Bellesi: Un uomo fatto Parola

Padre Benedetto Bellesi: l’uomo,
il missionario, il giornalista

Piccole «dediche» a un missionario schivo e dalla risata
coinvolgente, innamorato della Parola di Dio e della verità. Abbiamo sentito il
bisogno di dedicare queste pagine al nostro fratello, amico e collega padre
Benedetto Bellesi, chiamato alla casa del Padre lo scorso 3 luglio. Per l’uomo
e per il missionario che ha donato 26 lunghi anni a servizio della Parola nella
stampa missionaria, è il minimo che possiamo fare.

Maestro di «cucina redazionale»
di Ugo Pozzoli

Carissimo Benedetto,
soltanto poche ore fa mi è arrivato un sms da Torino in cui era scritto che
mancava veramente poco al grande passo. Ho realizzato in quel momento, caro
Benedetto, che su questa terra non ci saremmo più rivisti. Adesso, che ne ho
avuto purtroppo la conferma, sono sicuro che nel momento in cui ho letto il
messaggio avevi già iniziato il cammino di rientro verso la casa del Padre,
l’ultimo grande viaggio, per il quale ti sei preparato a lungo e con una
meticolosità che non avevi mai messo nelle tante occasioni in cui, per lavoro,
ti era toccato fare la valigia e partire.

Ho
una grande pena nel cuore, perché ti sto scrivendo da un posto in cui avevamo
combinato di venire insieme. Ti ricordi? Subito dopo la mia elezione a
Consigliere, sapendo che mi sarei occupato anche della missione nel continente
asiatico, mi avevi detto: «Il giorno che andrai in Mongolia dimmelo, che ti
vengo a portare la borsa». Al che ti avevo risposto che di sicuro avrei dovuto
portarla io a te, dato che soltanto in apparecchi fotografici avremmo avuto
bisogno di un mulo da soma.

Purtroppo
questa carogna di una malattia ti ha portato via troppo presto, dandoti appena
il tempo di finire il tuo ultimo «Dossier» per Missioni Consolata,
proprio sull’evangelizzazione della Chiesa in Mongolia.

Stamattina
abbiamo pregato per te con p. Giorgio, sr. Lucia e sr. Gertrude, i tre
missionari che lavorano ad Arvaiheer, immersi in mezzo alla steppa mongola, a
poca distanza dall’inizio del grande deserto del Gobi. Ti abbiamo ricordato
nella Messa, proprio all’ora in cui mettevi l’ultimo bollo sul tuo passaporto,
quello per il Paradiso.

Ciao
Benedetto, ti saluto di qui, da lontano. Non ci potrò essere al tuo funerale,
ma so che da lassù mi capirai e non te ne avrai a male. Mi manca pure un
bicchiere di quello buono con cui farti un brindisi, come i tanti condivisi
dopo le vittorie (e anche le sconfitte) della nostra amata Juventus. Ti dico grazie con tutto il cuore per averti
conosciuto e per avermi fatto conoscere quell’anima buona e sensibile che
tendevi a nascondere dietro a una scorza da orso marsicano. Ti dico grazie per
avermi insegnato il mestiere di giornalista missionario e averlo fatto con
quello spirito socratico che tende a fare emergere e valorizzare quelle
conoscenze che, inconsapevolmente, l’altra persona già possiede. Sei sempre
stato quello che di noi scriveva meglio di tutti, con quell’italiano pulito,
ricco e semplice allo stesso tempo, un vero maestro di quella che in gergo noi
chiamiamo «cucina redazionale», ovvero, colui che fa il «lavoro sporco» di
sistemare gli articoli altrui per renderli belli e presentabili. L’hai fatto
sovente anche con me. Le ultime meditazioni spirituali che hai condiviso con il
sottoscritto erano sul Libro dell’Apocalisse, che racconta una fine che non è
la fine; ti mando allora idealmente una cartolina da questo paese dove sembra
che all’orizzonte la terra si attacchi al cielo in una linea perfetta, come se
fosse un’anticipazione dei cieli nuovi e della terra nuova che troverai al tuo
arrivo. Fai un buon ritorno a casa,

Ugo da Arvaiheer (Mongolia),
3 luglio 2013


«Capo mio»


di Francesco Beardi

Carissimo «capo mio», ricordi? Ti
ho sempre chiamato così: «Capo mio». E tu mi rispondevi con le stesse parole.

