Storia del Giubileo 3. Giubileo, Misericordia e Volto


Come abbiamo anticipato nella puntata precedente (cf MC 11/2015, p. 45), approfondiamo le parole chiave della bolla di indizione del giubileo di Papa Francesco che troviamo già nel titolo: «Giubileo, Misericordia e Volto».

Giubileo

Il primo termine che esaminiamo è «Giubileo», parola di origine ebraica con una storia che potrebbe sorprendere qualche lettore. In ebraico «jobèl» (plurale jobelìm) significa «corno» (di montone), cioè dell’ariete, il maschio adulto della pecora (Gs 6,5), e unito alla parola «shenàt» (anno – shenàt hajobèl) significa «anno giubilare» (Lv 25,13). La domanda inevitabile è: che c’entra il Giubileo con il montone e le sue coa? Direttamente nulla, ma un nesso esiste, e per capirlo bisogna partire da lontano, da molto lontano.

Il termine «jobèl» ricorre nella Bibbia 21 volte, la quasi totalità delle quali nel libro del Levitico che è un libro formato durante e dopo l’esilio di Babilonia, quindi nel sec. VI-V a.C., per cui possiamo affermare con certezza che si tratta di testi «tardivi». Nel libro di Giosuè, che è un poco anteriore al libro del Levitico, si racconta che sette sacerdoti dovevano suonare sette «shopheròt hajobelìm», trombe di corno di ariete (Gs 6,4), prima di compiere la liturgia delle sette processioni attorno alla città di Gerico. Il nesso tra il suono del corno di ariete, «jobèl», e la celebrazione del Giubileo come ritorno alla libertà, è sviluppato dalla tradizione giudaica riflettendo sull’episodio del sacrificio di Isacco in Gen 22,1-19, racconto che può essere datato intorno al sec. VII a.C., quindi risalente allo stesso periodo del Deuteronomio e del libro di Giosuè.

Chi legge superficialmente la Bibbia, quando incontra il racconto del sacrificio di Isacco, rimane scandalizzato da un Dio disumano che chiede a un padre di sacrificare il figlio per provare la sua fede. Come si permette questo Dio disumano di osare tanto? A una lettura più attenta però scopriamo che l’obiettivo è esattamente l’opposto, ma perseguito secondo i criteri e le modalità di racconto degli antichi, la cui vita era vissuta in riferimento alle divinità e interpretata solo ed esclusivamente alla luce della religiosità diffusa.

Una contestazione di pratiche disumane

Nel 2° millennio a.C. era diffusa la pratica dei sacrifici umani. Il Dio di Israele rifiuta questo culto perché lui dà la vita, non la toglie. L’autore biblico, afferma questo principio con il racconto in cui Dio mette alla prova Abramo chiedendogli di sacrificare la garanzia del suo futuro: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco… e offrilo in olocausto». Mai padre si era trovato in questa angoscia. Come ubbidire? Il figlio che Dio gli ha dato nella vecchiaia, ora gli viene richiesto indietro. Per avere una posterità deve ucciderlo. Il fatto che Dio metta alla prova Abramo è un modo per dire che tutto dipende dal Creatore: la vita e la morte, il presente e il futuro. Nulla ha senso fuori di Dio.

Abramo si fida, perché Dio gli ha dato un figlio quando era certo di non potee più avere, e perché tutto quello che gli aveva promesso si è sempre verificato. Anche se «adesso» non capisce, Abramo sa che Dio non può venire meno alla sua parola; per questo si abbandona totalmente alla sua volontà, buttandosi nel vuoto e nel buio della fede e affidandosi totalmente alla Parola.

Avendo saggiato il suo abbandono senza riserve, Dio, l’incomprensibile, «ora» restituisce ad Abramo il figlio come se il patriarca lo avesse generato per la seconda volta. Isacco non è solo figlio della natura, ma «ora» è anche figlio dell’obbedienza e della fede.

La tradizione ebraica non si ferma qui – benché il racconto fosse già sufficiente a contestare i sacrifici umani -, e va oltre, facendo fiorire leggende su leggende: insegnano i padri che Isacco avesse 37 anni al tempo dell’episodio del sacrificio, e che, mentre il padre lo legava come un agnello, egli, invece di protestare, lo supplicava di non esitare e di legarlo bene perché non accadesse che per paura si mettesse a scalciare, rendendo nullo il sacrifico. Nel tempio di Gerusalemme vi era un rituale minuzioso per legare gli agnelli del sacrificio, perché potessero essere uccisi in modo da non invalidare il rito.

 

La fedeltà oltre l’irrazionale

Il figlio unigenito incoraggia il padre a legarlo per ubbidire al Signore che sa quello che fa, anche se noi non ne vediamo il senso e la ragione. Isacco, legato alla legna del sacrificio sull’altare di pietra, sul monte Mòria, dove secoli dopo sarebbe sorto il tempio di Gerusalemme, nella tradizione cristiana diventa il simbolo di Cristo, il Figlio Unigenito, legato al legno della croce e ucciso sull’altare dell’espiazione all’età di circa 37 anni.

Aggiunge la Bibbia che Dio fermò Abramo provvedendo per il sacrificio un «ariete» al posto di Isacco: «Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le coa in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e l’offrì in olocausto invece del figlio» (Gen 22,13).

La tradizione giudaica aggiunge che Abramo, compiuto il sacrificio dell’ariete, si rivolse a Dio chiedendogli che, in considerazione dell’atteggiamento di Isacco che non si era ribellato, ma che, anzi, lo aveva incitato a obbedire senza esitare al comando di Dio, quando in futuro i figli di Isacco lo avessero pregato, egli li ascoltasse proprio in memoria dell’Aqèdah – legatura. Per i meriti del figlio Isacco, Abramo ricevette l’alleanza da Dio. Per i meriti di Cristo legato alla croce, noi siamo salvati.

 

Dal simbolo alla storia perenne

Per questo motivo in Israele si suonava il corno di ariete nel tempio di Gerusalemme all’inizio della preghiera, prima di cominciare il «Rosh-ha-shannàh» (anno nuovo), a conclusione dello «Yom Kippur» (capodanno), all’apertura del «Giubileo» ogni sette anni e, ancora oggi, all’inizio dello «Shabàt» (il sabato) e nel giorno d’insediamento del presidente dello stato.

La storia non è una successione di eventi e fatti, in senso cronologico, ma una rete di connessioni e di implicanze, una serie di legami tra cause ed effetti, tra ragioni e motivazioni che illuminano il passaggio tra ieri e oggi e domani, dando all’individuo il senso pieno di appartenenza a una storia che ha le radici in cielo e lo sviluppo in terra. Il Giubileo è il frutto maturo che si realizza tra la promessa di Dio e la fedeltà dell’uomo nella rete della convivenza civile, come vedremo spiegando, nei prossimi numeri, il significato biblico del Giubileo stesso.

Misericordia

Il secondo termine-chiave è «Misericordiae», sostantivo femminile della 1a declinazione latina, derivato dall’aggettivo misericors, composto dalla radice miser – misero /sciagurato / malato e cor-cordis – cuore. Esso esprime un nobile sentimento che nasce dal «cuore» e si muove verso chi è nel bisogno (il misero), un movimento interiore di pietà che diventa attenzione.

Nella lingua corrente popolare ha acquisito anche un senso negativo, in quanto «avere misericordia / pietà di qualcuno» può significare anche un sentimento di disprezzo, se chi lo prova è maldisposto. Nel Medioevo si chiamava «misericordia» il pugnale con cui si dava il colpo di grazia ai guerrieri agonizzanti e senza possibilità di guarigione; in questo caso si era «misericordiosi» perché si dava la morte per compassione: una forma di eutanasia ante litteram. In Toscana dal sec. XIII è il nome di un sodalizio/confrateita che nei secoli passati si prendeva cura dei poveri, dei malati, dei carcerati e dava sepoltura ai morti abbandonati. Oggi prosegue nella stessa direzione e svolge la funzione di pubblica assistenza. Nel parlare popolare è anche un’invocazione di stupore / paura o disappunto: «Misericordia!».

 

Una prospettiva di vita

Se andiamo indietro nel tempo e cerchiamo la radice del senso della parola «misericordia» nella Bibbia, vediamo che il ventaglio semantico si allarga e ci travolge. I lettori di Mc non sono nuovi a questo genere di approfondimenti, perché ne abbiamo parlato diverse volte in questi anni, specialmente nel commento alla parabola del «Padre che fu madre» di Lc 15, più comunemente conosciuta come parabola del «Figliol prodigo». Ciononostante è utile rinfrescarsi le idee, secondo l’adagio latino che «repetita iuvant», anche se a volte anche «stufant». Vedremo di aiutare senza stufare.

In italiano un sinonimo di «misericordia» è «compassione» (da cum-pàti – partecipare lo stesso pàthos / sentimento), anch’esso termine logorato dall’uso, come avviene per «misericordia», per cui assume un senso ambiguo e riduttivo, equivalente a «provare pena». Nella Bibbia tutto questo gruppo di sentimenti è riportato a una sola parola ebraica che è rachàm – ùtero (plurale: rachamìm – viscere). Da qui deriva che il sentimento della misericordia / compassione ha attinenza con la generazione della vita e quindi con la responsabilità della crescita che avviene nella relazione. Avere misericordia o provare compassione, nella Bibbia significa «generare alla vita, essere legati per la vita».

La Bibbia greca traduce questo complesso di significati con due termini «splànchna», che ha lo stesso significato dell’ebraico, e «ele?mosýn?» – simpatia / dono amorevole. Come si può ben comprendere, da questo termine deriva l’italiano «elemosina» che non ha il senso povero e degradato in uso oggi di «dare uno spicciolo a un povero», ma di avvolgere l’altro nella propria simpatia attraverso il dono di sé, tanto che il Siràcide attribuisce all’elemosina un valore sacrificale pari a quello dei sacrifici nel tempio: «L’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina (gr. ele?mosyn?) espia i peccati» (Sir 3,30). [vedi nota*]

Possiamo concludere questa prima battuta, dicendo che la misericordia è nient’altro che il sentimento di tenerezza che Dio vive nei confronti dei suoi figli. Il Giubileo è un’immersione in questa tenerezza senza fine che assume per noi il «Volto del Signore Gesù».

Vultus

Il terzo termine è «vultus» che significa «volto / faccia / viso». Quando incontriamo qualcuno, il volto è la prima realtà che guardiamo, e dalla sua espressione intuiamo lo stato d’animo. Nell’AT nessuno può vedere il volto di Dio: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20). Infatti davanti a Dio «Mosè si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,6). Con la morte di Gesù scompare questa impossibilità di vedere Dio, perché possiamo contemplarlo anche nella sofferenza. Nel momento della morte, «il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo» (Mc 15,38) rendendo compiuto il desiderio dei Greci che nel vangelo di Giovanni anelano di «vedere Gesù» (Gv 12,20). Il centurione romano, contemplando la morte di Gesù, riesce a vedere «il Figlio di Dio» (Mc 15,39).

Il volto è la persona, e il Dio di Gesù Cristo non è più una divinità astratta e asettica, ma è il Dio dei volti e dei nomi, «il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,16). È il Dio che si può sperimentare e incontrare perché ora è possibile «toccare il Lògos della vita» (1Gv 1,1) e, come per Giacobbe durante la lotta con l’angelo, è possibile vederlo «faccia a faccia» (Gen 32,31) o, come per Mosè, parlargli «faccia a faccia, come un uomo parla con un altro uomo» (Es 33,11).

Il Giubileo non è un’occasione per assicurarsi un’indulgenza o darsi una sciacquata allo scopo di lavarsi via qualche peccatuccio, perché «non si sa mai».

«Giubileo del Volto della Misericordia» significa sprofondare nell’esperienza di Dio, toccarne la vita, assaporae la visione, perché solo nella misericordia Dio compie la pienezza della propria giustizia e del proprio mistero.

Nella prossima puntata esamineremo le ragioni che hanno portato a creare gradualmente due istituti giuridici come l’Anno Sabbatico e il Giubileo, che sono i frutti di una lunga storia.

Paolo Farinella, prete
3, continua

 


[*] vedi anche Sir 7,10; 12,3; 16,14; 29,8.12; 40,24; cf. anche Pr 16,6; 17,5; Tb 4,7-11; Sal 51/50,3.
Nel Nuovo Testamento:
ele?mosyn?: Mt 6,2.3.4; Lc 11,41; 12,33;
eleos: Mt 9,13; 12,7; 23,23; Lc 1,50.54.58.72.78; 10,37;
elee?: Mt 5,7; 9,27; 15,22; 17,15; 18,33(2); 20,30.31; Mc 5,19; 10,47.48; Lc 16,24; 17,13; 18,38.39;
splanchnizomai: Mt 9,36; 14,14; 15,32;18,27; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; 9,22; Lc 7,13; 10,33; 15,20;
splanchnon: Lc 1,78; At 1,18; 2 Cor 6,12; 7,15; Fm 7.12.20.




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Concilio Vaticano II: La missione anima della chiesa


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Testi di Antonio Bonanomi, Gaetano Mazzoleni, Diamantino Guapo Antunese Gianfranco Testa.A cura di Gigi Anataloni

Sommario

Dall’Ad Gentes all’Evangelii Gaudium..

Vittoria! Obiettivo raggiunto.

Tra passato e futuro.

Un documento pietra miliare di una storia infinita.

 

 


Cinquant’anni di cammino missionario

Dall’Ad Gentes all’Evangelii Gaudium

di Antonio Bonanomi

Il 7 dicembre 1965, nell’ultima sessione del Concilio Vaticano II è stato approvato quasi all’unanimità il decreto Ad Gentes. La «missione» diventava cittadina di diritto nella vita della Chiesa, innescando un processo di rinnovamento che sta trovando nuova vitalità proprio ai nostri giorni grazie a papa Francesco, il papa venuto «dall’altro mondo».

Sono passati 50 anni da quel giorno, però ricordo come fosse ieri la forte emozione spirituale con cui da giovane missionario ho letto quel documento. Sentivo che esso accettava le sfide e la necessità del cambiamento, e che faceva passare le missioni dalla periferia al cuore della Chiesa. Vi era evidente la presa di coscienza della nuova realtà del mondo e della Chiesa e lo sforzo per dare a questa novità una risposta. Stavano cadendo molti imperi del Nord con la conquista dell’indipendenza da parte di molti paesi, specialmente in Africa e in Asia. Le culture non europee e le religioni non cristiane esigevano un riconoscimento e un posto nei nuovi scenari mondiali. Allo stesso tempo si faceva ogni giorno più evidente il nuovo volto della Chiesa: un volto con diversi colori per il nascere e il crescere delle Chiese dei vari Continenti.

Personalmente, fin dalla prima lettura, ho considerato il decreto Ad Gentes non come un punto di arrivo ma come un punto di partenza: eravamo all’inizio di una nuova tappa della evangelizzazione. Questo è divenuto per me più evidente col Sinodo sulla evangelizzazione del 1974 e poi con l’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi (1975) di Paolo VI. Vi si sentiva il profumo di un nuovo stile e di una nuova spiritualità missionaria, attenta ai segni dei tempi e quindi in ascolto degli impulsi dello Spirito santo.

Nel 1976 è apparso, coi tipi delle Edizioni Paoline, il libro del frate cappuccino svizzero, Walbert Bülhmann: La terza Chiesa alle porte. Dopo la prima Chiesa dell’Oriente e la seconda Chiesa dell’Occidente (europea-romana) stava nascendo la terza Chiesa, quella del Sud.

Purtroppo molti in Europa non hanno saputo vedere e accettare con gioia il nuovo che nasceva nel Sud e hanno continuato a piangere il vecchio che moriva nel Nord. Questo si è fatto evidente nell’enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio (1990), pubblicata in occasione dei 25 anni dell’Ad Gentes. A partire da quella enciclica molti hanno pensato e scritto che l’Ad Gentes aveva fallito nel suo proposito di promuovere lo spirito missionario della Chiesa. Però non era vero. In realtà stava morendo una tappa dell’evangelizzazione, quella che aveva avuto la Chiesa europea come protagonista, e ne stava iniziando una nuova.

Questa nuova tappa si è manifestata pubblicamente con l’elezione di papa Francesco, il papa venuto dal Sud. La terza Chiesa, che nel 1976 era alle porte, è entrata in casa. Egli ha realizzato questa nuova tappa, oltre che con la sua testimonianza di vita, anche con le sue parole e specialmente con l’esortazione Evangelii Gaudium (2013.)

Alla luce di questa esortazione possiamo dire che quello che l’Ad Gentes aveva detto 50 anni fa si sta facendo realtà, però in una maniera diversa da quello che si pensava. È una delle tante sorprese dello Spirito Santo.

Il papa venuto dal Sud presenta questa nuova tappa dell’evangelizzazione come parte del cammino di una «Chiesa in uscita». Un uscire che si realizza in diversi ambiti:

  • Uscita da una «Chiesa – fortezza», che proteggeva i suoi fedeli dai pericoli della cultura moderna, verso una «Chiesa – ospedale da campo» che si preoccupa di tutte le persone ferite, senza badare alle loro situazioni morali o ideologiche.
  • Uscita da una «Chiesa – istituzione», centrata in se stessa, verso una «Chiesa – movimento», aperta al dialogo universale, con altre Chiese, religioni e ideologie.
  • Uscita da una «Chiesa – gerarchia», creatrice di disuguaglianze, verso una «Chiesa – popolo di Dio», nel quale tutti sono fratelli e sorelle uniti in una immensa comunità fraterna.
  • Uscita da una «Chiesa – autorità» ecclesiastica, lontana dai suoi fedeli, a cui rischia di voltare le spalle, verso una «Chiesa – Buon Pastore», che cammina in mezzo al popolo, che ha l’odore delle pecore e il profumo della misericordia.
  • Uscita da una «Chiesa – papa» di tutti i cristiani e dei vescovi, che governa con il Diritto canonico, verso una «Chiesa – vescovo» di Roma, che presiede nella carità, e solamente così diventa papa della Chiesa universale.
  • Uscita da una «Chiesa – maestra» di dottrine e di norme, verso una «Chiesa – madre», tenera e misericordiosa, con le porte aperte per incontrarsi con tutti, senza guardare la loro appartenenza religiosa, morale o ideologica, ponendo al centro le periferie esistenziali.
  • Uscita da una «Chiesa – ricca» di potere sacro, di pompe e di vestiti solenni, di palazzi apostolici e titoli nobiliari, verso una «Chiesa – povera» e per i poveri, spogliata di simboli di onore, serva e profeticamente contraria al sistema di accumulazione del denaro, l’idolo che produce sofferenza, miseria e morte.
  • Uscita da una «Chiesa che parla» dei poveri, verso una «Chiesa che cammina» con i poveri, dialoga con loro, li abbraccia e li difende.
  • Uscita da una «Chiesa – equidistante» di fronte ai sistemi politici ed economici, verso una «Chiesa che si schiera» a favore delle vittime e chiama per nome i responsabili delle ingiustizie; una Chiesa che invita a Roma i rappresentanti dei Movimenti sociali mondiali per discutere con loro su come creare possibili alternative.
  • Uscita da una «Chiesa – disciplina», dell’ordine e del rigore, nello stile degli scribi e dei farisei, verso una «Chiesa misericordia» impegnata nella rivoluzione della tenerezza e della cura, secondo l’esempio del Buon Samaritano.
  • Uscita da una «Chiesa triste», «con faccia da funerale», verso una Chiesa che vive la gioia e la speranza del Vangelo.
  • Uscita da una «Chiesa senza il mondo», che ha permesso che nascesse un mondo senza Chiesa, verso una «Chiesa – mondo», sensibile al problema dell’ecologia e del futuro della casa comune, la madre terra.

Si tratta di formare una Chiesa nuova, che ritorni alla scuola di Gesù, che viva e dia testimonianza del messaggio essenziale del Vangelo e si faccia collaboratrice di Dio nella costruzione di un mondo nuovo che sia sacramento del Regno.

