TTIP, sogno  o incubo?

Qualcuno ne parla
come di una «Nato economica», pensata per rafforzare le relazioni commerciali
nel blocco Usa-Ue, che da solo conta 850 milioni di persone e rappresenta il
40% del Pil mondiale. Altri lo dipingono come il peggiore dei mali:
consegnerebbe le nostre economie alle multinazionali e cancellerebbe anni di
lotte per i diritti di consumatori e lavoratori. A che punto siamo e che cosa
sappiamo sul Ttip, il Partenariato transatlantico per il commercio e gli
investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership).

«Con il Ttip vogliamo aiutare i cittadini e le imprese, grandi e piccole,
attraverso le seguenti azioni: apertura degli Usa alle imprese dell’Ue;
riduzione degli oneri amministrativi per le imprese esportatrici; definizione
di norme per rendere più agevole ed equo esportare, importare e investire». Così
la Commissione Europea, nella guida Il Ttip visto da vicino, riassume
gli obiettivi dell’accordo che dal 2013 è oggetto delle negoziazioni fra la
stessa Commissione e il governo statunitense. Si tratterebbe, in sostanza, non
solo di eliminare i dazi doganali, che peraltro sono già molto ridotti (circa
al 3%) per la maggior parte dei beni, ma soprattutto di ridurre le cosiddette
barriere non tariffarie, cioè tutto quell’insieme di norme, standard e
regolamenti che di fatto impediscono l’ingresso delle merci in un mercato. Ma
la riduzione di tali barriere avrebbe conseguenze devastanti, controbattono i
detrattori del Ttip. Un esempio? È grazie agli standard Ue, più elevati
rispetto a quelli Usa, che la carne dei bovini americani, allevati con ormoni,
non ha potuto, fino a ora, arrivare sulle tavole europee. Tale uso, infatti, è
consentito negli Usa e vietato in Europa. Lo stesso vale poi per gli organismi
geneticamente modificati e per i prodotti alimentari trattati con pesticidi
banditi nel vecchio continente ma non negli Stati Uniti (se ne contano ben 82).

Altro tema caldo del trattato è il meccanismo di
arbitrato internazionale per risolvere eventuali controversie in materia di
investimenti, il cosiddetto Isds, Investor-State Dispute Settlement, che
prevede il ricorso a un tribunale indipendente nel quale gli arbitri – si legge
sul sito del Parlamento europeo – non sono giudici a tempo pieno, ma avvocati
specializzati in diritto commerciale. Per capire come funziona in concreto
l’Isds, basti pensare ai due casi «Vattenfall contro Germania». Nel primo caso,
la Vattenfall, azienda svedese del settore energetico e costruttrice della
centrale a carbone di Amburgo, fece ricorso contro i parametri che la città
tedesca nel 2009 voleva imporre per legge allo scopo di migliorare la qualità
delle acque che la centrale a carbone della compagnia svedese riversava nel
fiume Elba. Nel secondo caso, il ricorso della Vattenfall fu invece contro
l’abbandono del nucleare deciso dalla cancelliera tedesca Angela Merkel nel
2011 dopo il disastro di Fukushima: l’azienda svedese gestiva infatti due
centrali atomiche nel Nord del paese. In entrambi i casi il colosso svedese
sostenne che le decisioni tedesche generavano aumenti dei costi o perdite, in
violazione del Trattato energetico europeo, che protegge gli
investimenti nel settore energetico, e chiese compensazioni per 1,4 miliardi di
Euro nel primo caso e per 3,7 nel secondo.

 

Tutto in gran segreto

Prima ancora che il Ttip nei suoi contenuti, comunque, a
scatenare la polemica è stata la segretezza delle trattative, affidate a un
gruppo di negoziatori guidati, per l’Ue, dallo spagnolo Ignacio Garcia Bercero,
capo della Direzione Generale del Commercio e, per gli Stati Uniti, da Dan
Mullaney, rappresentante commerciale aggiunto degli Usa per l’Europa e il Medio
Oriente. Dal luglio 2013 al luglio 2015 si sono svolti dieci round di
negoziati, ma i dettagli dell’accordo sono rimasti per lo più segreti. In più,
quando la Commissione ha deciso, lo scorso gennaio, di rendere pubblica una
parte dei documenti, lo ha fatto in modo ambiguo: lo scorso agosto, infatti, il
giornale britannico The Independent, rivelava che ai parlamentari
europei è possibile prendere visione dei documenti riservati solo in
un’apposita sala di lettura sorvegliata, alla quale non si può accedere con
dispositivi elettronici come cellulari e tablet. La vicenda ha anche assunto
contorni da spy story quando Wikileaks ha messo una sorta di taglia
sul Ttip, lanciando una raccolta fondi per centomila euro da consegnare come
premio a chi sia in grado di fornire informazioni e documenti segreti
riguardanti i negoziati.

