S2 – «Mio figlio… mai in quella classe!»

La scuola interculturale.


Sono 760 mila (su 9 milioni in totale) gli studenti non
italiani nelle nostre scuole. Una classe multietnica può offrire grandi
opportunità grazie agli stimoli derivanti dalle diversità culturali e alle
opportunità che produce un ambiente plurilinguistico. Occorre però saperlo
spiegare alle famiglie per evitare rifiuti quasi sempre immotivati.

«L’insegnamento in una prospettiva
interculturale richiede di assumere la diversità come paradigma dell’identità
stessa della scuola, occasione privilegiata di apertura a tutte le differenze»,
così scrivevano nel 2007 il ministero dell’Istruzione e l’Osservatorio
nazionale per l’integrazione degli stranieri. Partendo da questa riflessione e
considerando che, secondo i dati ufficiali pubblicati dal ministero
dell’Istruzione per l’anno scolastico 2011/2012, gli studenti stranieri
raggiungono la soglia di 755.939 (su un totale di 9 milioni), oggi in che
misura si sta lavorando sull’aspetto dell’inclusione interculturale?

Alcune notizie di cronaca ci
raccontano ancora di genitori che, davanti a una classe con un numero di
stranieri troppo elevato, ritirano i figli o chiedono il loro spostamento in
un’altra sezione.

I
nuovi italiani e la soglia del 30%

Per fare chiarezza sull’entità
della questione, chiediamo a Concetta Mascali, dirigente scolastico per il
secondo anno alla scuola primaria Michele Lessona di Torino, con un precedente
incarico come referente per l’intercultura presso l’Ufficio scolastico
regionale, di raccontarci la sua esperienza. L’Istituto Michele Lessona è
situato nella zona di Porta Palazzo, da sempre luogo di prima immigrazione del
capoluogo piemontese e bacino privilegiato di stranieri residenti. Oggi la
scuola primaria Michele Lessona accoglie allievi con provenienze da circa 30
paesi: Romania, Marocco, Cina, Africa Centrale, India, Sri Lanka, Filippine,
Albania, stati latinoamericani etc. «Recentemente una coppia di genitori, la
cui figlia è in classe con 14 stranieri, ha sollevato la problematica
chiedendone il trasferimento in un’altra sezione. In questi casi è fondamentale
motivare alla famiglia il lavoro svolto per la formazione delle classi che
avviene secondo criteri di equi-eterogeneità e non di nazionalità. In questo
senso manca ancora molta informazione e approfondimento: non ha più senso
parlare di “stranieri” quando il 60% degli studenti di provenienza non italiana
sono di seconda generazione e hanno frequentato asilo nido e scuola
dell’infanzia da noi, arrivando alla primaria con gli stessi prerequisiti degli
italiani. Questi allievi sono a tutti gli effetti concittadini italiani e non
rallentano affatto l’andamento didattico della classe, anzi ne rafforzano la
vivacità intellettiva grazie all’enorme potenziale del plurilinguismo. Quando
ci sono delle sacche di disagio nell’alfabetizzazione è verosimile che ne siano
accomunati sia gli studenti di origine italiana che quelli di altre nazionalità.
Se le informazioni vengono trasmesse in misura coerente e chiara alle famiglie,
spesso si trova un punto d’accordo e si diventa complici nel percorso educativo».

Ovviamente non è tutto rosa e fiori
e Concetta Mascali ci informa che le maggiori problematiche riguardano gli
ingressi degli studenti stranieri in corso d’anno. In tali occasioni, che si
verificano spesso nell’Istituto Lessona, occorrerebbe essere attrezzati con
corsi di italiano come seconda lingua, spesso impraticabili per mancanza di
risorse economiche e di personale docente. E per quanto riguarda l’attuazione
della famosa legge della Gelmini sul tetto del 30% di alunni stranieri in
classe, cosa è accaduto e sta accadendo dentro la scuola? «La legge del 30%
desta più paura di quanto dovrebbe. Questo strumento è indicativo ed esistono
linee guida e sfumature delle varie circolari che vanno calibrate e affidate al
buon senso del singolo circolo didattico. La circolare 2 spiega, per esempio,
che c’è differenza tra chi è nato in Italia e chi è appena arrivato e fa una
chiara distinzione tra chi appartiene a lingue neolatine o meno. Ciò che conta è
saper utilizzare gli strumenti al fine dell’integrazione e non dell’esclusione.
Parlare di stranieri induce in errore, abbiamo bisogno di parole nuove per
sfatare un immaginario collettivo che si nutre ancora della paura del diverso».