Nasce così la missione nuova della Chiesa del Sud: la missione dei discepoli missionari. Impegnati con la loro vita nella liberazione dei poveri, nella inculturazione del Vangelo, nel dialogo interreligioso, nella cura del Creato.

Il seme gettato dall’Ad Gentes e concimato dall’Evangelii Nuntiandi si è convertito in albero nell’Evangelii Gaudium.

Antonio Bonanomi

Missionario della Consolata, formatore e animatore in Italia fino all’inizio degli anni ‘80, poi, per oltre trent’anni, missionario in Colombia tra gli indios Nasa del Cauca e consulente delle Conferenze episcopali latino americane (Celam).


I retroscena, dagli appunti di mons. Angelo Cuniberti, imc

Vittoria! Obiettivo raggiunto

di Gaetano Mazzoleni

Nel ricordo del 50° anniversario del decreto conciliare Ad Gentes e della conclusione del Concilio Vaticano II, presentiamo – attingendo dalle sue note autografe – il contributo dato da mons. Angelo Cuniberti, allora vicario apostolico del Caquetá, Colombia, a una più profonda comprensione della dimensione missionaria della Chiesa durante le frenetiche fasi che hanno portato all’approvazione del documento. Aspetti inediti e sconosciuti.

Scorrendo le numerose e fitte pagine delle memorie di mons. Angelo (detto Lino) Cuniberti, tra i tanti temi, due, la missione e la chiesa dei poveri, risaltano e si distinguono per la loro importanza e attualità. Due temi che furono senza dubbio i cardini dell’attività pastorale di mons. Cuniberti ed ebbero una importante incidenza anche sullo stile di vita dei suoi collaboratori, i missionari della Consolata.

Per mons. Cuniberti l’incontro con la missione e il povero non fu il risultato di una riflessione astratta e teorica, fatta a tavolino, o di una analisi sociologica e, meno che mai, ideologica. L’incontro con la missione e la povertà, meglio, con i poveri, si realizzò e si sviluppò invece attraverso l’esperienza pastorale missionaria degli innumerevoli viaggi (correrie) fatti visitando i villaggi, avvicinando e conoscendo le persone, le singole persone, le situazioni, i problemi, vivendo da povero tra i poveri e con i poveri, condividendo personalmente la povertà e l’emarginazione. Il tema della missione e dei poveri era nel suo Dna da sempre, come testimonia l’adozione del motto evangelico che avrebbe orientato la sua vita sacerdotale «… mi ha mandato ad evangelizzare i poveri» (Lc. 4,18), e quello episcopale «Dei nuntius» (messaggero di Dio).

La missione e le missioni

«La Chiesa è missionaria nella sua essenza… La Chiesa non è se non per la missione. La Chiesa deve ritornare al suo stato di missione… Ogni pagina del Concilio dovrebbe vibrare con questa idea missionaria». Queste furono alcune delle affermazioni, raccolte da mons. Cuniberti, che risuonavano nell’aula conciliare, premonitrici di un profondo cambiamento dell’essere della Chiesa.

Mons. Lino approdò al Concilio Ecumenico Vaticano II provenendo dall’esperienza missionaria di frontiera del vicariato apostolico di Florencia-Caquetá (Colombia). Egli vibrava per le «missioni». Questo atteggiamento interiore lo aveva portato alla decisione di lasciare il ministero sacerdotale nella diocesi di Mondovì per entrare nei missionari della Consolata.

Destinato alla Colombia, anche se impegnato nell’animazione vocazionale in varie regioni attorno a Bogotà, aveva coltivato tacitamente nel suo cuore la speranza di aggiungersi al gruppo dei missionari della Consolata che, dal 1952, lavoravano nella «missione» del Caquetá, il territorio amazzonico colombiano affidato allora alla responsabilità pastorale di mons. Antonio Torasso. La «missione» del Caquetá era il sogno di p. Lino Cuniberti.

Con la sua nomina a succedere a mons. Torasso, dopo la morte prematura di questi, entrò a far parte della Conferenza episcopale colombiana e del Comité de Misiones (Comitato delle Missioni), l’organizzazione che raggruppava i vescovi missionari della Colombia le cui giurisdizioni erano in territori marginali, la otra Colombia, in cui oltre all’attività pastorale avevano anche la non indifferente responsabilità morale e pratica della direzione dell’istruzione pubblica.

Il territorio del Caquetá, già frontiera geografica ed ecologica nella foresta amazzonica del Sud del paese, in quegli anni era oggetto anche di un esperimento sociale di riforma agraria con cui il governo nazionale pensava di far fronte alla pressione dei cinturoni di povertà delle città del centro del paese. Un progetto di colonizzazione che attirava una massa di desesperados de la tierra i quali occuparono disordinatamente la selva amazzonica, avventurandosi a confrontarsi con un habitat difficile, sognando di possedere un pezzo di terra su cui ricostruire la vita. Con la realtà della migrazione interna, la regione del Caquetá rappresentava non solo una periferia geografica, ma soprattutto una periferia economica e socio culturale.

Padre conciliare

Il 4 dicembre 1963 si era solennemente conclusa la II sessione del Concilio Vaticano II. Durante tutte le giornate di lavoro della prima e della seconda sessione, mons. Cuniberti aveva seguito le sorti di vari schemi dei documenti, soprattutto di quello sull’attività missionaria, del quale erano apparse ben quattro redazioni, ma sempre molto brevi, lacunose e non corrispondenti all’aspettativa dei vescovi missionari.

Nel febbraio 1964, in preparazione alla III sessione, i vescovi ricevettero un nuovo schema sulle «missioni». Anche questo però, come i precedenti, ancora molto povero e imperfetto. I vescovi mandarono le loro osservazioni. Lo schema fu modificato ancora una volta e, poco prima dell’inizio della III sessione, giunse ai vescovi un ulteriore testo ridotto a sole tredici proposizioni. Mons. Angelo sbottò: «Questo testo oltre ad essere insignificante … è un testo che fa indignare».

Ottobre 1964: un incontro «storico»

A settembre i vescovi tornarono a Roma per la terza fase del Concilio Ecumenico. Il 27 ottobre mons. Anibal Muñoz Duque, presidente della Conferenza episcopale colombiana, ricevette l’invito dal p. Roger Etchegaray (il futuro cardinale, presente al Concilio come esperto per la Conferenza episcopale francese) a un incontro «apud Seminarium gallicum», cioè presso il Pontificio Seminario francese in via Santa Chiara a Roma. Invitati erano i delegati delle Conferenze episcopali più interessate a discutere l’insoddisfacente schema di documento sull’attività missionaria della Chiesa. Mons. Duque, in aula, trasmise l’invito a mons. Cuniberti scrivendo di propria mano: «Designato: mons. Angelo Cuniberti, vicario apostolico di Florencia».

Mons. Angelo si preparò con impegno per quell’incontro. Fin dall’inizio aveva lavorato perché il Concilio presentasse e lanciasse grandi idee sulla natura della Chiesa che «è essenzialmente missionaria» (Ad Gen. 35). Prese così i contatti preliminari con gli altri delegati di ben 22 Conferenze episcopali dei cinque continenti.

All’inizio della riunione tutti si presentarono. Erano presenti solo tre italiani. In primo luogo si trattò la storia e le vicissitudini dello schema sulle missioni che, dopo molteplici redazioni (aveva già raggiunto la 6a redazione), era ridotto a sole tredici proposizioni. Così come presentava, il testo era proprio ai minimi termini, anemico, come se le «missioni» fossero un’appendice folcloristico della Chiesa, mentre invece la dimensione missionaria avrebbe dovuto essere l’aspetto più importante, se fosse stato ritenuto vero ciò che aveva già scritto il Concilio Vaticano I: «la Chiesa presenta nella sua evangelizzazione il motivo della sua credibilità».

Si analizzarono allora le ragioni di tale riduzione ai minimi termini e si cercò di capire l’ansia manifestata da vari vescovi di terminare finalmente il Concilio, già arrivato al terzo anno di lavori. Dato che era già stata annunciata una quarta sessione per l’anno successivo, 1965, tutti i presenti si impegnarono a ottenere in quei giorni l’apertura di un dibattito in aula sullo schema affinché fosse bocciato con un bel «non placet» dalla maggior parte dei Padri conciliari. Si propose quindi di far posticipare l’approvazione dello schema alla sessione successiva per avere così il tempo, con la collaborazione di tutti, di prepararne uno completamente nuovo.

Dopo essersi assicurati interventi vigorosi di personaggi di grosso calibro quali il cardinal Bea (del Segretariato per la promozione dell’Unità dei cristiani) e alcuni cardinali presidenti di conferenze episcopali: Frings (Germania), Suenens (Belgio), Rugambwa (Tanganika) e Léger (Canada), tutti si impegnarono in una campagna «capillare» per richiedere che quel miserabile schema non fosse approvato.

Si discussero alcuni punti e linee essenziali. Il nuovo schema non sarebbe risultato esaustivo, ma avrebbe dovuto contenere i principi essenziali, sostenuti dall’autorità del Concilio come tale. Successivamente sarebbero intervenute le commissioni post-conciliari per stabilirne l’applicazione.

I giorni seguenti alla riunione del 27 ottobre ci fu una straordinaria attività per contattare quanti più vescovi fosse stato possibile allo scopo di convincerli a votare «non placet». Il 30 ottobre mons. Cuniberti e il p. Roger Etchegaray si incontrarono per fare una prima valutazione del potenziale di voti assicurati.

Ostruzionismo

La 116a Congregazione plenaria del 6 novembre 1964 fu caratterizzata dalla presenza di papa Paolo VI e da una celebrazione eucaristica in liturgia etiopica accompagnata da canti ritmati da tamburi. Coordinò i lavori, come presidente di turno, il card. Julius August Doephner, «annuente Pontefice», consenziente il papa, come sentì il bisogno di far notare mons. Felici, segretario generale del Concilio. Nella sua allocuzione papa Paolo VI sottolineò che «abbiamo scelto per la Nostra presenza questo giorno, nel quale la vostra discussione verte sullo Schema delle Missioni. A preferirlo Ci ha persuasi la particolare gravità e importanza dell’argomento al quale ora applicherete le vostre menti e i vostri animi». E aggiunse: «A questo sacro Concilio incombe tra l’altro l’insigne compito di tracciare nuove vie, studiare nuovi mezzi, stimolare una nuova attiva tensione per diffondere più largamente e più fruttuosamente il Vangelo». Intervenne il card. Agagianian (della Chiesa cattolica armena) con un vibrante discorso a favore delle missioni, concluso dicendo che, in generale, il testo piaceva, anche se avrebbe dovuto essere arricchito. Era un invito esplicito ad approvare le misere tredici proposizioni per non prolungare oltre la discussione, congedare così le missioni e passare a un altro argomento.

Iniziarono così gli interventi programmati. Il card. Léger si rammaricò per le molte lacune e carenze presenti nel testo che definì semplicemente «povero». Seguirono i cardinali Rugambwa e Bea, i quali aiutarono l’assemblea a riflettere profondamente sul grande disegno di Dio, aprendo grandi orizzonti. Il tempo stringeva e la discussione fu rinviata al giorno seguente.

Il 7 novembre proseguirono gli interventi sul tema «missioni». I card. Frings, Alfrink (Olanda) e Suenens ricordarono («tirano colpi di cannone», scrisse poi mons. Cuniberti) che, in tutto, la Chiesa d’Olanda contava cinquemila missionari e 70 vescovi in terra di missione. Un vescovo indonesiano, mons. Kaiser, affermò esplicitamente che si doveva rifare un altro schema partendo da zero.

Un vescovo rodesiano, mons. Lamont, con uno stile e un tono speciale, iniziò affermando che i missionari aspettavano qualcosa di molto più sostanzioso dal Concilio. Quelle povere tredici proposizioni erano come «ossa arida et sicca». Gesù afferma: «Ignem veni mittere», cioè fuoco! (sono venuto a portare il fuoco, Lc 12,49, ndr). «E qui, invece di una stupenda splendida luce pentecostale, si finisce per avere solo un lumicino fumigante».

Altri vescovi si susseguirono per richiedere decisamente una «magna carta», una costituzione o un decreto molto solenne. Si sollevò pure la voce di un padre conciliare dal Brasile che si scagliò contro gli esperti dalle opinioni divergenti, concludendo che «per metterli d’accordo c’è una bella soluzione: mandarli tutti a lavorare nelle missioni».

Esaurito in aula il tempo utile di lavoro, rimase sospeso e aperto il dibattito sul tema delle missioni per essere ripreso successivamente.

Vittoria

Il 9 novembre, con un centinaio di relatori ancora in attesa di intervenire, la stessa commissione ad hoc prese l’iniziativa di ritirare lo schema senza la votazione. Ci fu un frenetico applauso. Ma mons. Felici, segretario generale, si appellò ai regolamenti e la presidenza ordinò che si procedesse alla votazione.

Risultato della votazione: 1.601 voti contrari e solo 311 a favore. Lo schema venne rimandato alla quarta sessione! Vittoria! Si era raggiunto l’obiettivo prefisso nella riunione del 27 ottobre.

Al lavoro per preparare un documento degno delle missioni.

Gaetano Mazzoleni
Missionario della Consolata, antropologo, ha lavorato  in Colombia, dove è stato fondatore e direttore del Centro Indigenista di Florencia-Caquetá.
Testo adattato dalle «Memorie di mons. Angelo Cuniberti»


Vaticano II: Episcopato africano, una minoranza attiva che Fa udire la sua voce

Tra passato e futuro

di Diamantino Guapo Antunes

Quando l’11 ottobre del 1962 si aprirono le porte del Concilio, l’episcopato africano era presente con 295 prelati. Nel 1965, alla conclusione del Concilio, il loro numero era aumentato fino a 311. Per comprendere l’azione e il contributo dei vescovi d’Africa al Concilio è necessario conoscere chi essi erano e quali le loro principali esigenze. L’episcopato in Africa era in un periodo di transizione: i vescovi missionari, dopo avere «impiantato» la Chiesa, si preparavano a cedere la loro responsabilità a quelli locali. Questi erano chiamati a continuare l’opera missionaria e a consolidare la Chiesa. Una transizione che si realizzò senza rottura con il passato, ma ereditandolo e migliorandolo.

I vescovi «africani» che parteciparono al Concilio erano, in grande parte, di origine europea quasi tutti provenienti dalle nazioni che avevano colonizzato il continente: Francia, Belgio Inghilterra, Portogallo, o di nazioni con forte dinamismo missionario come Irlanda, Italia, Olanda. Fatte poche eccezioni, quasi tutti erano membri di Istituti religiosi. La maggior parte era arrivata in Africa ancora giovane, essendo stati alcuni di loro i pionieri dell’evangelizzazione nei territori affidati alla loro responsabilità pastorale. Era un episcopato giovane. Essendo pastori di comunità cristiane da poco fondate, il loro ministero si concentrava quasi esclusivamente nel lavoro di fondazione delle strutture indispensabili per la loro crescita e il loro consolidamento. Oltre tutto erano uomini pratici, conoscitori degli usi e costumi dei popoli dei quali erano pastori e animati da grande zelo pastorale. Grande parte di quei vescovi erano coscienti di avere compiuto la loro missione e quindi disposti a rinunciare in favore di vescovi locali, sostenuti in questo anche dagli Istituti missionari.

Vescovi africani

Quando si aprì il Concilio, i vescovi nativi del continente erano settanta. Durante il Concilio il loro numero aumentò tanto che nell’ultima sessione erano già ottantasei. Nel 1965 ventotto paesi avevano almeno un vescovo nativo. Il Congo era il paese africano con il maggior numero di vescovi autoctoni. ben dieci.

Alcune caratteristiche distinguevano da tutti gli altri: l’età, la preparazione teologica e la prudenza pastorale. Era un episcopato molto giovane e di diocesi o vicariati di recente fondazione. Eccetto quindici, tutti gli altri avevano meno di cinquant’anni e appartenevano alla generazione che aveva rivendicato e assunto l’indipendenza del continente. Quasi tutti erano stati ordinati negli ultimi dieci anni prima del Concilio, e ben metà di essi (32) nel periodo preparatorio (1959-1962).

Sebbene fossero una minoranza, occupavano già i luoghi chiave e avevano assunto la responsabilità di dirigere la Chiesa cattolica a livello nazionale e continentale. Molti di loro avevano fatto gli studi teologici in Europa, soprattutto a Roma nell’ateneo di Propaganda Fide. Un’altra caratteristica, già presente nei «vota» (i desideri o auspici) inviati da alcuni alla commissione preparatoria, era il loro equilibrio e la loro prudenza pastorale, senza posizioni radicali sull’indigenizzazione della Chiesa, le sue strutture e la sua liturgia. Le idee espresse alla vigilia del Concilio nelle lettere pastorali, nelle interviste e negli articoli, non erano polemiche o estremiste, caratterizzate com’erano da un grande equilibrio, e focalizzate soprattutto sul carattere pastorale del Concilio, sulla necessità di attualizzare la legge canonica, sull’aggiornamento della liturgia e dei metodi di evangelizzazione. Il fatto che l’episcopato africano fosse eterogeneo e parlasse lingue diverse non impedì che si creasse uno spirito di comunione tra i differenti gruppi e le loro sensibilità e che agissero in forma organizzata a vantaggio degli interessi della Chiesa cattolica in Africa e nel Madagascar.

L’annuncio del Concilio e suo impatto

Il 25 gennaio 1959, papa Giovanni XXIII fece conoscere il suo progetto di convocare un Concilio. Alcuni mesi dopo, affidò la sua preparazione a una commissione con il compito di contattare i vescovi per avere proposte e temi da inserire nel documento preparatorio al Concilio. La consultazione interessò 259 vescovi dell’Africa, dei quali allora solo 36 erano africani.

La sorprendente notizia della convocazione di un Concilio ebbe un forte impatto in Africa. L’analisi delle proposte inviate dai vescovi dell’Africa ci permette di constatare che essa fu accolta con entusiasmo. Per la prima volta l’Africa sub sahariana sarebbe stata presente in un Concilio e per di più rappresentata da alcuni vescovi autoctoni. Vista la situazione del continente e delle sue Chiese locali, un Concilio con caratteristiche pastorali ed ecumeniche era opportuno e rappresentava un’occasione storica per il rinnovamento della Chiesa.

Emancipazione dal colonialismo e indipendenza

Con circa 25 milioni di fedeli alla vigilia del Concilio, la Chiesa cattolica in Africa viveva un periodo di crescita e di africanizzazione (inculturazione e indigenizzazione). Il Concilio Vaticano II si svolse in un periodo di importanti trasformazioni sociopolitiche. Infatti, in quel periodo, furono fatti i passi decisivi per lo smantellamento del colonialismo e la conseguente emancipazione politica di molti stati. Così Concilio e decolonizzazione si influenzarono a vicenda.

La decolonizzazione scatenò un rinnovamento nella vita ecclesiale. Per attenuare il suo colore occidentale e rispondere alle esigenze dell’inculturazione e dell’autenticità, la Chiesa cattolica si sforzò nel riformare le sue strutture, nel rinnovare i suoi metodi pastorali e di rivedere la sua attitudine in relazione al mondo culturale e religioso africano.

Le proposte nella fase preparatoria

Le proposte dell’episcopato africano rivelavano le preoccupazioni sentite dalla Chiesa cattolica africana alla vigilia del Concilio. I temi erano i seguenti: aggiornamento liturgico, il ruolo dei laici nella Chiesa e la collegialità dei vescovi. Il tema dell’aggiornamento liturgico fu quello che raccolse il maggior consenso e ricevette il maggior numero di proposte concrete.

Il rinnovamento, il rispetto alla cultura dei popoli da evangelizzare e l’incorporazione della stessa nel cristianesimo fu un tema molto presente nelle proposte fatte dall’episcopato africano. Era urgente spogliare il cristianesimo della sua veste occidentale per accogliere i valori, le espressioni e i simboli propri delle varie culture africane. Il tutto era definito come indigenizzazione, inculturazione, africanizzazione o autenticità africana, con proposte che sollecitavano un maggior uso delle lingue locali e l’introduzione di simboli, gesti e musiche africane nella messa.