Il dato certo, per il momento, è che c’è un vero e
proprio abisso fra gli scenari inquietanti di «macdonaldizzazione» dell’Europa
tratteggiati dai movimenti contrari, come la campagna Stop-Ttip, e le
rassicuranti e un po’ asettiche infografiche della Commissione europea che
cercano di smontare i «falsi miti sul trattato».

 

I numeri del Ttip

Secondo uno studio indipendente citato dalla
Commissione, il Ttip dovrebbe portare un incremento annuo di 120 miliardi di
euro all’economia europea e di 95 miliardi a quella statunitense entro il 2027,
facendo espandere di mezzo punto percentuale il Pil del vecchio continente e
dello 0,4% quello a stelle e strisce. Per le famiglie europee tutto questo si
tradurrebbe in un guadagno di cinquecento euro all’anno.

Le esportazioni dall’Europa agli Usa aumenterebbero di
quasi un terzo per un totale di 187 miliardi di euro. I benefici, continua lo
studio, interesserebbero quasi tutti i beni e servizi, ma toccherebbero in
particolare i settori del metallo, dei cibi lavorati, dei prodotti chimici, e
dei mezzi e attrezzature di trasporto. A vivere un vero e proprio boom sarebbe
il settore automobilistico: l’export di veicoli europei crescerebbe infatti del
149%. Si creerebbero quindi decine di migliaia di nuovi posti di lavoro su
entrambe le sponde dell’Atlantico, e le ricadute sul commercio planetario
indurrebbero un incremento del Pil mondiale di ulteriori cento miliardi di euro.

Un’occasione da non perdere, insistono i promotori
dell’accordo, forti dei numeri riportati nello studio.

 

Che cosa dicono i critici

Lo studio citato dalla Commissione è tutto meno che
indipendente, oppongono i detrattori: il suo autore è, infatti, il britannico
Cepr, Centre for Economic Policy Research, che dedica una pagina del suo
sito web ai ringraziamenti nei confronti dei suoi finanziatori, fra i quali
figurano tutte le banche centrali europee e i colossi bancari mondiali, da
Citibank e JP Morgan alle italiane Intesa San Paolo e Unicredit.

E questo è ancora il meno: la Commissione, infatti,
sostiene che a beneficiare del Ttip saranno in primis i cittadini
europei, ma allora – si chiede il centro di ricerca canadese Global Research
– perché nei 597 incontri a porte chiuse con le parti interessate, la
Commissione si è confrontata nell’88% dei casi con i lobbisti del mondo del
business, e solo nel 9% dei casi con gruppi che si occupano di temi di pubblico
interesse come l’ambiente o i diritti dei consumatori e dei lavoratori? E, se
il Ttip ha come obiettivo di aiutare «le imprese, grandi e piccole», perché la Direzione
generale Ue del Commercio
, fra il 2012 e il 2014 – cioè nelle fasi preparatorie
e nei primi cicli di negoziati – ha avuto la stragrande maggioranza degli
incontri con sei raggruppamenti di lobby fra cui Efpia (European Federation
of Pharmaceutical Industries and Associations
– Federazione europea di
Industrie e associazioni farmaceutiche), che rappresenta, fra gli altri,
GlaxoSmithKline, Pfizer, Novartis, Sanofi e Roche, e FoodDrinkEurope, il più
grande gruppo di pressione dell’industria alimentare europea, che dà voce agli
interessi di Nestlé, Coca Cola e Unilever? Dal canto loro, le associazioni di
categoria come l’Unione europea dell’artigianato e delle piccole e medie
imprese
(Uapme) – di cui fanno parte, ad esempio, Confartigianato e Cna –
vedono di buon occhio il trattato ma insistono sulla necessità di salvaguardare
gli standard di qualità europei e di essere maggiormente coinvolte nel processo
negoziale.