Disorientamento e disturbi

Reinventare un vocabolario che non
includa il termine «pregiudizio» è un compito arduo ma fattibile. Cresce il
numero degli insegnanti che, nonostante le poche risorse economiche, riescono a
gestire didatticamente e umanamente l’ accoglienza di studenti non italiani. A
pensarla come Concetta Mascali è anche la maestra Sabrina Ottaviano, 16 anni di
esperienza alla Scuola primaria Berta – succursale del Circolo didattico
Salgari – che ribadisce la ricchezza del plurilinguismo e della diversità
culturale. «Un bambino straniero che ha frequentato la scuola dell’infanzia da
noi, si pone nell’identica situazione di partenza di un nostro connazionale. I
problemi si verificano quando arriva uno scolaro “non parlante” e le risorse
economiche attuali non sono sufficienti a coprire le ore di alfabetizzazione
dello stesso. Di norma, però, questi sono casi sporadici e vengono gestiti con
una cura e un impegno estremi da parte di tutto il corpo docente».

Per cambiare gli stereotipi occorre
riformulare i messaggi mediatici. Non più stranieri e italiani ma compagni di
scuola. Insomma, bambini del 2013 con tutte le peculiarità che il vivere in
questa nostra «sclerotica» società comporta.

Chi sono, dunque, i nuovi bambini? «Nel
corso degli anni sono cambiate le situazioni familiari: sempre più separazioni
e famiglie allargate. Questo ha comportato un disorientamento del bambino,
obbligato ad adattarsi a più contesti familiari. È venuto così a mancare
quell’equilibrio che dotava l’allievo di una maggiore serenità. Va poi segnalata
una perdita di autorevolezza della figura patea che manca o risulta poco
incisiva, provocando disturbi comportamentali difficilmente gestibili. Per
quanto riguarda la didattica si avverte invece un peggioramento nella
comprensione del testo e un impoverimento lessicale dei bambini. Rispetto a
qualche anno fa, hanno più difficoltà nell’introiettare le esperienze e
nell’estearle, arricchendo i propri racconti. Sono più irriverenti di un
tempo ma anche creativamente spontanei e con un grande senso della complicità e
della giustizia».

Disturbi dell’attenzione e della
comprensione vanno sicuramente ricercati nella gestione del tempo-scuola. Ritmi
aziendalisti e non a misura di bambino. Per gli alunni, immersi in questo
proliferare di «rumore», dove rimane il tempo per il dialogo e per
l’arricchimento della persona?

La
psicoterapeuta Rosa Napolitano, specializzata in psicoterapia familiare e
sistemica e socia dell’associazione torinese «Il Melo», ha una sua opinione in
merito: «La capacità di espressione orale dei bambini passa attraverso
l’alfabetizzazione delle emozioni. I bambini di oggi non conoscono e non sanno
rapportarsi con i tempi vuoti della loro esistenza. Alfabetizzarli alle
emozioni, promuovendo percorsi laboratoriali nelle scuole, favorisce il loro
dialogo con sé stessi e con gli altri. Coinvolgere il bambino nella lettura
della sua emotività, significa farlo uscire dal racconto sterile su “quante
cose si sono fatte” e introdurlo nella sfera del suo io, fondamentale perché si
conosce e sappia instaurare un rapporto dialogico più autentico e profondo con
il mondo circostante».

Scuola e società :
l’insegnante di oggi è un perdente?

Per raccontare la scuola occorre
avee fatta esperienza, contestualizzata, introiettata, vissuta da
protagonisti e non solo da spettatori. Karim Metref, educatore, scrittore e
giornalista di origine algerina, ha insegnato educazione artistica in una
piccola comunità rurale dell’Algeria e ha successivamente sperimentato, come
formatore, la nostra scuola. Gli chiediamo uno spaccato su questi due mondi.