Oltre le proposte dei vescovi, la chiesa africana si preparò per il Concilio con alcune iniziative di carattere teologico – pastorale orientate da sacerdoti e laici africani impegnati in congressi e pubblicazioni. Il Concilio era sentito come un’eccellente opportunità per stimolare l’africanizzazione della Chiesa. Si può quindi affermare che la Chiesa cattolica in Africa, attraverso le attività dei suoi pastori e l’impegno dei suoi fedeli, accolse con gratitudine, si preparò con interesse e si sforzò per fare sentire le sue proposte, segnali di una chiesa viva e partecipativa.

Africanizzare la Chiesa

La crescita della Chiesa cattolica non soltanto accompagnò le trasformazioni sociopolitiche ma anche contribuì, a suo modo, a prepararle e promuoverle. Con l’istituzione di una gerarchia ecclesiastica locale e la nomina di vescovi africani, il processo di africanizzazione della Chiesa fece un salto importante e decisivo. La Santa Sede favoriva il movimento d’indipendenza dei popoli africani.

Nel campo della riflessione teologica – pastorale si fecero passi significativi per una maggior incarnazione del cristianesimo. Come alternativa alla teologia occidentale era nata la «teologia africana» che rivendicava il diritto dei cristiani a pensare ed esprimere il cristianesimo in termini africani. La Chiesa rispondeva così alle critiche dei settori intellettuali locali e internazionali che prevedevano la scomparsa del cristianesimo con la fine del colonialismo.

Un gruppo in crescita

Dei 295 vescovi dell’Africa con diritto di partecipare al Concilio, 265 parteciparono alla prima sessione del Concilio. Rappresentavano approssimativamente l’11% del totale dell’assemblea conciliare costituita da circa 2500 membri. Era una buona percentuale se teniamo presente che l’Africa contava allora appena 25 milioni di cattolici, cioè il 4,6% dei circa 540 milioni di cattolici allora esistenti. Le chiese locali con maggiore numero di padri conciliari erano: Congo (41), Tanganika – oggi Tanzania (23), Africa del Sud (21), Nigeria (17). Il numero di padri conciliari africani aumentò nella seconda sessione, passando da 265 a 303. Durante il Concilio morirono 21 padri conciliari dell’Africa e Madagascar. Durante l’ultima sessione nell’aula conciliare c’erano 311 padri che rappresentavano le chiese locali dell’Africa.

Gli interventi

Durante il Concilio ci furono 2175 interventi orali sui 16 documenti. I vescovi dell’Africa fecero 170 interventi in tutto (7,8%) e appena una minoranza di essi ebbe la possibilità di parlare (70). Alcuni, come portavoce dell’episcopato africano, intervennero varie volte e altri si fecero notare per la loro apertura pastorale e teologica. I vescovi che intervennero più volte furono i seguenti: L. Rugambwa (Kukoba, Tanganika): 15 interventi; Sebastião Soares Resende (Beira, Mozambico): 10 interventi; E. Zoghby (Nubia, Egitto): 10 interventi; D. Huley (Durban, Africa del Sud): 9 interventi.

In totale, gli interventi non furono molti, tuttavia ebbero un impatto qualitativo superiore alla sua quantità. Questo impatto si deve principalmente a due ragioni: manifestavano la posizione di un gruppo di vescovi, non di un singolo, e riflettevano la situazione e le esigenze concrete delle loro chiese locali. La vivacità dell’episcopato africano era espressione della sua giovinezza e del dinamismo delle chiese locali che rappresentavano.

La missione e la chiesa locale

Durante le prime congregazioni generali gli interventi dell’episcopato africano si concentrarono principalmente sulle questioni liturgiche e pastorali, come, per esempio, il tema caldo dell’adattamento (l’inculturazione). Possiamo affermare che gli aspetti caratteristici delle proposte dei vescovi dell’Africa relativi o legati alla teologia missionaria erano contenuti in argomenti di natura pastorale, ma si nota un’evoluzione nel corso del Concilio stimolata dall’arricchimento progressivo del dibattito ecclesiologico. Il decreto Ad Gentes sull’attività missionaria fu il documento per il quale i padri conciliari dell’Africa diedero il contributo più significativo. I loro interventi aiutarono a elaborare un nuovo concetto di missione. Questa non è monopolio degli istituti missionari, ma è una responsabilità di tutta la chiesa che è per natura missionaria. L’attività missionaria ha come oggetto specifico il nascere e crescere di nuove chiese locali che sono il segnale della piena cattolicità della chiesa. Le chiese locali, frutto dell’attività missionaria, non devono essere una semplice copia della chiesa evangelizzatrice, ma devono assumere un’identità che tenga in conto delle realtà in cui sono radicate per mezzo di un processo di adattamento e incarnazione. A loro volta le giovani chiese devono diventare soggetto di evangelizzazione. Questa nuova visione di «Missione», come interscambio tra chiese sorelle, crea necessariamente un nuovo concetto più vivo ed attivo di chiesa locale.

Imparare per trasmettere

Ma più che parlare, i vescovi dell’Africa sentirono la necessità di ascoltare le posizioni degli altri episcopati per imparare dalla loro esperienza. La presenza discreta e silenziosa della maggior parte di loro non era sinonimo di disinteresse, era un silenzio attivo. Seguivano con attenzione il dibattito, studiavano i testi, prendevano nota.

Si preoccupavano di informare i loro cristiani sullo sviluppo dei lavori conciliari per così coinvolgerli e motivarli ai cambiamenti che li avrebbero toccati. Per mezzo dei loro scritti, lettere, articoli nei giornali, davano a conoscere la propria attività nel Concilio, così come i contatti con gli altri vescovi e con organismi internazionali. Manifestavano anche le loro impressioni sul Concilio, sottolineando i fatti e i risultati più importanti: la sua dimensione universale, la riforma liturgica, l’inculturazione, il dialogo ecumenico, ecc.

Diamantino Guapo Antunes
Missionario della Consolata portoghese, attuale superiore delle comunità Imc in Mozambico; ha scritto lo studio «Concílio Vaticano II, o contibuto do Episcopado de África e Madagáscar», Edizioni Missioni Consolata, Torino 2001.

Conferenza dei vescovi dell’Africa nel Dicembre 1962 a Roma. Presiede il card Laureano Rugambwa, con a destra mons O. MvCann di Cape Town e sinistra mons. J.B. Zoa vescovo di Yaundé

 


Chiesa missionaria e Concilio Vaticano II

Un documento pietra miliare di una storia infinita

di Gianfranco Testa

Mai come oggi, nella Chiesa riunita attorno a papa Francesco, si è presa coscienza che l’avvenimento di cinquanta anni fa, il Concilio Vaticano II, è vivo e interpella noi tutti a proseguire un cammino di cui l’Ad Gentes, riportando la «missione» nel cuore della Chiesa e ricordando che ogni cristiano è per sua natura missionario, è stata non un punto di arrivo, ma un punto di partenza.

Per le piazze e le strade di Roma, il Concilio si manifestò subito, all’immaginario collettivo, con un volto ecumenico, universale, grazie all’avvicendarsi di vescovi provenienti da diverse latitudini e di «diversi colori». Quelli latinoamericani non si fecero notare granché, ma quelli asiatici e africani s’imposero all’attenzione della gente. La Chiesa mostrava, così, almeno il suo folclore, non necessariamente la sua missionarietà.

In un primo momento, nei dibattiti conciliari, sembrò quasi che il tema della missione non fosse urgente. Esso si trovava già sottinteso nel documento Lumen Gentium sulla natura della Chiesa, pubblicato dallo stesso Concilio nel novembre 1964, e non sembrava esserci la necessità di renderlo esplicito. Eppure le perplessità sull’attualità e l’opportunità della missione erano forti e presenti in tutta la Chiesa. Non tutti, infatti, vedevano di buon occhio l’ansia di convertire le persone. In più l’opera missionaria era messa in discussione anche dal grande movimento contro il colonialismo, sfociato nell’indipendenza di molti paesi, soprattutto africani. Si pensava che fosse giunto il momento in cui ogni paese programmasse la propria politica e la propria religione.
Alcuni rappresentanti delle chiese orientali, poi, erano preoccupati perché la chiesa occidentale sembrava più interessata alle forme organizzative che all’essenza e alle ragioni profonde della missione. Il nome stesso dell’organismo ecclesiale incaricato di guidare e animare la missione universale, «Propaganda Fide», suscitava dubbi.

Quando, grazie alla richiesta di alcuni padri conciliari, venne presa la decisione di redigere un documento specifico sulla materia, la sua stesura fu travagliata e segnata da diversi rifiuti, al punto che si parlò di una «storia inusitatamente turbolenta» del documento. Nonostante ciò, il 7 dicembre 1965, al momento della promulgazione, l’Ad gentes fu il decreto approvato con la maggioranza più larga, con appena 5 voti contrari.

La Commissione che aveva preparato il decreto sull’attività missionaria della Chiesa si era basata su quanto già espresso nella costituzione dogmatica Lumen Gentium, ma ne aveva sviluppato i temi in modo originale e profondo.

La Chiesa, come un corpo vivo, deve crescere e manifestare la sua energia vitale, e la missione ne è l’essenza stessa, non la ricerca di un semplice aumento numerico dei suoi membri. Una simile visione di missione interessa tutto il popolo di Dio e non solo alcuni circoli o istituti specializzati. La relazione tra questa nozione ampia di missione e quella specifica di missione ad gentes è, allora, precisata dal fatto che la seconda è l’attuazione dell’unica missione, nelle circostanze, nei luoghi e nelle realtà sociali più diverse.

I contenuti e le ragioni

Se la Chiesa è definita come «sacramento universale di salvezza» vuol dire che la sua funzione di segno e di strumento della salvezza di Dio non ha confini, è universale, per tutti i tempi, i popoli, le lingue, i luoghi. La Chiesa da sacramento-mistero diventa missione.

Con l’Ad gentes si mettono le basi per una teologia della missione che nasce nella stessa Trinità: il Padre manda il Figlio perché sia salvezza per tutti, e questi offre lo Spirito perché tutto sia riassunto nell’amore del Padre.

La Chiesa prende forma nelle varie Chiese locali, che, pur nella loro povertà di mezzi e di personale, sono chiamate a essere, anch’esse, protagoniste della missione. La missione, dal canto suo, è servizio all’uomo, non a quello astratto, filosofico, uguale in tutto il mondo, ma a quello concreto, che, pur mantenendo l’uguaglianza di diritti e di doveri, è diverso di luogo in luogo, per la cultura, le tradizioni di cui è impastato, la concezione della vita e della morte, il rapporto con il sacro.

L’attività missionaria non è altro che la manifestazione e la realizzazione del piano divino nel mondo e nella storia (Ag 9). Non spetta al missionario né alla Chiesa decidere che cosa sia la missione perché il volto della missione è stato delineato da Gesù Cristo. A noi spetta la genialità dell’attuazione, non la fantasia dell’invenzione. La missione precede i missionari e la Chiesa stessa.

Sono affermazioni, quelle contenute nel decreto conciliare, che esigono una revisione del pensiero e dell’azione: si passa dall’atto di impiantare (a volte semplicemente trasferire) la Chiesa, a quello di immergersi nella profondità del progetto divino, a cui si deve continuamente rendere conto.

La storia e le storie

Prima del Concilio tutto era semplice. C’erano i paesi di missione e i missionari che sapevano cosa bisognava fare: portare un po’ di benessere, rendendo civili «gli altri», e, nella misura del possibile, fare l’impossibile per battezzarli e farli diventare cristiani. Si cercava di trapiantare la propria chiesa di origine in Africa, in Amazzonia o in Asia, con gli stessi paramenti, vestiti per i chierichetti, novene, feste, santi e devozioni. Eppure già nel 1659 Propaganda Fide raccomandava: «Cosa potrebbe essere più assurdo che trasferire in Cina
la civiltà e gli usi della Francia, della Spagna,
dell’Italia o di un’altra parte d’Europa?
Non importate tutto questo, ma la fede che non respinge e non lede gli usi e le tradizioni di
nessun popolo, purché non siano immorali».

Tutto era iniziato in modo spettacolare, e degno di imitazione, con Paolo, ma poi, con il passare dei secoli, evangelizzata l’Europa, la missione era stata finalizzata soprattutto alla conversione degli eretici e, cosa molto difficile, dei musulmani.

A metà del secondo millennio, la perdita di una porzione d’Europa, passata sotto l’influenza di Lutero, fu compensata dalla massiccia conquista, a forza di spada e di croce, dell’America Latina. Spagna e Portogallo sfornarono frati cattolici, Inghilterra e Olanda pastori riformati. Il mondo fu condotto a Dio, per sua gloria, sotto varie etichette. Il primo che arrivava faceva di tutto perché la sua porzione di gregge non fosse sequestrata dagli altri. Non mancarono esempi luminosi, ma certo il metodo era assai poco cristiano. L’evangelizzazione unita alla colonia fu poi criticata, e con ragione.

L’evangelizzazione più recente, nascosta sotto l’apparenza di una migliore civiltà, fu anch’essa criticata. Se il Concilio volle far notare che «la Chiesa proibisce severamente di costringere o di indurre e attirare alcuno con inopportuni raggiri ad abbracciare la fede» (Ag 13), lo fece perché questo succedeva e si sentiva la necessità di denunciarlo.

Dopo il Concilio

È vero, il Concilio mise delle basi luminose nel cammino missionario della Chiesa, ma da quelle basi chiare scaturì una crisi, che coincise con la più ampia crisi della cristianità e della società. Venticinque anni dopo, l’enciclica Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II parlò di uno «slancio indebolito»: si era detto che tutta la Chiesa era missionaria e che tutto era missione, si era cominciato a parlare di missione del catechista, del gruppo dei cantori, dell’organizzatore dei tornei di calcio parrocchiali, delle signore che spazzavano la chiesa, ecc., ma allora, che cos’era la missione? Per fare chiarezza e delimitare il campo si era aggiunta l’espressione «ad gentes», cioè «alle genti». Ma dove si trovavano «le genti», o, più popolarmente, i pagani? Al bar e all’università, ad esempio, o per strada, allo sballo del sabato notte e nei nuovi templi del consumismo.

I contorni dell’azione missionaria diventarono meno netti, meno facili da decifrare in modo univoco, e questo generava un certo spaesamento. Intanto la strada che era stata aperta stimolava la riflessione. Allora, abbandonato l’esagerato risalto dato alla Chiesa, si cominciò a parlare soprattutto di annuncio di Cristo. E Cristo, era unico salvatore, o salvatore di tutti gli uomini? Nel primo caso l’accento cade sull’esclusività (unico, via tutti gli altri), nel secondo caso, al contrario, sull’inclusività (nessuno è escluso dalla salvezza di Gesù, a meno che la rifiuti).

Una frase che cominciò a risuonare dopo il Concilio affermava che «forse non è necessario che tutti diventino cristiani, ma è necessario che a tutti sia offerta l’esperienza di Gesù». È più o meno quello che affermava Paolo VI quando scriveva «gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentirneri, grazie alla misericordia di Dio, ma potremo noi salvarci se trascuriamo di annunziare il Vangelo?» (En 80).

Non mancò chi disse: «Gesù va bene, ma il cristianesimo, come lo conosciamo, no, perché è troppo segnato dalla cultura occidentale. Se le prime comunità ebbero la saggezza di accettare che i Vangeli fossero quattro, e non uno solo, quattro buone notizie riferite a Gesù, come potremmo noi avere la pretesa di proporre un unico catechismo per tutti i continenti, le lingue e le culture? Annunciamo il Regno, questo ha fatto Gesù, e questo deve fare la Chiesa se vuole essere missionaria».

Speranze e delusioni

Più si rifletteva sulla missione, più questa diventava vera, ma anche, allo stesso tempo, evanescente. C’era perfino da scoraggiarsi. Ecco perché il papa nel 1990 parlò di uno «slancio indebolito».

Alcuni elementi del Concilio prendevano sempre più forma: in tutti i popoli ci sono i germi, i semi del Regno. Gesù l’aveva presentato così: un piccolo seme, che già si trova in ognuno, profondamente immerso nella cultura. Non è trasportato da fuori. Quando il missionario arriva, deve abbandonare i suoi programmi per scovare, difendere e aiutare quel seme a crescere. La Chiesa è chiamata a inculturarsi per diventare «chiesa negra, indigena, asiatica», con i propri modi di esprimersi, mantenendo come suo unico criterio la fedeltà al Regno di Dio.

Ovviamente nel dibattito c’era chi faceva l’avvocato del diavolo: «Non c’è il pericolo che, invece di un grande affresco, alla fine il Regno risulti un mosaico confuso, fatto di tanti piccoli pezzi separati tra di loro che perdono di vista l’insieme? Inoltre, il seme del Verbo, è seminato solo nelle culture o anche nelle religioni, che delle culture sono parte fondamentale?».

Un altro documento dello stesso Concilio, la Dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane, Nostra Aetate, apriva all’incontro rispettoso con le varie realtà religiose. Ma la considerazione per esse era un mezzo utile o un fattore di confusione nell’impegno missionario? I teologi cercarono di destreggiarsi tra dialogo e missione, dialogo e annuncio, con il timore che il dialogo potesse diventare una strategia nuova e più raffinata di «conquista» delle persone. Che fare? Si doveva allora tacere riguardo alla superiorità della fede in Cristo per dialogare con tutti?

Si iniziò a considerare tutte le religioni come realtà che offrono salvezza. Non allo stesso modo, ma ognuna contiene gli elementi sufficienti per dare, in quella certa realtà e cultura, le risposte necessarie alle persone. Tutte le religioni sono strade di salvezza, come aveva sostenuto anche Paolo VI: «Gli uomini si potranno salvare anche per altre strade». Il problema della salvezza è un problema che lasciamo a Dio. Non diciamo che questa o quella religione sia la migliore, semplicemente ringraziamo Dio che, attraverso tanti mezzi e strumenti diversi, le persone incontrino risposte per realizzare se stesse.

Nuovi linguaggi e contenuti

Se ne è fatta di strada da quando il Concilio ha parlato di dialogo, di semi del Verbo, di inculturazione. Forse il cammino non piace a tutti. Forse si è andati troppo lontano o, forse, fuori percorso. Ma tant’è: la missione continua a essere il laboratorio di esperienze nuove, in cui certi esperimenti hanno fortuna e altri sono un disastro, alcuni sono accettati e altri no, anche se interessanti, come lo erano state le riduzioni gesuitiche del Sudamerica o il tema dei riti cinesi ai tempi di Matteo Ricci.

Il pluralismo religioso ci mette di fronte alla realtà: ai popoli non mancano le religioni, espresse in forme culturali, in strutture cultuali, in miti e dottrine, in esigenze morali, ma le diverse fedi puntano a un’unica meta: vivere il Regno, cioè la comunità fraterna in cui ci si trova tutti uniti, in un rapporto di intimità con l’unico Padre.

La Chiesa è il segno del Regno, ma finché essa dà risalto soprattutto alla dottrina, alla gerarchia, alla verità e non al Vangelo, sarà semplicemente una religione come le altre, forse più strutturata e organizzata delle altre. «Tra voi non sarà così», diceva Gesù: egli chiedeva qualcosa di diverso da un corpo ben ordinato. Non esigeva l’assenza di peccato, la sua pratica era di vicinanza proprio con i peccatori, ma voleva che i suoi fossero totalmente estranei a ogni forma di potere, di apparenza o di divisione in classi: «Voi siete tutti fratelli».

Ecco allora che la missione non porta la Chiesa ai popoli, ma avvia i popoli, con il colore vitale che ciascuno ha, verso una Chiesa che, superata la sua fisionomia religiosa, sia espressione del Regno, della famiglia di Dio: tutti figli, tutti fratelli.