I segnali preoccupanti riguardanti il grande peso dei
poteri forti, in effetti, non mancano, se è vero – come riporta il quotidiano
inglese
The Guardian – che all’inizio di quest’anno alcuni
alti funzionari Ue avrebbero insabbiato uno studio che avrebbe contribuito a
identificare e mettere al bando trentuno pesticidi contenenti sostanze che
alterano la funzionalità del sistema endocrino. L’insabbiamento sarebbe avvenuto
in seguito a pressioni esercitate da funzionari del commercio statunitensi, e
anche da colossi della chimica come Bayer e Basf. Questo nonostante diversi
studi scientifici associno le sostanze contenute in quei pesticidi a un aumento
delle mutazioni genitali, dell’infertilità maschile, delle anomalie del feto e
della riduzione del quoziente intellettivo, e stimino in 150 miliardi di euro i
costi sanitari connessi ai danni provocati.

 

Le raccomandazioni del Parlamento europeo

In questa ridda di voci, fughe di notizie, smentite e
precisazioni, un punto fermo che chiarisce almeno un po’ che cosa c’è sui
tavoli negoziali, è la risoluzione adottata lo scorso 8 luglio dal Parlamento
europeo
. Essa contiene una serie di raccomandazioni, tra cui una
riguardante il meccanismo dell’arbitrato internazionale che propone un sistema
alternativo nel quale «i possibili casi siano trattati in modo trasparente da
giudici togati, nominati pubblicamente e indipendenti durante udienze pubbliche».

Vi è poi la richiesta dell’europarlamento ai negoziatori
di escludere dal trattato ambiti nei quali le legislazioni Ue e Usa sono molto
diverse: «I servizi sanitari pubblici, gli Ogm, l’impiego di ormoni nel settore
bovino, il regolamento Reach [relativo alle sostanze chimiche, ndr]
e la sua attuazione, e la clonazione degli animali a scopo di allevamento».
Altre raccomandazioni riguardano la protezione dei dati personali dei cittadini
europei, la tutela delle indicazioni geografiche, la garanzia della
tracciabilità ed etichettatura, il rispetto della normativa sul lavoro. I
critici del Ttip hanno accolto con disappunto anche questa risoluzione perché
colpevole, a loro dire, di essere troppo vaga e di costituire di fatto un
avallo al trattato.

«Se il Ttip sarà un accordo misto (cioè con competenze
condivise fra Unione europea e Stati membri, ndr)», ha dichiarato il
presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, «e ne sono certo, i Parlamenti
nazionali e quello europeo dovranno sottoporlo ad attenta verifica, secondo il
proprio ordinamento». Il commissario europeo per il commercio, Cecilia Malmström,
ha affermato che l’impegno è quello di concludere entro il 2015: l’anno
prossimo infatti terminerà il secondo mandato di Barack Obama e gli Stati Uniti
avranno una nuova amministrazione che potrebbe ridefinire le priorità
statunitensi. In più

Washington sta negoziando anche un secondo trattato, il
Tpp, con undici Stati del Pacifico.

 

I risvolti per i paesi in via di sviluppo

Gli analisti concordano nel dire che attualmente è
ancora presto per immaginare quali potranno essere le ripercussioni
dell’eventuale accordo Usa-Ue per i paesi in via di sviluppo. Tuttavia, alcune
considerazioni preliminari sono emerse, anche di segno positivo: ad esempio
quelle che sottolineano come l’esistenza di un blocco nordatlantico con regole
unificate permetterebbe ai produttori dei paesi terzi di adeguare i loro
prodotti a un solo standard per l’esportazione verso Europa e Stati Uniti, e
non più a due, con un possibile calo dei costi di produzione.

Ma c’è anche chi è più cauto e invita a fare studi più
approfonditi: lo scorso febbraio, la commissione sviluppo del Parlamento
europeo chiedeva ai negoziatori di Bruxelles di considerare il rischio di una «possibile
deviazione degli scambi e degli investimenti per alcuni paesi in via di
sviluppo». Il direttore di Oxfam Germania, Marion Lieser, chiarisce il punto: «Se
l’Unione europea e gli Stati Uniti aprono ulteriormente i loro mercati, le
importazioni da paesi terzi, fra cui quelli in via di sviluppo, potrebbero diminuire.
Prendiamo il caso della Florida, stato della costa orientale statunitense
produttore di frutta esotica: se aumentasse il flusso di questi prodotti dalla
Florida verso l’Europa è plausibile che simili frutti provenienti dai paesi in
via di sviluppo perdano parte della loro quota di mercato». Solo a negoziati
conclusi sarà possibile azzardare previsioni più precise.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti