in un altro luogo, ancora più chiuso. Proprio questo mi
manca: lo spazio aperto che mi riempiva gli occhi e più guardavo il cielo e più
forte respiravo, tanto da sentire nei polmoni, nelle ossa, in ogni mia vena,
tutto quell’universo che brillava intorno a me. Non c’era un momento della
giornata che preferivo per avvicinarmi al mare e guardare lontano: l’alba era
magica, con quella luce chiara e splendente, il mattino si accompagnava con i
canti degli uccelli che volavano paralleli al mare. A mezzogiorno poi, il
colore del cielo era così intenso che tutto pareva diventare blu; era magnifico
stare seduti sulla sabbia, con le mie sorelle e i miei fratelli, tenendo fra le
ginocchia una ciotola di kacthupa. Al tramonto il blu diventava arancio
e il mare era così calmo che sembrava una coperta soffice, sulla quale era
facile immaginare di rotolare, facendosi avvolgere da quel colore bollente, era
un milagre11 essere al mondo. Rotolavamo, rotolavamo, e i nostri
capelli ci coprivano il viso, non riuscivamo più a vedere il cielo, ma
guardavamo giù, nel mare, vedevamo i pesci, imitavamo i loro movimenti, li
seguivamo e cercavamo di prenderli. Poi ci svegliavamo da questo stato di sonno
immaginario e tornavamo a casa.

Quando qui mi chiedono da dove provengo e io rispondo
Cabo Verde, tutti mi sorridono, adottando quell’espressione di chi sogna di
vedere quei luoghi, prima o poi.

Ho salutato casa mia, un giorno. Era buio, c’era anche
il vento. Il vento, già… È stato come se volesse portarci via ancora più in
fretta. Ci spingeva, ci incoraggiava, ci sussurrava piano che avremmo visto
luoghi migliori, tempi migliori. Mi sforzo per rivivere quelle mie ultime ore
da «capoverdiana-che-vive- nella-sua-terra». Avrei voluto riempirmi la bocca
del sapore delle banane fresche, avrei voluto trattenere sulla pelle il profumo
del mio sole e qualche granello di sabbia tra le dita dei piedi. Sono in Italia
da ormai otto anni e ancora oggi, prima di entrare in casa, mi tolgo le scarpe,
le scrollo sul pavimento desiderosa di veder scendere un piccolo granello di
sabbia luccicante.

Il mio registro non
si chiude, le parole delle mie alunne lo tengono sempre aperto, dando voce a
quell’infinito di emozioni, ricordi, desideri e obiettivi che le rendono vive.
Grazie a Olivia, Inese, Luciana, Kim, Malaika, ma anche a Kristine, Rosa,
Danielle, Aisha, Sandy, Judith, Spresa, Rukya, Vera, Marina… Donne capaci di
piccoli, grandi miracoli.

____________________

(*) Federica Ramella Bon, Spazio Arcobaleno,
pubblicato su Lingua Madre Duemilatredici – Racconti di donne straniere in
Italia
, Edizioni Seb27.
Il racconto di Federica Ramella Bon ha vinto il Premio Sezione Speciale
Donne Italiane
del VIII Concorso letterario nazionale Lingua Madre,
2013.

FEDERICA RAMELLA-BON nasce a Cuneo nel 1979. Docente di lingue straniere presso le
scuole secondarie di primo e di secondo grado; per alcuni anni ha insegnato in
diversi Ctp (Centri territoriali permanenti) della provincia, venendo così a
contatto con aspetti della multiculturalità che – dice – non conosceva e che
l’hanno appassionata. Da sempre ama scrivere e raccontare, le piace la
letteratura, l’arte e la psicologia sociale, soprattutto quella legata ai
fenomeni migratori. Compone poesie per la rivista letteraria online «Peripheral
Surveys».

Note
1     «It’s a miracle»: è un miracolo.

2     Troubles: è il nome con cui si indica la
cosiddetta «guerra a bassa intensità» che si è svolta tra la fine degli anni
‘60 e la fine degli anni ‘90 in Irlanda del Nord.

3     Skābputra: zuppa di orzo acido.
4     Brīnums: miracolo.
5     Sklandu rauši: tortini a base di patate.

6     Insustancial, impalpable: inconsistente,
impalpabile (lasciato volutamente in lingua originale).

7     Milagro: miracolo.
8     Lechona: piatto tipico colombiano a base di
carne di maiale.
9     Tinto: caffè.
10   Gijeok: 기적, miracolo.
11   Milagre: miracolo.
 