Jonathan Sacks, gran rabbino della Gran Bretagna afferma: «La missione della religione è la speranza», così come Pietro scriveva in una sua lettera: «Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15). Lenire la sofferenza esistenziale degli esseri umani è sempre stato il grande affanno del Dio biblico, del Dio di Gesù e anche di quello di Muhammad, dei Veda e delle religioni attente alla realtà della persona umana. La missione è credere che la salvezza, la vita, la speranza sono aspirazione e diritto di tutti.

La primavera di Francesco

Un papa che viene dalla fine del mondo, dove la missione è la quotidianità, non poteva non mettere nei credenti lo spirito dell’«Andate a tutte le genti». Parole come «periferie, poveri, cultura dello scarto, sporcarsi le mani, odorare di pecore», sono entrate nel linguaggio ecclesiale. Certo, non è detto che siano diventate vita vissuta per i cristiani e neppure per i missionari: si richiede una profonda conversione, bisogna uscire dalle fortezze (conventi, parrocchie, strutture), per vivere in mezzo alla gente, per partecipare alla sua storia che è sempre, già, una storia di salvezza, dove si mescolano speranze e delusioni, eroismo e peccato, e dove, in ogni caso, il protagonista è lo Spirito, non l’individuo e neppure la chiesa, che non cerca la propria sopravvivenza, ma la capacità di servizio.

A noi è affidato il compito di portare a maturazione la presente primavera. La missione come speranza è compassione, non è indicare il cammino da compiere, ma camminare insieme.

Gianfranco Testa
Missionario della Consolata che ha operato in Argentina ai tempi della dittatura, poi in Italia, in Nicaragua e in Colombia; oggi è in Italia dove ha fondato l’Università del Perdono, per promuovere la prassi e la spiritualità del perdono soprattutto in realtà dilaniate dalla guerra o da tradizioni che esaltano la vendetta e la violenza.

Sul Concilio Vaticano II vedi il dossier «La Chiesa si scoprì tutta missionaria» (MC 10/2012) pubblicato in occasione del 50° dell’inizio dello stesso.

 




Natale e concilio

2015_12 MC Pagina_03Il Natale di quest’anno accade in un contesto tutto particolare, da un lato c’è il Giubileo della Misericordia, un’occasione per tutti di sperimentare l’amore personale, incondizionato e rigenerante di Dio, dall’altro c’è il circo mediatico che si nutre di notizie, di scandali che coinvolgono persone di Chiesa, di Vatileaks, di gossip e speculazioni su papa Francesco e di molto altro. Non entro nel merito delle varie notizie, spesso purtroppo vere anche se esagerate e fuori contesto; non mi interessa conoscere i particolari. Vorrei solo cercare di capire il senso di quanto sta succedendo. E forse il Natale, quello vero, mi aiuta a farlo.

La storia di cui facciamo memoria è, di per sé, un’anti-storia: quella del figlio di un povero senza terra – immagino Giuseppe dire a Maria (come fece mio padre con mia madre): «Ho solo queste braccia e il bene che ti voglio» – che, appena nato, viene rifiutato dai potenti ed esaltato dagli umili. Partorito durante un viaggio, in una casa non sua, subito cercato per essere ucciso e reso profugo, va poi a vivere nel villaggio più umile e nascosto di tutto Israele, Nazareth. Altro che Messia glorioso e vittorioso, atteso e temuto, altro che «Signore dei Signori, re della terra». La storia del Natale è piuttosto quella di un signor nessuno, ultimo degli ultimi, come cercheranno di dimostrare i suoi uccisori, esponenti di una strana alleanza politico-religiosa, facendogli subire il supplizio riservato agli schiavi-cose con l’inchiodarlo alla croce.

L’evento ricordato a Natale è stato l’inizio di una storia che continua ancora oggi: la contrapposizione tra la logica di Dio e quella degli uomini. L’azione di Dio è libera, gratuita, nascosta, periferica, rispettosa, inclusiva; quella degli uomini, anche di «religione», cerca invece successo, approvazione, potenza, visibilità, centralità, onori e ricchezze. L’uomo vuole impadronirsi di Dio per usarlo per i suoi scopi; invece Dio si offre alla libertà dell’uomo in maniere sempre nuove e non convenzionali.

Cinquant’anni fa il Concilio Vaticano II iniziava un faticoso cammino per liberare la fede dalle sovrastrutture religiose accumulate nei secoli, per restituire alla Chiesa, popolo di Dio, la missione di essere testimone non della potenza giudicante e selettiva di un Dio glorioso nei cieli, ma dell’amore di un Dio che si è fatto uomo e tutti accoglie con una preferenza spiccata per i poveri, i peccatori, gli emarginati e gli scarti, un Dio che disdegna i grandi templi e preferisce i cuori; testimone di un Dio che non parla in lingue auliche che hanno bisogno di interpreti, ma che comunica nel linguaggio comune perché tutti lo conoscano davvero come Padre misericordioso, Pastore buono che conosce ciascuno per nome, Fratello e amico che si fa pane spezzato. È stato un vento impetuoso, il Concilio, che ha disperso le nubi, aperto nuovi orizzonti, alimentato la speranza, ma ha anche creato scompiglio in chi ha visto i propri privilegi e le proprie sicurezze messi in discussione.

In questo mezzo secolo sembra però che quel vento abbia pian piano perso vigore, non solo perché noi uomini abbiamo la memoria corta e ci abituiamo a tutto, ma anche perché quelli a cui piace un Dio sonnacchioso che dall’alto dei cieli si accontenta di nuvole d’incenso, di belle chiese e di tante candele, sono corsi a chiudere porte e finestre, a tagliare ponti e innalzare barricate.

Poi è arrivato il ciclone delle dimissioni di Benedetto XVI, e il vento fresco di Francesco. «Poveri, scarti, emarginati, chiesa in uscita, chiesa ospedale, accoglienza, attenzione alla persona, povertà, trasparenza, sobrietà…»: le parole di sempre, dette in modo nuovo, sgravate dal vetusto «chiesese» dei documenti curiali, sono tornate in libertà. E non solo le parole, ma soprattutto i gesti di Francesco, spiazzano e confondono, oppure confortano e incoraggiano. La reazione dei custodi della tradizione, riluttanti alleati di terremotatori gongolanti, non si è fatta attendere, come abbiamo visto in questi ultimi mesi, prima, durante e dopo il Sinodo sulla famiglia. Il paradigma del Natale si è ripetuto.

Ma il Natale, storia di libertà e gratuità, di semplicità e incontro, non si lascia ingabbiare. Nemmeno dagli scandali che periodicamente scuotono la Chiesa. Come il primo Natale non è stato fermato dalle violenze di Erode o dall’ipocrisia dei custodi del «Tempio e della Legge», così anche il cammino iniziato anni fa dal Concilio e galvanizzato oggi dal carisma di Francesco, non sarà fermato. Anzi, come la storia sacra ci insegna, questi scandali e le sofferenze a essi legate, nelle mani di Dio stanno diventando un’occasione di grazia e rinnovamento, un pungolo a continuare il cammino per la confusione dei «beffardi» e la consolazione e dei «miti e puri di cuore».

Buon Natale. E che il 2016 sia davvero l’anno della misericordia.

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Buona lettura.




Cari Missionari

Beati e santi

Ho letto con attenzione sugli ultimi numeri della rivista tutto quello che ha riguardato suor Irene Stefani e la sua beatificazione. (Va detto che leggo sempre da cima a fondo la vostra bella rivista). Da persona poco addentro nelle cose ecclesiastiche mi chiedo che cosa abbia determinato la sua beatificazione e che cosa abbia invece determinato la santificazione della dott.ssa Gianna Beretta Molla. Oltre 20 anni fa ho avuto modo di conoscere il marito di Gianna Beretta in Molla. Anche lui persona colta e retta. La scelta drammatica fatta nel 1962 da sua moglie è sicuramente più che rispettabile; ma è da santità? E allora perché non santificare anche la vostra consorella, a cui va la riconoscenza di tantissime persone e forse anche la «responsabilità» di una guarigione miracolosa ? Cordiali saluti, e complimenti.

Carlo May – 23/08/2015

Nella Chiesa c’è una procedura abbastanza precisa per quel che riguarda la «santificazione» di qualcuno. Proviamo intanto a mettere chiarezza nei termini. «Santificazione» non è certo la parola appropriata: vorrebbe dire che la Chiesa rende santo qualcuno. Mentre invece, la Chiesa, semplicemente riconosce come esemplare la santità di un cristiano tornato alla casa del Padre. La santità quindi c’è già. Il problema è riconoscere ufficialmente che quella persona è stata veramente santa e che quindi è un modello di vita cristiana per tutti.

Per questo c’è un lungo processo, che può richiedere anni. Il processo può iniziare solo cinque anni dopo la morte della persona e prima che siano trascorsi trenta anni dalla stessa (di modo che ci siano ancora testimoni viventi).

Il primo passo è compiuto a livello della diocesi. Il vescovo stabilisce un apposito tribunale per indagare sulla vita e sulle opere del «candidato»: testimonianze, documenti, scritti, ecc. Durante questo periodo la persona viene onorata col titolo di «servo/a di Dio».

Tutti i documenti e le conclusioni del processo diocesano vengono passati a Roma, alla «Congregazione per le cause dei Santi», che, tramite i suoi incaricati, verifica a fondo il materiale raccolto. Se passa l’esame c’è l’approvazione finale delle «virtù eroiche» durante un incontro dei Cardinali della Congregazione dei Santi, al termine della quale il papa appone la sua firma. Da quel momento la persona viene definita «venerabile». E qui si conclude la prima tappa.

Per la seconda (arrivare alla «beatificazione»), è necessario il concorso di due forze: la fede e la preghiera di chi ricorre al «venerabile», e il conseguente miracolo. Senza miracolo non si può procedere. Spesso passano anni prima che ci sia un vero miracolo, altre volte pochi mesi. Una volta ottenuto il miracolo, questo è verificato a fondo per togliere tutti i dubbi, e solo allora, superato il vaglio della commissione d’inchiesta diocesana, si può sottoporre a Roma la richiesta di approvazione, ottenuta la quale il «venerabile» può essere dichiarato «beato». È stato il caso di Giuseppe Allamano, proclamato beato il 7 ottobre 1990 e quello di Suor Irene, beatificata lo scorso 23 maggio.

La terza tappa è la «canonizzazione»: essere cioè iscritti nella lista ufficiale – canone – dei santi e presentati quindi come modelli di vita santa alla Chiesa universale. Per giungere a questo occorre un secondo miracolo, che superi gli stessi test di serietà del primo. Una volta approvato e riconosciuto ufficialmente il secondo miracolo, c’è la dichiarazione ufficiale della santità e il nostro beato o beata può essere chiamato santo/a. È il caso di santa Giovanna Molla.

Concludo dicendo che questo lungo processo aiuta a decantare emozioni, fanatismi e infatuazioni, a favore di un riconoscimento approfondito con serietà e fede. In realtà, davanti a Dio, tutto questo non aggiunge né toglie niente alla santità della persona. La serva di Dio Leonella Sgorbati e la beata Irene Stefani non sono salite di qualche gradino in più in paradiso, e il nostro beato Fondatore, che ci fa aspettare il secondo miracolo ormai da 25 anni, non è certo «meno santo» perché non ancora canonizzato.

5×1000 e Caf

In merito alla «difficoltà a firmare 5xmille», lettera del sig. Luciano Zacchero sulla rivista MC di Agosto/Settembre 2015, indico la mia esperienza: ho consegnato a un Caf i 730 di figlio, nuora, figlia e genero (il mio è stato inviato personalmente via e-mail), e mi è stato concesso di firmare regolarmente 5-8-2xmille in loro vece. Mi meraviglia quanto successo al sig. Luciano. Le consiglio di cambiare Caf. Probabilmente il funzionario di quel Caf non gradiva le sue scelte. Cordialmente saluto,

Carlo Colombo – Sesto S. Giovanni (MI) – 04/09/2015

Padre Pietro Lavini

Credo sia giusto rivolgere un pensiero a padre Pietro Lavini, francescano cappuccino che, lo scorso 9 agosto, all’età di 88 anni, ha lasciato la scena di questo mondo.

Anche se gli ultimi 45 anni li ha passati in un solo posto, impegnato com’era a far risorgere, mattone dopo mattone, l’Eremo di San Leonardo – praticamente ridotto a un rudere dopo secoli di disinteresse e incuria da parte di tutti – nella Gola dell’Infeaccio, sui Monti Sibillini, nelle Marche, io credo che questo mite, umile ma valorosissimo, seguace di Cristo e di San Francesco, sia stato un grande missionario perché ha incontrato decine di migliaia di persone – gente del posto ma soprattutto turisti, escursionisti, curiosi che arrivavano da ogni parte del mondo per immergersi nella natura dei Sibillini, ma anche perché attratti da questa figura così speciale di uomo e di frate – e perché, oltre a ridare dignità a un insediamento benedettino, è stato capace di ricostruire tante anime.

Io ho avuto la fortuna di conoscere padre Pietro attraverso […] il suo libro «Lassù sui monti», un vero giorniello, introvabile (anche nelle librerie cattoliche), edito dalla Tipografia Truentum di Ascoli Piceno. Un libro che non ha proprio nulla da invidiare a tanti altri libri che trovano con una certa facilità editori disposti a pubblicarli, critici e osservatori disposti a scrivere recensioni, librai disposti a venderli […].

Grazie per l’attenzione

Luciano Montenigri – 18/09/2015

Dialoghi di Pace

Arrivata al «decennale», l’iniziativa «Dialoghi di Pace», che per l’edizione 2016 s’intitola Vinci l’indifferenza e conquista la pace, rinnova il suo invito: copiateci! È una efficace proposta per diffondere il messaggio del papa per la Giornata mondiale della pace.

I Dialoghi di Pace sono, molto semplicemente, una lettura con musica del testo del messaggio, suddiviso in brevi e veloci battute affidate a tre voci che si rincorrono e si intrecciano come in un vero e proprio dialogo.

Per creare un contesto favorevole all’interiorizzazione dei suoi contenuti da parte di chi li ascolta, lo introducono e lo intercalano brani musicali di ogni genere (classica, jazz, blues, popolare, contemporanea…) affidati alle più diverse formazioni vocali e strumentali (dai solisti, ai trii fino a cori e piccole orchestre).

Prendendo forma artistica, il messaggio viene reso più gradevole e accessibile. Da documento del magistero che pochi leggono interamente – quando va bene, accontentandosi delle sue sintesi giornalistiche, non sempre in buona fede -, a occasione di preghiera per chi è cristiano cattolico, e momento di meditazione per chi ha spiritualità diverse, non necessariamente di ordine religioso. […]

Il risultato è che fra artisti, collaboratori e pubblico si crea un’atmosfera impossibile da spiegare a chi non la vive, un’esperienza unica e impagabile.

Il fatto che il progetto sia espressamente studiato per essere leggero e modulare, quindi senza particolari necessità logistiche ed economiche, lo rende facilissimo da riproporre autonomamente da parte di chiunque lo desideri e vorrà avvalersi del materiale e delle dettagliate indicazioni a questo scopo pubblicate sul sito (indicato qui accanto, ndr.). Tutto utilizzabile liberamente anche riadattandolo a piacimento alle diverse esigenze e disponibilità.

Per ogni necessità di chiarimento e supporto, chi ha ideato l’iniziativa ben volentieri risponderà a chi inoltrerà le sue richieste all’indirizzo sanpioxc@gmail.com. Coltivo un sogno: offrire i Dialoghi di Pace a chi in chiesa non entra, portandoli per le strade attorno al Duomo, nel centro di Milano, dove si dice: «Se la va, la g’ha i gamb»!

Giovanni Guzzi
11/09/2015

«Siamo i ragazzi della Consolata»

Suona il citofono della porta d’ingresso di casa nostra (dei missionari della Consolata a Martina Franca, ndr). Si chiede: «Chi è?». Tra tante risposte si sente anche il grido: «Siamo i ragazzi della Consolata». A volte negli incontri vicariali di Martina Franca, tra i giovani delle dodici parrocchie, si presenta un gruppo che dice, «siamo i ragazzi della Consolata». Andiamo a Taranto alla festa dei ragazzi missionari o alla festa dei popoli e risuona la voce «siamo i ragazzi della Consolata». Penso che anche in tante altre comunità missionarie Imc in Italia, si sente la voce: «Siamo i ragazzi della Consolata». Mi meraviglio nel sentire questi ragazzi che hanno preso il nome Consolata come parte della loro identità di vita. Si sentono  parte della nostra famiglia.

Mi sono permesso di guardare da vicino il Beato Giuseppe Allamano, fondatore di una famiglia missionaria di tre figli: i missionari, le missionarie e i laici della Consolata. I laici sono di tre categorie: primo i genitori dei missionari che diventano missionari a volte senza saperlo, poi i benefattori e quindi gli amici. Secondo quello che ci insegna l’Allamano non tutti possono andare in missione ma tutti possono partecipare con la preghiera o con l’aiuto materiale. Poi ci sono coloro che sentono l’esigenza di partire e a volte partecipano alla missione. Questi si sentono parte della nostra famiglia e si consumano per l’amore all’evangelizzazione, per la condivisione e l’elevazione umana. I ragazzi della Consolata si trovano in questo gruppo di laici missionari e amici.

Il nome e il significato.

Si dice che con il nome ci si specchia; con il nome si costituisce il resto della vita; il nome fa parte di noi stessi e non possiamo mai sfuggire da esso.  Non per caso tra gli africani, per dare il nome al neonato (almeno il secondo nome) si ricorre all’anziano di famiglia, il quale dopo aver analizzato tutti gli eventi che hanno accompagnato la nuova nascita suggerisce il nome che diventa automaticamente il programma di vita del nuovo membro di famiglia. A volte assumiamo il nome di un nostro antenato. Quando uno ha capito bene il suo nome vivrà a lungo, basta che i pronipoti dicano «io sono del tale». Non c’è bisogno di ulteriori spiegazioni. Quando arrivano membri di una famiglia, quando suonano il campanello, alla domanda «chi è?», rispondono «sono io». E la porta si apre. Ecco un’altra prova di come ci si specchia con il nome.

A questo punto si può dire che «i ragazzi della Consolata» si sentono parte di noi, si sentono di casa, bussano per partecipare all’opera di evangelizzazione, e lo fanno già collaborando con noi, sono nati consolati, vogliono anche loro consolare.

La domanda può essere: per quanto tempo? Sono convinto che questo seme non muore, può mancare un po’ di nutrimento ma a sua volta riprende. Quando papa Francesco dice che «non possiamo privatizzare l’amore», secondo me, per noi significa che «non possiamo privatizzare la consolazione». Grazie! Cari ragazzi, grazie per la vostra collaborazione nella consolazione.

Consolata, è un titolo mariano che significa che Maria condivide la responsabilità con noi uomini. «Consolate, consolate il mio popolo; parlate al cuore della mia gente». Nostra Madre ha fatto questo dandoci suo Figlio, la vera consolazione; noi lo possiamo fare «portando gli uni i pesi degli altri».

Danstan B. Mushobolozi da Martina Franca – 09/07/2015

Padre Franco Cellana

Proprio mentre prepariamo queste pagine, riceviamo da Milano la notizia del ritorno alla Casa del Padre di padre Franco Cellana, missionario della Consolata nativo di Tiao di Sopra (Tn).

Nato il 01/10/1942, fece i primi voti appena ventenne il 02/10/1962. Ordinato sacerdote il 17/12/1967 a Madrid, dopo dieci anni di servizio nell’animazione missionaria in Spagna, nel 1977 fu destinato al Tanzania. Nel 1991 fu richiamato in Italia per l’animazione nel Cam di Torino, che lasciò per servire l’istituto come consigliere generale dal 1993 al 1999. Scaduto il suo mandato, nel 2000 fu destinato al Kenya dove servì prima come parroco al Consolata Shrine di Nairobi e poi di Kahawa West nella periferia di Nairobi, che lasciò presto perché eletto superiore regionale. Finito il suo mandato fu nominato parroco a Wamba nel Samburu.

