Storia del Giubileo 3. Giubileo, Misericordia e Volto


Come abbiamo anticipato nella puntata precedente (cf MC 11/2015, p. 45), approfondiamo le parole chiave della bolla di indizione del giubileo di Papa Francesco che troviamo già nel titolo: «Giubileo, Misericordia e Volto».

Giubileo

Il primo termine che esaminiamo è «Giubileo», parola di origine ebraica con una storia che potrebbe sorprendere qualche lettore. In ebraico «jobèl» (plurale jobelìm) significa «corno» (di montone), cioè dell’ariete, il maschio adulto della pecora (Gs 6,5), e unito alla parola «shenàt» (anno – shenàt hajobèl) significa «anno giubilare» (Lv 25,13). La domanda inevitabile è: che c’entra il Giubileo con il montone e le sue coa? Direttamente nulla, ma un nesso esiste, e per capirlo bisogna partire da lontano, da molto lontano.

Il termine «jobèl» ricorre nella Bibbia 21 volte, la quasi totalità delle quali nel libro del Levitico che è un libro formato durante e dopo l’esilio di Babilonia, quindi nel sec. VI-V a.C., per cui possiamo affermare con certezza che si tratta di testi «tardivi». Nel libro di Giosuè, che è un poco anteriore al libro del Levitico, si racconta che sette sacerdoti dovevano suonare sette «shopheròt hajobelìm», trombe di corno di ariete (Gs 6,4), prima di compiere la liturgia delle sette processioni attorno alla città di Gerico. Il nesso tra il suono del corno di ariete, «jobèl», e la celebrazione del Giubileo come ritorno alla libertà, è sviluppato dalla tradizione giudaica riflettendo sull’episodio del sacrificio di Isacco in Gen 22,1-19, racconto che può essere datato intorno al sec. VII a.C., quindi risalente allo stesso periodo del Deuteronomio e del libro di Giosuè.

Chi legge superficialmente la Bibbia, quando incontra il racconto del sacrificio di Isacco, rimane scandalizzato da un Dio disumano che chiede a un padre di sacrificare il figlio per provare la sua fede. Come si permette questo Dio disumano di osare tanto? A una lettura più attenta però scopriamo che l’obiettivo è esattamente l’opposto, ma perseguito secondo i criteri e le modalità di racconto degli antichi, la cui vita era vissuta in riferimento alle divinità e interpretata solo ed esclusivamente alla luce della religiosità diffusa.

Una contestazione di pratiche disumane

Nel 2° millennio a.C. era diffusa la pratica dei sacrifici umani. Il Dio di Israele rifiuta questo culto perché lui dà la vita, non la toglie. L’autore biblico, afferma questo principio con il racconto in cui Dio mette alla prova Abramo chiedendogli di sacrificare la garanzia del suo futuro: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco… e offrilo in olocausto». Mai padre si era trovato in questa angoscia. Come ubbidire? Il figlio che Dio gli ha dato nella vecchiaia, ora gli viene richiesto indietro. Per avere una posterità deve ucciderlo. Il fatto che Dio metta alla prova Abramo è un modo per dire che tutto dipende dal Creatore: la vita e la morte, il presente e il futuro. Nulla ha senso fuori di Dio.

Abramo si fida, perché Dio gli ha dato un figlio quando era certo di non potee più avere, e perché tutto quello che gli aveva promesso si è sempre verificato. Anche se «adesso» non capisce, Abramo sa che Dio non può venire meno alla sua parola; per questo si abbandona totalmente alla sua volontà, buttandosi nel vuoto e nel buio della fede e affidandosi totalmente alla Parola.

Avendo saggiato il suo abbandono senza riserve, Dio, l’incomprensibile, «ora» restituisce ad Abramo il figlio come se il patriarca lo avesse generato per la seconda volta. Isacco non è solo figlio della natura, ma «ora» è anche figlio dell’obbedienza e della fede.

La tradizione ebraica non si ferma qui – benché il racconto fosse già sufficiente a contestare i sacrifici umani -, e va oltre, facendo fiorire leggende su leggende: insegnano i padri che Isacco avesse 37 anni al tempo dell’episodio del sacrificio, e che, mentre il padre lo legava come un agnello, egli, invece di protestare, lo supplicava di non esitare e di legarlo bene perché non accadesse che per paura si mettesse a scalciare, rendendo nullo il sacrifico. Nel tempio di Gerusalemme vi era un rituale minuzioso per legare gli agnelli del sacrificio, perché potessero essere uccisi in modo da non invalidare il rito.