Io
ero «capo», perché direttore della rivista, però riconoscevo in te una
autorevolezza culturale e missionaria indiscutibile. Un’autorevolezza anche
linguistica, giacché eri laureato in Lettere classiche alla Cattolica di
Milano. Davvero «capo mio».

Entrasti
nella redazione di «Missioni Consolata» nel 1987, dopo che l’anno precedente ci
eravamo incontrati in Sudafrica, dove tu operavi e… mi cucinasti persino una
gustosa spaghettata ai funghi da te raccolti.

Di
tanto in tanto rievocavi le parole che ti dissi alla stazione di Porta Nuova a
Torino, quando venni a prelevarti per entrare nella redazione della rivista, e
cioè: «Se anche tu te ne andrai dalla redazione, ce ne andremo in due: tu ed
io!». Invece lavorammo insieme per 15 anni, senza alcun screzio. Eppure eravamo
molto diversi: tu, roccioso, metodico, anche burbero; io, più morbido, talvolta
improvvisatore, poco amante delle regole.

Ci
concedevamo delle sane risate: la tua era una lunga e possente cascata di
scrosci fragorosi e accattivanti.

Un
altro punto su cui collimavamo al 100 per cento era rappresentato
dall’espressione: «Nella vita temi specialmente chi si reputa un genio, mentre è
solo un rompiscatole!».

Capo
mio, eri pure tifoso della Juventus, mentre io ero estraneo a ogni cultura
pallonara. Tuttavia, dopo qualche stagione, mi ritrovai a tifare Juve, solidale
e «ammagliato» dal… «capo mio».

Tu,
roccioso di carattere, trascorrevi le giornate appoggiandoti continuamente e
senza riserve sulla «roccia» della Parola di Vita. Fu una fede che ti accompagnò
e sorresse sempre, specialmente i giorni oscuri, dolorosi e interminabili del
cancro. La passione per la «Parola» ti spinse a Nazareth, a Gerico, a
Gerusalemme e dintorni, dove camminasti come pellegrino per diversi mesi e a più
riprese. La Parola ti consentì di dettare meditazioni profonde e toccanti. Come
dimenticare, ad esempio, un tuo quaresimale sul Libro di Giona? Il fascino
della Parola di Dio contagiò pure «Missioni Consolata». Infatti la rubrica
biblica mensile della rivista «Così sta scritto», curata da don Paolo
Farinella, fu merito tuo.

Fosti
redattore e direttore di «Missioni Consolata», come nessun altro. Alcuni numeri
speciali monografici della rivista vennero poi ristampati anche come libri. «Allah
akbar», ad esempio, interamente dedicato all’Islam.

Capo
mio, Benedetto! Un capo tosto, convinto e sereno. Ora, mentre passeggi in
compagnia di tanti amici attraverso le galassie luminose del Paradiso, facci
ancora sentire la tua possente risata. Sarà una garanzia che la nostra povera
preghiera è stata accolta dal Padre celeste. Vero, che continuerai a ridere,
capo mio?

p. Francesco Beardi,
missionario in Tanzania

 

L’orso
gentile

di
Paolo Moiola

Incontrai padre Benedetto per la
prima volta nel giugno del 1994. Padre Francesco Beardi, allora direttore
della rivista, mi aveva convocato a Torino per capire se la mia collaborazione
giornalistica (iniziata nel 1989) potesse diventare più stabile. Il direttore
chiamò padre Bellesi per presentarci. Lui mi strinse la mano, disse poche
parole e toò nel suo ufficio. Mi colpì la sua voce, forte e chiara, ma anche
il suo aspetto con la faccia tonda e un fisico ben piantato a terra. Senza
capie esattamente i motivi, provai però una sorta d’immediato timore
reverenziale, che non sarebbe mai sparito completamente. Come dimostra la
circostanza che, nei suoi confronti, io sempre utilizzai il «lei».