Panini verdi
Chou Mei Chen Susanna [Cina](*)

La
signora Qin era entusiasta, aveva appena sentito per telefono suo fratello
minore, che quel giorno era diventato nonno; stava raccontando del lieto evento
a sua figlia maggiore, Anna Lin, sperando di darle una spinta affinché anche
lei si decidesse a sposarsi e darle un nipotino. Anna Lin sapeva come si
sarebbe svolto il dialogo e, con rassegnazione, ascoltava la madre, fissando le
statuine rappresentanti dame dell’antica Cina, intente a suonare una il pi’pa,
l’altra il guzheng, una terza lo er-hu1,
e l’altra il flauto traverso, circondate da alberi con foglie di giada e fiori
di agata dai diversi colori, poste sui ripiani nella parete verde acqua di
fronte al divano blu sul quale era seduta.

– Sai, il tuo cuginetto Roby ha avuto una figlia, l’hanno chiamata Kate!

– Kate?!? –, le aveva risposto Anna Lin con
un’espressione divertita, pensando a quanto fossero oramai altri tempi quei
lontani Anni ‘80, quando i cinesi che venivano in Italia, per facilitare la
comunicazione nei diversi ambiti di scambio quotidiano, che fosse scuola o
lavoro, sceglievano anche dei nomi italiani per sé e per i loro figli: Paolo,
Maria, Michele, Sara, Giovanni, Lucia.

– Effetti della globalizzazione –, riprese Anna Lin.

– Cosa vuol dire globa… – le aveva chiesto la Signora
Qin, sapendo che non poteva trattarsi di nulla di troppo positivo, visto il
tono snob con cui l’aveva detto sua figlia.

– In cinese è 全球化,
quanqiuhua. Quando dei gusti diventano uguali per tutti –, le aveva
risposto un po’ superficialmente sua figlia, preoccupandosi più che altro di
arrivare al nocciolo della questione e poco di approfondire il significato del
termine «globalizzazione».

– Beh, almeno lui si è sposato prima di te ed è già
diventato papà. Tuo cuginetto Roby ha solo 21 anni, tu invece, che ne hai 32,
ancora niente.

Ed eccola – stava pensando Anna Lin – che riparte con la
solita tiritera: e quando ti sposi? Oramai sei vecchia, guarda che più aspetti
più potresti avere dei problemi ad avere figli, potrebbero essere deboli,
oppure potresti non avee proprio, mica rimani giovane per sempre! Un getto
continuo di parole, tante parole.

– Come sarebbe bello se diventassi nonna anch’io; sono
la sorella maggiore e sarò l’ultima a diventarlo, se mai lo diventerò! Eppure,
Anna Lin, non sei brutta, insomma, c’è di peggio.

– Grazie mamma.
– Com’è possibile che non riesci a trovare nessuno?

Anna Lin sapeva che la madre una volta presa quella
strada non l’avrebbe lasciata tanto facilmente, le prossime frasi sarebbero
state sui suoi fallimenti in tutti i settori: non sei sposata, non hai figli,
ma non hai nemmeno un lavoro fisso.

– Nonostante tutti questi anni passati a studiare per
laurearti, non hai trovato un lavoro decente.

«Come Volevasi Dimostrare», adesso partirà con l’elenco
dei figli delle sue amiche o parenti lontanissimi, che hanno tutti dei lavori
bellissimi, super pagati, in giro per il mondo, e tutto questo senza essere
laureati!

– La mia amica Alian mi ha detto che sua figlia ha
trovato lavoro per una banca, è sempre in trasferta, a te piace viaggiare no? E
la pagano bene.

– Sì sì mamma, immagino. Come la figlia dell’amica della
mamma di Lisa, che poi si è scoperto avere un contratto di apprendistato.
Adesso
l’hanno lasciata a casa, vero? Al suo posto non hanno preso una neo-laureata,
che non sa nemmeno leggere una fattura, che sia in italiano o in cinese?

Anna Lin doveva sempre controbattere, questo lo sapeva
bene la Signora Qin, con sua figlia non era facile.

– Accompagnami a Porta Palazzo2,
devi aiutarmi a fare la spesa.

– Va bene –, rispose Anna Lin, pensando che sua madre
fosse molto abile a cambiare argomento e che per il momento l’assalto era
rimandato, almeno fino al prossimo invito per matrimonio o nascita di bebè.

Quand’era piccola, Anna Lin andava tutti i giorni al
mercato di Porta Palazzo con sua nonna Elena. Gli amici cinesi di famiglia
quando la vedevano le dicevano che era il sacchettino profumato della nonna, un
modo poetico per dirle che le era sempre attaccata.

Con
la nonna avevano dei giri di commissioni quotidiane: panettiere, lattaio, «campagnini»
(così li chiamava la nonna) che avevano una loro sezione del mercato, dietro la
tettornia dell’orologio, con le bancarelle di prodotti che negli ultimi anni
venivano definiti a chilometro zero. La nonna Elena passeggiava tra le
bancarelle sorridente, chiacchierava coi commercianti, che fossero cinesi o
italiani, pugliesi o piemontesi, la sua gentilezza era un linguaggio
universale. Anche la Signora Qin accompagnava spesso la suocera a fare la
spesa; quando, all’inizio degli Anni ‘80, appena arrivata, ancora non sapeva
una parola di italiano e si sentiva così lontana dalla sua terra, il mercato le
ricordava un po’ casa; aveva imparato a mangiare nuovi cibi, come i formaggi,
il sugo di pomodoro, il gelato; o a sentire come i sapori di prodotti comuni
anche con la Cina fossero comunque diversi. Ma non aveva rinunciato a portare
nella nuova casa alcune tradizioni culinarie del suo paese.

Negli ultimi anni al mercato di Porta Palazzo riusciva a
trovare quasi tutto, perché avevano aperto molti negozi di alimentari cinesi e
dai «campagnini» c’erano bancarelle di frutta e verdura orientali coltivati da
contadini cinesi nelle terre del torinese.

– Cosa dobbiamo comprare? –, chiese Anna Lin, più per
spezzare il silenzio tra lei e la madre che per reale desiderio di sapere,
mentre camminavano nel viale alberato dove le fermate dei mezzi pubblici erano
affollate da quei volti della multiculturalità che a lei piacevano tanto, perché
così non si sentiva più una dei pochi a essere straniera. Perché pur essendo
nata in Italia, pur avendo una parte genetica anche italiana, pur avendo più
amici italiani che cinesi, agli occhi dei più era sempre una straniera. Quando
parlava la gente le diceva stupita: «Ma come parli bene italiano!», nello
stesso modo in cui in Francia le facevano i complimenti per come parlasse bene
il francese, in Germania il tedesco o in Inghilterra l’inglese. Peccato che lei
fosse italiana, non solo ma anche.

– Un po’ di cose per fare i panini verdi –, le rispose
la signora Qin.

– Entriamo prima qui –, disse la signora Qin alla
figlia, davanti all’ingresso del primo negozio cinese della via, le cui vetrine
erano ricoperte di annunci colorati, scritti coi caratteri cinesi: parrucchiere
in via YZ, si vendono schede telefoniche scontate, prenotazione biglietti aerei
per Shanghai/Beijing (Pechino)/Wenzhou, signora 50enne cerca lavoro come
baby-sitter, e altri.

La signora Qin analizzava i prodotti esposti sugli
scaffali: la farina di riso lì costava circa venti centesimi in più rispetto al
negozio accanto; però c’era il preparato per barbecue di quella marca
che gli altri negozi non avevano, quindi ne prese due bustine.

– Ah Signora Qin! Come stai? – disse avvicinandosi una
signora magra, dalle gote arse dal sole, come solo chi lavora all’aperto sotto
il sole può avere.

– Ah buongiorno Yujing! Come stai? –, le rispose la
Signora Qin.

– Bene. Stai facendo la spesa? Cosa compri?
– Alcune cose per la festa Qing Ming3.

– Tu fai dei panini verdi buonissimi! A me non vengono
così bene, il ripieno è meno saporito e il colore dell’impasto mi viene
pallido.

– Devi usare gli spinaci, danno un colore più acceso.
Nel ripieno metti del bambù, dei funghi secchi e anche dei fagiolini secchi se
li hai. I tuoi figli stanno bene? La maggiore sta per partorire vero?

– Sì, le voglio cucinare degli spaghettini col vino di
riso.

– Mamma –, la interruppe Anna Lin. La signora Qin ignorò
sua figlia. In realtà non lo faceva di proposito, in famiglia glielo facevano
sempre notare, che quando parlava con qualcuno in cinese, o guardava la tv
cinese (che fosse film, o concerto, o telegiornale) non era «impostata» nella
modalità «lingua italiana».

– Mammmma! Vanno bene questi bambù? – le chiese Anna Lin
mostrandole un barattolo dall’etichetta verde con l’immagine di germogli di
bambù gialli.

– No, quelli sono tagliati a fette. Prendi il barattolo
con l’etichetta bianca, quelli sono interi.

– Chi è quella ragazza, signora Qin? –, chiese curiosa
Yujing.

– Mia figlia maggiore.

– Oh, non ti assomiglia per niente. In realtà non sembra
nemmeno cinese… È sposata?

– No e non ci pensa proprio.

– Se vuoi ti presento il figlio di Miyan, ha quasi la
sua età, anche lui non è ancora sposato, sta studiando medicina; forse è del
segno del bue4, va bene con tua figlia no?

– Mia figlia non vuole queste cose combinate… Adesso
devo andare a finire la spesa. Ci vediamo Yujing.

Tra
uno scaffale e l’altro dei tre negozi cinesi e tra una chiacchierata con un
conoscente e l’altro, madre e figlia avevano comprato tre pacchetti di farina
di riso, uno di funghi secchi, due confezioni di pasta di riso, due di
preparato per salsa barbecue, uno di pasta di farina di patate dolci, un
barattolo di germogli di bambù (di cui Anna Lin si lamentava per il peso) e una
bottiglia formato famiglia di salsa agro-piccante.

Dai «campagnini» invece, aveva comprato due chili di
cime di rape, le melanzane lunghe e i cavoletti cinesi.

– Per pranzo fai il riso con le cime di rapa, mamma?

– Se vuoi. Dopo pranzo però tu e tua sorella mi dovete
aiutare a fare i panini verdi.

Anna Lin sapeva che sua madre in realtà non aveva
bisogno del loro aiuto, che se la cavava benissimo anche da sola; lo faceva per
insegnare alle figlie come prepararli.

Stava riflettendo che, in effetti,
avrebbe dovuto imparare a cucinare alcuni determinati piatti, almeno per
mantenere le tradizioni. Sarebbe mai riuscita a cucinare da sola i panini
verdi? O a preparare il vino di riso? O dei semplici panini bianchi al vapore?
Tutte le tradizioni della cultura di sua madre, e quindi anche della sua,
sarebbero andate perse. Come avrebbe cresciuto i suoi figli? Ma forse il punto
era davvero un altro, quello su cui sua madre insisteva tanto: avrebbe mai
avuto dei figli?

Dopo
pranzo, mentre nella cucina di casa disponeva sul tavolo in file composte i
panini verdi, Anna Lin notò la loro irregolarità: quelli di sua madre erano
tutti della stessa dimensione, i suoi no: qualcuno era più pieno, qualcuno
sgonfio, qualcuno più tondo; e fu colta da un angosciante senso di vuoto, la
consapevolezza che le mancava qualcosa, non sapeva definire di preciso cosa, ma
sentiva di non aver più tempo, di doversi affrettare per imparare, per
recuperare, per ottenere ciò che non aveva.

___________________

(*) Chou Mei Chen Susanna, Panini verdi,
pubblicato nell’antologia Lingua Madre Duemilatredici – Racconti di donne
straniere in Italia
, Edizioni Seb27.

MEI CHEN SUSANNA CHOU nasce il 24 novembre 1976 a Che-Kiang (Repubblica Popolare
Cinese). Laureata in Lingue e Letterature Straniere (cinese e tedesco) presso
l’Università di Torino, dopo varie esperienze in ambito turistico-commerciale,
inizia a lavorare, in Germania, nel settore dell’organizzazione culturale,
proseguendo poi la sua attività in Italia. Ha organizzato festival musicali in
Piemonte, con particolare riguardo verso le sonorità inteazionali.
Parallelamente all’attività culturale (www.asiae.org) collabora con diverse
associazioni, occupandosi anche di traduzione.

 
Note
1     Strumenti a corde della tradizione cinese.
2     Porta Palazzo: il più grande mercato di Torino.

3     La Festa Qing Ming (清明节, Qing
Ming Jie) è la festa cinese della pulizia delle tombe, che ricorre generalmente
nel mese di Aprile del calendario gregoriano.
4     Uno dei dodici segni dello zodiaco cinese,
suddiviso per anni e non per mesi.

 
Con gli occhi di Keréne
Maria Enrica Sanna e Keréne Fuamba [Italia e Congo](*)
 

Il
volo era durato appena venti minuti, Pantelleria vista dall’alto aveva la forma
di un rene umano, ma la cosa più inquietante è che appariva piccolissima: non
avrei mai creduto che il pilota, dopo averci miracolato evitando con cura i
cocuzzoli delle montagne limitrofe, sarebbe anche riuscito a centrare quella
pista così piccola da ricordare le portaerei in uso durante la Seconda guerra
mondiale!

Non sapevo dove andare, ma non mi preoccupavo più di
tanto: mi avevano detto che per giungere alla scuola del paese, sarebbe stato
sufficiente chiedere un passaggio ad uno di quei panteschi molto
disponibili che passano casualmente dalle parti dell’aeroporto proprio all’ora
degli arrivi, e che per soli cinque o dieci euro ti fanno il «favore» di
accompagnarti in macchina, persino davanti alla scuola.