«Ho insegnato in Algeria per circa
10 anni, dal 1989 alla fine degli anni ’90. In quell’epoca il maestro era
abilitato quasi interamente all’educazione del figlio; la famiglia poneva una
fiducia completa in quella missione che non riguardava solo la trasmissione del
sapere ma anche la capacità di stare al mondo e di destreggiarsi abilmente
nelle relazioni e in società. Quando sono arrivato in Italia, tramite i
movimenti per la pace, mi sono specializzato come educatore e animatore
interculturale nelle scuole. Sotto l’accezione di “educazione alla pace” si
situano molti insegnamenti che vanno dal lavoro sull’ascolto, di se stessi e
degli altri intorno a noi, alle attività che educano a un atteggiamento più
cornoperativo e non competitivo, di dialogo e non di scontro. In questa veste
sono entrato nelle scuole italiane e ho avuto modo di osservare una realtà
complessa che rispecchia lo status della nostra società. Se, nelle zone rurali
dell’Algeria, il rapporto con le famiglie era delegante e rispettoso al tempo
stesso, qui si è assistito via via a uno scivolamento dei ruoli e una presa di
posizione delle famiglie nei confronti della scuola. Se il modello riproposto
dai media è quello dell’uomo vincente in quanto “abbiente”, è ovvio che
l’insegnante non può che perdere in partenza tutto il suo appeal. La
società dell’avere ha scalzato quella dell’essere e la scuola non è altro che
l’immagine riflessa di tutto ciò che esiste all’esterno. Sia in Italia che
nelle zone urbane dell’Algeria, la scuola è il simulacro della vita reale con
tutti i suoi meccanismi competitivi e discutibili, a partire dalle valutazioni
che si basano sul risultato finale e non tanto sul percorso fatto».

In Lettere dalla Kirghisia,
un libro di Silvano Agosti, si ritrae un prototipo di scuola ideale: palestra
di crescita dove non esiste il giudizio fine a se stesso ma la considerazione
dell’individuo sulla base della sua intelligenza (di qualsiasi genere essa
sia), della sua umanità, sensibilità e delle sue esperienze autentiche. Una
scuola senza etichette, delle persone e basta.

Quale scuola sogna Karim Metref per
il futuro? «La scuola deve essere di inclusione. “Di inclusione” vuol dire che
si sforza di includere tutti. Senza rinchiudere i figli degli stranieri in una
specie di ghetto detto della multi o dell’intercultura».

«La scuola è la scuola di tutti. Il
suo obiettivo primario deve essere educare la persona a stare nella società, a
migliorare il proprio livello culturale e sociale. Deve riprendere a giocare
quel ruolo di ascensore sociale per il quale è stata pensata. Per far ciò deve
dare di più a chi ha di meno e meno a chi ha di più. “Non c’è nulla che sia più
ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali” diceva Lorenzo Milani nella sua
Lettera ai giudici. Chi è socialmente svantaggiato deve essere
compensato dalla scuola. Chi ha difficoltà di apprendimento deve essere
aiutato. Questo aldilà delle origini o delle appartenenze culturali».