Generoso, zelante, effervescente, trascinatore, attentissimo ai poveri, ha lasciato un segno nel cuore delle persone che lo hanno incontrato. Ricco di iniziative, ha fatto del servizio ai poveri lo scopo della sua vita, coinvolgendo in questo i suoi tantissimi amici. Ripetutamente provato dalla malattia, ha sempre saputo reagire con profonda serenità e abbandono al Signore. Fino a quando non lo ha preso il cancro, contro il quale ha lottato con tutte le sue forze per due lunghi anni, accompagnato dalla preghiera e affetto della sua famiglia, dei confratelli e degli amici. Combattuta la buona battaglia, ha terminato la corsa il 24/09/2015, una settimana prima di compiere 73 anni. Il funerale, al suo paese, ha visto una grandissima partecipazione.

risponde il Direttore




Pomodori neri


  1. Angela Lano, Volti e storie dal vaso di Pandora, reportage dal cara di Mineo
  2. Giulia Bondi, Siamo uomini o caporali? , reportage dal Getto di Rignano
  3. Maurizio Pallante, Rompere il cerchio Crescita-Migranti

Questo dossier

Anche noi torniamo a parlare di migranti – sia profughi che migranti economici – dopo una drammatica estate di arrivi in Europa di decine di migliaia di persone dal vicino Oriente (Siria, in primis), dall’Africa, ma anche dall’Asia. L’Europa, divisa e litigiosa, si è letteralmente liquefatta davanti al problema. In queste pagine affrontiamo la questione con due reportage, un’analisi delle cause e un commento.
Il primo reportage è dal Cara di Mineo, la struttura in provincia di Catania, dove vengono accolti migliaia di migranti in attesa di identificazione. Il secondo viene dalla Puglia dove molti migranti sono impiegati nei lavori agricoli, quasi sempre in condizioni disumane. L’analisi di Maurizio Pallante esamina le cause delle migrazioni evidenziando un fatto mai preso in esame: è il modello economico della crescita infinita – spiega l’autore, teorico della decrescita – che produce spostamenti di popolazioni. Infine, il nostro collaboratore Gian Carlo Caselli, nella sua veste di presidente del comitato scientifico dell’«Osservatorio sulla criminalità nell’agroalimentare», affronta il tema delle agromafie e del caporalato. Passando dal pomodoro «made in China» allo sfruttamento di donne e uomini, in particolare extracomunitari, nelle campagne italiane.

la Redazione
con Giulia Bondi, Gian Carlo Caselli, Angela Lano, Maurizio Pallante

 


Reportage 1 / al Cara di Mineo (Catania)

Volti e storie dal vaso di Pandora

Un tempo era il villaggio residenziale dei soldati statunitensi di Sigonella, oggi è il «Centro accoglienza richiedenti asilo» (Cara). Famoso e controverso (anche per alcuni gravi fatti di cronaca), lo abbiamo visitato parlando con chi vi lavora e con chi vi è ospitato.

Catania, estate 2015. Al mattino presto ci rechiamo in una via vicino alla stazione ferroviaria, dove sono parcheggiate diverse auto con a bordo immigrati dell’Africa subsahariana. Sono tassisti abusivi che trasportano i rifugiati ospiti del Cara – Centro accoglienza richiedenti asilo – da Mineo a Catania, per le spese e altre commissioni giornaliere. Dopo aver contrattato il prezzo del passaggio, saliamo a bordo di un vecchio veicolo, pieno di persone.

Mineo dista un’ora da Catania. L’autista, Amin, un senegalese di 42 anni, ci racconta che talvolta lui e i suoi colleghi vengono fermati dalle forze dell’ordine, e multati per eccesso di passeggeri. Per il resto, nessuno dice nulla. Sono tre anni che fa questo lavoro e inizia a essere stanco: troppi rischi per via delle auto scassate, e poco guadagno. Sono in troppi a contendersi i viaggi da e verso il Cara: diciotto auto che lavorano dal mattino alla notte. I tassisti sono prevalentemente nigeriani, libici o senegalesi come Amin.

Il Cara è allestito nell’ex villaggio residenziale dei soldati statunitensi di stanza a Sigonella: un’ampia area nel «deserto» catanese, distante 10 km da Mineo, delimitata da filo spinato e controllata da esercito e polizia. Si entra e si esce solo con i permessi. Mentre aspettiamo l’autorizzazione a visitarlo, diversi ragazzi escono per raggiungere Catania o le aziende agricole attorno. La permanenza nel campo dovrebbe essere di circa sei mesi – in attesa del processo per lo status di rifugiato -, ma molti vi rimangono anche un anno o più.

Sono circa 3.000 i richiedenti asilo attualmente presenti nel Cara: arrivano dalla Nigeria, dal Gambia, dal Mali, dal Senegal, dal Ghana, dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea Bissau, dalla Somalia, dalla Sierra Leone, dal Niger, dall’Egitto, dalla Libia, dall’Eritrea, ma anche da paesi non africani come il Pakistan e il Bangladesh. Per alcuni migranti lo status di profugo non arriverà mai, poiché, di fatto, non giungono da un paese in guerra o non possono dimostrare di essere perseguitati.

In Libia, con e dopo Gheddafi

Il campo è costituito da diverse case a schiera disposte su viali paralleli e da altre strutture adibite a mensa, moschea e chiesa, laboratori, uffici, scuola, ambulatorio, lavanderia, ecc. È organizzato con un esercito di operatori: sono 400 tra mediatori, assistenti sociali, medici, psicologi, avvocati, addetti alla mensa e alle pulizie.

Ci riceve il direttore del centro, Sebastiano Maccarrone, il quale ci spiega che molti degli ospiti, prima di arrivare in Europa, avevano lasciato il proprio paese per trovare lavoro in Libia. Molti, negli anni precedenti la «primavera libica» che ha rovesciato il regime di Muammar Gheddafi nel 2011, si erano ben inseriti a livello professionale e sociale. Con lo scoppio della rivolta, tuttavia, sono iniziati i problemi: persecuzioni a causa del colore della pelle, lavoro forzato, violenze, prigionia, stupri.

A migliaia, nel 2011, sono fuggiti verso le coste italiane, cercando salvezza dalle aggressioni sistematiche da parte di bande di militari di fazioni diverse: era l’«emergenza Nordafrica». Un’immigrazione di massa straordinaria ma prevedibile, vista la situazione di guerra civile in Libia.

All’emergenza delle persone immigrate nel paese nordafricano per scappare da guerre e persecuzioni si è affiancata, nei mesi e negli anni successivi, e fino ad oggi, un’altra forma di fuga: quella delle vittime del lavoro in schiavitù. È gente che viene costretta a pagare per andarsene o che è costretta a salire sui barconi da sfruttatori che, dopo averli utilizzati come manodopera gratuita, al momento di retribuirli, consegnano 2.000 euro agli scafisti per sbarazzarsi di loro. Molti di quelli che ora raggiungono le coste della Sicilia su gommoni scassati sono ancora lavoratori africani che fuggono dalla Libia post-Gheddafi. Altri, invece, si sono trovati a transitare nel paese nordafricano per tentare di passare in Europa. Tutti, indistintamente, sono finiti nelle mani di bande armate che li hanno catturati, picchiati, sfruttati, violentati e poi imbarcati a caro prezzo.

«Arrivano tutti dal caos libico – sottolinea il direttore del Cara Maccarrone -, perché con gli altri paesi del Nordafrica, come la Tunisia e il Marocco, abbiamo accordi bilaterali in base ai quali chi arriva da lì in Sicilia viene rimandato indietro. Il problema con la Libia è che manca un governo centrale con cui fare accordi. I migranti partono da vari porti. La vera questione è politica ed è internazionale: bisogna che i responsabili del colonialismo in Africa – principalmente Francia, Gran Bretagna e Usa – si occupino di questa drammatica situazione. L’Italia sta facendo un enorme sforzo».

Il direttore Maccarrone ci fa accompagnare nelle strutture del campo da una mediatrice, una giovane marocchina poliglotta. Sono terribili le storie che ci raccontano i rifugiati sulle condizioni di trattamento in Libia: descrizioni dettagliate di riduzione in schavitù e di violenze, possibili grazie al caos politico e sociale in cui è precipitata la Libia «post-primavera». Un paese senza un governo centrale – ne ha due, rivali, a Tobruk e Tripoli – e con milizie armate dovunque, Isis compreso.

Le donne dell’Africa subsahariana che si trovano a transitare in Libia vengono stuprate, portate nelle case dei ricchi e abusate. Ragazzi e uomini subiscono ogni sorta di violenze nelle carceri, che periodicamente vengono «ripulite» mandandoli sui barconi a morire in mare.

Jean Baptiste ha 22 anni e viene dalla Costa d’Avorio: è uno dei sopravvissuti al naufragio dell’aprile 2015 che uccise 800 persone. «Ho viaggiato da Tripoli all’Italia in un barcone. Avevo lasciato il mio paese all’inizio del 2014 per cercare un lavoro dignitoso in Libia. Lì i lavoratori immigrati li pagavano bene, ma a me è andata diversamente: sono finito in prigione, catturato per strada da milizie armate. Non so dire se fossero poliziotti, militari o bande criminali. In carcere ho sofferto per le violenze e i maltrattamenti. C’è razzismo contro gli Africani neri. Soffrono tanto in Libia. Non sono considerati come esseri umani».

Khalifa, 25 anni, è un musulmano di Gao, in Mali. È arrivato in Sicilia con Jean Baptiste, in aprile. «Ho lasciato il Mali nel 2010 e sono arrivato in Algeria, dove ho vissuto fino al 2012, quando ho raggiunto la Libia e sono riuscito a trovare un lavoro. Ero con mio fratello. Stavamo bene, lavoravamo per un datore di lavoro libico onesto. Purtroppo è stato ucciso da un gruppo armato e io ho dovuto cercare un altro lavoro. Così sono cominciati i miei problemi: il nuovo capo non mi pagava e quando ho iniziato a lamentarmi, mi ha consegnato a una banda di criminali, dei trafficanti, che mi hanno sfruttato. Sono finito in prigione, dove ero picchiato tutti i giorni. I carcerieri ci dicevano: “Non ci sono abbastanza cimiteri in Libia: vi faremo morire in mare”. Ci hanno costretti a imbarcarci su un peschereccio sgangherato, che è affondato con 800 persone a bordo. Soltanto in 28 siamo riusciti a sopravvivere. Mio fratello e tutti i miei amici sono morti annegati nel Mediterraneo». A questo punto, Khalifa interrompe la sua storia e scoppia in lacrime.

Le storie dei rifugiati sono simili tra loro: lunghi percorsi nel deserto, per arrivare in Libia o a lavorare o allo scopo di imbarcarsi per l’Europa, maltrattamenti, sfruttamento, violenze, tratta. Sono così somiglianti che sorge persino il dubbio che chi le racconta abbia mandato a memoria un copione per convincere chi li accoglie in Italia a occuparsi di loro e avviare la richiesta di asilo.

Chiediamo dunque agli psicologi, assistenti sociali e legali presenti nel centro di confermarci le storie ascoltate, e anche loro ci parlano di violenze, razzismo, stupri, mancanza di cibo e acqua, forme di lavoro schiavo e imbarchi forzati. «Sono tre anni e mezzo – ci racconta un’assistente sociale – che ascoltiamo storie terribili. Anche di lavoratori che prima stavano bene e che successivamente si sono trovati ai “lavori forzati” per un periodo e poi sono stati mandati via. Vengono sfruttati per mesi e quando non servono più li mettono in mare, verso l’Europa. È un esercizio di strapotere su migranti indifesi. Alcuni vengono liberati dal carcere per lavorare gratis. Dalla caduta del regime libico è iniziato questo caos. Detto in altre parole: Gheddafi dava garanzie nel Mediterraneo».

Dai barconi alla cronaca nera

Il Cara ha acquisito notorietà non solo perché è il più grande centro per richiedenti asilo d’Europa, ma anche per fatti di cronaca che hanno provocato orrore: a fine agosto, a Catania, sono stati trovati i cadaveri di due anziani. Poche ore dopo è stato arrestato un giovane della Costa d’Avorio, fuggito dal centro di accoglienza di Mineo. «“Il Cara di Mineo crea problemi che noi dobbiamo gestire con poco personale, facendo fronte all’emergenza”, ha commentato il procuratore di Caltagirone, Giuseppe Verzera, che cornordina l’indagine sul duplice omicidio. “È stato un delitto efferato – ha aggiunto – macabro, con una scena del delitto incredibile. [….]”. L’indagine però è tutt’altro che chiusa: l’ipotesi degli inquirenti è che l’ivoriano non abbia agito da solo ma abbia avuto dei complici, altri extracomunitari che la polizia di Stato sta cercando di individuare» (Il Fatto Quotidiano, 30 agosto).

Ancora cronaca giudiziaria legata a rifugiati accolti e poi fuggiti dal Cara: a settembre, a Worms, in Germania, viene arrestato un eritreo, Mulubrahan Gurum, che gestisce i soldi del lucroso traffico umano tra la Libia e l’Europa. Con questo arresto, finalmente anche i media mainstream iniziano a parlare in modo esplicito di tratta di esseri umani, di immensi guadagni, di organizzazioni criminali internazionali con ramificazioni dalla Libia (e da altre regioni africane) all’Europa: «“Dell’importo del viaggio, tra i 2.000 e i 2.500 dollari, solo il cinque per cento viene versato in contanti in Libia. Il resto deve essere pagato estero su estero. E per la conferma del buon esito è sufficiente un sms”. Il saldo, per quello che sin qui ha potuto ricostruire l’indagine della procura di Palermo, arriva normalmente in paesi come Germania, Svezia, Norvegia e Inghilterra. E qui raccolto da cassieri che provvedono a riciclarlo. Nelle intercettazioni si fa persino generico riferimento a “banche internazionali”, a trasferimenti “da Dubai all’Europa, così evitiamo i controlli”. A cambi da dollari in euro e viceversa. E del resto quello che dice Ermias Ghermay (uno dei personaggi coinvolti nell’inchiesta della magistratura palermitana, ndr) al telefono lascia intuire di quali ordini di grandezze si parli: “Ho guadagnato così tanti soldi da vivere benissimo per 20 anni, per ogni barca che mando verso l’Italia guadagno 80 mila dollari”» (la Repubblica, 12 settembre).

Il piccolo Aylan e gli altri

Quella degli ultimi anni è un’onda migratoria anomala, fenomenica (nel senso di eccezionale rispetto ai flussi fisiologici di migranti ante Primavere arabe, cioè prima del 2011), che sposta masse di persone da un continente all’altro, che provoca migliaia di morti e frutta miliardi di dollari alle organizzazioni criminali internazionali. Parallelamente, ma non disgiuntamente, ridisegna, piano piano, un’altra Europa, con altre popolazioni.

La maggior parte dei profughi di questi ultimi anni arriva da paesi come Iraq, Libia, Siria, Palestina, Afghanistan, Pakistan, Somalia, Eritrea, Etiopia, Sudan, distrutti dalle guerre occidentali (volute da Usa, Canada, Gran Bretagna, Francia, Italia, ecc.) e da quelle orientali (condotte da Turchia, Israele, Qatar, Arabia Saudita). In molti fuggono anche dallo «Stato Islamico di Iraq e Siria» (Isis), nato in seno al wahabismo saudita (alleato dell’Occidente) e da esso appoggiato e finanziato.

E ora le stesse immagini di migliaia di persone che attraversano a piedi confini e barriere nazionali o quella toccante di Aylan, il piccolo curdo di Kobane, morto sulla spiaggia turca di Budrum, vengono usate strumentalmente per creare il consenso a nuove invasioni e conflitti (contro la Siria di Assad, ad esempio) .

Rifugiati e immigrati sono oggetto di un immenso business che va dalla tratta di esseri umani reclutati nei villaggi e nelle città di diversi stati africani, all’allestimento dei viaggi sui barconi che attraversano il Mediterraneo e arrivano in Europa. Lucrano su questo traffico sia gruppi islamisti jihadisti (come accade in Libia, in Mali e in diverse altre regioni africane) sia organizzazioni criminali e mafiose locali e internazionali, e pure politici e rappresentanti di governi.

Una volta in Europa, inizia l’altrettanto redditizia gestione dell’accoglienza dell’immigrato: fondi ingenti stanziati dall’Unione Europea e destinate agli stati, e da questi, in certi casi, a amministrazioni comunali o cornoperative.

Parallelamente, c’è anche la consistente immissione nel mercato del lavoro – agricolo, commerciale, industriale – di manodopera disperata e a basso costo e lo sviluppo di nuove forme di lavoro subordinato, caratterizzato da condizioni disumane, o di semi schiavitù.

Infine, le bande criminali vedono nell’immigrato emarginato una potenziale manovalanza a buon mercato per lo spaccio, la prostituzione, ecc. Basti pensare che le mafie italiane già da tempo investono sul traffico di esseri umani, ritenuto più lucroso di quello della droga.

Nel Nord come nel Sud dell’Italia, molte campagne si riempiono di africani che, in cambio di paghe da fame, raccolgono pomodori e altra frutta che arriveranno sugli scaffali dei nostri supermercati e sui banconi dei mercati. Mentre di notte le strade delle città sono affollate di giovanissime donne nere, vittime della tratta del sesso. Forse l’ultimo gradino dello sfruttamento senza fine dei popoli colonizzati dall’Occidente.

Angela Lano*

(*)  Ricercatrice presso l’Università Federale di Salvador di Bahia (Ufba); articolo inserito in un progetto di ricerca sulla Libia sostenuto dalla «Fundação de Amparo à Pesquisa do Estado da Bahia» (Fapesb), Brasile.


Reportage 2 / Nelle campagne della Puglia

Siamo uomini… o caporali?

È una vera baraccopoli a 15 km da Foggia. Con baracche, ristoranti e bordelli. Vi abitano decine di lavoratori dell’Africa dell’Ovest. È qui che i caporali reclutano la mano d’opera. Qui occorre ingegnarsi in mille lavori. C’è pure una radio che dà voce a progetti e speranze. Reportage dal Ghetto.L’uomo senegalese ha la barba corta. In una tinozza da bucato di plastica azzurra prepara dieci chili di pastella ogni giorno, un enorme blob di schiuma morbida e chiara. Sta seduto su uno sgabello e la prende su a cucchiaiate, poi la getta in una padella di olio bollente che la gonfia e la indora, a trenta o quaranta alla volta, fino a trasformarla nei beignet più buoni di tutta la baraccopoli. «Durano fino a 35 giorni se li tieni chiusi nel sacchettino», gongola, con l’orgoglio della massaia che svela parte dei suoi segreti: «E questo perché dentro non c’è una goccia d’acqua. Solo latte e uova». Una porzione da due, in un sacchetto di plastica trasparente usa e getta, costa cinquanta centesimi.

In un altro angolo della stessa baracca di lamiera, grande, buia e non ancora rovente come sarà da mezzogiorno al tramonto, Maimuna prepara il soffritto. Ha quarantacinque anni, la pelle liscissima, occhi scuri, tunica colorata e capelli coperti da un turbante voluminoso. Il resto dell’anno fa la badante o le pulizie a Bologna. D’estate squama il pesce e cuoce il riso nella baracca di Papa Diop, senegalese, uno dei ristoratori storici del ghetto.

Pochi metri più in là, sotto il portico di lamiera e legno, affacciato sul «viale» principale, ecco Mamadou a lavorare di mannaia, per fare a pezzi la pecora che più tardi Maimuna bollirà. D’inverno, Mamadou vende le torri pendenti ai turisti, a Pisa in piazza dei Miracoli. D’estate spacca le ossa degli ovini al gran Ghetto di Rignano Garganico.

La chiamano tutti così la baraccopoli, a soli quindici chilometri dal centro di Foggia, che dà alloggio a circa duemilacinquecento braccianti. Sono quasi tutti dell’Africa occidentale francofona, lavorano nella raccolta del pomodoro e degli altri prodotti delle campagne della zona.

I braccianti vivono in baracche di plastica e cartone. Si alzano presto la mattina, i primi anche alle tre, per aspettare i «capi neri», i caporali che fanno da intermediari con le aziende agricole della zona, organizzano le squadre di lavoro e le trasportano su vecchi furgoni scassati, quasi sempre rubati, spesso con targhe bulgare o rumene.

Le pecore e i caproni che i macellai comprano da un pastore poco distante, vivono pure loro al Ghetto, almeno gli ultimi giorni della loro vita. Stanno legati per una zampa in recinti a cielo aperto, con le pareti fatte di vecchie porte e finestre di legno, recuperate da discariche e robivecchi. Qualcuna tenta di scappare, ma nessuna, alla fine, sfugge al boia, che arriva con la coca cola in una mano e il coltellaccio nell’altra, e non rinuncia a rispondere al cellulare nemmeno quando ha davanti la pozza di sangue appena uscita dalla giugulare della bestia.

Tutto quello che si potrà, finirà mangiato. Le ossa serviranno a fare il brodo. La pelle scuoiata giacerà ammucchiata su una delle tante cataste di rifiuti che nessuno dei comuni circostanti – Foggia, Rignano Garganico, San Severo – accetta di venire a raccogliere. I residenti del ghetto finiscono per bruciarle quasi ogni giorno: al puzzo di carcassa subentra quello di diossina e si libera spazio per la spazzatura dell’indomani.

Vita in baraccopoli

Prima di essere buttato, quasi tutto è stato riutilizzato e riciclato fino all’inverosimile. Le bottiglie di plastica della minerale si riempiono decine di volte dalle grandi taniche dell’acqua potabile, che a loro volta sono riempite da una cisterna, ogni mattina (pagata dalla Regione Puglia). Le bottigliette dei detersivi o delle bibite servono anch’esse per l’acqua, quella non potabile, da usare per lavarsi. La si attinge a uno dei tre punti di raccolta installati tra le baracche, circondati sempre da fango fresco e rozze canaline di scolo per contenere gli allagamenti.

Quando qualcuno si allontana verso i campi, con in mano un flacone verde che era stato di Nelsen piatti, sta quasi certamente andando a pregare, prostrato nella polvere, dopo le abluzioni rituali. Oppure a defecare, nei campi o negli uliveti, dato che i venti wc chimici installati all’ingresso del ghetto vengono puliti, da un uomo con un furgoncino cisterna e una pompa d’acqua, soltanto ogni due giorni (sempre a carico della Regione).

Esiste da circa vent’anni, ed è cresciuta ogni stagione con nuove abitazioni di fortuna, la spettacolare baraccopoli nota a tutti come il Gran Ghetto. Non è la sola città temporanea a dare riparo ai braccianti del Sud. Senza andare lontano, altri insediamenti di fortuna ci sono a Borgo Mezzanone e Borgo Tre Titoli in Puglia, o a Boreano in Basilicata.

Nei dintorni del Gran Ghetto quasi tutti i casolari, costruiti negli anni della riforma agraria e poi abbandonati, sono abitati, durante l’estate, dai braccianti impegnati nei lavori stagionali. Delle baraccopoli, il Gran Ghetto è la più grande, certamente tra le più longeve e sviluppate. Rimane abitata e in funzione anche per una parte dell’inverno per chi, oltre alla raccolta del pomodoro, lavora alla vendemmia o a quella delle olive. E molti braccianti arrivano già dalla primavera, per le verdure di serra, gli asparagi o i peperoni.

Da un anno all’altro, la plastica delle serre si ricicla come copertura delle baracche. Chi sa costruirle è in grado di metterne in piedi una piccola nel giro di un paio di giorni. Uno scheletro di legno e le pareti di cartone. E un tessuto connettivo fatto di vecchi tubi da irrigazione, su cui piantare migliaia di chiodi che, oltre a tenere insieme la struttura, servono ad appendere sacchi e zainetti per salvarli dalla polvere. Quando non raccolgono, i braccianti battono le campagne in cerca di materiali di scarto utili alla costruzione delle baracche.

Ce ne sono da otto o dieci posti, ma anche da trenta o quaranta, di proprietà dei caporali, che nella loro offerta logistica includono anche il luogo in cui dormire. Trenta euro, un materasso per l’intera stagione, con altri sette una rete a molle.

Sul modello base di baracca ci sono decine di varianti: doppio contro-soffitto in cartone, per isolarsi dal caldo straziante, e dal freddo che arriva già nelle notti di fine estate; oppure rivestimento di vecchie lenzuola, per rendere l’interno più accogliente. Il contro-soffitto in tessuto ce l’hanno soprattutto ristoranti e bordelli, che per il comfort dei clienti coprono anche i pavimenti con teloni in plastica. I più avviati hanno perfino le piastrelle.

Ristoranti, bordelli e caporali

Una ragazza guadagna dieci euro a cliente, e ne paga dieci al giorno di affitto al proprietario del locale. Al ghetto ce ne sono decine, si vedono poco perché dormono di giorno. Quasi tutte vengono dalla Nigeria.

I clienti non sono solo del Mali, del Burkina, del Senegal, del Gambia o della Guinea, come la maggior parte dei braccianti. Arrivano spesso al ghetto auto con targa italiana, guidate da uomini di mezza età, o da gruppi di amici anche molto più giovani. Dieci euro la ragazza. Un euro la birra da 33 cl, rinfrescata nei frigo alimentati dai generatori. Non più di tre euro un piatto di riso e carne, cereali o verdura, a scelta tra tante varianti di cucina africana, nella dozzina di ristorantini che si aprono tra strade e vicoli del ghetto.

Conveniente per gli italiani, la tariffa dei ristoranti rimane un lusso per molti abitanti del ghetto, pagati quasi sempre a cottimo e spesso in ritardo rispetto a quando il lavoro viene svolto. «Sono stanco, quest’anno parto appena riesco a farmi pagare», spiega Boureima, senegalese in attesa di una decisione sulla sua richiesta di asilo.

Negli ultimi giorni, ha lavorato in un’azienda agricola al taglio delle cipolle. Il pagamento in questo caso è orario, 2 euro e 75 centesimi per un’ora di lavoro, in piedi al nastro trasportatore. «Non ti lasciano riposare, neanche fermarti un momento per bere un sorso d’acqua, e allora ho deciso di smettere: aspetto i miei soldi e poi me ne torno a Roma», afferma, stufo di giornate lavorative di dieci ore in cui si guadagnano poco più di venti euro. Ogni bracciante, infatti, deve lasciare al «caporale» almeno cinque euro al giorno, per il trasporto dal ghetto al luogo di lavoro.

Funziona così anche per chi lavora nei campi di pomodori: cinque euro è la tariffa obbligatoria per farsi caricare, alle prime ore della mattina, su uno dei furgoni che, sferragliando tra nuvole di polvere, trasportano i braccianti fino al campo, stipati in venti o trenta alla volta su panchette di legno installate al posto dei sedili.

Per la raccolta del pomodoro, il pagamento è a cottimo, in base al numero di cassoni riempiti. Per un cassone da 300 kg di pomodori, il pagamento medio è di 5 euro, ma al bracciante ne restano in genere 3,50. Il restante euro e mezzo lo trattiene il caporale.

Quanto si guadagna in un giorno dipende da tanti fattori: le condizioni del terreno, la forma fisica del lavoratore, e anche quanti saranno i camion che in quella giornata arriveranno sul campo, per caricare 88 cassoni alla volta e trasportarli fino alle industrie che li lavorano per produrre la passata e i pelati.

«Se si lavora veloce e su terreno asciutto – spiega Yacouba – si possono riempire due cassoni in mezz’ora». Ma se il terreno è troppo asciutto, come nella secca estate 2015, per i braccianti spunta la concorrenza delle macchine raccoglitrici, che sostituiscono gran parte della manodopera.

Molti abitanti del Gran Ghetto non riescono a trovare da lavorare tutti i giorni.

Lavoro al Ghetto

Chi ha idee e altre capacità inventa qualcosa da fare nella vasta, sebbene povera, economia informale del ghetto: Soulimane taglia i capelli con un rasoio elettrico, su una sedia davanti alla sua baracca. «Mi piacerebbe aprire un vero salone», afferma, e ai clienti non fa mancare l’asciugamano posato sulle spalle per non sporcarsi la maglietta. Zaka si è costruito una baracca di lamiera in cui la sera brucia grandi tronchi di legno: riscalda l’acqua, a pagamento, per chi vuole prendersi il lusso di una doccia tiepida. Un giovane maliano ha una vecchia macchina per cucire Necchi. Una volta la settimana arriva il venditore di stoffe e lui si dà da fare come sarto. Nelle sere di luna piena si consuma un po’ meno la vista.

Camara, guineano, non ha capitale per avviare un’attività. Quando non lavora, si arrangia cucinando la cena per gli altri abitanti della sua baracca, che in cambio lo invitano a mangiare gratis.

Yaya si è infortunato sul lavoro. Gli è caduto addosso un cassone vuoto, il suo piede destro è gonfio come una palla da tennis. I medici del Polibus di Emergency, che quattro pomeriggi a settimana staziona davanti al ghetto, gli hanno prescritto iniezioni quotidiane. Per il weekend, quando il Polibus non c’è, gliele fa con mano sicura Angela, cuoca ivoriana, durante l’inverno badante in Sicilia. E alla fine gli sussurra all’orecchio, in francese: «Se non hai soldi, puoi mangiare a credito al mio ristorante». Lui invece qualche soldo lo trova: 10 euro dal caporale, come risarcimento per l’infortunio, assieme alla promessa di «un lavoro più leggero, alla macchina, quando sarai guarito». Altri 37, dall’albergatore campano che durante l’anno lo ospita come richiedente asilo. «È venuto a prenderci le firme, e ci ha portato il pocket money che ci spetta per quindici giorni», spiega Yaya: «Non solo a me, anche agli altri che abitano da lui e che sono qui al ghetto per la stagione». Per ogni due euro e cinquanta di «pocket money», la cifra giornaliera spettante a un richiedente asilo, l’albergatore ne riceve almeno trenta dallo stato. Stando al racconto di Yaya, anziché dichiarare che i suoi «ospiti» in questo periodo si sono allontanati e non gli costano nulla, l’albergatore preferisce farsi un giro in Puglia ogni due settimane a raccogliere le firme.

E così eccolo Yaya, sorridente nel cappello nuovo, altro regalo dell’albergatore. Le iniezioni hanno fatto effetto e quasi non ascolta il suo amico Amadou, ivoriano, che tenta di convincerlo che dieci euro sono un risarcimento irrisorio. Quasi impossibile avere il coraggio di denunciare quando si lavora a giornata, senza contratto. I pochi contratti esistenti sono falsi, non corrispondono alle giornate effettivamente lavorate.

La «voce» del Ghetto

«Il contratto agricolo provinciale prevede un pagamento di 7 euro e 92 l’ora, e un massimo di 6 ore e mezza di lavoro al giorno», spiega Yvan Sagnet, sindacalista della Flai Cgil, al microfono di Radio Ghetto. La radio è una baracca come le altre, si distingue per l’antenna che svetta in uno dei quattro angoli, legata a un palo di legno con pezzi di vecchie camere d’aria.

È aperta dalla tarda mattina fino a sera, e davanti ci sono sempre dieci o venti ragazzi. Qualcuno ci va solo per ricaricare il cellulare gratis, senza pagare i 50 centesimi che chiedono negozietti e ristoranti. Altri si improvvisano dj. Va per la maggiore il reggae africano, le voci ivoriane di Tiken Yah Fakoli o di Alpha Blondy, di cui si favoleggia che il terzo figlio viva al ghetto, e sia perfino un caporale.

Yvan, camerunense, è alla radio per condurre un dibattito sui diritti dei lavoratori. Prima di essere sindacalista è stato pure lui bracciante, nella zona di Nardò, in provincia di Lecce. Studiava ingegneria a Torino, era sceso per la stagione, per tirare su qualche soldo, e aveva finito per coinvolgere i compagni di lavoro in uno sciopero per avere condizioni migliori di lavoro.

I dibattiti, alla radio, continuano anche in sua assenza. Ibra, Akhet, Abdul e Mamadou li conducono con passione, invitano compagni e «fratelli» a fare sentire la propria voce.

In diretta alla radio chiama Toni Ricciardi, autore di un libro che racconta la strage di Mattmark, in Svizzera, quando a vivere in un ghetto erano gli italiani e la valanga del ghiacciaio Allalin, nel 1965, ne uccise 56 (assieme ad altri 32 lavoratori svizzeri, spagnoli, austriaci e tedeschi). Chiama Giulia Anita Bari, responsabile del progetto Terragiusta di Medici per i diritti umani, che fa presidio sanitario e monitoraggio nei ghetti della Basilicata. Chiamano i migranti accampati nel presidio «No Border» di Ventimiglia. Chiamano i volontari italiani che sono già passati di qui, da questo microprogetto che per il quarto anno consecutivo porta le voci del Ghetto a comunicare tra loro, e con l’esterno.

Passano dalla radio quasi tutti i bianchi che entrano ed escono, tranne quelli interessati solo alle prostitute.

Ricercatori, musicisti, gli attivisti di «Campagne in lotta» che cercano di organizzare manifestazioni con i lavoratori. I volontari di «Io ci sto», il progetto dei missionari scalabriniani che durante l’estate porta cinquanta ragazzi a settimana a insegnare italiano e riparare biciclette, sotto l’uliveto all’ingresso del ghetto.

«Ma è da noi che deve venire la voglia di ribellarci, e non dai bianchi», ribadisce al microfono Adama, che di rivolte ne ha già fatte, al centro di accoglienza di Crotone e nelle baraccopoli di Rosarno, e i diritti se li è visti scappare dalle mani proprio quando gli sembrava di stare per afferrarli. «Non dobbiamo avere paura», gli fa eco Mamadou. «Io ho visto uccidere i miei genitori. Ho visto Agadez, ho visto il deserto, ho visto le carceri libiche. Io non ho più paura».

Giulia Bondi

Nota: i nomi degli abitanti del Ghetto sono di fantasia.


Migrazioni e decrescita

Rompere il cerchio crescita-migranti

Quello delle migrazioni internazionali, lungi dall’essere un’emergenza, è un fenomeno strutturale, è parte del Dna di un’economia mondiale finalizzata alla crescita. Oltre al necessario dibattito sull’accoglienza delle persone che viaggiano verso l’Europa, è fondamentale domandarsi cosa si possa fare per evitare che esse si vedano costrette a lasciare le loro terre, divenute per molti aspetti inospitali. Una prospettiva utile è quella della decrescita, indicata anche dal papa nella sua Enciclica Laudato si’.

I flussi di migranti che, a rischio della vita e pagando altissimi costi anche in denaro, attraversano su barconi improbabili il tratto di mare Mediterraneo tra le coste del Nord Africa e dell’Europa del Sud, suscitano nell’opinione pubblica dei paesi in cui arrivano due reazioni contrastanti: quella umanitaria dell’accoglienza in nome della fratellanza e dell’uguaglianza dei diritti di tutti gli esseri umani, e quella egoistica del rifiuto che si traduce nella richiesta di riportare i nuovi arrivati nei luoghi da cui sono partiti, o di usare la forza per impedire che partano. La prima reazione è dettata da motivazioni religiose o politiche, sostenute dalle frange più a sinistra della sinistra. La seconda è motivata dalla paura per l’insicurezza sociale che può essere innescata dall’arrivo di persone prive di risorse per vivere, che possono essere indotte dall’istinto di sopravvivenza a tentare di tutto per riuscirci. Questa paura, che secondo i sostenitori dell’accoglienza sarebbe immotivata, benché l’esperienza sembri dimostrare il contrario, viene ingigantita e strumentalizzata politicamente dai settori della destra più retriva.

A conti fatti né gli uni, né gli altri fanno un’analisi approfondita delle ragioni per cui masse crescenti di persone fuggono dai luoghi in cui sono nate per riversarsi nei paesi dell’Europa occidentale. Le analisi si fermano all’ovvia constatazione del fatto che ciò avviene perché quelle persone non riescono più a ricavare dalle loro terre il necessario per vivere, a volte anche a causa di guerre sanguinose e interminabili. D’accordo, ma perché così tante persone non riescono più a ricavare da vivere dai luoghi in cui per migliaia di anni sono vissuti i loro antenati, e perché quei luoghi sono diventati teatri di guerra? Queste domande non solo non ricevono risposta, ma non vengono neppure formulate. Eppure, se non si capiscono le cause, non si può nemmeno tentare di rimuoverle, e se ci si limita a cercare di attenuarne le conseguenze, si può addirittura correre il rischio di rafforzarle.

Le migrazioni: necessarie per la crescita

La prima considerazione da fare è la seguente: le migrazioni sono una necessità intrinseca delle economie che hanno finalizzato le attività produttive alla crescita. Lo sono state sin dall’inizio della rivoluzione industriale in Inghilterra nella seconda metà del Settecento, quando in conseguenza di alcune leggi vessatorie contro l’agricoltura di sussistenza, i contadini non riuscirono più a ricavare dalle loro terre ciò di cui avevano bisogno per vivere, e furono costretti a emigrare nelle città, nelle quali trovavano da lavorare come operai nei primi opifici in cambio di un misero reddito monetario che li metteva in condizione di comprare, sotto forma di merci, i beni che non potevano più autoprodurre. Senza le migrazioni forzate degli ex contadini, l’industria non avrebbe trovato la manodopera di cui aveva bisogno per produrre merci, e nemmeno un numero sufficiente di persone provviste di reddito monetario in grado di acquistare le merci prodotte.

La crescita della produzione industriale, con cui è stato identificato il benessere, richiede un aumento costante di produttori e consumatori di merci, che sono due facce della stessa medaglia, perché per avere il denaro necessario a comprare le merci, a meno che non si viva di rendita, occorre lavorare nella produzione di merci, o nei servizi necessari al funzionamento di una società che tende a mercificare tutto, in cambio di un reddito monetario. Pertanto la crescita ha sempre avuto bisogno di costringere, con la forza legale dello stato, integrata da forme di forza illegale, e allo stesso tempo di convincere, con l’uso dei mezzi di comunicazione di massa, un numero crescente di persone a passare dall’economia di sussistenza all’economia mercantile.

Un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci ha bisogno di distruggere le economie di sussistenza e di avviare flussi migratori dalle campagne alle città, prima in ambito regionale (come è avvenuto in Italia nella prima metà del Novecento), poi a livello nazionale (come è avvenuto in Italia nella seconda metà del Novecento), poi a livello internazionale, come è avvenuto in Europa a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso con l’arrivo di migranti dai paesi dell’Est e dall’Africa.

«Dobbiamo aprire le nostre porte»

L’11 maggio 2015 il banchiere Carlos Moedas, Commissario europeo alla ricerca, all’innovazione e alla scienza, ha dichiarato all’emittente francese Europe1: «Bisogna avere più immigrati in Europa. L’immigrazione è necessaria alla crescita ed è certo che se potessimo avere più persone, potremmo avere più crescita. Il mio messaggio ai francesi e all’Europa è che dobbiamo aprire le nostre porte». Con una sintonia che potrebbe stupire, il XXIV Rapporto Immigrazione dal titolo Migranti, attori di sviluppo, presentato il 4 giugno 2015 all’Expo di Milano dalla struttura della Chiesa cattolica che si occupa di questo problema, la Caritas/Migrantes, ha messo in evidenza che i migranti costituiscono una ricchezza per l’Italia, perché producono l’8,8% del prodotto interno lordo, pari a oltre 123 miliardi di euro. E vengono pure pagati meno dei lavoratori italiani: un italiano guadagna in media 1.326 euro al mese, un cittadino comunitario 993, un extracomunitario 942. Per non parlare di chi lavora in nero, a cui viene dato solo il necessario per sopravvivere e tornare a lavorare giorno dopo giorno fino a quando ce n’è bisogno.