Nella
vecchia redazione il suo ufficio confinava con il mio. E non era una fortuna!
Perché padre Bellesi fumava e fumava forte. L’aria appestata dalla nicotina
superava porte e muri, insinuandosi per ogni dove. Fumò per molti anni finché
non venne l’aut aut (probabilmente tardivo) dei medici.

Quando padre Beardi lasciò la rivista (dicembre 2002),
padre Bellesi fu nominato direttore. Si aprì allora una stagione in cui, come
redattori stabili, eravamo soltanto noi due. Non fu un periodo facile perché,
per far uscire la rivista, si dovevano fare i salti mortali. E l’attualità non
aiutava. Erano infatti i tempi della guerra in Iraq. Dopo mesi di preparativi,
nel marzo 2003 George W. Bush aveva ordinato l’attacco al paese mediorientale. Missioni
Consolata
si schierò – ancora una volta – contro la guerra in maniera
chiara e argomentata. Arrivarono moltissime lettere (via posta e dunque più
impegnative – non fosse altro per i tempi necessari a scriverle e spedirle –
rispetto alle attuali email), di plauso e di critica. Queste ultime erano
particolarmente dure e con toni accusatori, a volte insultanti. Padre Bellesi
non perse mai la testa, non scelse mai la strada facile di dare ragione a tutti
per non scontentare alcuno. Nelle Lettere dava spazio a tutti,
rispondendo in maniera meditata ma senza accondiscendenza, anche a rischio di
perdere un abbonato (la minaccia di gran lunga più diffusa). Poi, quando
arrivavano lettere elogiative, le pubblicava con soddisfazione ma senza enfasi,
anzi quasi con pudore: «La vostra rivista entra mensilmente in casa mia e mi
rinfranca nello squallore giornalistico che ci circonda. Davanti
all’aggressione cui siete sottoposti, vi domando di resistere forti delle
vostre idee».

Sì,
furono tempi duri ma anche densi di soddisfazioni, come testimonia il grande
successo dei numeri monografici (alcuni dei quali – tra cui La guerra, le
guerre e Il prezzo del mercato – divennero altrettanti libri
editi dalla Emi).

Padre
Bellesi aveva le sue letture (laiche) preferite. Ogni venerdì, all’arrivo della
posta, l’Espresso doveva andare direttamente sulla sua scrivania. Lo leggeva
per intero e poi lo riponeva nella sala delle riviste. Ricordo questo per dire
che era molto aperto, certamente anche in campo politico.

Ecco,
questo era padre Bellesi: una persona all’apparenza burbera ma, sotto la
scorza, buona; ferma nelle sue idee, ma accogliente e comprensiva. Un «orso
gentile» che mi mancherà.

Paolo Moiola
 

Il prete in
clergyman

di Giacomo
Mazzotti

Ero da poco entrato in seminario,
a Bevera: un bimbetto sprovveduto, 12 anni, arrivato dalla campagna e con la voglia
di diventare missionario. Fu lì, sotto il porticato, che lo incontrai per la
prima volta e fu per me un piccolo shock: un prete alto, giovane, con
rari capelli, una grossa valigia in mano ma, soprattutto… in clergyman!
Il primo pensiero che mi frullò in testa fu: «Un protestante tra noi!». Non ero
ancora abituato a vedere gente in quella tenuta e quell’incontro mi scombussolò
non poco. Salutai timidamente e venni poi a sapere che quel «prete protestante»
sarebbe stato il nostro futuro professore di lettere: padre Benedetto Bellesi,
appunto! E il suo abbigliamento era dovuto al fatto che rientrava da un breve
soggiorno in Inghilterra dove, da tempo, le sottane dei preti non erano più di
moda.