Gabriella Mancini


La scuola dell’Ufficio pastorale migranti, a Torino


A lezione da suor Lidia

Usciamo
dalle aule della scuola tradizionale per calarci in quelle particolari della
scuola di lingua italiana, per adulti di ogni nazionalità ed età, tenuta
dall’Ufficio pastorale migranti (Upm). Arriviamo alla sede di Torino nel cuore
della mattinata. La vitalità e il fermento caratterizzano questo luogo fuori
dall’ordinario, denso di un’atmosfera cosmopolita e piena di umanità. Da un
lato la scuola offre accoglienza agli immigrati e dall’altro si occupa di
insegnare l’italiano come strumento di integrazione nella società di arrivo.
L’istituto è suddiviso in tre sezioni e alterna gli insegnamenti al mattino e
al pomeriggio per tutti i giorni della settimana, considerando i pre-requisiti
dei singoli iscritti e formando così delle classi specifiche per ogni necessità.
Una volta alfabetizzati, gli allievi possono iscriversi nei Ctp (Centri
territoriali permanenti) per conseguire il diploma di scuola secondaria di
primo grado (licenza  media) e iniziare
percorsi di professionalizzazione. Secondo i dati statistici (Dossier 2012
Upm Arcidiocesi di Torino
), il totale degli iscritti era 1.031, di cui il
29% relativo ai richiedenti asilo. La provenienze maggiori riguardano l’Africa
settentrionale, quella sub-sahariana, l’America centrale/meridionale e l’Europa
Orientale .

 In questo
microcosmo incontriamo suor Lidia, responsabile della scuola di italiano. Suor
Lidia, sorella delle Figlie di Maria Ausiliatrice (conosciute come missionarie
salesiane), ha  vissuto 24 anni in
Tunisia, lavorando e insegnando in una scuola con 600 alunni musulmani. Nel
2010 è tornata in Italia e ha  iniziato
la sua missione all’interno dell’Upm. È una piccola-grande donna che, con fare
dolce e deciso al tempo stesso, ci regala qualche fotografia di ciò che accade
in questa scuola «altra»: «Qui, ogni anno la scuola cambia aspetto. Il bacino
di utenza è sempre diverso a seconda delle situazioni politiche delle
differenti nazionalità. In questo periodo abbiamo molti rifugiati dal Pakistan,
dall’Afghanistan e dalla Turchia. Rispetto agli anni passati, si avverte
inoltre una femminilizzazione dell’istruzione. Le dinamiche sono differenti da
quelle della scuola “classica”: attraverso l’insegnamento della lingua italiana
ci si prende cura della persona, la si orienta a livello pratico, cercando di aiutarla
a districarsi nelle tante difficoltà che comporta una nuova vita. Molti di loro
non hanno un’abitazione e passano la notte nei dormitori pubblici, arrivando
qui al mattino non solo per “apprendere”, ma anche per ricevere calore. Il
rapporto con gli insegnanti, che svolgono un servizio volontario, non rientra
nei canoni di quello istituzionale. I docenti si pongono con rispetto e spirito
di adattamento nei confronti degli studenti e questi ultimi riconoscono in loro
il senso dell’atto gratuito e ne sono profondamente grati. Si crea spesso una
rete di collaborazione e amicizia». In questa scuola «oltre la scuola», quanto
interviene la fede e la spiritualità nel processo di maturazione di ogni
singola persona? «Per i volontari credenti la spiritualità è la molla
fondamentale che rompe le barriere tra noi e gli altri. Per quelli laici
interviene invece spesso un senso di giustizia che li fa muovere in nome
dell’integrazione. Lo studio della lingua italiana diventa  strumento per imparare a rispettare le altre
culture e religioni. In questa palestra di vita, gli  studenti 
imparano in fretta che la loro libertà finisce dove inizia quella di un
altro e tutto ciò mette in atto un meccanismo di crescita profonda. Come
sosteneva Don Bosco, la prevenzione è alla base della nostra missione. Una
missione che passa dall’apprendimento ma mira all’integrità della persona, alla
trasmissione della fiducia, della condivisione e della reciprocità. La cura è
l’esatto opposto dell’indifferenza ed è quello che cerchiamo di trasmettere ai
nostri allievi, nel rispetto delle personali religioni di cui facilitiamo la
pratica indirizzandoli nei luoghi di culto giusti». 

Suor Lidia ci accompagna nelle aule dell’Ufficio
pastorale migranti. Lavagne e penne rosse non mancano, ma qui quello che fa la
differenza sono le storie di ogni persona, il cammino che c’è alle spalle di
ognuna di loro e il sogno che la fa andare avanti. In questo paradigma
inconsueto, gli insegnanti non impartiscono solo lezioni ma devono saper
vestire i panni degli educatori, degli amici e degli psicologi. In una sfida
che supera le barriere della nazionalità.

Gabriella Mancini
 

Gabriella Mancini