Un politico santo?

Premessa

Makambako (Tanzania), 2 giugno 2011.
Ho appena terminato il presente dossier, mentre in Italia si celebrano i 150 anni della sua unità. Chissà se, accanto a Cavour e compagni, ci sarà pure un pensierino per… Alcide De Gasperi e Giorgio La Pira. Politici cattolici, che seppero guardare e andare «lontano».
Anche il Tanzania festeggia quest’anno un anniversario significativo: il 50° dell’indipendenza.
E fra gli artefici del nuovo stato svetta Julius K. Nyerere, «il maestro signore».
Incontrai Nyerere nel settembre del 1975 a Dar es Salaam. Entrambi eravamo in auto, affiancati e fermi ad un semaforo della strada che costeggia l’Oceano Indiano. Riconosciutolo, dal finestrino gli sorrisi con circospezione. E lui:
– Sei un padre?
– Sono un missionario della Consolata.
Il semaforo divenne verde e l’auto presidenziale sgommò. Ma si fermò 100 metri più avanti. Nyerere era in piedi sul bordo della strada con la mano alzata. Accostai. Conversammo per 15 minuti. Tra l’altro disse: «Vedi, padre: se, andando alle Poste per comprare francobolli, ti si dice ‘aspetta, bwana, perché l’addetto al servizio è uscito un istante’; se il giorno dopo la scena si ripete e magari si replica una terza volta, sappi che il Tanzania non andrà lontano!».
Nyerere voleva che il Tanzania andasse lontano nello sviluppo, nella giustizia e nella frateità.
Come De Gasperi, La Pira e altri per l’Italia.
Nyerere è pure candidato alla santità, come De Gasperi, La Pira ed altri.
Se sono rose…

                                                                             di Francesco Beardi

Francesco Beardi




Cari missionari

A proposito di Thailandia

Buon giorno,
sono quell’Andrea Panataro che avete ospitato, con lettera e foto, nel numero di marzo 2009 col titolo “Pallottole invece di medicine”. Conosco la Thailandia dal 1993, ci abito almeno 4 mesi all’anno, mi ha dato un nuovo modo di pensare, una moglie capoinfermiera ostetrica, un’attività umanitaria (vedi mia lettera marzo 2009) e tantissimo altro. Conosco il Paese come pochi altri farang (stranieri), sotto tutti gli aspetti.
Non condivido del tutto l’analisi del sig. Vecchia, che dipinge il paese come preda di una dittatura d’élite. Non è cosi. Nel paese non vi è, come da noi, oppressione fiscale nei confronti dei piccoli e piccolissimi operatori, ristorantini ecc., la vita non è cara neppure per loro e lo sanno benissimo, la scolarità è diffusa anche nei villaggi minori, la sanità è gratuita per tutti e costa poco anche per me che sono italiano, i trasporti di base sono capillari e il treno in 3 classe è gratis per i Thai. Questa è la realtà, constatata da anni con i miei occhi attenti ad ogni aspetto del Paese.
Invece, quello che proprio non condivido è l’immagine di paese di prostituzione che il Vecchia dipinge. In 18 anni, io non ho mai potuto constatare un fatto del genere, e non sono uno sprovveduto, ho girato il mondo dall’età di 22 anni. Esistono sì un paio di strade a luci rosse a Bangkok, frequentate da turistucoli e da vecchi deficienti, così come esistono pure anche ad Amsterdam e in tante altre città del mondo. Non parliamo poi delle nostre città italiane, di sera invase da prostitute e trans d’ogni genere. E non scordiamo soprattutto che da noi, unico paese al mondo, la prostituzione, anche minorile, vede coinvolte le più alte cariche del governo, come i processi attualmente in corso testimoniano.
Il luogo comune Thailandia=puttane è vecchio, falso e stantio come quello che dice Italiani=spaghetti e mandolino. E se poi fosse anche vero, potrà o no una donna adulta fare ciò che crede del suo corpo senza che, con spirito talebano, qualcuno vada a ficcare il naso in una cultura tanto diversa dalla nostra? Mi sento offeso nel sentire e leggere cose non vere nei confronti di un paese che amo profondamente, ed è giusto in ogni caso, dopo l’accusa, ascoltare la difesa. Cordialmente.
Andrea Panataro
Biella, 13 /6/2011

Nessun problema per la controanalisi del signor Panataro, con il quale non voglio entrare in polemica. Lui è libero di vedere e credere quello che vuole o può, come lo sono io di valutare (e come me organizzazioni inteazionali, gruppi per la difesa dei diritti civili e umani, società civile locale) il bene e il male del paese e scriverne, che è quello che farebbero i Thai se solo ne avessero la possibilità.
Non vedere la realtà di corruzione, nepotismo, sfruttamento e incapacità di evolvere da parte delle élite come della popolazione, implica delle scelte, avere delle ragioni che non necessariamente devono essere condivise. Quando mi si chiederà di scrivere un pezzo non sulle problematiche ma sulla bontà del paese lo farò volentieri.
Io ci vivo, in Thailandia, e ne amo la gente. Se per lavoro, status e carattere non sono autorizzato a “sparare a zero” su di essa, nemmeno posso accettare la pretesa che si tratti di un paese unito e felice, ignorare che viene gestito nemmeno giocando sulle regole che si è dato ma sulle sue contraddizioni.
Se a guidarlo sono regole “loro” e a loro funzionali, come continuamente si inculca nei Thai e si vorrebbe inculcare nei farang, non sono certo universali come si vorrebbe far credere. Oggi non sono nemmeno più condivise: certamente non dalla maggior parte della popolazione che vede crescere il divario economico, sociale e culturale tra essa e le vecchie e nuove élite. Questo, e un culto, ormai smodato e indicato come antidoto a una vita senza prospettive, del denaro, incentiva anche la prostituzione, tollerata tra cultura e necessità; questo riempie di materia prima i bordelli dei thailandesi e dei turisti del sesso.
Un caro saluto
Stefano Vecchia
da Bangkok

UN ANGELO
SEMPRE IN FESTA
Zio Vito carissimo,
martedì 7 giugno (2011) ci hai salutati dopo una strenua lotta, durata quasi dieci mesi, per non lasciarci e quanto avremmo  tutti desiderato poter godere ancora della tua gioia di vivere e del tuo entusiasmo! Ecco un primo tratto della tua straordinaria personalità: uno smisurato affetto per tutti a partire da tua moglie Elsa. C’è un’altra tua caratteristica che ricordo con nostalgia: costruire e riparare utensili, inventare giocattoli ed altri oggetti funzionali con materiali di recupero per risolvere qualche necessità pratica della vita in campagna, che nel corso di tutte le stagioni richiedeva operazioni innumerevoli e diversificate nei vari luoghi. Quanta passione per la terra ed i suoi doni, per il vino e per la grappa! Quanto entusiasmo per i pomodori, i cetrioli, le cipolle, ecc.! Quanta dedizione alle rose, al giuggiolo, alle zinnie, alle dalie, ai gerani e all’aspidistra! Quanta cura per l’alimentazione degli animali! Quanta attenzione alla pulizia e all’aria nel granaio per la conservazione ottimale di quanto veniva depositato per l’inverno!
L’impegno come contadino, onorato in modo sublime, non ti ha distolto da tanti altri interessi come quelli per le vicende storiche di cui le terre veneta e friulana sono state testimoni, per la lettura di Missioni Consolata, la Madonna di Castelmonte, Famiglia Cristiana e qualche quotidiano, per portare la mente e il cuore alle vicende nazionali ed inteazionali e per conoscere la cronaca che tante indignazioni ti suscitava. La tua chiamata per il «cielo», il non luogo dove si vivono felicità, gioia di stare insieme, creatività incessante, incanto e sorpresa, ci lascia tutti più soli, ma sappiamo che insieme ai nonni e a mia mamma hai formato una squadra pronta ad intervenire e ad intercedere per noi che, nella passione per la vita, troviamo tante difficoltà da superare e tanti contrattempi. Continuiamo quindi a contare su di te ed abbiamo la certezza che farai tutto il possibile ed anche l’impossibile. Grazie per la tua fede indomita che non ha mai avuto cedimenti ed il rispetto per chi ha dedicato la vita al nostro Padre Celeste, seguendo il modello del Figlio Gesù. Grazie per l’affetto ai sacerdoti e religiosi, con particolare riferimento ai nostri parenti come suor Anna Prosdocimi, fratel Agostino De Gaspari, suor Gianna e suor Luisetta Scapin. Zio Vito meraviglioso, è stato un onore crescere con te ed aver goduto del tuo affetto, della tua sensibilità e delle tue lacrime di commozione! Aiuta i tuoi familiari ed anche me ad imitarti e a dare continuità alle passioni che hai coltivato, al bene enorme che hai fatto e all’amore che hai regalato senza risparmiarti.
Tua nipote Milva
Collegno, 4 luglio 2011

KWAHERI,
PADRE TONY
Il 12 agosto scorso, a Nairobi, è morto p. Antonio Bellagamba, nativo di Gambettola. Aveva 84 anni. Su Facebook molti giovani lo hanno ricordato. Tra gli altri.
«Ho incontrato p. Tony per la prima volta nell’Istituto di Filosofia a Nairobi, dove ci insegnava psicologia. Era un uomo dall’aspetto modesto con una vena umoristica senza fine. I suoi sandali – che calzava anche quando aveva il vestito bello – rivelavano una persona che non aveva molti bisogni materiali. Il portamento confidente suggeriva uno che conosceva da dove veniva e dove stava andando. La sua risata schietta diceva che si trovava bene con i confratelli, la sua gente e con quanto la vita gli aveva fatto passare. Riposa in pace».
Kodi Bartholomew
«Quando parlava della fondamentale importanza dell’intimità con Cristo, non diceva solo una teoria, ma esprimeva la convinzione profonda di un missionario pieno di passione».
Julie Muya
I giovani del Consolata Shrine di Nairobi hanno condiviso la foto (qui sotto), fatta al termine del ritiro quaresimale 2010.

OFFRO
ABBONAMENT0
Gentile Redazione,
Vi sarei grata se poteste inviare la Vostra bella rivista alle suore Clarisse di Pollenza. Per questo aumenterò la mia offerta annuale visto che le suore non sono in grado di permettersi l’abbonamento alle riviste missionarie ma desiderano molto informarsi su quello che succede nel mondo. Vi ringrazio infinitamente e Vi auguro buon lavoro
Marina Colacchi
via e-mail 06-07-2011
Grazie di cuore per il sostegno alla rivista attraverso il bel gesto di offrire un abbonamento alle suore Clarisse che con la loro preghiera sono sempre molto vicine ai missionari.




Cana (25) Da madre a donna

Il racconto delle nozze di Cana (25)

«Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse:
“Ecco mia madre e i miei fratelli!”»  (Mc 3,34)

Gv 2,4a: «[E] dice a lei Gesù: “Che cosa a me e a te, o donna?”»
[(kài) lèghei ho Iesoûs: Tí emòi kaì soí, gýnai?]

Questioni letterarie
La prima parte del versetto ha fatto scrivere migliaia e migliaia di commenti di cui qui non possiamo dare ragione1. L’ultima versione della Bibbia-Cei (2008) traduce: «E Gesù le rispose: “Donna, che vuoi da me?”». La traduzione rispetta il senso, ma elimina la pregnanza misteriosa del testo, che preferiamo riportare alla lettera per sottolineare alcune osservazioni importanti, utili alla comprensione del testo nel suo complesso e nella sua interezza e anche per potere fare confronti con testi analoghi dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Tutti sanno che la traduzione-Cei non è tra le migliori, perché i vescovi alla fedeltà letteraria del testo originario (ebraico, aramaico e greco), hanno preferito la comprensione immediata del testo proclamato nella liturgia. Possiamo dire che la Cei, consapevole che i cattolici non hanno dimestichezza con la Parola di Dio a causa di una catechesi più dottrinale che biblica, hanno voluto facilitare la comprensibilità immediata piuttosto che la problematicità del testo. Hanno operato una traduzione liturgica.
Da un punto di vista della critica del testo, rileviamo due elementi: la congiunzione d’inizio versetto messa tra parentesi quadre [«e»] è omessa dal papiro 75 (175-225) e pochi altri, mentre è riportata dal papiro 66 (200 ca.) e dal codice sinaitico (sec. IV) e da quasi tutti gli altri per cui la si mantiene, ma per prudenza si mette tra parentesi.