Lo
apprezzavamo molto, perché ci sapeva davvero fare. Riusciva a trasmetterci la
sua vasta cultura con brio ed eleganza. Rivedo ancora nei temi d’italiano, in
margine a qualche mia frase particolarmente… brillante, la sua benevola e
ironica annotazione: «Ma è farina del tuo sacco?». Poi non ci incontrammo più
mentre proseguiva il mio viaggio verso il sacerdozio e la missione. Me lo
ritrovai, inaspettatamente, a Wamba (nell’allora Zaire), dove da qualche anno
stavo assaporando la prima esperienza africana: l’inseparabile macchina
fotografica, il bloc-notes per gli appunti e la sua cordiale curiosità
nell’inseguirci nei vari posti, con domande e osservazioni. Era già entrato
nella redazione di «Missioni Consolata» e seppi che, ogni anno, programmava un
viaggio nei vari paesi per documentarsi sul campo. Frutto di questi giri per il
mondo, i suoi «pezzi» coloriti e godibili alla lettura.

Gennaio 1990: il sole pallido di Torino non riusciva
proprio a rallegrarmi il cuore, mentre pensavo con nostalgia a quello caldo e
luminoso dell’Africa che, poco più di un mese prima, avevo lasciato. Ero stato
destinato a lavorare per le nostre riviste e fu proprio in redazione che
ritrovai padre Benedetto, assieme al direttore, padre Francesco Beardi. Con
un’esplosione di gioia (forse perché mi aspettavano da tempo) accolsero il
novellino che arrivava fresco fresco per mettersi alla loro scuola.

Ricordo che si cominciava allora a usare i primi
computer (enormi, ingombranti) e fu proprio padre Benedetto ad accompagnare i
passi incerti di chi, fino ad allora, aveva vissuto in foresta, senza telefoni,
né corrente elettrica, né giornali; se ne intendeva un po’ più di noi tutti e
fu grazie a lui che l’informatica trasformò rapidamente il nostro sistema di
lavoro, rendendo le riviste più attraenti e modee.

Gli anni scivolavano veloci, numerosi; ero felice di
trovarmi in compagnia di Francesco e Benedetto: progetti, nuove idee, ricerche,
viaggi, preoccupazioni per i costi sempre in crescita, incontri di redazione…
Ognuno di noi con il suo stile, le sue «specialità». Lui, padre Benedetto,
aveva soprattutto la passione della storia, le biografie dei grandi missionari,
i reportages dai vari paesi, le interviste… il tutto sempre curato con
eleganza e precisione. I suoi articoli erano sempre apprezzati, letti con gusto
e anche ricercati, come i famosi «Numeri speciali», che il suo contributo
rendeva davvero preziosi.

Lasciai
gli amici della redazione nel 2005 per
l’amato Congo. Avevo rivisto padre Benedetto poco più di un anno fa. Era già
segnato dal male, ma sempre tenacemente attaccato alla sua rivista, al suo
lavoro, alle sue ricerche. Mi aveva fatto dono di un po’ di materiale biblico,
pazientemente raccolto negli anni e che conservava, con ordine, nel computer.

Un
gesto che mi rivelò ancora di più come lui non fosse soltanto un brillante
giornalista, ma anche un predicatore sapiente, una persona attenta ai problemi
del nostro tempo, un missionario felice della sua vocazione, pur severo nella
fedeltà ad essa, vissuta senza leggerezze, né sconti.

Ho
imparato molto da lui: non solo a usare il computer o a scrivere articoli, ma
soprattutto a servire la missione con competenza, serietà e gusto di fare le
cose bene. Lui ci è riuscito e ce ne ha dato l’esempio.