In effetti, in 5 minuti ero già arrivata. Dopo le
pratiche di segreteria e le presentazioni col personale della scuola e con il
preside, al suono della campanella finalmente era giunto il momento di entrare
in classe.

Per rompere il ghiaccio cominciai a presentarmi
scrivendo il mio nome sulla lavagna e parlando un po’ di me. Ero riuscita ad
attirare la loro attenzione, adesso toccava a loro presentarsi. Mentre i più
audaci facevano a gomitate nel contendersi la parola, non poté passare
inosservata, seduta al primo banco della fila centrale, una ragazza dagli occhi
grandi e scuri: era magrolina, ben vestita, e sembrava molto riservata.

La presentazione della classe procedeva rapida e
ordinata: tutti volevano fare bella figura!

Dulcis in fundo
toccò a Keréne, la ragazza al primo banco, che timidamente sorrise e dopo un
paio di tentativi, lodevoli ma buffi, rinunciò alla sua impresa.

I compagni mi spiegarono che non parlava bene l’italiano
perché era arrivata in Italia da pochi mesi.

La mattina seguente, misi sul banco di Keréne il
dizionario di francese. Avevo un’intera classe da seguire e non avrei potuto
dedicare troppo tempo a lei, che comunque sembrava aver gradito la novità.

Per sondare la classe e le eventuali lacune
grammaticali, decisi di assegnare un tema.

Volendo dare a tutti la possibilità di scrivere senza
problemi, scelsi un titolo aperto:
«Una giornata indimenticabile…»

Keréne, si tuffò sul dizionario e per due lunghe ore non
staccò mai gli occhi dal foglio. Tutti si fermarono per la ricreazione, ma lei,
caparbia, continuò a scrivere. Quella che per tutti gli altri era la lingua
madre per lei era un ostacolo da dover aggirare!

A fine giornata, dopo aver ritirato tutti gli elaborati,
mi avviai verso casa.

Tra un panino e un caffè, cominciai la correzione dei
temi della III B.

In quei fogli c’era di tutto: da Disneyland alle
Piramidi, dal primo bacio alla Play-Station II.

Ma ad un tratto il registro cambiò: il tema di Keréne si
presentava con una grafia pulita ed ordinata…

«Sono
nata in Congo, giunta a Pantelleria per caso: ho una sorella poco più grande di
me e tre fratellini piccoli e vivaci. Mia mamma è sempre riuscita a far fronte
a tutte le esigenze familiari: è una donna in gamba e non si è tirata indietro
quando papà le ha proposto di spostarsi più a Nord nella speranza di garantire
a noi un futuro migliore. Mio papà è un insegnante di francese ed ha deciso di
raggiungere la Libia per migliorare le aspettative di vita dell’intera
famiglia: lì ci sono scuole che meglio retribuiscono i loro docenti. Così
decidiamo di partire, il viaggio è lungo ma ne vale la pena. Giunti lì ci
inseriamo molto bene: siamo una famiglia numerosa, benestante e felice. Tutto
sembra aver preso una giusta piega ma nell’aria c’è un nuovo fermento di libertà:
sta per iniziare la “primavera araba”, che per noi è semplicemente un’altra
guerra. Dopo giorni di terrore sotto i bombardamenti, papà decide di partire
per l’Italia, trovando posto su uno di quei famigerati barconi che solcano
copiosi il Mediterraneo. Siamo in sette e quindi paghiamo una somma ingente,
ma, a differenza di tanti altri disperati, papà ha i soldi per acquistare i
biglietti. Nel cuore della notte, nascondendoci dalla sorveglianza militare
armata, riusciamo ad imbarcarci e, tra lo schianto delle bombe ed altre mille
paure, a prendere il largo.

Il mare sembra agevolare la nostra fuga, il vento è buono.

Oggi è mercoledì 13 aprile 2011, sono le 5:00.

Il sole non è ancora sorto, attorno c’è buio fitto, dopo
cinque giorni di navigazione qualcuno dice che siamo vicini ad uno scoglio: no,
non è uno scoglio, è Pantelleria.

Il mare è agitatissimo e ci fa sbattere l’uno contro
l’altro; il barcone, carico di 192 persone, sembra impazzito, sbattuto da onde
minacciose che ci sommergono da tutti i lati.

Il barcone è sempre più vicino agli scogli, l’impatto è
orrendo e devastante, ho il cuore in gola, per davvero lo sento palpitare
proprio lì: e pensare che fino a quel momento avevo sempre creduto che quello
fosse soltanto un modo di dire!