Nota filologica. La «e» è una congiunzione cornordinante e copulativa, cioè lega il precedente al seguente con un nesso stretto. Nel versetto precedente troviamo: «Venuto a mancare il vino, dice la madre di Gesù a lui: “Vino non hanno”» (Gv 2,3), a cui corrisponde immediatamente con la congiunzione «e» la risposta istantanea di Gesù: «[E] dice a lei Gesù…» (Gv 2,4). Senza la congiunzione «e» si avrebbe la stessa risposta, ma con meno simultaneità, quasi vi fosse un tempo intermedio di riflessione; invece non c’è respiro tra la costatazione della madre che «vino non hanno» e la risposta di disapprovazione e fastidio data da Gesù.
Qualcuno potrebbe pensare che queste osservazioni siano di «lana caprina» o «spezzare il capello in quattro», mentre per noi esprimono la necessità di non essere mai superficiali con la Parola di Dio, anche perché Gesù ci ha detto espressamente: «Finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5,18). In ebraico le parole in corsivo suonano così: «Lò’ yòd echàt ‘ò qòtz echàd» che potremmo tradurre in italiano con la nota frase: «Non si cambia neppure una virgola», quando vogliamo definire l’immodificabilità di un fatto o di un documento.
Cogliamo questa osservazione di Gesù per imparare qualcosa di più della Bibbia e del suo mondo. Lo iota (gr.: iôta) è la più piccola lettera dell’alfabeto ebraico, la decima lettera, che in italiano corrisponde alla «y/i»; il termine italiano «trattino» traduce in modo comprensibile il termine greco «keràia» che significa alla lettera «corno» e a sua volta traduce l’ebraico «qòtz» che significa «spina» e corrisponde a un piccolissimo oamento che hanno molte lettere dell’alfabeto ebraico, quindi un elemento quasi insignificante. Gesù in questo modo esprime un pensiero diffuso al suo tempo. Il midràsh Genesi Rabbà afferma: «Tutto ha una fine – cielo e terra hanno una fine –, solo una cosa non ha fine. Cos’è? La Toràh» (Gen R. 10,1) a cui fanno eco Esodo Rabbà: «Nessuna lettera sarà mai abolita dalla Torah» (Es R., 6,1) e Levitico Rabbà: «Se tutte le nazioni del mondo si radunassero per eliminare una parola della Toràh, esse non sarebbero in grado di farlo» (Lv R., 19,2). Con questa espressione Gesù esprime l’intenzione che anche i segni apparentemente insignificanti hanno un senso nell’economia dell’intera Bibbia: tutto anche le «congiunzioni» hanno il loro valore e devono essere prese come Parola di Dio.

Dal passato al presente
La seconda osservazione riguarda il verbo «lèghei – dice». Essendo l’autore a parlare, dovrebbe usare il passato remoto (in greco il tempo aoristo) che è il tempo narrativo per eccellenza, invece usa quello che tecnicamente si chiama «presente storico», nel senso che, pur riferendosi a un fatto passato, usa il presente, rendendolo vivacemente attuale, quasi contemporaneo al lettore, che così è coinvolto nello sviluppo degli eventi. Il tempo passato (remoto/aoristo) lascia il lettore spettatore distaccato, mentre il presente storico lo immerge in quello che accade e da osservatore neutro lo trasforma in attore.
Sia la «madre» del versetto precedente, sia «Gesù» adesso, usano lo stesso presente storico, come se tutti e due fossero, come sono, davanti al lettore che ascolta, quasi con il desiderio di volere interloquire. Non si tratta di un fatto passato, ma di qualcosa che accade «adesso» e riguarda ciascuno di noi.
Spesso la nostra superficialità di vita e di approccio alla Parola di Dio ci fa perdere di vista le «congiun-zioni» e molti «presenti storici», isolandoci e impedendoci così di assaporare la Presenza di Dio che parla «ora» e non ieri, perché la sua Parola non è uno strumento di narrazione di fatti passati da osservare acriticamente, ma è Parola di salvezza che risuona «oggi» per noi: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,20).
Spesso ci nutriamo di parole morte perché le usiamo come proiettili per dimostrare, per separare, per colpire, finendo per rompere l’unità interiore che è la condizione essenziale della nostra vita di persone e di persone credenti.
Senza le «congiunzioni cornordinate e copulative» che la Parola di Dio ci offre, la nostra vita scorre slegata, separata, isolata. Viviamo smembrati in noi stessi, così disarticolati da arrivare all’obbrobrio di leggere la Parola in modo ovvio, accontentandoci del significato più esteriore che fa velo a quello nascosto e interiore, il significato «secondo» o altro, che, specialmente in Giovanni, è il vero senso e la vera misura.
Senza coniugare il verbo della nostra vita al «presente storico» della Scrittura, rischiamo di diventare «specialisti di Dio», addetti al sacro, tecnici della Bibbia che magari conosciamo a memoria, maneggiandola con sapere e disinvoltura, illudendoci di «conoscere» Dio, mentre in effetti siamo solo acculturati di Dio.
Se sappiamo coniugare il nostro presente storico davanti alla Shekinàh/Dimora/Presenza, possiamo aspirare a diventare «Parola incarnata», lettere viventi dell’alfabeto di Dio che attraverso di noi scrive ancora oggi la sua Bibbia e la legge al mondo in un linguaggio comprensibile perché «presente» e visibile.

Una espressione ordinaria
L’espressione, per noi enigmatica: «Che cosa a me e a te, o donna?», tecnicamente si definisce un «idioti-smo» (dal gr.: idiôttēs = particolare/privato), cioé costruzione tipica di una specifica lingua, in questo caso quella semitica; si trova anche nella letteratura greca extrabiblica, come in Euripide, Erodoto, Aristofane (sec. V a.C.), Demostene (sec. IV a.C.), Epitteto (sec. I-II d.C.)2. L’espressione evangelica «che cosa a me e a te – a tí emòi kaì sói?», tradotta in ebraico è «mah lî walàk» (aramaico: mah laî welàk). Nell’AT si trova circa 15 volte ma, a nostro avviso solo 11 casi possono essere equiparati al testo del vangelo per forma sintattica e vocabolario. Di seguito riportiamo i testi:

a) Nell’Antico Testamento:
1.    Gs 22,24: «L’abbiamo fatto perché siamo preoccupati che in avvenire i vostri figli potrebbero dire ai nostri: “Che avete in comune voi con il Signore, Dio d’Israele?” (mah lakèm weladonài ‘elohê Ysra’el?)».
2.    Gdc 11,12: «Iefte inviò messaggeri al re degli Ammoniti per dirgli: “Che cosa c’è tra me e te (mah lî walàk), perché tu venga contro di me a muover guerra nella mia terra?”».
3.    2Sam 16,10: «Il re rispose: “Che ho io in comune con voi (mah lî welakèm), figli di Seruià?”» (cf anche 2Sam 19,23 con l’identica espressione).
4.    1Re 17,18: [La vedova di Sarepta] «disse a Elia: “Che cosa c’è tra me e te (mah lî walàk), o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?”».
5.    2Re 3,13: «Eliseo disse al re d’Israele: “Che cosa c’è tra me e te? (mah lî walàk). Va’ dai profeti di tuo padre e dai profeti di tua madre!”».
6.    2Re 9,18: «Uno a cavallo andò loro incontro e disse: “Così dice il re: ‘Tutto bene?’”. Ieu disse: “Che c’è tra te e la pace? [cioè il «tutto bene»] (mah lek ulshalòm)”». (cf. 2Re 9,19 con la stessa identica espressione).
7.    2Cr 35,21: «Quegli [Necao, re d’Egitto] mandò messaggeri a dirgli: “Che c’è fra me e te (mah lî walak), o re di Giuda? Io non vengo oggi contro di te”».
8.    Os 14,9: «Che ho ancora in comune con gli idoli (mah lî ’ôd la’zabîm), o Èfraim?».
9.    Gl 4,4: «Anche voi, Tiro e Sidone, e voi tutte contrade della Filistea, che cosa siete per me? (mah ‘attèm lî)».

b) Nel NT l’espressione idiomatica ricorre appena 5 volte:
1.    Mc 1,24: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro cominciò a gridare, dicendo: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”».
2.    Mc 5,7: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro, urlando a gran voce, disse: “Che cosa a me e a te (tí emói kài sói), Gesù, Figlio del Dio altissimo?”».
3.    Mt 8,28-29: «Due indemoniati… si misero a gridare: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Figlio di Dio?”».
4.    Lc 4,33-34: «Un uomo che era posseduto da un demonio impuro… cominciò a gridare forte: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”».
5.    Lc 8,27-28: «Un uomo posseduto dai demòni … vide Gesù, gli si gettò ai piedi urlando, e disse a gran voce: “Che cosa a me e a te (tí emói kài sói), Gesù, Figlio del Dio altissimo?”» (cf. anche Mt 27,19, ma solo in senso lato).

Mancanza di vino, eccesso mariano
Abbiamo riportato tutti i testi chiari per fare vedere «visivamente» che l’espressione di Gesù a sua madre non è strana e non è oscura, come si vorrebbe far credere, ma è una espressione «tipica» del parlare del suo tempo per indicare, a seconda del contesto, disapprovazione, dissuasione, non condivisione del punto di vista, non gradimento, discontinuità tra due situazioni, disinteresse e chiusura di qualunque rapporto tra due interlocutori.
Probabilmente a complicare le cose gioca un ruolo determinante l’eccessiva devozione mariana con cui si è letto e, in certi ambienti fondamentalisti, si legge ancora il racconto delle nozze di Cana. Al di fuori del contesto ebraico, si fa fatica ad ammettere una risposta sgarbata di Gesù a sua madre che, da questo punto di vista è considerata la protagonista per eccellenza del racconto perché è lei che, apparentemente, risolve un caso di opportunità sociale: la vergogna degli interessati che non hanno calcolato il vino necessario per la festa.
Spesso è visto, errando, il racconto delle nozze di Cana come un piedistallo mariano, da cui domina la Vergine Maria che viene in soccorso dei bisogni dei suoi figli, memori delle parole sublimi di Dante nella preghiera di San Beardo nell’ultimo canto del Paradiso: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre» (DANTE, Divina Commedia, Par., XXXIII, 15-18).
Senza nulla togliere a Maria, nel contesto delle nozze di Cana, una simile interpretazione è ben povera perché annega in un «bicchiere di vino» (è il caso di dirlo!) la prospettiva storico-salvifica di Giovanni, che guarda le nozze nella prospettiva dell’alleanza del Sinai e non alla devozione mariana, totalmente estranea all’evangelista.
Il popolo cattolico in particolare per la sua strutturale «ignoranza delle Scritture», è indotto a leggere e commentare la Bibbia con le proprie precomprensioni teologiche o peggio devozionali, per cui, nel nostro caso, la Madonna diventa la figura di primo piano nel racconto delle nozze di Cana, facendo così piazza pulita di tutti i sensi simbolici che l’autore del IV vangelo vi ha posto e ci obbliga ad indagare.
Da questa prospettiva mariana, e la catechesi spicciola vi è egregiamente riuscita, bisognava ridurre l’impatto della contrapposizione tra Gesù e sua madre, arrivando fino a dire che l’appellativo «donna» è un titolo onorifico e di rispetto, travisando così il senso anche ovvio del vangelo.
Rivolgendosi a sua madre, Gesù la chiama «donna» (nel testo greco senza articolo e senza alcuna qualifi-ca), esprimendo un passaggio epocale nella storia di Gesù. La «madre» dei versetti precedenti (cf. Gv 1,1-2) e seguenti (cf. Gv 2,12; 19,25-27) diventa ora solo «donna», creando un nuovo rapporto nella vita della madre e in quella del figlio, Gesù. Nel momento in cui Gesù entra in scena, saltano tutti i rapporti di parentela precedenti e si stabiliscono relazioni nuove per un orizzonte nuovo.
La «madre» era alle nozze in rappresentanza di Israele/sposa, e ambedue, madre e popolo, giacciono là «giare di pietra», simbolo dell’alleanza sinaitica che ora è chiamata da Gesù a salire di senso: dal vino materiale al vino messianico. «Che c’è fra te e me, donna?» sta a significare: popolo d’Israele, mia sposa e madre, non perdere tempo con le cose insignificanti, ma guarda in alto e in avanti ed entra nella nuova prospettiva del Regno di Dio.
La madre/Israele deve prendere coscienza che è arrivato il rinnovatore: «Ecco, io faccio nuove tutte le co-se» (Ap 21,5), colui che supera le cose passate e proietta verso il Regno del futuro, la nuova economia della salvezza: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (Is 43, 18-19).
Chiamando la madre «donna», in maniera assoluta, senza alcuna qualifica e articolo, Gesù la scaraventa dal piano affettivo/familiare a quello storico salvifico identificando in modo assoluto la madre/donna a Israele/sposa del Messia/sposo che inaugura la «nuova alleanza» preannunciata dal profeta (cf. Ger 31,31) che concluderà definitivamente nella «sua ora», l’ora della morte e risurrezione. 
(25 – continua)

di Paolo Farinella

1.    Per una bibliografia abbastanza completa cf. A. SERRA, Le nozze di Cana, 273-303, special. le note).
2.    Cf. i testi per esteso riportati da A. SERRA, Le nozze di Cana, 274-275 alle note 468-472, specie la nota 472, che riporta i testi di Epitteto, i quali per tempo e forma sintattica sono più vicini al vangelo rispetto agli altri autori che hanno espressioni simili, ma non uguali.

Paolo Farinella




Tutto il potere ai malesi

Un paese lontano dalle cronache

L’etnia malese, maggioritaria e di fede musulmana, vuole continuare a guidare il paese asiatico senza interpellare le ampie minoranze indiane, cinesi e tribali. Ma una parte della società civile non sembra più disposta ad accettare la situazione e chiede più democrazia. Ed anche nel campo religioso i non-musulmani (in particolare, i cristiani) chiedono più libertà.

Due fattori, dibattito sull’identità religiosa e pluralismo politico, influenzano prepotentemente in questi mesi la vita della Malaysia, paese altrimenti caratterizzato da stabilità politica, sociale ed economica e di conseguenza da una scarsa presenza nelle cronache inteazionali.
Per lungo tempo alfiere di un islamismo laicista e moderato, sottoposto alla guida di personaggi forti ma insieme pragmatici, il paese è per conformazione geografica «ponte» tra Asia continentale e insulare, tra Asia meridionale e Estremo Oriente. Al centro, infine, di un’area che con l’eccezione del piccolo ma solido Singapore e del Brunei (che galleggia sul suo benessere garantito dal petrolio), vive profondi rivolgimenti e diverse ma ugualmente incerte vie verso il benessere.
Da anni la «restituzione del potere» ai malesi dopo i presunti privilegi goduti dalle altre etnie nel periodo coloniale e subito dopo l’indipendenza, si associa a concessioni all’identità islamica a volte denunciate come discriminatorie per le minoranze di origine tribale, indiana e cinese che raggruppano il maggior numero di cristiani. Le stesse minoranze che si oppongono con maggiore convinzione a un partito-stato (Umno, di cui diremo) che guida, con poche concessioni al dissenso, un paese federale di 28 milioni di abitanti al 53% di etnia malese e al 60% musulmani.

EQUILIBRI, COMPROMESSI, FRAGILITÀ
Con un reddito pro-capite nominale di quasi 7.000 dollari l’anno, i malaysiani vivono nella stragrande maggioranza al di sopra della soglia della povertà. Tuttavia esistono ampie disparità di reddito e di opportunità tra la parte continentale, ad esempio, e le vaste regioni di Sabah e Sarawak sulla grande isola del Boeo. Qui, in aree al centro di ampi interessi economici e di «frontiera» per chi si oppone alla deforestazione, agli abusi da parte delle grandi compagnie minerarie e all’inquinamento fluviale, si concentrano la maggior parte delle molte etnie tribali del paese (11 per cento della popolazione complessiva), come pure dei cristiani, in maggioranza protestanti. La presenza cinese (26 per cento) è equamente suddivisa nelle varie regioni, mentre quella indiana – erede di vecchie e nuove migrazioni e che assomma l’8 per cento dei malesi – si concentra nella regione peninsulare.
Già da questi dati appare chiaro come la stabilità del paese sia frutto di delicati equilibri e di alcuni compromessi sulle priorità, su cui predominano stabilità e sviluppo. Equilibri e compromessi che si ritrovano nell’organizzazione dello Stato e dei suoi poteri.
La Malaysia è una federazione di 13 Stati: Johore, Kedah, Kelantan, Malacca, Negri Sembilan, Pahang, Penang, Perak, Perlis, Sabah, Sarawak, Selangor e Trengganu, oltre all’area metropolitana della capitale Kuala Lumpur e all’isola di Labuan (quella di Emilio Salgari, leggere box) definite come «territori federali». Si tratta di una divisione amministrativa reale, dato che ciascuno Stato ha un proprio Parlamento con tanto di governo e primo ministro, in grado di legiferare su tutti gli aspetti non di competenza del Parlamento federale.
A complicare la situazione, c’è la nomina del capo dello Stato, che avviene ogni cinque anni a rotazione tra i sultani (che sono, ad un tempo, autorità politica e religiosa-islamica) di Johore, Kedah, Kelantan, Negri Sembilan, Pahang, Perak, Perlis, Selangor e Trengganu. I poteri del sultano non sono dissimili dal quelli di una monarchia costituzionale, sottoposti di fatto al governo in carica.
Il Parlamento che esprime l’esecutivo e insieme ne controlla le funzioni, è composto di due camere: un Senato eletto ogni sei anni che nella composizione mostra pienamente i delicati equilibri del paese; una Camera dei deputati di 192 membri eletti a suffragio universale ogni cinque anni.
Nei fatti, poi, la politica reale dipende da alleanze di gruppi e individui con legami territoriali, di clan, di interessi o di fede, che la politica parlamentare rappresenta solo fino a un certo punto. Ancor più sotto un sistema dominato per oltre quarant’anni da una coalizione, Barisan Nasional, con al centro un partito – Umno (United Malays National Organization) – che esprime in particolare gli interessi della componente malese e musulmana.

SHARIA (IN SALSA BRITANNICA)
Raggiunta l’indipendenza dalla colonizzazione britannica il 31 agosto 1957, il paese ha mantenuto una forte impronta anglosassone per quanto riguarda il sistema giudiziario – ma con uno spazio sempre maggiore all’uso delle consuetudini locali e, soprattutto della Sharia, la legge coranica -, burocrazia, gestione dei servizi pubblici. Al processo, sempre più profondo, di recupero dell’identità malese si associa quella del recupero dell’identità islamica maggioritaria per questa etnia. Questo sta aprendo incognite sull’eguaglianza scritta nelle leggi.
I particolarismi, tenuti sotto controllo con la forza o con la convinzione sono d’altronde nel Dna di questo paese, nato nel 1963 a sei anni dall’indipendenza, con la libera adesione di 11 Stati (tutti ex colonie britanniche), alcuni territori del Boeo (che precedentemente avevano prima cercato la via dell’autodeterminazione) e Singapore (dove vigeva, dal 1959, una forma di autogoverno). Una situazione difficile, da cui si sganciò prima il Brunei, nel 1962, poi Singapore nel 1965, in contrasto sul ruolo che la consistente comunità cinese avrebbe avuto in un paese che i leader stavano avviando verso un’identità soprattutto malese. L’insurrezione armata comunista, il confronto duro con l’Indonesia di Sukao fino al 1966 e le dispute territoriali con le Filippine per il Sabah fino al 1968, furono ulteriori minacce alla stabilità della neonata federazione che negli anni successivi si dovette confrontare con la rivolta dell’etnia cinese e con il tentativo di secessione delle regioni insulari. Lo stato d’emergenza con cui «Tunku» Abdul Razak cercò di gestire la situazione fu una pagina nera della storia  del paese, che mantenne però una sua sostanziale unità, rinsaldata dalle elezioni del 1974.
Sotto la guida dell’Umno, raramente contestata con qualche possibilità di successo dalle opposizioni (a loro volta assai divise quanto a programmi, definizione etnica e di fede), il paese si avviò a una più concreta identità malese, alzando considerevolmente (da 4 al 30 per cento) la quota delle imprese in mani malesi e applicando un sistema di quote garantite nelle università e negli impieghi pubblici ai bumiputra («figli della terra», ovvero i cittadini di origine malese e rurale).
Per evitare ulteriori tensioni – mentre nel Boeo già crescevano i contrasti tra cristiani e musulmani, i cinesi vivevano con sempre maggior disagio l’erosione del loro controllo su risorse ed economia e gli indiani una discriminazione percepita come crescente – fu giocoforza puntare verso un benessere che fosse concreto e anche condiviso. Non senza ostacoli. La ripresa della guerriglia comunista nella parte peninsulare, sostenuta soprattutto dall’etnia cinese, portò al deterioramento di rapporti con Pechino e per anni pesò sulla coscienza nazionale e sui diritti garantiti alla popolazione. Poche simpatie riscosse anche il sostanziale rifiuto di Kuala Lumpur di accogliere i boat-people vietnamiti, e ancor meno, in anni recenti, la crescita di un islamismo politico che tenta di ritagliarsi un ruolo parlamentare con il fine di ridefinire l’identità religiosa del paese.
 
IL GOVERNO E L’EGEMONIA CONTESTATA
Per la sua storia e per la sua identità, la Malaysia d’oggi è dunque una realtà complessa, che segue in ugual modo logiche consolidate e nuove vie.
La politica ha sempre visto una molteplicità di attori, un elemento coesivo (Barisan Nasional) e una leadership forte, in qualche modo autocratica, almeno fino all’uscita di scena di Mahathir Muhammad nel 2003 dopo 22 anni di premierato.
Con alcuni episodi che hanno segnalato insieme una difficoltà del partito di governo e, per contrasto, un ruolo più attivo dell’opposizione. Ad esempio, le elezioni del 1999, viste come un referendum pro o contro la politica di Mahathir, risultarono sorprendenti per la forte crescita del «Fronte Alteativo», che – sotto la presidenza del musulmano Fazil Noor – raddoppiò la presenza parlamentare, diventando maggioritario in due Stati. Una consultazione seguita da un’ondata di arresti di esponenti antigovernativi e ulteriori azioni legali verso il leader riconosciuto dell’opposizione, Anwar Ibrahim, già sotto processo per l’accusa di sodomia da lui sempre respinta e definita «politicamente motivata». Le grandi manifestazioni del 2007 anticiparono l’accesa contesa elettorale del marzo 2008 che mise alle corde l’Umno, che a stento mantenne la maggioranza parlamentare.
Una situazione che va ripresentandosi in questi mesi in vista del voto del 2013.
I manifestanti che, in una capitale in stato d’assedio, sono scesi in piazza il 9 e 10 luglio 2011 per chiedere libere elezioni sono stati affrontati con particolare durezza. Il movimento «Bersih», che associa un gran numero di organizzazioni della società civile ha deciso di sfidare apertamente il premier Najib Razak. Contro le migliaia di dimostranti (50.000 secondo gli organizzatori) che gridavano «riforma» e «potere al popolo» gli agenti in tenuta antisommossa hanno sparato gas lacrimogeni e usato gli idranti. Per sciogliere quello che è stato definito «un assembramento illegale», la polizia ha fermato 1.500 persone, poi rilasciate.
Il timore che la legge elettorale attuale favorisca il partito di governo sta portando alla convergenza tra l’insoddisfazione della politica, le richieste della società civile e le esigenze delle minoranze. In un paese aperto a investimenti e turismo, attento alla propria identità e all’ambiente, si pone oggi la scelta tra modeità e tradizione, tra dirigismo e scelte individuali, tra islamizzazione della vita pubblica e libertà di fede.

NEL NOME DI ALLAH
Alcuni eventi recenti hanno spinto la Conferenza episcopale cattolica malaysiana a iniziative, proprie o congiunte con altre comunità non musulmane, per chiedere che sia salvaguardata la libertà religiosa. L’indicazione della fede d’appartenenza nei documenti d’identità e l’estrema difficoltà a cambiarla – anche nel caso (raro) di conversione dall’Islam ad altra religione – è un elemento di discordia, come pure la generalizzata applicazione del funerale islamico su tutti i cittadini.
La sentenza della Corte suprema che il 31 dicembre 2009 aveva ritenuto legittimo l’uso del vocabolo «Allah» per indicare Dio nell’edizione in lingua malese del quotidiano cattolico The Herald non ha chiuso un confronto su questo tema che ha dato vita a iniziative violente degli estremisti musulmani, che nei mesi successivi e fino ad ora hanno trovato altri focolai. È vero che le azioni ostili contro i luoghi di culto cristiani sembrano più atti isolati di singoli fanatici piuttosto che espressioni di una strategia. Tuttavia, la loro frequenza e l’impunità degli attentatori inquietano gli stessi musulmani moderati.
Secondo il censimento del 2000, i cristiani di diverse confessioni in Malaysia sono il 9,1% della popolazione e tra essi i cattolici sono circa 750mila.
Molti nel Paese sono coscienti che a rischio non è solo l’integrità dei luoghi di culto, ma anche un ideale di convivenza che da tempo è sottoposto a forti pressioni e per questo l’avvio di normali relazioni diplomatiche tra Federazione malese e Santa Sede ha aperto nuove prospettive.
L’incontro del 18 luglio in Vaticano tra Benedetto XVI e il primo ministro malese Najib Razak potrà facilitare, secondo l’arcivescovo di Kuala Lumpur mons. Murphy Pakiam, «la creazione di un Consiglio interreligioso, la nascita di un ministero per i non-musulmani, un diverso atteggiamento nei confronti delle scuole cattoliche che sono state gradualmente nazionalizzate e su cui ora il governo ha il completo controllo».

di Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




Vescovo di Parma, missionario per il mondo

San Guido Maria Conforti (1865-1931)

Il card. Angelo Rocalli vedeva in lui «l’espressione episcopale più distinta in Italia di quel felice movimento missionario suscitato dall’enciclica Maximum Illud di papa Benedetto XV; rappresentante di quella completezza del ministero sacro delle anime che associa il vescovo al missionario: vescovo di Parma, ma missionario per il mondo». La sua canonizzazione è fissata per il 23 ottobre 2011.

Era un intrico di vie che chiudevano il duomo di Parma come in una ragnatela. Il piccolo Guido Maria Conforti lo percorreva ogni mattina per recarsi a scuola. Spesso, nel tragitto, compiva una piccola sosta per entrare nella chiesa della Pace, dove un grande crocifisso dominava l’abside. «Io guardavo lui, e lui guardava me – scriverà piu tardi – e mi pareva mi dicesse tante cose».
Gioo dopo giorno l’immagine di quel crocifisso misterioso trovava uno spazio sempre maggiore nel cuore di Guido, fino a conquistarlo interamente. Entrato in seminario, il desiderio di dedicare la vita alle missioni si faceva sempre più insistente. Ma la salute cagionevole gli impedì di realizzare questo sogno. Diventato prete, il Conforti decise di dar vita a una famiglia missionaria.
Aveva 28 anni quando acquistò una casa in Borgo Leon d’Oro, dove poter radunare una piccola comunità per aspiranti al sacerdozio e alla vita missionaria. Monsignor Conforti, vicerettore in seminario e canonico del duomo, era prete da cinque anni.
Correva l’anno 1895 quando, agli inizi di novembre, un gruppo di ragazzi entrò nella casa: iniziava così la giorniosa avventura di quello che sarebbe diventato l’Istituto saveriano per le missioni estere. II giorno di nascita della nuova congregazione missionaria sarà ufficialmente stabilito, con il Decreto di approvazione emanato dalla Santa Sede, il 3 dicembre del 1895, festa di san Francesco Saverio, patrono dell’Istituto.

I primi due saveriani a partire per le missioni furono destinati alla Cina: era il 1899. Essi seguivano mons. Fogolla, vescovo francescano, che poi morirà martire e sarà beatificato nel 1946.
Dal «cenacolo» di Parma si staccava così il primo drappello di missionari al quale, nell’arco di pochi anni, si sarebbero uniti altri gruppi di saveriani, tutti con la stessa meta: la Cina. Per oltre mezzo secolo i figli di mons. Conforti ebbero come campo di apostolato quella terra.
Ben presto il fondatore si rese conto della necessità di un luogo piu vasto, dove poter accogliere i giovani che chiedevano di far parte della famiglia. L’eredità lasciatagli da suo padre si rivelò provvidenziale per la costruzione, a Parma, del vasto edificio che, in seguito, diverrà la casa madre dei saveriani.
Ma le vie dell’uomo non sono le vie di Dio. L’istituto saveriano contava solo sette anni di vita, quando un inatteso avvenimento venne a sconvolgere i progetti del fondatore: la nomina del canonico Conforti ad arcivescovo di
Ravenna.
Poi, nell’autunno del 1907, papa Pio X poneva amorevolmente sulle spalle del fondatore una nuova croce: la nomina a vescovo di Parma. Il mite Conforti, dalla salute fragile, ma dal carattere adamantino, era chiamato dal Signore ad essere pastore di due greggi: da quel giorno avrebbe dovuto aver cura dei fedeli della diocesi di Parma
e della famiglia saveriana.

Terminata la prima guerra mondiale, mons. Conforti decise di aprire una seconda casa dove poter ospitare i giovani che, sempre piu numerosi, facevano domanda di entrare a far parte della sua famiglia missionaria. Nel 1919 un piccolo gruppo di saveriani fondò a Vicenza la prima «casa apostolica». Tra loro si distingueva la dolce figura d’un missionario reduce dalla Cina, padre Pietro Uccelli, il cui ricordo tra la popolazione del vicentino è ancora vivo oggi, nutrito di affetto e venerazione.
Lo sviluppo della congregazione registrò negli anni successivi una fioritura di altre case di formazione in Italia, fino a raggiungere in breve una ventina di comunità. Nell’autunno del 1928 mons. Conforti ebbe la gioia di raggiungere i suoi figli in Cina. Un viaggio assai faticoso, che finì per minare in maniera irrimediabile la salute, gia così fragile, del fondatore.
II 25 ottobre 1931 mons. Conforti ordinò diaconi otto giovani saveriani. Dopo la cerimonia si sentì male: era in corso un’emorragia cerebrale che l’avrebbe presto portato alla paralisi. Per giorni la gente accorse all’episcopio per chiedere notizie: tutta Parma era in trepidazione. Il 4 novembre il vescovo chiese il viatico. Volle che lo rivestissero con il rocchetto e la stola, e gli mettessero l’anello episcopale al dito. Nel pomeriggio il male si aggravo. I presenti lo sentirono sussurrare: «Vedrò Dio, il mio salvatore!». La mattina seguente, un giorno di pioggia, le condizioni dell’infermo peggiorarono. Alle 13.55 dolcemente spirò.
Il popolo di Parma, alla notizia della morte di mons. Conforti, non ebbe esitazioni; tutti erano concordi nel dire: «È morto un santo!».

Negli anni ‘50, quando la rivoluzione comunista di Mao Tsedong in Cina si abbatté sulla chiesa come una bufera, i missionari vennero imprigionati; molti di essi subirono processi infamanti e battiture e, infine, furono tutti espulsi (1952-53). Cacciati dalla Cina molti figli del Conforti si dispersero nei tre continenti, dando vita a nuove missioni in vari paesi dell’Asia, America Latina e Africa.
Fu proprio dal continente africano che venne la prova necessaria e definitiva della santità del Conforti: nel 1965, Sabina Kamariza, una ragazza del Burundi, colpita da un tumore al pancreas, data per spacciata dai medici e ormai in fin di vita, guarì improvvisamente, dopo una novena di preghiere a mons. Conforti. La consulta medica dichiarò all’unanimità (cinque su cinque) tale guarigione «estremamente rapida, completa e duratura, inspiegabile in base alle nostre conoscenze scientifiche».

di Ettore Fasolini

Dati biografici

30-3-1865 nasce a Casalora di Ravadese (PR).
1872-1876 frequenta le elementari a Parma.
1876-1881 entra in seminario; legge una biografia di Francesco Saverio, che diventa suo l’ideale e darà il mome ai suoi missionari, detti appunto «saveriani».
1888 è ordinato sacerdote.
3-12-1895 inaugura il «Seminario emiliano per le missioni estere», riconosciuto, 3 anni dopo, come «Congregazione di S. Francesco Saverio per le missioni estere».
3-3-1899 saluta i primi saveriani partenti per la Cina.
1902 viene ordinato vescovo di Ravenna, ma dopo due anni rinuncia per motivi di salute.
1907 ristabilitosi, è nominato coadiutore del vescovo di Parma, con diritto di successione.
1912 consacra mons. Luigi Calza 1° vescovo saveriano e vicario apostolico di Chengchow (Cina).
1921 approvazione definitiva delle Costituzioni.
1928 settembre-dicembre: visita i missionari in Cina.
5-11-1931 muore a Parma.
17-3-1996 è proclamato beato.
23-10-2011 canonizzazione.

Ettore Fasolini




La croce e la spada

I rapporti tra Lega Nord e Chiesa cattolica

L’attacco all’unità nazionale e il rifiuto del diverso. In 20 anni la posizione della Lega è rimasta costante. E la strategia nei confronti della chiesa è chiara: aggressioni a gerarchie e associazioni impegnate nell’accoglienza. Ma anche prese di posizione in favore di «valori non negoziabili». Il cattolicesimo della Lega è pre-conciliare, tradizionalista e strumentale. In antitesi all’«essere cristiano» di oggi.
Ce lo racconta Paolo Bertezzolo autore di un interessante saggio sul tema.

«Lega Nord per l’indipendenza della Padania» recita il sito Inteet del movimento politico fondato da Umberto Bossi.
Vi navighiamo allo scopo di trovare lo statuto del partito citato nell’ultimo libro di Paolo Bertezzolo, «Padroni a Chiesa nostra. Vent’anni di strategia religiosa della Lega Nord», edito dalla Emi. Leggiamo nell’articolo 1 del testo attualmente in vigore, approvato nel marzo 2002: «Il Movimento politico denominato “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania” […], ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana».
L’attacco all’unità nazionale, dichiarato dal movimento leghista a chiare lettere, costituisce uno dei principali motivi di contrasto tra la Lega e la Chiesa cattolica fin dalla fine degli anni ‘80, insieme al rifiuto xenofobo del «diverso», straniero, meridionale, rom, extracomunitario o islamico che sia.
Paolo Bertezzolo nel suo volume che ripercorre la storia del più longevo partito politico italiano presente oggi in parlamento, scrive anche di questo. E ne scrive perché la tesi del suo lavoro, ampiamente dimostrata, è proprio quella che negli ultimi 20 anni ci sia stata, e ci sia, una strategia leghista molto precisa nei riguardi della Chiesa. Attacchi alle gerarchie e ad alcune organizzazioni cattoliche schierate per l’unità nazionale e impegnate nell’accoglienza degli stranieri, ma anche ammiccamenti, espliciti corteggiamenti e forti prese di posizione in favore di alcuni «valori non negoziabili»: la famiglia tradizionale, l’obiezione all’aborto, le radici cristiane dell’Italia e dell’Europa, la difesa del crocifisso.
Fatto di attacchi, a volte molto violenti e spesso irriverenti, ma anche di dichiarazioni e atti di fedeltà alla «cristianità», l’atteggiamento leghista verso la Chiesa è lontano dall’essere contraddittorio: la Lega si fa amica della Chiesa e allo stesso tempo sua oppositrice al fine di mostrarsi come autentica detentrice della tradizione cristiana più della Chiesa stessa. Le apparenti contraddizioni trovano la loro coerenza nella volontà «totalizzante» della Lega di assorbire in sé tutte le caratteristiche identitarie delle comunità che vuole rappresentare, quindi anche quella religiosa. I valori religiosi ed etici diventano meri valori culturali con il fine di costruire l’identità «padana», di avere un sempre maggiore potere simbolico e consenso elettorale. In questa strategia, efficace nell’intercettare il sentimento «popolare», anche grazie ad un forte radicamento della Lega sul territorio, la Chiesa è costantemente sotto l’attacco di una pericolosa strumentalizzazione politica.
Bertezzolo con il suo ampio lavoro, oltre ad indicare in modo chiaro l’esistenza di una strategia leghista volta a conquistare il «terreno» della Chiesa, sembra volerla invitare a vegliare per non lasciarsi sopraffare. Ma anche a non lasciarsi vincere dalla tentazione di strumentalizzare a sua volta le posizioni leghiste più vicine alle proprie, al fine di promuovere a livello politico e istituzionale ciò che le sta a cuore, con rischi sul piano della fede e della fedeltà al Concilio Vaticano II. Se per un partito politico come quello «bossiano» infatti il fine (il consenso elettorale, il potere) giustifica i mezzi (invettiva anticlericale e vezzeggiamento «ultracattolico»), per la Chiesa, sembra dirci Bertezzolo, il fine (l’annuncio di Dio amore e salvatore del mondo) e i mezzi devono essere coerenti, pena il tradimento del Vangelo.

Innanzitutto ci dica qualcosa
di lei.
«Attualmente sono pensionato. Il mio lavoro è stato, prima di insegnante di storia e filosofia nei licei, poi di preside: ho diretto un liceo a Verona per una ventina d’anni. Mi sono sempre impegnato nel campo sociale, civile. Alla fine degli anni ‘70 sono stato presidente provinciale delle Acli (Associazioni cristiane lavoratori italiani) a Verona; sono stato impegnato in Pax Christi; ho avuto anche una fase di impegno politico che mi ha portato in parlamento per una legislatura a inizio anni ‘90.
Ho sempre cercato di conciliare l’attività professionale con quella dell’impegno civile».

Come nasce l’idea d’indagare  la strategia religiosa della Lega?
«È stata un’idea della casa editrice. Una proposta del direttore editoriale, Pier Maria Mazzola, che ho accolto con entusiasmo. Questo libro mi è stato molto utile, perché mi ha dato l’occasione di riflettere a fondo su più di vent’anni della storia civile, politica e religiosa del nostro paese».

Lei vive vicino a Verona. Come vede relazionarsi la Lega con la Chiesa locale?
«La Lega si sta diffondendo sul territorio a macchia di leopardo. Ci sono alcune realtà ecclesiali in cui è particolarmente presente e ascoltata, alcune in cui è assente, altre in cui vive situazioni di conflitto col parroco, coi laici impegnati. Però in generale assisto ad una sua progressiva espansione all’interno delle comunità parrocchiali, sia in Veneto che in Lombardia: le due regioni in cui la Lega è storicamente più presente».

Qual è la concezione religiosa della Lega Nord?
«Il leghismo è portatore di una visione cristiana tradizionalista, di tipo lefebvriano e, direi, anticonciliare, che si rifà al modello di cattolicesimo di Pio V, il papa della Lega Santa che nel 1571 batté l’impero ottomano nella battaglia di Lepanto. Questo a mio avviso crea un problema molto serio per la Chiesa, perché ritengo, come sostengono il vaticanista del Tg1 Aldo Maria Valli, e un dossier pubblicato da «Missione Oggi», che le posizioni del cattolicesimo leghista siano assolutamente inconciliabili con il cattolicesimo del Vaticano II. La Chiesa oggi si trova di fronte ad un bivio: far prevalere i cosiddetti valori non negoziabili, quelli connessi al grande tema della vita, oppure i valori della solidarietà, dell’accoglienza, dell’attenzione all’ultimo, quelli legati alla carità cristiana. Far prevalere le tendenze che portano verso un accordo con la Lega, o no?
Io credo che si sia espresso molto bene monsignor Luigi Bettazzi (vescovo emerito di Ivrea, ndr), il quale dice che la difesa della vita, l’attenzione alle tematiche bioetiche, non possono essere disgiunte dalla caritas. L’una non può stare senza l’altra. Prendendo solo uno dei due aspetti si tradisce il Vangelo.
La Lega è disponibile a difendere le tematiche del primo ambito, ma non le seconde».

Nel suo libro questo risulta molto chiaro: da un lato la Lega attacca, anche violentemente, la Chiesa quando essa è a favore dell’unità solidale dell’Italia e per l’accoglienza degli ultimi, immigrati. Dall’altro fiancheggia la Chiesa, ne prende le parti quando si tratta di difendere le radici cristiane, la famiglia tradizionale, di rifiutare l’aborto e così via.
«Certo. Su questo si rende evidente l’inconciliabilità della Lega con la Chiesa. La Lega non è assolutamente disponibile ad aprirsi alla caritas. Per essa è costitutivo il rifiuto del diverso e il richiamo all’identità dei popoli “padani”, anche se questi sono un’entità di difficile identificazione territoriale ed etnica.
Non per niente la Lega rimpiange Lepanto, perché ha una visione crociata del rapporto con la realtà territoriale, con le diversità culturali, con gli islamici. Per la Lega “gli infedeli” sono da combattere.
Da un punto di vista cristiano, invece, io non posso combattere l’infedele. Per fortuna questo l’abbiamo capito. Lo sancisce il Concilio, ma ce lo dice tutta la Parola di Dio: questo deve creare dei problemi con le posizioni leghiste».

C’è nella Lega una strategia precisa, una strumentalizzazione delle tematiche etiche, religiose, cristiane, a fini politici. Secondo lei c’è consapevolezza di questo nella Chiesa?
«In parte questa consapevolezza c’è. Faccio riferimento alle posizioni dei due grandi arcivescovi di Milano, che non a caso sono il primo e grande bersaglio – il cardinal Tettamanzi lo è tutt’ora – degli strali della Lega.
Sia Martini, sia Tettamanzi, hanno mostrato con lucida chiarezza e grandissima coerenza cristiana, l’inconciliabilità delle posizioni leghiste con l’essenza dell’annuncio cristiano, che è un annuncio di accoglienza. Dello straniero, del diverso. Questa non è nient’altro che la parola di Dio, il messaggio biblico: “Ricordati che tu sei stato straniero”. L’esodo ci appartiene come credenti.
Secondo me, invece, un’altra parte di Chiesa, compresi alcuni esponenti della gerarchia, vede con attenzione, anche se forse non con condivisione, le posizioni leghiste, perché funzionali a una difesa dei valori cristiani “più tradizionali”, e di quelli legati alle grandi questioni della bioetica.
Il segno di contraddizione passa da qui: noi possiamo sostenere la difesa intransigente dei valori della vita fino ad allearci con chi costituisce l’antitesi del messaggio cristiano dell’accoglienza?
Secondo me la grande sfida che la Chiesa ha presente oggi è: qual è il rapporto che deve avere con la realtà storica, temporale, quindi anche politica?  Come declinare i suoi valori dal punto di vista politico?
Su questo punto credo che vada fatta una grande opera: io vorrei il coraggio evangelico del confronto con la parola di Dio. Che cosa ci dice essa a questo proposito? È più importante una legge che, nel versante delicatissimo del “fine vita”, corrisponda all’interpretazione che la Chiesa dà di esso, o il fatto che il messaggio dirompente del Vangelo arrivi alle coscienze, lasciando che esse animate, vivificate dalla parola di Dio, si muovano con la libertà che spetta ai figli di Dio e che tutta la Bibbia riconosce loro?
Fino a che punto la testimonianza, il messaggio cristiano può e deve identificarsi con la legislazione dello stato, di uno stato che è pluralista?
La Chiesa che crede nell’utilizzo della legge, dell’istituzione, per far passare il proprio messaggio può arrivare ad un accordo con la Lega. Ma il messaggio che passa attraverso le leggi è il messaggio cristiano?
Io sinceramente temo di no.
Queste sono sfide grandissime oggi. Mi piacerebbe che i nostri vescovi, i nostri preti e noi laici ci confrontassimo su queste tematiche che sono quelle dell’annuncio del Vangelo».

Potrebbe, in poche battute, indicarci qual è la sostanza del suo libro?
«Ho voluto dimostrare che c’è un cammino storico, documentato a partire dalla fine degli anni Ottanta fino al dicembre del 2010, in cui la Lega non ha mai mutato le proprie posizioni, i suoi principi non negoziabili: come quello dell’affermazione di una realtà territoriale, chiamata a volte Padania, a volte Nord, da separare dal resto del paese e costituire come stato indipendente riconosciuto a livello internazionale, come dice l’articolo 1 dello statuto della Lega. E ho voluto mettere in luce come la Chiesa, nelle sue varie articolazioni, si è proposta nei confronti di questa sfida dirompente che rischia di squassare l’assetto istituzionale, politico, sociale, culturale, religioso, del nostro paese.
La Chiesa ha modificato il suo percorso, la Lega no. C’è una prima fase in cui la Chiesa si è opposta radicalmente e in toto alla Lega, seguita da una lenta evoluzione in cui, alla sua opposizione sempre intransigente e chiara sulle questioni dell’unità nazionale e dell’accoglienza dello straniero, si è affiancato un atteggiamento di attenzione, non dico consonante, e neanche simpatetico, se non in alcune frange della Chiesa, ma favorevole nei confronti della Lega, vista come baluardo della tradizione cattolica, e in particolare come forza politica utilizzabile nella battaglia sulle questioni bioetiche».

Verso la conclusione del libro scrive: «In gioco è la fedeltà al concilio».
«Se la Lega diventasse sul serio un interlocutore della Chiesa, questo avverrebbe a scapito del concilio: la Lega è infatti una forza esplicitamente anticonciliare.
Oggi l’essere cristiano è radicalmente messo in discussione. Il Concilio è l’annuncio della parola di Dio nel ventesimo e nel ventunesimo secolo: oggi non si può pensare all’annuncio di una fede cristiana, cattolica, che prescinda dal concilio.
La Lega mette in discussione proprio questo. Essa è a favore di un cattolicesimo tradizionalista, identitario. Concepisce il cattolicesimo come mera componente dell’identità territoriale che vuole costruire, il Nord, la Padania, con un carattere di forte esclusione del diverso, l’immigrato, l’uomo, la donna che proviene dal terzo mondo, l’islamico in particolare».

È impressionante la mole di dichiarazioni da parte di esponenti leghisti volte ad affermare il ruolo della Lega di autentica custode della tradizione cristiana, in contrapposizione ad una Chiesa invece spesso incolpata di tradire quella stessa tradizione.
«La Lega è un partito totalizzante. Su questo io non ho dubbi.
Ciò significa che si propone come soggetto che dà vita, in se stessa, a tutte le possibili espressioni del territorio, quindi la cultura – nella sua accezione identitaria, ricercata a volte in aspetti piuttosto grossolani – , ma anche la religione in quanto parte di un’identità etnica tutta da inventare. In questo senso quindi la Lega non è affatto pluralista né laica, e punta ad assorbire in sé anche l’espressione religiosa cattolica.
Quando la Lega si dice “cattolica”, lo fa in questo senso. Non per niente lo fa in chiave anticonciliare, perché il concilio è il trionfo della visione laica, pluralista, del rispetto delle altre confessioni religiose e dei non credenti».

Lei come vede il futuro del movimento leghista?
«La Lega in questo ultimo anno a livello istituzionale sta dimostrando una moderazione che non è propria della sua storia. Bisognerebbe capire che cosa questo significhi: se siamo in presenza di un’evoluzione moderata, cioè di una Lega che pur rimanendo una forza politica territoriale accetta di far parte di uno stato costituzionale, accettando la Costituzione italiana ed i principi che sono presenti in essa, compresi quelli della laicità e del pluralismo, o se, per l’ennesima volta, siamo in presenza di una scelta tattica. Oggi la Lega vive un momento politicamente molto debole, dovuto alla crisi del modello berlusconiano, e fà proprio un moderatismo tattico per attraversare il guado di questa difficile fase politica in cui deve comunque portare a casa dei risultati, come le norme sul federalismo.
Io mi auguro fortemente che sia in corso un’evoluzione del primo tipo, cioè la trasformazione della Lega, pur lenta e difficile, in una forza territoriale moderata, un po’ sull’esempio della democrazia cristiana bavarese: forza regionale, ma costituzionale e democratica. Però c’è ancora molto cammino da fare. Qualche segnale – io sono sempre ottimista – che possa farci pensare ad una evoluzione democratica della Lega non nego che ci sia. Ma viviamo una fase complessa, di transizione molto difficile, drammatica, del nostro paese».

di Luca Lorusso

Luca Lorusso




Confesssioni atomiche

Test nucleari e diritti degli aborigeni

All’indomani delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki inizia la corsa agli armamenti nucleari. Ma la conoscenza degli effetti devastanti degli ordigni atomici è ancora limitata. Le super potenze si lanciano in sperimentazioni molto pericolose. La Gran Bretagna sceglie l’Australia come terreno per i suoi test.  Le radiazioni contaminano intere aree.  All’insaputa degli aborigeni e degli stessi militari che compiono le esercitazioni.

Australia: paese di canguri saltellanti e di pigri koala arrampicati sugli alberi, barriere coralline di incredibili colori, di deserti, dell’Opera di Sydney, numerosa comunità italiana. Certo non ci viene in mente di associare questa grande nazione all’inquinamento radioattivo. Invece proprio lì, nei passati decenni, si sono svolti esperimenti militari che hanno prodotto pesanti conseguenze sull’ambiente e sulla popolazione, in particolare quella aborigena.

corsa al nucleare
Subito dopo le esplosioni nucleari che distrussero Hiroshima e Nagasaki, ponendo fine al secondo conflitto mondiale, si sviluppò una fiera competizione tra il blocco occidentale e quello comunista per realizzare nuovi armamenti, in quella che è stata definita «Guerra fredda». Nel giro di pochi anni sempre più potenze si dotarono di bombe atomiche. Prima furono quelle cosiddette «a fissione», seguite da quelle «a fusione» (o all’idrogeno).
In queste ultime si sfruttava addirittura l’esplosione di una bomba atomica come quella di Hiroshima per indurre la fusione nucleare di nuclei leggeri di isotopi dell’idrogeno, in un processo analogo a quello che fa risplendere il sole. La potenza raggiungibile con questo secondo tipo di ordigni era teoricamente illimitata, ciò che comprensibilmente suscitò gli entusiasmi dei leader militari.
Ma affinché i militari potessero davvero fare totale affidamento sugli ordigni nucleari, era indispensabile verificarne le caratteristiche in tutti i possibili teatri e condizioni di impiego. Inoltre bisognava capire cosa le truppe avrebbero potuto fare su un terreno di battaglia che avesse visto l’impiego dell’arsenale atomico.  I soldati sarebbero riusciti ad operare con efficacia in un ambiente in cui fossero presenti rilevanti radiazioni a seguito dell’esplosione di un ordigno nucleare? O sarebbero invece caduti in uno stato di prostrazione e di incapacità? L’unico modo per chiarire questi punti importanti era di procedere a degli esperimenti, con cui appurare le varie questioni in sospeso.

Test «quasi» segreti
Tutte le potenze atomiche iniziarono quindi ad effettuare dei test, sia per meglio comprendere il funzionamento tecnico delle bombe, sia per verificare la loro compatibilità con lo svolgimento di normali operazioni militari di guerra. I test vennero svolti in territori poco o per nulla abitati. Nel caso della Gran Bretagna, considerando impossibile trovare una località adatta nella madrepatria, si decise di svolgere gli esperimenti in Australia.
Questo enorme paese aveva con Londra un rapporto di colonia dotata di autogoverno, soggetta -almeno in teoria – alla legislazione che il parlamento britannico aveva elaborato specificamente per lei.
È possibile capire facilmente quale fosse l’atteggiamento delle autorità militari e dei governi del tempo – inizio anni ‘50 – impegnati a sviluppare, perfezionare e impratichirsi con le armi nucleari. Ma anche quali fossero le priorità, le misure cautelative, le conseguenze inattese, per evitare le quali non si era certo fatto tutto il possibile. Il tema è trattato nel documentario
Australian Atomic Confessions, della regista australiana Katherine Aigner.

da londra a camberra
Per cominciare, chiediamoci perché i britannici decisero di testare proprio in Australia e non in casa propria. Questo immenso territorio presentava innanzitutto molte zone poco o per nulla abitate; in secondo luogo era stato una colonia che ancora aveva fortissimi legami con Londra. Gli australiani erano molto decisi a cercare di essere più inglesi degli inglesi e a fare la loro parte nella titanica sfida che vedeva l’Occidente capitalista contrapposto al mondo comunista. Gli australiani se l’erano vista brutta pochi anni prima, quando le forze armate giapponesi erano arrivate sulla loro porta di casa, avendo sbaragliato le truppe britanniche di stanza a Singapore. Lo sviluppo di un armamento nucleare era visto come essenziale per garantire che analoghe minacce all’integrità territoriale australiana non si riproponessero.
Ricordiamo anche come negli anni ’50 le conoscenze sull’effetto delle radiazioni ionizzanti sull’organismo umano avevano sì fatto molti progressi, specie studiando le vittime e i sopravvissuti dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, ma molto rimaneva ancora da scoprire. In particolare non era chiaro se dei soldati avrebbero potuto operare efficacemente su un teatro di battaglia ove, poco prima, fossero state fatte detonare bombe nucleari. Nemmeno era chiaro come e quanto gli edifici e altre realizzazioni tecniche avrebbero potuto resistere in caso di un’esplosione nucleare. I test sperimentali servivano anche per colmare questi buchi conoscitivi.

aborigeni inconsapevoli
I primi esperimenti vennero condotti sulle isole Monte Bello, al largo della costa occidentale dell’Australia. Altri ad Emu Field, nella parte occidentale dello stato dell’Australia del Sud. Un terzo gruppo infine nel sito di Maralinga, un nome che nella lingua degli aborigeni voleva dire, quasi profeticamente, «I campi del tuono», nel medesimo stato.
Se le isole Monte Bello erano disabitate, le zone dell’Australia del Sud erano popolate da gruppi di aborigeni nomadi. Nonostante gli sforzi delle autorità di evacuare le zone prossime ai poligoni militari, alcune famiglie aborigene non vennero individuate e si trovarono esposte alla ricaduta radioattiva (fallout) successiva alle esplosioni.
Queste sfortunate persone erano particolarmente vulnerabili, non avendo comprensione alcuna di quel che stava succedendo nei loro territori. Capitò così che alcune famiglie si recassero a prendere acqua da bere (una risorsa particolarmente scarsa in quelle zone) nei crateri vetrificati – e pertanto impermeabilizzati e capaci di trattenere le scarse piogge – prodotti dagli scoppi atomici e per questo quanto mai radioattivi.
Molti aborigeni si ammalarono e morirono, vittime di una nuova, subdola epidemia provocata da altri uomini.
«Al tempo dei test gli aborigeni si sono sentiti trattati alla stregua di animali da esperimento. Come conseguenze dell’esposizione alla ricaduta radioattiva dovuta ai test nucleari, molti morirono, altri ebbero malattie gravi, taluni rimasero ciechi» racconta la regista Katherine Aigner.
Pochi in Australia e altrove si preoccuparono, dato che, in quel periodo, sostanzialmente era nullo il peso politico degli aborigeni ed anzi venivano da molti considerati poco più che animali (vedi box).
Katherine Aigner ricorda con particolare emozione il racconto della professoressa universitaria di origine aborigena (una delle poche) Rebecca Bear-Winfield, nata con tre ovaie e incapace di procreare, dopo che sua madre venne esposta alla ricaduta radioattiva, che si presentava come una «nebbiolina nera». Secondo la regista non è esagerato parlare di un genocidio nei confronti della gente aborigena, dato che in tal modo si è andati a colpire anche le future generazioni.

Militari allo sbaraglio
Se il cinico sacrificio degli aborigeni può non sorprendere, visto il clima ideologico e culturale che si viveva in quegli anni a Camberra e dintorni, più scioccante è vedere con quale leggerezza venissero esposte alle radiazioni ionizzanti le truppe inglesi e australiane. Nel film di Katherine Aigner le interviste ai testimoni diretti non lasciano adito a dubbi: soldati, aviatori e altri addetti ai poligoni vennero inviati a lavorare in zone dove le dosi di radiazioni ricevute erano elevate e tali da causare alti rischi.
«I militari che parteciparono ai test confermano che ci fu una pesante mancanza di informazione anche per loro, figuriamoci per gli aborigeni! Comparvero molte patologie come cancri e altre malattie, non solo ai militari – continua la regista – ma anche ai loro discendenti. E se i soldati erano forse pure disposti a sacrificare la loro vita per la propria nazione, certo si sono alquanto preoccupati nel vedere che problemi gravi si sono presentati nei loro figli e nei loro nipoti. I danni sono avvenuti a livello del Dna, sebbene fossero stati rassicurati che non ci sarebbe stato nessun problema. Però questa era nient’altro che una grande bugia».
Personale australiano venne mandato a «ground zero», nel luogo esatto della detonazione atomica, meno di mezz’ora dopo lo scoppio, quando i livelli di radiazione erano alle stelle. Aerei da rilevamento attraversarono le nuvole di materiale radioattivo sollevate in atmosfera. Le contaminazioni furono talmente elevate, che gli aerei vennero seppelliti, non essendo possibile decontaminarli. I piloti furono lavati nel miglior modo possibile e poi rassicurati che nulla sarebbe a loro successo.
Sta di fatto che i veterani atomici subirono gravi danni alla salute e solo in rarissimi casi hanno visto questo riconosciuto come dovuto a cause di servizio.

Non solo Australia
Ma i test atomici non hanno causato problemi di salute solo ai militari. Buona parte del territorio australiano ha ricevuto ricadute radioattive, sebbene di varia intensità. Il pubblico è stato informato poco e male, ricevendo sempre l’assicurazione che «tutto è sotto controllo».
La ragione di stato e gli imperativi militari hanno portato a considerare i propri soldati e cittadini poco più che «strumenti usa e getta», sacrificabili, se necessario, in un gioco di potere planetario a fronte del quale venivano piegati e abbandonati gli stessi ideali e valori fondamentali di uno stato democratico.
E non si pensi che questo tipo di comportamenti spietati e cinici sia avvenuto solo in Australia. Ritroviamo infatti situazioni del tutto analoghe per i test effettuati dai cinesi nella provincia occidentale dello Xinjiang, popolata da irrequiete minoranze etniche, dai francesi in Algeria e in atolli quali Mururoa, Fangataufa e Hao, dagli americani nel Pacifico (Bikini, Eniwetok, Johnston, Christmas), dai sovietici in Kazakistan e in Siberia.
Fatti e storie sempre tenute nascoste al mondo e raramente denunciate.

di Mirco Elena

Mirco Elena




Amore contro paura

 

«Sono andato a Baragoi a supervisionare un bacino
artificiale che stiamo costruendo. Appena arrivato mi hanno
detto che giù nella
Suguta Valley c’era un ragazzo ferito da razziatori Pokot. Era là, in quelle condizioni, già da quattro giorni.
Ho deciso d’impulso di andare a prenderlo e portarlo all’ospedale di Wamba. La gamba

puzzava terribilmente, vermi bianchi uscivano dalla
ferita da arma da fuoco. Il ragazzo
non mangiava da quattro giorni, io non ho mangiato per due, ma ora è salvo».

Queste parole sono il semplice commento alla foto stomachevole di una gamba ferita simile alle tante immagini che ci stiamo abituando a vedere nei reportages dalla
guerra di Tripoli
che Evans ha messo sulla
sua pagina di facebook in agosto. Quello che un tempo era un chierichetto e appassionato giocatore di calcio nell’oratorio della missione, lavora ora come coordinatore
dei progetti di sviluppo della
diocesi di Maralal. Là, a Baragoi (Samburu County,
Kenya), ha fatto quel
che il cuore gli diceva, senza
ascoltare la paura e calcolare il rischio.

Ho
pensato a lui cominciando a scrivere questo editoriale d’ottobre, il mese missionario per eccellenza, perché mi ha ricordato una cosa importante: il bisogno di vincere le nostre paure con
un po’ di amore, gratuito e perché no? anche
un po’ incosciente.

Stiamo vivendo un tempo di grazia unico e irrepetibile che sfida a fondo la fede di chi si fregia di
un nome grande: cristiani, cioè di Cristo. È un tempo di grandi trasformazioni e problemi, con-
fusioni e potenzialità, segnali
di morte e luci di vita, grandi libertà
contrastate da emergenti
fondamentalismi e particolarismi, globalizzazione e violazioni della
privacy, ingiustizie impuni- te e violenze dilaganti insieme
al progresso inarrestabile della scienza,
comunicazione capilla- re e manipolazione dell’informazione. Di fronte a tutto questo il grande rischio
è la paura: paura
della mancanza di futuro, paura che gli altri
mi tolgano spazio vitale, lavoro e risorse, paura dei
guai, paura dei vicini,
paura degli stranieri, paura della
futilità dell’impegno
perché «tanto non
cambia mai nulla» e «chi paga sono sempre i soliti onesti e chi ingrassa sono sempre i furbi»,
una paura che immobilizza perché ci fa sentire impotenti di fronte a problemi troppo grandi.

 

 

Antidoto alla paura è l’amore. Vince contro l’inazione e la rassegnazione, perché è ottimista,
non guarda all’enormità dei problemi, sa che è importante fare qualcosa per chi è nel
bisogno, anche fosse una persona sola.
L’amore non calcola costi, rischi e guadagni
prima di incominciare; gli studi di fattibilità li fa dopo aver iniziato. Non aspetta la Tv per f
ar spettacolo. È così incosciente da assumersi responsabilità e prendere iniziative senza aspettare gli ordini,
senza curarsi della
pubblica opinione. Questo amore nella
Chiesa diventa
missione: andare verso chi ha bisogno, fino agli estremi confini,
per far scoprire il vero volto dellAmore, Gesù Cristo.

«La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, nuovo entusiasmo
e nuove motivazioni.
La fede si rafforza donandola!». Sono parole di Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Missio.
Papa Benedetto XVI le ripropone nel messaggio
per la Gioata Mis- sionaria Mondiale che celebriamo il prossimo 23 ottobre (vedi
pp. 74-75).

Attraverso questa missione-amore «il cristiano diventa costruttore della
comunione, della
pa- ce, della
solidarietà che Cristo ci ha donat senza
trascurare «la promozione
umana, la giustizia, la liberazione da ogni forma di oppresione»
e la Chiesa «si prende a cuore della vita umana a
senso pieno» in un mondo
dove ancora troppi non conoscono il Signore Gesù e dove anche quelli che lo conoscono, lo hanno
dimenticato e non si riconoscono più nella
comunità che è la Chiesa.

Forse abbiamo proprio bisogno
di riscoprire la gratuità
e l’incoscienza di questa missione-amore per vincere le nostre paure, reagire alla disperazione
e continuare ad annunciare la gioia
del Cristo Risorto dove viviamo e a tutto il mondo.

 di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Diocesi in stato di missione

Reportage dalla diocesi di Gurúe

Creata nel 1993, Gurúe è la diocesi più giovane del Mozambico; il suo primo vescovo, mons. Manuei Chuanguira Machado, si è dimesso nel 2009 per motivi di salute; gli e succeduto mons. Francisco Lerma, primo vescovo missionario della Consolata in Mozambico: egli eredita comunità in continua fioritura, ma con ministri e leader laici bisognosi di attenzione e formazione.