 
Giacomo Mazzotti
 

Un «dabar»
del nostro tempo

di
Paolo Farinella, prete

Ho conosciuto padre
Benedetto Bellesi nel mese di novembre del 2004. Al mio rientro da Gerusalemme,
Paolo Moiola mi contattò per chiedermi se fossi interessato a collaborare con
la rivista. Mi mise in contatto con il direttore, padre Benedetto Bellesi, il
quale fu contento di avere una rubrica specificamente «biblica». Decidemmo di
cominciare con il numero di febbraio dell’anno 2005. Il titolo della rubrica «Così
sta scritto» fu suggerito da Paolo Moiola e fu accettato sia da me che da padre
Benedetto, il quale mi lasciò piena libertà di parola e di scrittura.

Nella prima puntata, la numero «0» del febbraio 2005, che
fungeva da introduzione alla rubrica, concludevo con queste parole: «Spetta a
ciascuno di noi, “oggi”, decidere di essere «dabàr», parola/fatto che
resta scritto nella carne dell’umanità. Parola e sigillo di verità». Alla
notizia della morte di padre Benedetto, queste parole mi
tornarono alla mente e oggi penso di poterle applicare all’intera vita di padre
Benedetto per come l’ho conosciuto. L’ho visto l’ultima volta il 18 maggio
2013, un mese prima che salpasse per il suo esodo verso la terra promessa della
Gerusalemme celeste. Il volto era scaificato e si vedevano i segni del
compimento perché ormai il frutto «Benedetto» aveva raggiunto la sua piena
maturità.

Nel ritorno a Genova, insieme alla dott.ssa Maria Cristina
Pantone, si rifletteva sulla sua serenità e pacificazione: ci aveva raccontato
la sua malattia come se stesse parlando di una sorella o di una persona cara.
Era già immerso nel cuore di Dio e io sono convinto che lo sapesse, ma non
voleva dare preoccupazioni agli altri. Sono felice di averlo aiutato a trovare
la via per il suo lungo soggiorno a Gerusalemme, di cui mi fu sempre grato e
riconoscente e sono certo che da quel viaggio nella città del destino di Dio e
dell’uomo, egli ritoò con in bocca e nel cuore le parole di Simeone il
profeta: «Ora puoi lasciare, Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la
tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Lc 2,29-30).

Dopo
avere servito il Regno di Dio in missione per tutta la sua vita, sostò al pozzo
di Giacobbe per bere l’acqua della vita e mangiare il pane di Elia per
prepararsi all’esodo più importante della sua vita, dopo avere attraversato il
deserto della malattia e della consumazione del corpo con il fuoco
dell’immolazione. Il Signore ha visitato il suo cuore e ha voluto consolarlo
facendolo «abitare» per sei mesi nella Città santa, quasi una predilezione
prima del rapimento sul carro di fuoco, come il profeta Elia.

Sì!
Padre Bellesi fu un «dabàr» che in ebraico significa contemporaneamente «parola»
e «fatto/evento». Fu parola perché parlò e scrisse dal pulpito della rivista MC
che sentiva come sua creatura e che curava con amore e passione; fu anche
fatto/evento perché parlò con la sua vita trasparente e il suo comportamento
che non contraddisse mai la parola che scriveva. La sua amicizia è stata per me
preziosa e lodo Dio per la sua vita e la sua morte, ma anche perché mi ha
ritenuto degno di essere suo amico.

Non
piango la morte di un giusto che è sempre una grazia per chi crede, ma lodo il
Signore che ha liberato padre Benedetto dalla sofferenza legata al tempo e allo
spazio, per trasfigurarlo nell’immagine perfetta del «Lògos» che egli
servì per tutta la vita. Dio è più credibile perché padre Benedetto l’ha reso
più visibile e sperimentabile con la sua vita, con la sua parola. Parola e
vita, cioè «dabàr». Grazie, padre Benedetto per chi sei stato, per come
sei stato e per continuare a essere per noi che ti abbiamo conosciuto e amato
benedizione, memoriale senza fine del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e
di Gesù Cristo. Ora che sei andato avanti, non dimenticare di preparare il
posto anche per noi, accanto a te nella Gloria di Dio Padre e Figlio e Spirito
Santo. 

Paolo Farinella

Direttore al servizio


di Marco Bello

La tristezza ci coglie questa mattina (3
luglio 2013). Ce l’aspettavamo, ma nel cuore c’era ancora la speranza che padre
Bellesi sarebbe tornato a solcare con passo fermo il corridoio della redazione.
Perdiamo un pilastro della rivista, per il suo italiano pulito, ma anche per il
grande lavoro in termini di quantità, oltre che di qualità. Mi ricordo quando è
stato nostro direttore, ruolo che non gli piaceva troppo e che immagino accettò
per spirito di servizio. Non dimenticherò mai il suo atteggiamento di
difesa dei «suoi» redattori. Lo avevo conosciuto nei primi anni ‘90 quando ho
iniziato la collaborazione come esterno e il nostro terreno d’incontro furono
subito le macchine fotografiche. Anche lui «canonista» convinto, ci
consigliavamo a vicenda le ultime autofocus uscite. Lo abbiamo visto cambiare
fisicamente in questi ultimi mesi, ma il suo spirito era sempre lo stesso. Si
crea un grande «buco» in redazione, che sarà difficile colmare. E poi a chi
regalerò i francobolli adesso?

 
Marco Bello

______________________________________
Una vita essenziale

Nato a Montegranaro (Fermo) il 12 ottobre 1937, figlio di
Pasquale e Maulo Maria, a 21 anni (1958) emette la prima professione religiosa
come Missionario della Consolata. Ordinato sacerdote nel 1963, dall’ottobre
1964 al 1972 insegna nel seminario minore di Bevera di Castello Brianza, mentre
studia all’Università Cattolica di Milano dove si laurea in Lettere nel 1971.
Il 1973 è dedicato allo studio dell’inglese a Londra. Nel ’74 completa i suoi
studi in Sudafrica per qualificarsi all’insegnamento nel mondo inglese. Rimane
in Sudafrica fino al 1986: vice parroco di Ermelo, parroco a Piet Retief e poi
responsabile del Centro Pastorale di Damesfontein, dopo l’anno sabbatico di
approfondimento pastorale al Gaba Institute presso Eldoret in Kenya nel 1983.

Il primo luglio 1986 è ufficialmente destinato a lavorare
nella rivista a Torino, dove, liberatosi dagli impegni in Sudafrica, arriva
all’inizio del 1987 per dare il cambio all’attuale direttore in partenza allora
per il Kenya via Inghilterra per l’inglese. Il suo primo lavoro è completare la
serie dei quaranta numeri di «Missione come», la mini enciclopedia missionaria
della rivista Amico. Redattore e anche direttore per un breve periodo, durante
il suo servizio alla rivista visita il mondo consolatino in lungo e in largo.
Forse l’unico posto dove non va è l’Asia, soprattutto la Mongolia, dove sogna
tanto di andare. è stato inoltre autore e curatore di numerosi saggi.

Colpito da un tumore al maxillo facciale, è operato con successo
una prima volta nel 2007, tornando al suo posto di lavoro come se niente fosse,
o quasi. Tra settembre 2009 e giugno 2010 realizza il suo desiderio di vivere
un anno in Terra Santa totalmente dedicato agli studi biblici che tanto ama.
Rientrato in redazione, accolto a braccia aperte, nel luglio 2012 ha una
ricaduta del tumore da cui non si è più ripreso nonostante i massicci
interventi. Cosciente della sua condizione fa di tutto per non farla pesare.
Continua a lavorare come sempre fino a quel 18 giugno, quando una grave
emorragia lo costringe in ospedale da cui esce alle prime ore del 3 luglio
passando per la «porta stretta» che conduce in cielo. Ora il suo corpo riposa
nel suo paese nativo.

Gigi Anataloni
 

a cura di Gigi Anataloni

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