 

La fedeltà oltre l’irrazionale

Il figlio unigenito incoraggia il padre a legarlo per ubbidire al Signore che sa quello che fa, anche se noi non ne vediamo il senso e la ragione. Isacco, legato alla legna del sacrificio sull’altare di pietra, sul monte Mòria, dove secoli dopo sarebbe sorto il tempio di Gerusalemme, nella tradizione cristiana diventa il simbolo di Cristo, il Figlio Unigenito, legato al legno della croce e ucciso sull’altare dell’espiazione all’età di circa 37 anni.

Aggiunge la Bibbia che Dio fermò Abramo provvedendo per il sacrificio un «ariete» al posto di Isacco: «Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le coa in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e l’offrì in olocausto invece del figlio» (Gen 22,13).

La tradizione giudaica aggiunge che Abramo, compiuto il sacrificio dell’ariete, si rivolse a Dio chiedendogli che, in considerazione dell’atteggiamento di Isacco che non si era ribellato, ma che, anzi, lo aveva incitato a obbedire senza esitare al comando di Dio, quando in futuro i figli di Isacco lo avessero pregato, egli li ascoltasse proprio in memoria dell’Aqèdah – legatura. Per i meriti del figlio Isacco, Abramo ricevette l’alleanza da Dio. Per i meriti di Cristo legato alla croce, noi siamo salvati.

 

Dal simbolo alla storia perenne

Per questo motivo in Israele si suonava il corno di ariete nel tempio di Gerusalemme all’inizio della preghiera, prima di cominciare il «Rosh-ha-shannàh» (anno nuovo), a conclusione dello «Yom Kippur» (capodanno), all’apertura del «Giubileo» ogni sette anni e, ancora oggi, all’inizio dello «Shabàt» (il sabato) e nel giorno d’insediamento del presidente dello stato.

La storia non è una successione di eventi e fatti, in senso cronologico, ma una rete di connessioni e di implicanze, una serie di legami tra cause ed effetti, tra ragioni e motivazioni che illuminano il passaggio tra ieri e oggi e domani, dando all’individuo il senso pieno di appartenenza a una storia che ha le radici in cielo e lo sviluppo in terra. Il Giubileo è il frutto maturo che si realizza tra la promessa di Dio e la fedeltà dell’uomo nella rete della convivenza civile, come vedremo spiegando, nei prossimi numeri, il significato biblico del Giubileo stesso.

Misericordia

Il secondo termine-chiave è «Misericordiae», sostantivo femminile della 1a declinazione latina, derivato dall’aggettivo misericors, composto dalla radice miser – misero /sciagurato / malato e cor-cordis – cuore. Esso esprime un nobile sentimento che nasce dal «cuore» e si muove verso chi è nel bisogno (il misero), un movimento interiore di pietà che diventa attenzione.

Nella lingua corrente popolare ha acquisito anche un senso negativo, in quanto «avere misericordia / pietà di qualcuno» può significare anche un sentimento di disprezzo, se chi lo prova è maldisposto. Nel Medioevo si chiamava «misericordia» il pugnale con cui si dava il colpo di grazia ai guerrieri agonizzanti e senza possibilità di guarigione; in questo caso si era «misericordiosi» perché si dava la morte per compassione: una forma di eutanasia ante litteram. In Toscana dal sec. XIII è il nome di un sodalizio/confrateita che nei secoli passati si prendeva cura dei poveri, dei malati, dei carcerati e dava sepoltura ai morti abbandonati. Oggi prosegue nella stessa direzione e svolge la funzione di pubblica assistenza. Nel parlare popolare è anche un’invocazione di stupore / paura o disappunto: «Misericordia!».

 

Una prospettiva di vita

Se andiamo indietro nel tempo e cerchiamo la radice del senso della parola «misericordia» nella Bibbia, vediamo che il ventaglio semantico si allarga e ci travolge. I lettori di Mc non sono nuovi a questo genere di approfondimenti, perché ne abbiamo parlato diverse volte in questi anni, specialmente nel commento alla parabola del «Padre che fu madre» di Lc 15, più comunemente conosciuta come parabola del «Figliol prodigo». Ciononostante è utile rinfrescarsi le idee, secondo l’adagio latino che «repetita iuvant», anche se a volte anche «stufant». Vedremo di aiutare senza stufare.

In italiano un sinonimo di «misericordia» è «compassione» (da cum-pàti – partecipare lo stesso pàthos / sentimento), anch’esso termine logorato dall’uso, come avviene per «misericordia», per cui assume un senso ambiguo e riduttivo, equivalente a «provare pena». Nella Bibbia tutto questo gruppo di sentimenti è riportato a una sola parola ebraica che è rachàm – ùtero (plurale: rachamìm – viscere). Da qui deriva che il sentimento della misericordia / compassione ha attinenza con la generazione della vita e quindi con la responsabilità della crescita che avviene nella relazione. Avere misericordia o provare compassione, nella Bibbia significa «generare alla vita, essere legati per la vita».

La Bibbia greca traduce questo complesso di significati con due termini «splànchna», che ha lo stesso significato dell’ebraico, e «ele?mosýn?» – simpatia / dono amorevole. Come si può ben comprendere, da questo termine deriva l’italiano «elemosina» che non ha il senso povero e degradato in uso oggi di «dare uno spicciolo a un povero», ma di avvolgere l’altro nella propria simpatia attraverso il dono di sé, tanto che il Siràcide attribuisce all’elemosina un valore sacrificale pari a quello dei sacrifici nel tempio: «L’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina (gr. ele?mosyn?) espia i peccati» (Sir 3,30). [vedi nota*]

Possiamo concludere questa prima battuta, dicendo che la misericordia è nient’altro che il sentimento di tenerezza che Dio vive nei confronti dei suoi figli. Il Giubileo è un’immersione in questa tenerezza senza fine che assume per noi il «Volto del Signore Gesù».

Vultus

Il terzo termine è «vultus» che significa «volto / faccia / viso». Quando incontriamo qualcuno, il volto è la prima realtà che guardiamo, e dalla sua espressione intuiamo lo stato d’animo. Nell’AT nessuno può vedere il volto di Dio: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20). Infatti davanti a Dio «Mosè si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,6). Con la morte di Gesù scompare questa impossibilità di vedere Dio, perché possiamo contemplarlo anche nella sofferenza. Nel momento della morte, «il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo» (Mc 15,38) rendendo compiuto il desiderio dei Greci che nel vangelo di Giovanni anelano di «vedere Gesù» (Gv 12,20). Il centurione romano, contemplando la morte di Gesù, riesce a vedere «il Figlio di Dio» (Mc 15,39).

Il volto è la persona, e il Dio di Gesù Cristo non è più una divinità astratta e asettica, ma è il Dio dei volti e dei nomi, «il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,16). È il Dio che si può sperimentare e incontrare perché ora è possibile «toccare il Lògos della vita» (1Gv 1,1) e, come per Giacobbe durante la lotta con l’angelo, è possibile vederlo «faccia a faccia» (Gen 32,31) o, come per Mosè, parlargli «faccia a faccia, come un uomo parla con un altro uomo» (Es 33,11).

Il Giubileo non è un’occasione per assicurarsi un’indulgenza o darsi una sciacquata allo scopo di lavarsi via qualche peccatuccio, perché «non si sa mai».

«Giubileo del Volto della Misericordia» significa sprofondare nell’esperienza di Dio, toccarne la vita, assaporae la visione, perché solo nella misericordia Dio compie la pienezza della propria giustizia e del proprio mistero.

Nella prossima puntata esamineremo le ragioni che hanno portato a creare gradualmente due istituti giuridici come l’Anno Sabbatico e il Giubileo, che sono i frutti di una lunga storia.

Paolo Farinella, prete
3, continua

 


[*] vedi anche Sir 7,10; 12,3; 16,14; 29,8.12; 40,24; cf. anche Pr 16,6; 17,5; Tb 4,7-11; Sal 51/50,3.
Nel Nuovo Testamento:
ele?mosyn?: Mt 6,2.3.4; Lc 11,41; 12,33;
eleos: Mt 9,13; 12,7; 23,23; Lc 1,50.54.58.72.78; 10,37;
elee?: Mt 5,7; 9,27; 15,22; 17,15; 18,33(2); 20,30.31; Mc 5,19; 10,47.48; Lc 16,24; 17,13; 18,38.39;
splanchnizomai: Mt 9,36; 14,14; 15,32;18,27; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; 9,22; Lc 7,13; 10,33; 15,20;
splanchnon: Lc 1,78; At 1,18; 2 Cor 6,12; 7,15; Fm 7.12.20.