«Questo è il cuore del Mozambico» spiega sorridendo mons. Francisco Lerma, mentre mostra sulla mappa il territorio della diocesi di Gurúe, di cui è vescovo da poco più di un anno. Essa occupa infatti la parte nord della Zambezia, regione centro-settentrionale del Mozambico, tra l’Oceano Indiano a est e il Malawi a ovest.
Il termine Gurúe in sé non ha nulla di glorioso (significa «cinghiale» in lingua lomwe, gruppo macua tra i più numerosi), ma esso indica anche la catena montuosa con il monte Namuli, il cui mito occupa un ruolo importante nella cosmovisione e nel ciclo vitale della società ma-cua, l’etnia più popolosa del Mozambico.
Seconda montagna più alta del Mozambico (2.419 m), la cima avvolta nel mistero per l’immaginario popolare (anche perché è sempre coperta di nuvole, spiega mons. Lerma) il Namuli è il monte sacro per eccellenza, dalle cui cavee, secondo il mito, sono discesi i primi uomini e al quale dovranno tutti ritornare: per questo i morti sono sepolti su un fianco, con la faccia rivolta verso il monte sacro. Dicendo «io vengo da Namuli» i macua esprimono tutto il significato della loro identità personale e sociale.
tè per la regina elisabetta
Grazie ai suoi monti, la regione di Gurúe era un luogo di villeggiatura, al tempo della colonia, per i portoghesi che volevano fuggire dalle calure della pianura; ancora oggi offre varie attrazioni agli appassionati di trekking, di vita a contatto con la natura, di panorami riposanti e sempreverdi, grazie alle foreste di eucaliptus e alle grandi piantagioni di tè.
A cominciare dagli anni ‘30 del secolo scorso, il territorio di Gurúe si è affermato come il maggiore produttore di tè, apprezzato a livello internazionale, esportato in Inghilterra, Stati Uniti e Canada. Durante la guerra per l’indipendenza, soldati inglesi stazionavano nell’aeroporto di Nampula per proteggere le spedizioni del «Tè di Gurúe» verso il Regno Unito. Terra fertile, quindi, quella di Gurúe, e popolosa. La diocesi si estende per oltre 42 mila kmq (come Toscana e Lazio insieme) ed ha una popolazione di oltre 2 milioni di abitanti. Un primato non indifferente, come sottolinea mons. Lerma: «Siamo nella regione più popolosa del paese, insieme a quella di Nampula. Due province tenute d’occhio dai politici, poiché insieme contano più di 7 milioni di abitanti, un terzo della popolazione mozambicana: chi vince in Zambezia e Nampula comanda in Mozambico». Terreno fertile anche per la crescita della fede, benché l’evangelizzazione sia iniziata alla fine del 1800, solo nella cittadina coloniale, per opera dei francescani portoghesi. Il resto della zona rurale dovette attendere la metà del secolo scorso, dopo la firma del Concordato e l’Accordo Missionario tra Portogallo e Santa Sede nel 1940: l’Accordo permetteva ai missionari stranieri, e non solo portoghesi, di operare nelle cosiddette «province di oltremare».
E così nel marzo 1947 arrivarono i primi missionari Dehoniani italiani e si stabilirono nella parte nord della Zambezia, a quei tempi sotto la giurisdizione della diocesi di Beira, e fondarono le prime missioni di Alto Molocue e Nauela, Invinha, Ile e Mualama (1948), Mulumbo (1949), Namarroi e Gilè (1956). L’evangelizzazione era accompagnata e corroborata dalla promozione umana, mediante scuole, ospedali, dispensari, istituzioni di formazione professionale e sociale. Ben presto si rese necessaria una nuova organizzazione ecclesiastica: la Zambezia fu distaccata da Beira e divenne diocesi di Quelimane (1954), dalla quale fu distaccata la diocesi di Gurúe nel 1993.

AFFAMATI DI… «OSTIE»
«Su 2 milioni di abitanti, quasi la metà è cattolica: 45% circa, una media superiore a quella nazionale» continua mons. Lerma, sottolineando un altro primato di Gurúe. La diocesi conta 17 parrocchie con oltre 2.200 piccole comunità cristiane.
«In questa zona, Alto Molocue -continua mons. Lerma indicando la mappa della sua diocesi – abbiamo due “parrocchiette” con 300 comunità cristiane; qui ho fatto la prima visita, anche perché è la chiesa “madre” di Gurúe; vi sono rimasto per 15 giorni e ho amministrato 3.800 cresime; è da tenere presente che il mio predecessore ha cresimato fino a due anni fa».
Visitando la parrocchia di Invinha, il parroco mi ha raccontato che essa conta 180 comunità e nel 2010 ha avuto 10 mila battezzati tra bambini e adulti. Non credevo ai miei orecchi, fino a quando non ho sfogliato i registri dei battesimi: nel 1996 i battezzati sono stati oltre 7 mila.
La spiegazione di questo fenomeno è semplice e comune ad altre diocesi del Mozambico: nonostante la guerra abbia distrutto molte missioni e impedito la presenza dei missionari nelle loro comunità, la chiesa ministeriale ha funzionato; catechisti, animatori e altri ministri laici hanno continuato a radunare i cristiani, celebrare la liturgia della parola, portare l’eu-caristia, istruire i catecumeni, amministrare battesimi, presiedere i funerali, celebrare matrimoni…
Con la fine della guerra, nonostante la mancanza di strutture e personale missionario, la chiesa ha continuato a crescere. «La missione di Naburi, per esempio, è totalmente distrutta – continua il vescovo -. L’ho visitata nel gennaio scorso e vi ho incontrato comunità che da 25 anni non vedevano un prete. La gente si lamentava ripetendo la solita antifona: “Siamo senza ostia”, cioè senza celebrazione della messa. Per tutti questi anni hanno ricevuto la comunione eucaristica grazie al lavoro dei catechisti. Dopo la fine della guerra la parrocchia è cresciuta enormemente, passando da 17 a 90 comunità. Una crescita che richiede l’apertura di nuove parrocchie».
Un’altra esperienza indimenticabile e incredibile l’ho fotografata nella parrocchia di Mulumbo: parroco, suore e vescovo mi hanno mostrato due grandi secchi di plastica pieni di ostie da consacrare durante la messa domenicale, per essere poi ritirate dai catechisti e portate nelle 180 e più comunità di cui e formata la parrocchia.

GIOIE E GRATTACAPI
La crescita delle comunità cristiane ha favorito anche l’au-mento delle vocazioni sacerdotali e alla vita consacrata. Sono molte le congregazioni religiose che hanno membri originari dell’Alta Zambezia. «La diocesi di Gurúe conta 30 preti diocesani – continua mons. Lerma -; 25 sono impegnati in diocesi, due insegnano nei seminari interdiocesani e tre sono all’estero per specializzazioni. Siamo la terza diocesi del Mozambico per numero di preti diocesani in assoluto; ma in proporzione ne avremmo bisogno di almeno cento».
Altro personale missionario è costituito da un diocesano fidei donum argentino, 18 preti religiosi, 5 fratelli, 33 suore. «Gurúe è forse l’unica diocesi in Mozambico in cui il numero delle suore è inferiore a quello dei preti:
metà delle parrocchie non ha una presenza missionaria femminile» conclude sorridendo il vescovo, passando così a enumerare i problemi della sua diocesi: «La prima grande sfida riguarda la formazione di coloro che sono a capo delle nostre comunità: sono ammirevoli per il loro impegno, svolgono un lavoro da parroci a tempo pieno, ma chi li ha formati? Da 25-30 anni non abbiamo una scuola per preparare i catechisti».
Un’altra sfida per la diocesi è la mancanza di strutture essenziali per il funzionamento di una diocesi: l’episcopio è una modesta abitazione familiare; 14 abitazioni dei preti diocesani hanno bisogno di ristrutturazioni radicali; in 4 missioni gli edifici sono totalmente distrutti, così pure vari conventi di suore, abbandonati fin dai tempi della guerra civile; quasi tutte le chiese delle , antiche missioni hanno bisogno di restauri urgenti.
La mancanza di risorse economiche si riflette soprattutto sull’attività pastorale, come spiega preoccupato il vescovo: «Per motivi economici, 17 preti sono inseriti nel sistema scolastico nazionale, lasciandoli liberi per il loro ministero specifico solo sabato e domenica. In un anno ci sono 52 settimane, ma se si sottraggono vacanze, malattie o indisposizioni, rimangono poco più di 30 fine settimana: in un anno si possono visitare 40-50 comunità al massimo, le altre restano per mesi e anni senza vedere un prete».
Alle sfide ecclesiali si aggiungono quelle di carattere sociale ed economico, comuni al resto del paese, prima tra tutti il traffico di esseri umani, lungo la strada nazionale N.1, che attraversa il Mozambico da nord a sud, passando per il territorio della diocesi di Gurúe. «Il traffico c’è ed è evidente – spiega mons. Lerma -; abbiamo avuto vari casi in cui le persone trafficate sono morte nei container. Sono migranti somali, congolesi, nigeriani… il cui miraggio è il Sudafrica, ma molti si fermano nel paese, dedicandosi al commercio o vengono sfruttati nei mega progetti; tra le vittime ci sono molte donne, destinate alla prostituzione sia nel paese che in Sudafrica; il fenomeno riguarda anche i bambini, trafficati per i più svariati scopi, compreso quello degli organi; ma di questo non possediamo ancora prove documentali. Ne abbiamo parlato recentemente a Pretoria nell’Incontro dei vescovi dell’Africa australe (Imbisa), poiché il problema dei migranti e rifugiati coinvolge tutti i paesi di questa parte del continente. Stiamo studiando il problema, con l’aiuto di associazioni che si occupano di diritti umani».
Tale traffico è favorito anche dai mega progetti delle multinazionali che stanno sfruttando le risorse naturali in varie parti del Mozambico. La regione dell’Alta Zambezia è ricca di minerali e pietre preziose, specialmente i distretti di Ile e Gilé, dove si stanno riaprendo le miniere abbandonate dai portoghesi.
«Ciò che maggiormente mi preoccupa – continua il vescovo -è che in molte zone la gente sta abbandonando le coltivazioni tradizionali per sostituirle con quelle dal denaro facile, come il tabacco, e con nuove piantagioni di imprese multinazionali, come quelle del legname teck e prodotti per biocombustibili, di cui beneficiano solo le grandi imprese. Anche di questi problemi ci stiamo preoccupando a livello di conferenza episcopale».

LE CAPRETTE DEL VESCOVO
«Priorità assoluta è stata fin dall’inizio l’attenzione ai miei preti» confessa mons. Lerma. A un mese dalla presa di possesso della diocesi, egli li ha radunati per ascoltarli e fare il punto sulla situazione. La prima constatazione è stata la mancanza di una minima struttura di accoglienza e ha subito lanciato il progetto «Casa Diocesana» nella sede di Gurúe: un ampio salone-cappella, aule per uffici diocesani e 15 stanze capaci di ospitare una trentina di persone; il salone è già in funzione, il resto è ben avviato.
Un altro evento importante è stata l’Assemblea diocesana di pastorale, tenuta a Gurúe dall’8 all’11 marzo 2011, sul tema: «Diocesi in stato di missione: evangelizzare è un dovere di ogni cristiano». Vi hanno partecipato 67 delegati tra preti, laici e religiosi. Sono stati dibattuti i problemi pastorali della diocesi ed enucleati quattro temi fondamentali da realizzare nei prossimi tre anni: comunione diocesana, evangelizzazione e catechesi, formazione degli agenti di pastorale, autosostentamento economico».
La soluzione dell’ultimo è la base per realizzare gli altri. La diocesi non ha entrate di alcun genere; ma l’autosostentamento non è impossibile, come avveniva nelle missioni antiche: esse avevano vasti appezzamenti di terreno con cui fronteggiavano l’amministrazione ordinaria. Per promuovere l’autosostentamento il vescovo ha idee chiare e le ha già lanciate. Prima di tutto bisogna recuperare i terreni delle missioni e poi sfruttarli con varie iniziative, come piantagioni di cajù (anacardio) e allevamento di bestiame. Una missione ha recuperato e rimesso in funzione un mulino; la parrocchia di Invinha ha già iniziato a valorizzare 30 ettari di terreno con l’alleva-mento di una trentina di mucche. In questa missione sono accudite anche una dozzina di «capre del vescovo».
«Ogni volta che amministro la cresima la gente mi offre grana-glie, frutta, polli e capretti;
l’ultima volta ne ho ricevuti sette» spiega sorridendo mons. Lerma. Da tale usanza ha maturato un’altra idea per l’autosufficienza economica: «Ho proposto di aumentare la tassa annuale dei fedeli da 10 a 50 meticais; la maggior parte non ha denaro, ma tutti possono contribuire in natura: miglio, fagioli, riso, capre, pollame… il ricavato dalla loro vendita serve a creare un fondo per il sostentamento ordinario del clero e della diocesi; registrando con trasparenza ciò che entra e ciò che esce».
Questo per la vita ordinaria. Per i progetti straordinari bisognerà chiedere aiuto altrove. «Ma prima dovremo riconquistare la credibilità estea, specie con la Germania – spiega serio il vescovo -. Le organizzazioni inteazionali non ci danno più un centesimo, da quando il mio predecessore, colpito da un ictus nel 2001, non è stato più in grado di rendere conto dei finanziamenti ricevuti per vari progetti: questi non sono stati realizzati e i soldi non ci sono più. Ho spiegato la situazione ai donatori, chiedendo di mettere una pietra sul passato. Ho detto loro che non ho alcuna intenzione di indagare su dove sono finiti i loro aiuti: sono stato mandato qui come padre e pastore, non come giudice inquisitore. D’ora in poi useremo la massima trasparenza. È quello che ho chiesto anche ai miei preti. E qualche organizzazione mi ha ringraziato per la chiarezza e sincerità».

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




La Tbc “malattia dei poveri”

“Hola Guido, mi dispiace disturbarti.
Però, come ti avrà già informato Michel, i miei genitori sono morti di tubercolosi nel
giro di neanche due anni.

Dopo la morte di mio padre, ho chiesto ai miei fratelli di farsi un controllo medico,
affinché fossero sicuri di non essee colpiti. Da quello che so (mi scrivono poco e
quello che mi scrivono mi genera solo dubbi), ora anche Juan si è ammalato di
tubercolosi.

Ho scritto a mia sorella Maria, che vada a casa tua e ti chieda un consiglio medico.
Allo stesso tempo, dovresti dirle quali misure igieniche deve osservare in casa.

Vorrei sapere direttamente da te quello di cui hanno bisogno: controlli medici,
medicine… Se puoi, chiamami dopo la visita a Maria, per dirmi quello che è
necessario”.

Questo è il messaggio inviatomi per posta elettronica da Raul, un ragazzo di Villa El
Salvador (Perú), emigrato in uno dei nostri paesi europei dove si è sposato, lavora, ha
una figlia e una bella casa.

Tempo fa sono stato suo ospite. Ho visto la sua vita normale come quella di ciascuno di
noi, ho sentito i suoi problemi simili a quelli di ciascuno di noi, ma al tempo stesso ho
percepito un fondo di tristezza per la lontananza dal suo paese e per la tragedia che
incombeva sulla sua famiglia e di cui si rendeva conto solo ora che la guardava da
lontano.

Raul era tornato in Perù per il funerale di sua madre e poi non era riuscito a
rientrare per quello di suo padre.

Ricevuto il suo messaggio in Perù, dove mi trovavo per la mia consueta visita, andai
dall’amico Michel Azcueta. Professore di Raul in Villa El Salvador, ex-sindaco della
città, leader politico e grande conoscitore della realtà sociale e politica del Perù,
nonché personaggio di fama internazionale, Michel mi disse che, all’epoca dei
funerali della madre, aveva parlato lungamente con Raul ed era rimasto molto colpito dallo
shock di questi al tornare a Villa dopo anni.

Raul era tornato in Perù dopo 5 anni di Europa e, scontrandosi con la dura realtà
della sua famiglia e della città, ne era rimasto sconvolto. Continuava a ripetere
piangendo che non era possibile vivere e morire così. Raul aveva potuto confrontare i due
mondi e, da ragazzo (ora poco più che trentenne) sensibile e preparato, non aveva retto
il confronto tra le sue due vite.

Con la tubercolosi, malattia infida e legata alla povertà, ho lavorato molto. Dopo il
primo anno e mezzo di lavoro in Perù, tornato a Roma per una vacanza di alcuni giorni
(allora avevo solo 28 anni ed ero un medico alle prime armi), ero andato a trovare, in
cerca di consigli, il medico responsabile del programma di lotta alla tubercolosi
(ex-dispensario) di Roma.

Erano gli anni ’80. Trovai un vecchio medico che mi chiese, colpito dalla mia
visita, del lavoro che facevo, di quanti pazienti vedevo. Finito l’interrogatorio,
disse che non mi poteva dare alcun consiglio perché lui oramai aveva solo uno o due
pazienti tubercolotici al mese, mentre io ero l’esperto visto che ne vedevo uno o due
al giorno.

Il vecchio medico mi disse però un paio di cose importanti: “Guarda collega, la
tubercolosi non è stata sconfitta da noi medici, dalle medicine o dalla vaccinazione. La
tubercolosi in Italia e negli altri paesi europei è stata sconfitta dal miglioramento
dell’alimentazione, dal radicale cambiamento delle case (che ora hanno stanze grandi
con luce e ventilazione), dal maggior livello di educazione delle famiglie, da un ritmo di
lavoro meno stressante e con i giusti riposi. In una parola, è il progresso economico e
sociale, la ricchezza della società che hanno vinto la tubercolosi. Noi abbiamo solo
curato i pazienti”.

José Atencia è un medico che lavora in un Centro di salute (poco più che un
poliambulatorio) di Villa El Salvador. Il Centro appartiene al ministero della Sanità del
Perù e si chiama “Hospital Juan Pablo II”. Opera su un bacino di circa 100 mila
persone. Il dottor José Atencia è l’attuale cornordinatore del programma di lotta
alla tubercolosi.

Dottor Atencia, quanti pazienti sono entrati nel programma nel 2000?

“Circa 180 pazienti provenienti dal territorio di giurisdizione del nostro centro,
che conta 102.966 abitanti. Di questi 180 pazienti un 5/10 per cento è ricaduto”.

Per quali cause tanti pazienti ricadono?

“Fondamentalmente per problemi sociali ed economici. Sono persone che non sono
riuscite a reinserirsi nella società, senza un lavoro stabile e magari con altre persone
da mantenere. Sono persone, il cui apporto nutrizionale non è sufficiente. Ricadono
semplicemente perché continuano a vivere negli stessi luoghi dove endemicamente è
presente la TBC”.

Che caratteristiche hanno questi luoghi endemici?

“Non hanno i servizi di base, non hanno acqua, fognature. Un mese fa ho avuto un
caso tipico, un paziente di 25 anni.

Io gli ho domandato: “Tu stai prendendo regolarmente le medicine. Però il tuo
peso non cresce. Che sta succedendo? Perché non hai più cura di te?”. E lui mi ha
risposto: “Dottore, io prendo le medicine con regolarità. Però devo trovare lavoro
perché ho famiglia. A volte lo trovo per una settimana e la mia famiglia vive tranquilla
per quei giorni. Poi il lavoro finisce e devo cercarne un altro. Dottore, quando cerco
un’occupazione, la cerco dal mattino alla sera. Non me la sento di tornare a casa se
non ho tentato fino alle 10 di notte. Ma ci sono periodi che non trovo nulla. Per una,
due, tre settimane. Quando poi finalmente ci riesco, lavoro magari per un po’ e poi
si ricomincia””.

Come medico non è frustrante lavorare sapendo che, affinché i tuoi pazienti possano
guarire veramente, sarebbe necessario che si alimentassero, che riposassero, che …?

“Sì, è così. È frustrante non dare una soluzione integrale al problema dei
pazienti. La tubercolosi è fondamentalmente un problema dei paesi poveri o impoveriti. Ma
noi possiamo dare soltanto una risposta medica e le medicine. Mensilmente diamo anche un
appoggio nutrizionale con una cesta di viveri. So bene che è un palliativo, però non
possiamo risolvere i problemi economici e sociali dei pazienti. Certo, sapere che
potrebbero ricadere nella tubercolosi perché le condizioni che li hanno portati a questa
malattia permangono, è proprio frustrante”.

Dal punto di vista medico queste ricadute sono potenzialmente pericolose, anche perché
generano resistenza nei batteri. È così?

“Sì, è così. Noi abbiamo tre schemi di trattamento.

Il primo schema, che applichiamo a pazienti con BK positivo nello sputo, generalmente
porta ad una buona percentuale di guarigioni: tra il 90 e il 95%. Quando invece c’è
una ricaduta ed applichiamo il secondo schema di trattamento, le percentuali di guarigione
scendono al 70%. Il restante 30% va verso la cronicizzazione, perché in questi casi il
micobacterium, responsabile della TBC, comincia a sviluppare una certa resistenza agli
antibiotici. Ora, per esempio, abbiamo una decina di pazienti cronici, alcuni giovani,
altri adulti”.

Qual è il livello di mortalità in pazienti con tubercolosi?

“Nel Duemila, nel nostro ospedale, sono morti 4 pazienti. Dei 4 morti, 3
presentavano la TBC associata all’AIDS”.

Quanti pazienti con AIDS ci saranno nella vostra giurisdizione?

“Questo dato non lo conosce nessuno. Fino ad ora mi pare che nessuno si sia messo
a lavorare per conoscere questa realtà. Per quello che so io, qui c’è un’alta
percentuale di pazienti con AIDS. È una zona catalogata a rischio, con una delle più
alte percentuali di Lima e forse del Perù”.

Ci sono farmaci nuovi nella cura della TBC?

“No, non ci sono nuovi farmaci. Personalmente ritengo che la tubercolosi sia ormai
considerata come una malattia non “commerciale” dai laboratori di ricerca delle
multinazionali farmaceutiche. Mi pare che i grandi laboratori non siano interessati alla
sua cura. Essendo una malattia dei paesi poveri, probabilmente non dà guadagni
interessanti. Questa è la mia opinione”.

E la prevenzione? Cosa fate o cosa si dovrebbe fare?

“Sarebbe necessario fare diagnosi precoci e far conoscere a tutti che un paziente,
che tossisce per 15 giorni consecutivi e che sta espettorando, è un paziente che può
essere ammalato di TBC e che deve rapidamente correre ad un Centro di salute.

La prevenzione è più difficile. La tubercolosi è strettamente relazionata con il
livello di nutrizione della popolazione. Avere una popolazione ben nutrita, sarebbe
sufficiente per evitare la “strage” che vediamo attualmente. Bisognerebbe poi
evitare la promiscuità nelle case, che altro non è se non un aspetto della povertà.
Occorrerebbe che le persone avessero la possibilità di accedere ai servizi basici e di
mantenere la propria famiglia. Adesso devono distribuire la propria povertà con i
numerosi figli. Questa sarebbe la vera prevenzione nei confronti della tubercolosi”.

Un medico in prima linea come te, è soddisfatto delle sue condizioni di lavoro?

“Sono un medico contrattato e quindi senza stabilità lavorativa. I medici
dovrebbero essere maggiormente appoggiati, siano essi contrattati o di ruolo.

Noi lavoriamo, come nel mio caso, in condizioni difficili e con la possibilità di
essere contagiati. Non abbiamo le precauzioni minime per evitare il contagio. Come vedi
devo lavorare in questa stanza piccola e poco ventilata. Inoltre, visto che guadagnamo
poco, dobbiamo fare due o tre lavori allo stesso tempo e questo logora”.

Quanto guadagna un medico?

“Io guadagno 1.300 soles al mese (circa 750.000 lire) ed un medico di ruolo 1.800
soles (circa un milione). Lavoro qui 36 ore alla settimana ed altrettanto in un altro
posto”.

Sei assicurato?

“No, non sono assicurato, non siamo assicurati. Posso contagiarmi con la TBC e non
sono assicurato. Posso ammalarmi, come è già successo a due miei colleghi, e non sono
assicurato”.

Michel Azcueta, parlandomi di Raul e della tubercolosi, mi aveva detto: “Cosa vuoi
che faccia? Non sai quante persone bussano alla mia porta. Quello di Raul è solo un caso
come tanti altri. Solo nel mio isolato, non sai quante famiglie hanno smesso di pagare
luce ed acqua. L’energia elettrica la prendono abusivamente dai pali
dell’illuminazione pubblica; il telefono è diventato un soprammobile”.

Ricordo che rimasi perplesso davanti a una risposta così fredda e pessimista. Ma è
così. È la stessa storia che si ripete: io non potevo aiutare Raul e gli ho indicato il
dr. José Atencia che farà quello che potrà fare.

L’unica cosa che potevo fare ancora, era scrivere per parlare ai lettori di questa
malattia e delle condizioni che la favoriscono. Ma servirà? Tutto è tanto conosciuto,
tanto normale, tanto quotidiano (e indifferente ai più) ed ora, dalla mia casa di
Venezia, anche tanto lontano…

Guido Sattin