Cosa si può volere di più? Per smontare le resistenze delle persone anziane in apprensione per la loro sicurezza, i mass media ripetono in continuazione: «Come si potrebbero pagare le vostre pensioni senza i versamenti dei lavoratori stranieri?».

Un meccanismo che si autornalimenta

Per cortesia, lasciamo stare la retorica dell’accoglienza basata sui buoni sentimenti, sulla carità cristiana, sulla fratellanza e sulla giustizia sociale. Non che non ci sia chi agisce con questa nobiltà d’animo, ma chi lo fa finisce col rischiare di fare il cavallo di Troia a favore di chi, invece, utilizza i migranti (i quali per lo più sono persone nel pieno della loro forza fisica e della loro lucidità mentale) per far crescere il prodotto interno lordo dei paesi ricchi, utilizzando teste e braccia che potrebbero invece produrre ciò che serve per far uscire dalla miseria i propri paesi d’origine. Per non parlare di chi, come si è visto con l’indagine di Mafia Capitale, utilizza per arricchirsi illegalmente i finanziamenti stanziati per l’accoglienza temporanea dei migranti.

Le migrazioni dai paesi non industrializzati verso i paesi industrializzati sono causate dal fatto che questi ultimi, per sostenere la crescita dei propri sistemi economici, depredano i primi delle loro risorse, istigano i popoli che li abitano a farsi guerre fratricide, li cacciano dalle loro terre comprandole per un tozzo di pane, corrompono i loro governanti portandoli al potere e li sostituiscono o li fanno uccidere se diventano un ostacolo per i loro interessi, usano i contributi economici di aiuto allo sviluppo per costringerli a passare dall’economia non mercantile all’economia monetaria, dall’agricoltura tradizionale di sussistenza, da cui hanno sempre tratto da vivere, alle monocolture per il mercato mondiale, inducendoli a fertilizzare chimicamente i terreni per aumentare le rese fino a renderli sterili. E mentre i paesi ricchi impoveriscono scientificamente quelli poveri, anche col pretesto di aiutarli, fanno balenare davanti agli occhi dei loro abitanti la possibilità di accedere alle loro meraviglie tecnologiche.

I migranti che se ne vanno dai loro paesi nei quali non riescono più a vivere contribuiscono col loro lavoro a far crescere il prodotto interno lordo dei paesi d’immigrazione e quindi ad accentuare il loro fabbisogno di risorse. Per procurarsele, i paesi industrializzati continueranno a rapinare i paesi non industrializzati, utilizzando tutte le forme di violenza e sopraffazione con cui sono soliti sottometterli, faranno accrescere ulteriormente la loro povertà e indurranno quindi molti altri dei loro abitanti a emigrare per vivere.

Le migrazioni tendono ad autornalimentarsi. Se le organizzazioni umanitarie in cui si impegna la componente più generosa della nostra società non si preoccupano di intervenire sulle cause, contribuiscono a prolungare nel tempo l’ingiustizia e l’iniquità.

«Alla ricerca di un futuro migliore»

Premesso che alleviare una sofferenza è un dovere morale e, pertanto, deve essere svolto tempestivamente senza se e senza ma, capirne le cause è un dovere altrettanto impellente.

La comprensione delle cause che attivano i flussi migratori dall’Africa ai paesi dell’Europa occidentale è offuscata dal sistema di valori che accomuna, al di là delle differenze, tutte le correnti di pensiero presenti nei paesi in cui l’economia è stata finalizzata alla crescita della produzione di merci. Per descrivere gli occupanti dei barconi che arrivano sulle coste dell’Italia meridionale, o affondano tragicamente nel canale di Sicilia, i mass media ripetono un luogo comune di cui non immaginano le implicazioni culturali: «Disperati che si sottopongono a sofferenze indicibili e mettono a rischio la loro stessa vita alla ricerca di un futuro migliore». Il futuro migliore sarebbe l’inserimento nelle società in cui vivono i popoli che si autodefiniscono sviluppati per il fatto di avere un alto valore del prodotto interno lordo procapite. Convinti di appartenere alla società più evoluta che sia mai apparsa nella storia, inevitabilmente questi popoli pensano che il massimo desiderio dei popoli che essi definiscono sottosviluppati, sia di condividere i loro stili di vita. Di diventare sviluppati anche loro. Non riescono nemmeno a immaginare che possa esistere un’idea di benessere diversa dalla crescita del prodotto interno lordo procapite, magari più vera e più capace di futuro. Non si rendono conto che nei confronti dei migranti dall’Africa in Europa, come nei confronti dei contadini, degli artigiani e delle comunità nei paesi in via di sviluppo, si sta ripetendo la stessa storia iniziata nel diciottesimo secolo in Inghilterra.

Decrescita e stili di vita responsabili

L’unica possibilità per attenuare le sofferenze dei migranti dai paesi africani, non è spianare, seppure con le migliori intenzioni, la strada all’esigenza delle economie della crescita di accrescere con le migrazioni il numero dei produttori e consumatori di merci allo scopo di continuare a crescere, ma impegnarsi affinché i paesi industrializzati abbandonino la finalizzazione dell’economia alla crescita, riscoprendo l’importanza dell’autoproduzione per l’autoconsumo, dell’agricoltura tradizionale, dell’artigianato, dei rapporti comunitari, dell’economia del dono, della sobrietà, del rispetto della terra, della simbiosi che lega l’umanità alla fotosintesi clorofilliana attraverso il respiro, della bellezza, della contemplazione, della spiritualità. Questo recupero di valori e di modelli di comportamento del passato è una condizione necessaria per ridurre l’impronta ecologica della specie umana e per consentire una più equa ripartizione delle risorse tra i popoli, ma non sarebbe sufficiente se non venisse accompagnato da un grande slancio progettuale di innovazioni tecnologiche finalizzate all’aumento dell’efficienza nell’uso delle risorse della terra. È necessario rendere compatibile il consumo delle risorse con la loro capacità di riprodursi e di metabolizzare le emissioni che, inevitabilmente, si producono nei processi che le trasformano in beni per le esigenze vitali della specie umana.

Solo la decrescita della produzione di merci nei paesi industrializzati, attuata mediante l’adozione di stili di vita più responsabili e di tecnologie finalizzate eticamente, può ridurre la necessità di risorse, evitare che esse vengano sottratte ai popoli poveri attraverso forme sofisticate di violenza di massa, evitare a molti la costrizione dell’emigrazione rischiando la vita per il fatto di non riuscire più a trarre da vivere, come i loro avi, dalla terra in cui sono nati. Solo una decrescita con queste caratteristiche può consentire di realizzare condizioni di maggiore giustizia non solo tra i popoli, ma anche con le generazioni future.

Laudato si’

Nell’enciclica Laudato si’, con cui papa Francesco già dal titolo ha voluto sottolineare la ragione per cui ha scelto il suo nome di pontefice, la decrescita dei consumi di risorse da parte dei popoli ricchi viene indicata, seppur con alcune cautele che sembrano motivate dalla preoccupazione di attenuarne l’impatto sul paradigma culturale fondante delle società industriali, come la condizione imprescindibile per realizzare una maggiore equità tra i popoli. «[…] e? arrivata l’ora – scrive il pontefice – di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perche? si possa crescere in modo sano in altre parti». Anche se questa interpretazione non evidenzia con chiarezza la connotazione della mercificazione insita nella crescita economica, indicando soltanto la diminuzione dei consumi di risorse da parte dei popoli che hanno più del necessario per consentire l’aumento della disponibilità delle risorse per i bisogni vitali dei popoli poveri, per la prima volta la decrescita riceve un riconoscimento della massima autorevolezza morale e viene indicata come la condizione indispensabile per realizzare in questa fase della storia la pulsione all’eguaglianza insita nell’animo umano, che costituisce l’elemento caratterizzante dell’insegnamento di Cristo. Dopo due secoli e mezzo di esaltazione acritica della crescita da parte di tutte le correnti di pensiero, di destra, di sinistra e della stessa Chiesa cattolica, a fronte dell’irrisione riservata sino a ora alla decrescita da politici, imprenditori e intellettuali che pure si vantano della loro formazione cattolica (e che, per quanta buona volontà ci mettano, non riescono dal 2008 a far ripartire la crescita economica), questa affermazione di papa Francesco segna l’inizio di una svolta storica.

Maurizio Pallante

 




Famiglia al centro

Mentre scrivo, il Sinodo ordinario su «La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo» è appena cominciato. Al centro è la famiglia, il pilastro di ogni società, che nel nostro mondo europeo e nordamericano è messa in discussione dal modello di vita individual-consumista e che nel resto del mondo subisce invece lo stress della violenza delle guerre, della povertà, delle malattie, delle migrazioni forzate.

In questi ultimi anni la famiglia italiana ha subito un grande cambiamento: drastica riduzione del numero dei matrimoni (sia religiosi che civili), crescita delle unioni di fatto, nozze ritardate, pochi figli o nessuno e spesso in tarda età, aumento dei single per scelta o per necessità, separazioni, divorzio «breve», educazione gender, mateità surrogata… Tutto questo accompagnato da una cacofonia di attacchi alla famiglia tradizionale vista come ostacolo alla libertà, alla modeità, ai diritti individuali e alla nuova realtà di una società in continua evoluzione. Chi cerca di resistere a questa ondata è bollato come tradizionalista, antidiluviano, fondamentalista e troglodita, se non omofobo e via dicendo, con una serie colorita di epiteti vilificanti.

La crisi della famiglia è sotto gli occhi di tutti, e sembra aver creato uno strano stato di assuefazione al cambiamento, e, anzi, anche una sorta di malsana aspettativa del nuovo che ormai non sorprende più. Un nuovo visto da alcuni come dovuta evoluzione di un processo di liberazione e modeizzazione, da altri come nefasta conseguenza di un’aberrazione istituzionalizzata. Vedi l’ultimissima notizia di questi primi giorni di ottobre della cosiddetta miss transegender che vuole essere padre e madre del proprio figlio.

Quando leggerete queste righe, il Sinodo sarà già concluso e sono sicuro che quelli che si aspettavano grandi novità saranno delusi, come saranno delusi i conservatori che ritengono il diritto canonico più importante anche del Vangelo. Papa Francesco sta guidando la Chiesa a vivere la fedeltà a Cristo nell’oggi senza arroccarsi sulla «legge», difesa e sostenuta da un numero crescente di regole e commi per far fronte a tutte le possibili novità. Richiamando alla fedeltà al Vangelo, Francesco obbliga la Chiesa a vivere e sperimentare la misericordia di Dio e a rimettere la persona al centro: la persona, uomo e donna, nella sua concretezza, bellezza e forza, ma anche nella sua grande fragilità. Evita così le trappole della «casuistica». Come ha fatto Gesù con i «farisei» che gli tendevano trappole con questioni capziose come quella della moglie di sette mariti, della liceità del divorzio, dei soldi dati al tempio, della definizione del «mio prossimo», e così via. Gesù non ha aggiunto nuove regole modeizzanti. Lui è andato al nocciolo, al progetto originale di Dio: un progetto di amore nel quale l’unità e la complementarità dell’uomo maschio e femmina è fondante, perché immagine della natura di Dio stesso. Il suo discorso è stato duro, tanto da spiazzatre anche i discepoli, «meglio non sposarsi» allora (Mt 19,1-10). Ma non per questo ha ammorbidito la sua proposta: «L’uomo non divida ciò che Dio ha unito».

Alla logica del «piacere» che mette al centro l’«io», Gesù oppone la forza dell’«amore» che pone al centro il «tu» e il «noi». Alla felicità come «piacere» immediato e personale, in cui l’altro è valutato per quanto mi dà o mi soddisfa, oppone la felicità come relazione nell’armonia, nella pace e nell’unità, nella quale la felicità dell’altro diventa spazio, supporto e realizzazione della mia felicità. Una proposta non facile, ma l’unica che secondo Gesù permette davvero all’uomo di raggiungere la pienezza della sua dignità.

Perchè è allora essenziale per la Chiesa difendere la famiglia? Perché è l’immagine di Dio, è il luogo più ordinario della sua presenza. Senza la famiglia non si può capire la Trinità che è comunità di amore, non si capisce la gratuità dell’amore e la bellezza e complementarità della diversità. Senza la famiglia, generare la vita diventa un’azione industriale, il bambino si trasforma in un prodotto. Senza famiglia non si capisce la Chiesa, famiglia di Dio, comunità di fratelli e sorelle, figli e figlie dello stesso Padre, animati dallo stesso Spirito, uniti come un corpo allo stesso Cristo. Senza famiglia non si capisce cosa siano il dono e l’accoglienza, e si lascia libero campo solo a relazioni di utilità, di interesse, di dominio, di possesso. Senza famiglia non si capisce la «misericordia» che nasce dall’amore viscerale tra madre e figlio. Senza famiglia non si capisce Dio.


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Gigi Anataloni




I Perdenti 8. ANTÔNIO Conselheiro di Canudos

Nella
diocesi di Paulo Afonso, nello stato della Bahia in Brasile, sorge la cittadina
di Canudos; il nome di una località che agli italiani dice ben poco, ma che in
Brasile ha invece un significato molto profondo in quanto città di Antonio
Conselheiro (1830-1897), il carismatico fondatore di una originale comunità di
vita impeiata sulla condivisione dei beni, sull’uguaglianza dei membri e
sulla fratellanza reciproca che andava oltre le condizioni sociali ed
economiche e il colore della pelle di ciascuno.

La
comunità si organizzò stabilmente nel 1893 fondando il villaggio di Canudos in
quella che era una fazenda vicino alla cittadina di Monte Santo. Fu il
tentativo di costruire un’alternativa possibile a una concezione di stato che,
sostenuto dai grandi latifondisti, si basava sulla supina sottomissione dei
neri, degli indios, dei meticci e dei braccianti senza terra. La comunità di
Canudos, fin dal suo inizio, fu considerata dalle autorità politiche e militari
dell’appena nata Repubblica brasiliana come un «bubbone» da estirpare a
qualunque costo per evitare che le idee egualitarie che essa propugnava si
propagassero a macchia d’olio.

Canudos
venne abbattuta a cannonate dall’esercito nell’ottobre 1896. I suoi abitanti
furono tutti sterminati, comprese le donne e i bambini. Una comunità profetica
che ricercava l’ideale evangelico di vita non «poteva» sussistere nel
territorio dei latifondisti. La sua radicalità era uno scandalo troppo
evidente, perciò «doveva» essere distrutta. Da quell’eccidio nacque la leggenda
di Canudos, il cui spirito aleggia ancora oggi nel vento che accarezza i mandacarù
(i cactus selvatici) nella calura quotidiana che caratterizza il sertão
del Nordeste brasiliano. Con il suo carismatico fondatore abbiamo voluto
rievocare non solo le giornate di allora ma anche gli ideali di libertà che
attraversano ogni epoca.

Antonio Conselheiro come ti venne l’idea
di fondare Canudos?

Ai miei tempi il sertão brasiliano, zona arida
caratterizzata da periodi di forte siccità dove dovevi spaccarti la schiena per
ricavare dalla terra quanto necessario per vivere, era un territorio in cui
vagavano molti ex schiavi africani liberati, indigeni (indios) che avevano
perso completamente la loro identità e la loro terra a causa
dell’incontro-scontro con i latifondisti e coloni che avevano portato anche
nuove malattie e un alcolismo devastante, e fuoriusciti bianchi in fuga dalla
legge o dai debiti con padroni esosi e usurai. Questi disperati vivevano in
condizioni di grande miseria senza che nessuno si curasse di loro. Ero convinto
che i principi di giustizia e frateità del Vangelo e l’esempio della comunità
degli Atti degli Apostoli potessero essere le basi per costruire con loro un
mondo dove tutti potessero avere uguale dignità.

 

 

Se non vado errato, in quei tempi nel sertão
brasiliano si muovevano molte figure carismatiche.

È vero, predicatori del Vangelo ce n’erano in abbondanza, ma il
personaggio che più di ogni altro ha incarnato l’anima nordestina, è stato
Padre Cicero (Romão Batista, 1844-1934, zelantissimo sacerdote considerato
santo dai nordestini, anche se morto ufficialmente scomunicato. Oggi il vescovo
della diocesi di Crato nel Cearà ne ha avviato il processo di riabilitazione, ndr),
che percorse il sertão in lungo e in largo, a piedi o in groppa a umili
somarelli per migliaia di chilometri sotto il sole cocente per predicare,
confessare e celebrare l’Eucarestia in posti dove nessun sacerdote aveva messo
mai piede. Per noi, abitanti del sertão, è stato un sacerdote santo e
capace di miracoli e accorrevamo da ogni parte per ascoltarlo, confessarci e
mettere a posto la coscienza.

E tu come ti collocasti in questa realtà?

Considerando la violenza imperante ai miei tempi in quella zona,
ebbi l’idea di creare una comunità in cui si vivesse radicalmente l’ideale
evangelico, cominciai così ad accogliere gli ex schiavi (circa l’80% della
comunità) e gli indigeni sbandati.

 

Ma c’erano anche bianchi nella tua comunità?

Certamente. C’erano marinai che si erano ammutinati sulle loro
navi, in fuga dalla dura disciplina che regnava a bordo e che, una volta a
terra, avevano trovato rifugio nel sertão. Così c’era anche chi, avendo
problemi con la legge, non poteva più rimanere nelle città e si rifugiava
nell’interno disabitato, nella caatinga autentico cuore del sertão
(caatinga, lett. foresta grigia, è l’unico bioma esclusivamente
brasiliano e si trova solo negli stati del Nordeste, ndr). Erano tutti
accomunati da uno stato di povertà e di esclusione sociale. Non per questo
erano tutti pacifici e inermi. Tra loro c’era anche gente dura, abituata a
combattere per sopravvivere.

Dal 1877 il Nordeste fu colpito da una
delle sue tipiche devastanti siccità aggravando gli effetti di una crisi
economica e sociale già molto grave.

Si, migliaia di persone (banditi, flagellanti, miserabili senza
terra) vagavano affamate senza alcun aiuto dal governo, contando solo
sull’aiuto divino. Ma la miseria è una pessima consigliera, così molti,
ritenendo che «rubare per ammazzare la fame» non fosse peccato, assaltavano le
grandi fazendas e i piccoli proprietari.

In più, a partire dal 1888, quando in Brasile fu ufficialmente
abolita la schiavitù, molti ex schiavi, tutti di origine africana, si
ritrovarono allo sbando senza nessuna risorsa e, quel che è peggio, senza una
terra su cui vivere.

Vedendo questa gente vagabondare senza meta nel sertão,
cominciai a radunarla in un nuovo piccolo villaggio chiamato appunto Canudos,
in un territorio disabitato, dove ognuno riceveva un pezzo di terra da
coltivare e metteva poi a disposizione dell’intera collettività i prodotti
ricavati dal suo lavoro. Ciò permetteva loro di guardare con speranza al
futuro.

 

Canudos divenne quindi un punto di
riferimento importante per molti disperati.

Alla fine del 1800, Canudos poteva contare su un totale di circa
30mila abitanti. Il movimento popolare che avevamo avviato ispirandoci al
Vangelo, crebbe rigogliosamente. Eravamo ben organizzati, quasi una «comune»
religiosa. Canudos era diventata la seconda città della Bahia, dopo Salvador.
Le autorità politiche e anche religiose, però, cominciarono ben presto a
preoccuparsi di una presenza così scomoda e autonoma che di fatto non
riconosceva il governo centrale, non pagava le tasse, si autogestiva
collettivamente e aveva leggi proprie.

Erano gli anni in cui il Brasile si era
appena staccato definitivamente dalla monarchia portoghese per diventare una
Repubblica a tutti gli effetti.