Uno squarcio sulla fiancata dell’imbarcazione. La paura è
grande e, sperando che sia tutto finito, accenno una preghiera di ringraziamento:
«Dio mio, spero che questo non si ripeta mai più nella mia vita…», ma non
immagino minimamente quello che ancora mi aspetta.

Improvvisamente siamo catapultati letteralmente in mare:
i più fortunati rimangono attaccati al barcone, altri sono ormai in balìa delle
onde… E molti di noi non sanno nuotare.

Solo grazie all’aiuto della guardia costiera e dei
volontari che si prodigano tirandoci fuori dall’acqua, io, i miei fratelli, mia
sorella e mio padre ce la caviamo.

La mia mamma purtroppo no! Lei non ce la fa… Non sa
nuotare e le onde non le lasciano scampo. Forse, se avessi saputo nuotare,
l’avrei potuta salvare io. Il dolore, lo sconforto, sono grandissimi. L’inferno
non può essere peggio di questo, ed io ci sono stata!

Nel frattempo perdo i sensi, vengo salvata a fatica: ho
promesso alla mamma che saremmo rimasti tutti uniti e che mi sarei occupata dei
bambini.

Ci ricoverano per alcuni giorni in ospedale; gli
abitanti della piccola isola non ci fanno mancare nulla; i medici, appena
possibile, ci portano in obitorio per salutare per l’ultima volta la mamma. I
nostri cuori sono straziati dal dolore, sono ferite difficili da rimarginare,
ti segnano la vita, anzi te ne tolgono anche un po’.

La mia mamma, la mia giovane e bellissima mamma… Non la
rivedrò mai più.

Devo però aiutare i miei fratellini che forse soffrono
più di me.

Al funerale ci sono tante persone, i militari, il
sindaco e tutti i superstiti alla sciagura.

Appena dimessi dall’ospedale, una famiglia ci ospita
nella propria abitazione: stiamo bene con Giuseppina e Mariano, ci trattano
come figli, non dimenticherò mai la loro accoglienza.

Nel mese di maggio andiamo a Trapani per ricevere i
documenti necessari alla nostra permanenza a Pantelleria. Al nostro ritorno da
Trapani ci sistemiamo in una casa che papà ha preso in affitto.

Io e mia sorella Aicha, anche se di diverse età, ci
iscriviamo a scuola: purtroppo ci inseriscono in terza media perché non abbiamo
con noi alcuna attestazione scolastica; i miei fratellini Vianì e Raìs alla
scuola elementare, ed il piccolo Eest all’asilo.

Col passare dei giorni conosciamo tanti ragazzi e
ragazze. I primi momenti a scuola sono difficili, non riusciamo a comunicare
con gli altri e ho tante difficoltà anche nel relazionarmi con i professori.

Mi piacerebbe un giorno continuare i miei studi
frequentando l’università, vorrei studiare per poter realizzare il mio sogno
che è quello di diventare una pediatra per aiutare i bambini a crescere e per
soccorrere coloro che hanno più bisogno. Un giorno toerò nella mia Africa per
dare una mano ai più bisognosi».

Avevo
letto quel tema tutto d’un fiato, asciugandomi di continuo gli occhi per
riuscire a decifrare le parole che si sfocavano dentro le mie lacrime.

Un senso di colpa mi assalì improvvisamente pensando
alla sofferenza che le avevo procurato assegnando la stesura di quel tema.

D’improvviso mi sembrò di vedere i suoi occhi limpidi,
trasparenti e pieni di luce.

Con il passare dei giorni, osservavo i progressi che
faceva la piccola Keréne: si impegnava moltissimo, stava mettendo a frutto la
sua intelligenza ma ancora di più la sua voglia di vivere.

Ogni giorno, tornando a casa, pensavo a lei e a come
avrei potuto aiutarla senza sembrare invadente. Non perché avesse bisogno
d’aiuto materiale, quello non le mancava, era ben voluta da tutti. Keréne aveva
bisogno d’amore, di un abbraccio, di una carezza, di una parola affettuosa. Lo
scorso giugno ha conseguito la licenza media col massimo dei voti.

Quest’estate è venuta a casa mia in vacanza: pur avendo
terrore del mare, ha desiderato fortemente che le insegnassi a nuotare…

Mi ha detto: «Prof, sogno ogni notte la mamma che mi
chiede aiuto e non riesco mai a tirarla fuori dall’acqua, scompare sempre tra
le onde… Ma se imparo a nuotare, un giorno riuscirò finalmente a salvarla».

L’ho abbracciata piangendo, ma lei scostandosi mi ha
stretto le mani e guardandomi intensamente, mi ha sorriso.

————————————

(*) Marika Sanna e
Keréne Fuamba, Con gli occhi di Keréne, pubblicato su Lingua Madre
Duemilatredici – Racconti di donne straniere in Italia
, Edizioni SEB27. Il racconto di Marika Sanna e Keréne Fuamba è stato selezionato al VIII
Concorso letterario nazionale Lingua Madre
, 2013.

KERÉNE FUAMBA nasce nel
1996, in Congo. Per sfuggire alla guerra civile la sua famiglia si trasferisce
in Libia, appena prima della «fioritura» della primavera araba. In fuga verso
l’Italia, nel 2011, naufraga sulle coste di Pantelleria, perdendo la mamma.
Comincia così a frequentare la scuola in Italia: nel 2012 consegue la Licenza
Media con il massimo dei voti. Frequenta attualmente con profitto il Liceo
delle Scienze Umane, collaborando attivamente con l’Associazione Teatro
Instabile
di Sicilia nella difesa dei diritti e dell’impegno civile.
Nell’estate del 2012 ha presentato l’evento culturale «Teatro tra sole e sale»
e la performance teatrale La mafia uccide, il silenzio pure, ispirata
all’omicidio di Peppino Impastato. Vorrebbe presto realizzare il suo sogno,
diventare pediatra, per tornare in Congo e aiutare i bambini bisognosi della
sua terra.

MARIA ENRICA SANNA vive a Erice Casa Santa, in Sicilia. Laureata in Lettere e
specializzata in Tecniche innovative nella didattica, è una «docente precaria»,
che insegna nelle scuole medie e superiori. Da sempre impegnata nel sociale,
cornordina progetti di recupero rivolti a soggetti svantaggiati. Ha acquisito
qualifiche professionali nel campo teatrale e culturale. Attualmente si occupa
in modo particolare di formazione dei giovani e del loro impegno civico.

 
Lingua Madre

Il concorso letterario nazionale Lingua Madre,
ideato da Daniela Finocchi, giornalista da sempre interessata ai temi inerenti
il pensiero femminile, nasce nel 2005 e trova subito l’approvazione e il
sostegno della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di
Torino.

Il concorso è il primo a essere espressamente
dedicato alle donne straniere – anche di seconda o terza generazione –
residenti in Italia che, utilizzando la nuova lingua d’arrivo (cioè
l’italiano), vogliono approfondire il rapporto fra identità, radici e mondo
«altro». Una sezione speciale è riservata alle donne italiane che vogliano
raccontare storie di donne straniere che hanno conosciuto, amato, incontrato e
che hanno saputo trasmettere loro «altre» identità.

Il concorso letterario vuole essere un’opportunità
per dar voce a chi abitualmente non ce l’ha, cioè gli stranieri, in particolare
le donne che nel dramma dell’emigrazione/immigrazione sono discriminate due
volte. Un’opportunità di incontro e confronto, perché il bando non solo ammette
ma incoraggia la collaborazione fra le donne straniere e italiane nel caso
l’uso della lingua italiana scritta presenti delle difficoltà.

(da www.concorsolinguamadre.it)

Pubblichiamo i racconti di queste pagine per
gentile concessione del «Concorso letterario nazionale Lingua Madre», a cui
vanno i nostri ringraziamenti più sinceri.
Chi volesse partecipare al concorso può inviare i
racconti e/o le fotografie a:

Concorso letterario nazionale Lingua Madre
Casella Postale 427
Via Alfieri, 10 – 10121 Torino Centro
 
Tags: donne, migranti, integrazione, accoglienza

Varie Autrici




Solo per amore

Il vescovo di Orano (Algeria), il domenicano Pierre
Claverie, dopo il massacro dei sette monaci trappisti di Nôtre Dame
de l’Atlas
, avvenuto quaranta giorni prima di essere a sua
volta assassinato il 1° agosto 1996, rispondendo indirettamente a quanti gli
domandavano perché lui e molti altri cristiani avessero deciso di rimanere
nella tormentata terra di Algeria, in un’omelia tenuta il 23 giugno 1996 a
Prouilhe (Francia), dove si era recato per un viaggio, così diceva: «Dopo
l’inizio del dramma algerino mi è stato chiesto più di una volta: “Ma cosa ci
fate voi laggiù, in Algeria? Perché rimanete in quel paese? Ma scuotete
finalmente la polvere dai vostri calzari, e tornatevene a casa”. A casa […] ma
dov’è davvero la nostra casa? […] Noi siamo in Algeria per amore di questo
Messia crocifisso, solo e unicamente per amore suo! Non abbiamo alcun interesse
da salvare, alcuna influenza da difendere, non siamo stati spinti da alcuna
perversione masochista, non abbiamo alcun potere, ma siamo laggiù come al
capezzale di un amico, di un fratello ammalato, stringendogli la mano e
asciugandogli il sudore dalla sua fronte! Solo per amore di Gesù poiché è lui
che sta soffrendo a motivo di questa violenza che non risparmia nessuno,
crocifisso nuovamente nella carne di migliaia di innocenti. Come Maria, la
Madre, e l’apostolo Giovanni, anche noi ci troviamo ai piedi della croce su cui
Gesù muore abbandonato dai suoi e scheito dalla folla. Non è forse il dovere
di ogni cristiano esser presente nei luoghi dove qualcuno viene respinto e
abbandonato? […] Dove può trovarsi la Chiesa, che è il corpo mistico di Cristo,
se non in prima linea? Io credo che muore del non essere vicina alla Croce del
suo Signore. Per quanto possa sembrare paradossale, e san Paolo lo ha
dimostrato con chiarezza, la forza, la vitalità, la speranza cristiana, la
fecondità della Chiesa vengono appunto di là, da nessun altro luogo e in nessun
altro modo. La Chiesa si inganna e inganna il mondo quando si allinea con le
altre potenze, come un’organizzazione umanitaria o come un movimento evangelico
amante della spettacolarità. In quel modo essa potrà brillare, ma non certo
bruciare del fuoco dell’amore di Dio, “forte come la morte”, come dice il
Cantico dei Cantici, perché qui si tratta davvero di amore, di amore
innanzitutto, e solo di amore, una passione di cui Gesù ci ha trasmesso il
gusto e ha tracciato il cammino. “Non c’è amore più grande di questo: dare la
vita per chi si ama!”». (Jean-Jacques Pérennès, Vescovo tra i musulmani.
Pierre Claverie, martire in Algeria
, Città Nuova, 2004).

Ho trovato questa citazione nella
lettera che il nostro superiore generale, padre Stefano Camerlengo, ha mandato
alla fine di giugno per aggioare i confratelli sulla vita dell’Istituto. Mi è
parsa troppo bella per non condividerla con voi. Sono parole che a quasi
vent’anni di distanza non hanno perso il loro valore, anzi, considerando
l’impressionante numero di martiri di questi primi anni del terzo millennio,
sono più vere che mai. A dispetto dei mille luoghi comuni che si ostinano a
etichettare la Chiesa con i suoi errori veri o presunti: crociate,
inquisizione, preti pedofili, conquista, caccia alle streghe, omofobia,
scandali finanziari, la Chiesa continua a testimoniare l’amore di Dio per gli
uomini con la forza della mitezza di migliaia e migliaia di persone che
continuano a resistere all’odio e alla violenza. Uomini e donne che rimangono
al proprio posto sfuggendo l’esposizione mediatica, che testimoniano la potenza
dell’amore nel nascondimento, nella vita di ogni giorno e nei piccoli atti di
perdono e compassione, e opponendo solidarietà all’indifferenza, vicinanza al
distacco, condivisione allo sfruttamento, relazione personale alla
massificazione indifferenziata.

Tempo fa – era il dicembre 2012 -, proprio in questa pagina, ricordavo
un «fante della missione», che non aveva certo la stoffa dell’eroe, ma era
ripartito a 72 anni verso il centro dell’Africa. Un missionario semplice che
oltre ai 33mila rosari confezionati con le sue mani, ha seminato preghiera,
amore e serenità per 42 anni in Zaire, nel frattempo diventato Congo. Fino
all’ultimo, quando debilitato da un’improvvisa malattia è stato rimpatriato
d’urgenza e, dopo una sola settimana, è andato a godere la beatitudine dei
santi, per sempre. Padre Tarcisio Crestani (7/12/1940-30/05/2015), 775°
missionario della Consolata a terminare la corsa e ricevere il premio, è
vissuto e ha concluso la sua lunga camminata nel nascondimento e lontano dalla
terra che ha tanto amato. Ma la sua umile testimonianza, preziosissima agli
occhi di Dio, ha lasciato un segno perché si è lasciato bruciare, senza
pretese, dal fuoco dell’amore di Dio, fino alla fine, rinunciando anche al
desiderio di morire là, in mezzo alla gente per cui si era speso, in quel di
Isiro, tra i bambini del Gajien. Ultima offerta di totale povertà, segno di una
vita spesa, pur con limiti e contraddizioni, «tutta per Gesù».

Gigi Anataloni