Il Brasile era diventato indipendente dal Portogallo nel 1822 e si
era dato una monarchia costituzionale, ma l’imperatore Pietro II era della
stessa famiglia del monarca del Portogallo. Negli anni era cresciuto un forte
movimento repubblicano che aveva contagiato anche l’esercito, il quale nel 1889
depose l’imperatore con un golpe militare. C’era quindi, in quegli anni, un
clima politico sociale caratterizzato da una cronica instabilità istituzionale,
la nuova Repubblica cercava di rafforzarsi e Canudos era fuori dal sistema,
anzi a qualcuno sembrava una roccaforte di restaurazione monarchica.

Tu, Antonio, eri favorevole alla nuova
Repubblica o eri un nostalgico dell’impero?

Fuori dal mondo come eravamo là nel sertão, la questione
non ci toccava molto. Non avevo certo molte simpatie per i repubblicani i quali
avevano separato – per me in un modo anticristiano – Chiesa e Stato, ma non ho
mai pensato di fomentare una restaurazione. Purtroppo è anche vero che la
Repubblica non fece molto per farsi amare dai poveri, anche se erano stati i
repubblicani a far abolire la schiavitù. Ma gli ex schiavi erano stati
abbandonati a se stessi e uno dei primi atti della Repubblica era stato un
pesante aumento delle tasse sia sulla terra che su tutti i prodotti. E, come al
solito, chi ci rimetteva di più erano i più poveri, non i ricchi.

 

Il tuo progetto poteva sembrare a molti la
realizzazione di un sogno, ma le autorità brasiliane non erano certamente
disposte a lasciare una zona franca nel bel mezzo del
sertão.

Purtroppo era cosi! Accusandoci di essere ribelli e monarchici,
tra il 1896 e il 1897 mandarono ben quattro spedizioni militari contro di noi.
La resistenza di Canudos fu straordinaria. C’è da dire che, oltre al coraggio
della comunità, potevamo contare su uomini valorosi dall’invidiabile acume
tattico e una profonda conoscenza della natura aspra e impervia del sertão
nel quale i soldati, provenienti dalle città della costa, erano impreparati a
sopravvivere. Respingemmo facilmente le prime due spedizioni e anche la terza,
ma con perdite pesantissime.

Ma il vostro desiderio di vivere in pace e
armonia, liberi da ogni legge eccetto quella di Dio, non poteva durare…

Sì, e in più l’esercito repubblicano si era sentito umiliato da
straccioni come noi. Così l’ultima spedizione fu organizzata con molta cura
dallo stesso ministro della guerra, il maresciallo Carlos Machado Bittencourt.
Furono messi in campo circa 4.000 soldati con le armi più modee del tempo.
L’attacco cominciò a settembre. La mia gente era provata da fame e
denutrizione, male armata, senza scorta di munizioni e demoralizzata dalla mia
morte avvenuta il 22 settembre 1897 a seguito di molti giorni di penitenza,
preghiera e digiuno per la pace. Dopo un terrificante bombardamento durato
diversi giorni che incendiò le case e rase al suolo Canudos, la maggioranza dei
superstiti si arrese il 5 ottobre, ma i soldati sterminarono ugualmente uomini,
donne e bambini tra terribili violenze. Di circa 30mila persone della comunità,
ufficialmente ci furono solo 150 superstiti. Di essi le donne giovani furono
vendute nei bordelli di Bahia. Il mio corpo fu riesumato e la mia testa
tagliata e fatta esaminare dagli scienziati per provare che ero stato un matto
fanatico. Messa poi nel Museo della Scuola di Medicina di Salvador, un
incendio, più pietoso degli uomini, la consumò nel 1905.

 

L’unica relazione sulla «guerra di Canudos» ci è pervenuta tramite
gli scritti di Euclides da Cunha, corrispondente del giornale O Estado de São
Paulo
, che era stato inviato nel sertão brasiliano al seguito dell’esercito
(embedded, si direbbe oggi). Con il passare del tempo i luoghi della
battaglia di Canudos caddero nel dimenticatornio dell’imbarazzo collettivo e la caatinga
ebbe il sopravvento.

Ma la memoria storica dell’esperienza di Antonio Conselheiro e
della sua comunità non è mai scomparsa e si è tramandata nei racconti della
gente semplice e umile del sertão fino a quando è stata recuperata tra
le pieghe della storia e le è stata ridata la sua importanza, grazie anche a
libri e film (purtroppo non tradotti in italiano, ndr). Si può dire che
lo spirito di Canudos scorre ancora oggi come un fiume carsico sotto la crosta
dura e solida dell’arida terra del sertão, dove i nordestini imparano
fin dalla nascita che devono misurarsi con le asprezze della natura e con i
cataclismi sociali che i potenti di tuo ciclicamente rovesciano loro addosso.
Questa gente speciale ha bisogno di esempi di libertà e figure eccezionali per
continuare a sperare, Canudos e Antonio Conselheiro proprio per l’ansia di
libertà che incarnano, indicano ancora oggi la strada da percorrere.

Don Mario Bandera,
 Missio Novara

Mario Bandera




Amico

 

Hai
lottato con tutte le tue forze e risorse. Non eri solo, ma non avevi con te
niente che ti desse sicurezza, nessun rifugio, nessuna ricetta magica. Eri
esposto alla contingenza vertiginosa della vita, all’assenza di garanzia. Hai
scacciato demoni di ogni tipo: strambi, spaventosi, insensati. Hai unto di olio
molti infermi, e li guarivi con lo stupore di avere ricevuto davvero
potere sugli spiriti immondi. Hai incontrato molti che desideravano rinascere,
e molti altri che invece rifiutavano (cfr. Mc 6, 7-13.30-34).

Hai fatto molto, e vorresti fare
ancora. Ma vieni ora. Vieni con me. In disparte, in un luogo deserto. Riposati
un po’. Qui non hai più nemmeno il tempo per nutrirti, per introdurre in te la
luce necessaria a trovare la guarigione che vi ho posto.

Vieni in un luogo solitario. Sali
su questa piccola barca, e attraversiamo le acque profonde del tuo mare
solcandone con calma la superficie. Non temere: questo pezzo di legno, per
quanto precario, ti proteggerà dall’abisso, perché Io sono con te. Tu starai
con me e potrai osservare su quali creature splendide e lucenti sei sospeso, ma
anche su quali mostri spaventosi e su quale mistero irriducibile ti muovi.

Lo so che tu desideri arrivare
dall’altra parte e trovare riposo sull’altra sponda, distante da queste acque.
Temi di venie inghiottito, di perderti in esse. Ma non puoi riposare di là:
appena sbarcato troverai molte cose nuove da fare. Molte pecore senza pastore.
Troverai innumerevoli incrinature nell’architettura del mondo che ti
chiederanno di essere accolte, un po’ raddrizzate forse, giusto il minimo per
evitare il crollo dell’edificio, ma tant’è: sarai di nuovo preso dalla lotta.

Lo so che vorresti attraversare
il mare in fretta, ma il tuo deserto e il tuo riposo non sono là.

È qua, su questa barchetta al
pelo dell’acqua, il deserto.

È in quel «vieni», in quello «stai
con me», il tuo riposo.

Quando sbarcheremo, allora sarai
pronto per «dare loro da mangiare».

amico.

Luca Lorusso

Luca Lorusso




TTIP, sogno  o incubo?

Qualcuno ne parla
come di una «Nato economica», pensata per rafforzare le relazioni commerciali
nel blocco Usa-Ue, che da solo conta 850 milioni di persone e rappresenta il
40% del Pil mondiale. Altri lo dipingono come il peggiore dei mali:
consegnerebbe le nostre economie alle multinazionali e cancellerebbe anni di
lotte per i diritti di consumatori e lavoratori. A che punto siamo e che cosa
sappiamo sul Ttip, il Partenariato transatlantico per il commercio e gli
investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership).

«Con il Ttip vogliamo aiutare i cittadini e le imprese, grandi e piccole,
attraverso le seguenti azioni: apertura degli Usa alle imprese dell’Ue;
riduzione degli oneri amministrativi per le imprese esportatrici; definizione
di norme per rendere più agevole ed equo esportare, importare e investire». Così
la Commissione Europea, nella guida Il Ttip visto da vicino, riassume
gli obiettivi dell’accordo che dal 2013 è oggetto delle negoziazioni fra la
stessa Commissione e il governo statunitense. Si tratterebbe, in sostanza, non
solo di eliminare i dazi doganali, che peraltro sono già molto ridotti (circa
al 3%) per la maggior parte dei beni, ma soprattutto di ridurre le cosiddette
barriere non tariffarie, cioè tutto quell’insieme di norme, standard e
regolamenti che di fatto impediscono l’ingresso delle merci in un mercato. Ma
la riduzione di tali barriere avrebbe conseguenze devastanti, controbattono i
detrattori del Ttip. Un esempio? È grazie agli standard Ue, più elevati
rispetto a quelli Usa, che la carne dei bovini americani, allevati con ormoni,
non ha potuto, fino a ora, arrivare sulle tavole europee. Tale uso, infatti, è
consentito negli Usa e vietato in Europa. Lo stesso vale poi per gli organismi
geneticamente modificati e per i prodotti alimentari trattati con pesticidi
banditi nel vecchio continente ma non negli Stati Uniti (se ne contano ben 82).

Altro tema caldo del trattato è il meccanismo di
arbitrato internazionale per risolvere eventuali controversie in materia di
investimenti, il cosiddetto Isds, Investor-State Dispute Settlement, che
prevede il ricorso a un tribunale indipendente nel quale gli arbitri – si legge
sul sito del Parlamento europeo – non sono giudici a tempo pieno, ma avvocati
specializzati in diritto commerciale. Per capire come funziona in concreto
l’Isds, basti pensare ai due casi «Vattenfall contro Germania». Nel primo caso,
la Vattenfall, azienda svedese del settore energetico e costruttrice della
centrale a carbone di Amburgo, fece ricorso contro i parametri che la città
tedesca nel 2009 voleva imporre per legge allo scopo di migliorare la qualità
delle acque che la centrale a carbone della compagnia svedese riversava nel
fiume Elba. Nel secondo caso, il ricorso della Vattenfall fu invece contro
l’abbandono del nucleare deciso dalla cancelliera tedesca Angela Merkel nel
2011 dopo il disastro di Fukushima: l’azienda svedese gestiva infatti due
centrali atomiche nel Nord del paese. In entrambi i casi il colosso svedese
sostenne che le decisioni tedesche generavano aumenti dei costi o perdite, in
violazione del Trattato energetico europeo, che protegge gli
investimenti nel settore energetico, e chiese compensazioni per 1,4 miliardi di
Euro nel primo caso e per 3,7 nel secondo.

 

Tutto in gran segreto

Prima ancora che il Ttip nei suoi contenuti, comunque, a
scatenare la polemica è stata la segretezza delle trattative, affidate a un
gruppo di negoziatori guidati, per l’Ue, dallo spagnolo Ignacio Garcia Bercero,
capo della Direzione Generale del Commercio e, per gli Stati Uniti, da Dan
Mullaney, rappresentante commerciale aggiunto degli Usa per l’Europa e il Medio
Oriente. Dal luglio 2013 al luglio 2015 si sono svolti dieci round di
negoziati, ma i dettagli dell’accordo sono rimasti per lo più segreti. In più,
quando la Commissione ha deciso, lo scorso gennaio, di rendere pubblica una
parte dei documenti, lo ha fatto in modo ambiguo: lo scorso agosto, infatti, il
giornale britannico The Independent, rivelava che ai parlamentari
europei è possibile prendere visione dei documenti riservati solo in
un’apposita sala di lettura sorvegliata, alla quale non si può accedere con
dispositivi elettronici come cellulari e tablet. La vicenda ha anche assunto
contorni da spy story quando Wikileaks ha messo una sorta di taglia
sul Ttip, lanciando una raccolta fondi per centomila euro da consegnare come
premio a chi sia in grado di fornire informazioni e documenti segreti
riguardanti i negoziati.

Il dato certo, per il momento, è che c’è un vero e
proprio abisso fra gli scenari inquietanti di «macdonaldizzazione» dell’Europa
tratteggiati dai movimenti contrari, come la campagna Stop-Ttip, e le
rassicuranti e un po’ asettiche infografiche della Commissione europea che
cercano di smontare i «falsi miti sul trattato».

 

I numeri del Ttip

Secondo uno studio indipendente citato dalla
Commissione, il Ttip dovrebbe portare un incremento annuo di 120 miliardi di
euro all’economia europea e di 95 miliardi a quella statunitense entro il 2027,
facendo espandere di mezzo punto percentuale il Pil del vecchio continente e
dello 0,4% quello a stelle e strisce. Per le famiglie europee tutto questo si
tradurrebbe in un guadagno di cinquecento euro all’anno.

Le esportazioni dall’Europa agli Usa aumenterebbero di
quasi un terzo per un totale di 187 miliardi di euro. I benefici, continua lo
studio, interesserebbero quasi tutti i beni e servizi, ma toccherebbero in
particolare i settori del metallo, dei cibi lavorati, dei prodotti chimici, e
dei mezzi e attrezzature di trasporto. A vivere un vero e proprio boom sarebbe
il settore automobilistico: l’export di veicoli europei crescerebbe infatti del
149%. Si creerebbero quindi decine di migliaia di nuovi posti di lavoro su
entrambe le sponde dell’Atlantico, e le ricadute sul commercio planetario
indurrebbero un incremento del Pil mondiale di ulteriori cento miliardi di euro.

Un’occasione da non perdere, insistono i promotori
dell’accordo, forti dei numeri riportati nello studio.

 

Che cosa dicono i critici

Lo studio citato dalla Commissione è tutto meno che
indipendente, oppongono i detrattori: il suo autore è, infatti, il britannico
Cepr, Centre for Economic Policy Research, che dedica una pagina del suo
sito web ai ringraziamenti nei confronti dei suoi finanziatori, fra i quali
figurano tutte le banche centrali europee e i colossi bancari mondiali, da
Citibank e JP Morgan alle italiane Intesa San Paolo e Unicredit.

E questo è ancora il meno: la Commissione, infatti,
sostiene che a beneficiare del Ttip saranno in primis i cittadini
europei, ma allora – si chiede il centro di ricerca canadese Global Research
– perché nei 597 incontri a porte chiuse con le parti interessate, la
Commissione si è confrontata nell’88% dei casi con i lobbisti del mondo del
business, e solo nel 9% dei casi con gruppi che si occupano di temi di pubblico
interesse come l’ambiente o i diritti dei consumatori e dei lavoratori? E, se
il Ttip ha come obiettivo di aiutare «le imprese, grandi e piccole», perché la Direzione
generale Ue del Commercio
, fra il 2012 e il 2014 – cioè nelle fasi preparatorie
e nei primi cicli di negoziati – ha avuto la stragrande maggioranza degli
incontri con sei raggruppamenti di lobby fra cui Efpia (European Federation
of Pharmaceutical Industries and Associations
– Federazione europea di
Industrie e associazioni farmaceutiche), che rappresenta, fra gli altri,
GlaxoSmithKline, Pfizer, Novartis, Sanofi e Roche, e FoodDrinkEurope, il più
grande gruppo di pressione dell’industria alimentare europea, che dà voce agli
interessi di Nestlé, Coca Cola e Unilever? Dal canto loro, le associazioni di
categoria come l’Unione europea dell’artigianato e delle piccole e medie
imprese
(Uapme) – di cui fanno parte, ad esempio, Confartigianato e Cna –
vedono di buon occhio il trattato ma insistono sulla necessità di salvaguardare
gli standard di qualità europei e di essere maggiormente coinvolte nel processo
negoziale.

I segnali preoccupanti riguardanti il grande peso dei
poteri forti, in effetti, non mancano, se è vero – come riporta il quotidiano
inglese
The Guardian – che all’inizio di quest’anno alcuni
alti funzionari Ue avrebbero insabbiato uno studio che avrebbe contribuito a
identificare e mettere al bando trentuno pesticidi contenenti sostanze che
alterano la funzionalità del sistema endocrino. L’insabbiamento sarebbe avvenuto
in seguito a pressioni esercitate da funzionari del commercio statunitensi, e
anche da colossi della chimica come Bayer e Basf. Questo nonostante diversi
studi scientifici associno le sostanze contenute in quei pesticidi a un aumento
delle mutazioni genitali, dell’infertilità maschile, delle anomalie del feto e
della riduzione del quoziente intellettivo, e stimino in 150 miliardi di euro i
costi sanitari connessi ai danni provocati.

 

Le raccomandazioni del Parlamento europeo

In questa ridda di voci, fughe di notizie, smentite e
precisazioni, un punto fermo che chiarisce almeno un po’ che cosa c’è sui
tavoli negoziali, è la risoluzione adottata lo scorso 8 luglio dal Parlamento
europeo
. Essa contiene una serie di raccomandazioni, tra cui una
riguardante il meccanismo dell’arbitrato internazionale che propone un sistema
alternativo nel quale «i possibili casi siano trattati in modo trasparente da
giudici togati, nominati pubblicamente e indipendenti durante udienze pubbliche».

Vi è poi la richiesta dell’europarlamento ai negoziatori
di escludere dal trattato ambiti nei quali le legislazioni Ue e Usa sono molto
diverse: «I servizi sanitari pubblici, gli Ogm, l’impiego di ormoni nel settore
bovino, il regolamento Reach [relativo alle sostanze chimiche, ndr]
e la sua attuazione, e la clonazione degli animali a scopo di allevamento».
Altre raccomandazioni riguardano la protezione dei dati personali dei cittadini
europei, la tutela delle indicazioni geografiche, la garanzia della
tracciabilità ed etichettatura, il rispetto della normativa sul lavoro. I
critici del Ttip hanno accolto con disappunto anche questa risoluzione perché
colpevole, a loro dire, di essere troppo vaga e di costituire di fatto un
avallo al trattato.

«Se il Ttip sarà un accordo misto (cioè con competenze
condivise fra Unione europea e Stati membri, ndr)», ha dichiarato il
presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, «e ne sono certo, i Parlamenti
nazionali e quello europeo dovranno sottoporlo ad attenta verifica, secondo il
proprio ordinamento». Il commissario europeo per il commercio, Cecilia Malmström,
ha affermato che l’impegno è quello di concludere entro il 2015: l’anno
prossimo infatti terminerà il secondo mandato di Barack Obama e gli Stati Uniti
avranno una nuova amministrazione che potrebbe ridefinire le priorità
statunitensi. In più

Washington sta negoziando anche un secondo trattato, il
Tpp, con undici Stati del Pacifico.

 

I risvolti per i paesi in via di sviluppo

Gli analisti concordano nel dire che attualmente è
ancora presto per immaginare quali potranno essere le ripercussioni
dell’eventuale accordo Usa-Ue per i paesi in via di sviluppo. Tuttavia, alcune
considerazioni preliminari sono emerse, anche di segno positivo: ad esempio
quelle che sottolineano come l’esistenza di un blocco nordatlantico con regole
unificate permetterebbe ai produttori dei paesi terzi di adeguare i loro
prodotti a un solo standard per l’esportazione verso Europa e Stati Uniti, e
non più a due, con un possibile calo dei costi di produzione.

Ma c’è anche chi è più cauto e invita a fare studi più
approfonditi: lo scorso febbraio, la commissione sviluppo del Parlamento
europeo chiedeva ai negoziatori di Bruxelles di considerare il rischio di una «possibile
deviazione degli scambi e degli investimenti per alcuni paesi in via di
sviluppo». Il direttore di Oxfam Germania, Marion Lieser, chiarisce il punto: «Se
l’Unione europea e gli Stati Uniti aprono ulteriormente i loro mercati, le
importazioni da paesi terzi, fra cui quelli in via di sviluppo, potrebbero diminuire.
Prendiamo il caso della Florida, stato della costa orientale statunitense
produttore di frutta esotica: se aumentasse il flusso di questi prodotti dalla
Florida verso l’Europa è plausibile che simili frutti provenienti dai paesi in
via di sviluppo perdano parte della loro quota di mercato». Solo a negoziati
conclusi sarà possibile azzardare previsioni più precise.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti