«Annunzia quanto ti dirò» Convegno Nazionale Missionario – Sacrofano 2014

IV CONVEGNO MISSIONARIO NAZIONALE /1
Sacrofano (Roma) 20-23/11/2014

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«
Annunzia quanto ti dirò»

Dopo la prima tappa, la preparazione durata un anno,
si è conclusa la seconda: la celebrazione del «IV Convegno missionario
nazionale 2014», organizzato nei giorni 20-23 novembre dall’Ufficio
nazionale per la cooperazione tra le Chiese della Cei
, dalla Fondazione
Missio
e dalla Fondazione Cum a Sacrofano (Roma). Inizia ora la
terza tappa: la continuazione. La sfida è narrare e testimoniare quanto
si è vissuto, passare dalle parole ai fatti. È l’impegno raccolto dagli 880
partecipanti provenienti da ogni angolo d’Italia: 520 giovani e adulti (di cui
50 volontari) impegnati con i Centri missionari delle varie diocesi d’Italia o
in associazioni di sostegno alla missione, 230 sacerdoti, missionari e fidei
donum
, e 130 religiosi e religiose.

Cominciato nel pomeriggio di giovedì, e concluso col
pranzo di domenica, il Convegno ha seguito un ritmo intensissimo, marcato da
preghiera, incontri, relazioni, lavori di gruppo, testimonianze e momenti di
festa. L’udienza con papa Francesco alle nove di sabato 22 ha scaldato il cuore
di tutti.

I relatori sono stati:

* il biblista mons. Ambrogio Spreafico, vecovo di
Frosinone e presidente dell’Ufficio nazionale per la cooperazione tra le
Chiese, che ha presentato una relazione dal titolo «Alzati e va’ a Ninive – La
Parola di Dio nella globalizzazione»;

* suor Antonietta Potente, della famiglia
domenicana, insegnante di teologia presso l’Università cattolica di Cochabamba
in Perù, che ha proposto una riflessione a partire dalle tentazioni di Gesù;

* il prof. Mauro Magatti, sociologo ed economista, e
la prof.ssa Chiara Giaccardi, sociologa, che – come coniugi e come
esperti – hanno affrontato il tema dell’incontro da un punto di vista
antropologico;

* il prof. Aluisi Tosolini, filosofo e pedagogista,
che ha presentato una fotografia del «battito della missione» oggi in Italia
attraverso la rilettura dei contributi arrivati negli scorsi mesi alla
commissione preparatoria del convegno;

* padre
Gustavo Gutiérrez
,
peruviano, uno dei padri storici della teologia della liberazione.

Pubblichiamo le prime tre parti del testo conclusivo del
Convegno, preparato dalla segreteria dello stesso. La seconda parte apparirà
sul prossimo numero di MC, riservandoci di tornare in futuro sulle singole
relazioni, per offrire ai nostri lettori materiale su cui continuare il cammino
del Convegno, e «far ricadere a livello locale (regionale e diocesano) quanto
vissuto a Sacrofano».

Gigi Anataloni


Linee e orientamenti pastorali per un rinnovato impegno
missionario «lontano» (fuori dall’Italia) e «ai lontani» delle nostre comunità
cristiane

A. LO SGUARDO INIZIALE

Ci sembra importante iniziare riaffermando brevemente gli
obiettivi generali che questo Convegno si era prefisso.

<
Riaccendere la passione e rilanciare la dedizione dei singoli e delle comunità
cristiane per la missio ad gentes e inter gentes, a
partire dai poveri, come paradigma dell’annuncio (missione «lontano»).

<
Studiare nuovi modi e stili di
presenza missionaria
nella nostra realtà (missione «ai
lontani»).

B. RIPARTIRE DALLA PAROLA

Vorremmo tornare sull’icona biblica che ha fatto da sfondo
al Convegno, quella di Giona, unendola a un’altra icona biblica, il racconto
evangelico della tempesta sedata nella versione di Marco 4. Proponiamo alcuni
spunti:

< «Alzati e va’ a Ninive, la grande città». Dio ci
chiama a «uscire» per andare verso la grande città, periferia ostile, abitata
da nemici. È Dio che chiama e manda, non siamo noi a scegliere.
Il problema di Giona è accettare di andare nella direzione giusta, non dove lo
spinge la paura. Ninive è la grande città, che fa paura a Giona e al mondo.
Giona non viene mandato per chiamare alla conversione. La parola che deve dire è
semplice: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». Giona cioè deve far
emergere il male e la violenza della città. Certo il profeta si sarà chiesto:
chi sono io per andare a dire questo agli abitanti di Ninive? Noi siamo in un
mondo, dove il male è forte. Il male e la violenza sono il vero dramma di
Ninive
e del mondo. Lo abbiamo detto in questi giorni: la guerra, la violenza,
la povertà, l’abbandono dei vecchi, i profughi, le persecuzioni… in una parola:
la missio ad gentes è missio ad pauperes.

< Giona fugge. Questa missione fa paura. Ma senza coscienza
della forza del male non si capisce l’urgenza e la necessità della missione.
Per questo Giona deve sperimentare in se stesso la forza del male nell’abisso,
nel ventre di un pesce. Giona scopre così il bisogno di essere liberato,
salvato. Scopre che da solo non si può salvare, che esiste una forza
invincibile, che da soli non possiamo combattere.
Così è avvenuto ai discepoli di Gesù nel mare in tempesta. Erano sulla barca
con lui, ma con loro c’erano altre barche. Si potrebbero identificare le altre
barche con la vita dei tanti nella tempesta del mondo. C’è Gesù, ma c’è anche
la tempesta. Quel mare in tempesta è come quello di Giona. Paura, pericolo. Da
soli i discepoli non ce la fanno.
Gridano e Gesù li salva, fa tacere il mare e il vento.
Ma nel mondo si è persa la coscienza del male e della sua forza. Tutto è
anestetizzato, esorcizzato, giustificato. Tutto è normale, anche gli stranieri
che muoiono nel Mediterraneo o i vecchi abbandonati in istituto. Poca coscienza
del peccato, perché scarsa è la coscienza del male. Eppure non siamo liberi,
siamo al contrario pieni di paure che non riusciamo a vincere.
Solo nell’abisso, solo nella tempesta, i discepoli capiscono che c’è Ninive,
il male, ma che c’è anche Gesù.
Lui solo può vincere quella tempesta (che
rappresenta il male).

< La vita cristiana è lotta contro il male. Questa è
la missione ad extra e ad intra.
E il racconto della tempesta sedata, in Marco, giunge dopo le parabole del
seme, della Parola di Dio gettata nel campo del mondo. Il male la contrasta, la
vorrebbe soffocare. La missione fa rivivere la Parola annunciandola.
I Vangeli sono pieni di racconti di guarigione. Nel nostro tempo sono molte le
persone che vanno a Medjugorje, ai santuari, che si affidano a volte a
guaritori e santoni. Esiste una domanda di guarigione nella gente. La domanda è:
il Vangelo che noi viviamo e comunichiamo, guarisce, libera dall’abisso del
male?

< Senza andare
a Ninive, senza andare nelle periferie più ostili, non c’è missione.
I poveri ci evangelizzano, come ci ha detto in questi giorni Papa Francesco,
innanzitutto perché ci trascinano là dove il dramma del male è più forte.
Questa è la domanda della missione. Bisogna imparare a guardare con
compassione, entrando nella lotta per il bene.

Lasciamoci come icona finale quella che l’apostolo Paolo,
grande missionario del Vangelo alle genti, usa in Efesini quando esorta a
rivestirsi dell’armatura di Dio (Ef 6,10-20). Questa è anche una Chiesa in
uscita, una Chiesa che vive per la strada, incontra, ascolta, parla, dialoga,
lotta.

Il mondo non ha bisogno di una Chiesa dietro le barricate,
ma di una Chiesa che esce
e incontra,
perché la gioia del Vangelo raggiunga tutti, a cominciare dalle periferie più
lontane. Solo così sarà attraente.

Rivestiamoci allora di un nuovo entusiasmo e viviamo a
pieno la gioia e la bellezza della vita cristiana, senza pessimismi e lamenti.

C. QUELLO CHE NOI ABBIAMO UDITO, VEDUTO, CONTEMPLATO

Nell’elaborazione di questo nostro Convegno è stato scelto
di dare grande rilievo alla fase preparatoria e alla fase del post-Convegno. La
fase celebrativa che abbiamo vissuto non può infatti essere scissa dalle altre
due. E questo vorremmo sottolinearlo con forza: oggi non terminiamo il
nostro Convegno, ma iniziamo la terza fase del percorso
.

Riprendiamo i tre verbi da cui siamo partiti nel cammino
di preparazione: «Uscire, incontrare, donarsi», utilizzando come riferimento
quello da cui derivano tutti gli altri: uscire.

USCIRE.

< È la Parola di Dio la protagonista del cambiamento a
Ninive. Possiede una forza inaspettata. Ma non opera da sola: c’è bisogno di
qualcuno che accetti di uscire per andare alle periferie.

<
Uscire è rispondere alla chiamata di
Dio che ci chiede di andare al di là di noi stessi, del nostro individualismo
ed egoismo. In un mondo globalizzato, ma frammentato e tribale, la missione usa
una parola che unisce, crea comunione e aiuta a sognare la pace.

< Mentre viviamo la percezione di essere sotto assedio
perché non abbiamo ancora elaborato il lutto della fine della civiltà cattolica
(come abbiamo visto dall’analisi del materiale raccolto durante la fase
preparatoria), dobbiamo sfidare noi stessi per scegliere di uscire
dall’assedio.

< Uscire per correre il rischio di camminare in spazi
sconosciuti. Uscire per avere il coraggio di affrontare nuove domande e nuove
sfide.

Dal verbo «uscire», che dobbiamo imparare a declinare nel
nostro quotidiano, si dipanano, come in un lungo filo, altri verbi che sono
ricorsi in tutte le relazioni ascoltate in questi giorni.

Ma elencare questi verbi non esaurisce il processo che si è
messo in moto attraverso il Convegno. Ascoltare questi verbi è ascoltare una
storia che non avrà fine finché ci saranno narratori che avranno voglia di
raccontarla.

Immaginiamo quel vecchio gioco in cui un bambino comincia
una storia, che viene continuata dal suo vicino, e poi da un altro bambino, e
così via. Ecco, questo è quanto dobbiamo fare noi con le tante parole di questo
nostro Convegno, con i verbi che prendono slancio da «uscire». Non c’è nulla di
chiuso, nulla di concluso in queste righe che fanno da sintesi. Ciascuno di noi
è, anzi, invitato a riprendere questi verbi e a continuare il racconto.

< D’altronde, uno di questi verbi è proprio NARRARE.
Uscire dalle retoriche consuete per assumere nuove narrazioni. Evangelizzare è
narrare.
Per questo è tempo di testimoni che mostrino come l’eccedenza di fede sia
generatrice di vita. Quello che abbiamo sperimentato viene, così, detto
nuovamente, con una parola che racconta, che narra, in una prospettiva di
significato e di relazione.
Occorre trovare un linguaggio nuovo che non abbia come unico intento
quello dell’informazione, ma anche quello della narrazione, che è un’arte da
coltivare. Come l’antico griot africano capace di dare senso alla
memoria, alla tradizione, all’identità di un popolo.

< GUARDARE. Non è possibile fare a meno di uno sguardo
attento sulla realtà. Uno sguardo che sia capace di compassione. Giona non sa
guardare in questo modo, e la mancanza di compassione coincide con l’incapacità
di guardare oltre se stessi.
La missionarietà è coltivare uno sguardo nuovo e generativo, in grado di
cogliere il piccolo nel grande, di creare novità, e di ricomporre la
frammentazione in un mondo globale come quello in cui viviamo. Dobbiamo
cambiare il nostro sguardo per guardare la realtà, imparare a leggere i segni
dei tempi.

< E poi, ANDARE e STARE. L’uscire è un movimento
fatto di andare e stare. Che non sono due movimenti contrapposti, ma bensì
legati in un dinamismo che radica l’andare e apre lo stare. Allora andare non è
seguire l’itinerario tracciato da un altro, una strada prestabilita, ma essere
disponibili all’incontro
, a fermarsi per narrare, per testimoniare. E stare
non è rinchiudersi in se stessi in una dimensione intimistica, ma significa
stare con la porta aperta.

< ABITARE. Il quadro in cui stiamo vivendo in questi anni è quello
del villaggio globale, affiancato dalla città-mondo, in cui si concentra il 50%
della popolazione mondiale divisa tra luoghi di élite e luoghi di scarto. In
questo contesto abitare il mondo significa rendere reale una possibilità di
vita
.

Il rapporto tra centro e periferia non dipende più solo da fattori geografici.
Viviamo continue situazioni di frontiera, condizione che può essere luogo di
opposizione, ma anche di incontro.
Se utilizziamo uno sguardo nuovo, saremo capaci di abitare tempi, spazi e luoghi,
di far percepire la nostra presenza, abitare per esserci, dove la parte
importante del termine è la particella «ci».

< Guardare e abitare il villaggio globale, provoca
un’ulteriore azione inscindibile dalle altre due: DENUNCIARE. Non
possiamo solamente aiutare i poveri, gestire l’emergenza, ma dobbiamo
denunciare le cause della povertà
. La povertà dipende dall’uomo, è una
creazione dell’uomo. Non esiste solo l’aspetto economico, ma anche quello
spirituale, culturale e sociale. La povertà è multidimensionale. Siamo chiamati
a denunciare ingiustizia e oppressione, soprusi e violenze. Piccoli e grandi.
Partendo dai mille gesti quotidiani delle nostre giornate fino alle strutture
inique che governano il mondo.

< Ma dobbiamo anche FARE RETE.

Come Chiesa missionaria non possiamo che scoprirci come una grande rete
globale
.
Fare rete è l’azione chiave, elemento costitutivo su cui progettare e
concretizzare ogni nostro obiettivo e intento.
Viviamo nel tempo della società in rete, ma ci sentiamo incerti, fragili,
incapaci di controllare la realtà. La paura ci spinge a fare come Giona che
fugge. Invece noi siamo chiamati a camminare lungo tutte le strade delle Ninive
di oggi e scoprire che abbiamo già una grande rete globale che possiamo
utilizzare da un lato e servire dall’altro.

< Infine, STUDIARE.
Questa sollecitazione è emersa dai relatori, ma è emersa anche dai gruppi che
hanno lavorato insieme nei laboratori: il bisogno di formazione a vari
livelli
e la richiesta di orientamenti per concretizzarla.

Le parole chiave del Convegno sono quindi questi verbi che
abbiamo citato, ma i verbi sono lemmi grammaticali che hanno bisogno, per
connotare meglio l’azione che esprimono, di avverbi e di aggettivi. Per questo,
ci viene in aiuto Papa Francesco, con il discorso a noi rivolto durante
l’udienza privata di sabato 22 novembre.

Il Papa ha sottolineato come lo
spirito della missio ad gentes deve diventare lo spirito della missione
nel mondo
. «Una chiesa missionaria non può che essere in uscita: non ha
paura di incontrare, di scoprire le novità, di parlare della gioia del Vangelo».
E per questo – ha aggiunto – «vi chiedo di impegnarvi con passione».

Uscire significa superare la tentazione di parlarci tra
noi. Il Vangelo di Gesù si realizza nella storia. Gesù stesso fu un uomo di
periferia e la sua Parola è stata l’inizio di un cambiamento nella storia. «Tenete
alto nel vostro impegno lo spirito di Evangelii Gaudium» e siate testimoni «con
entusiasmo».

I nostri verbi quindi devono essere declinati «con
passione»
, «tenendo alto» e «con entusiasmo».

Un altro elemento da cui attingere per coniugare i verbi
chiave del Convegno, è indubbiamente il clima respirato, il tipo di interazione
che si è creata tra i partecipanti, che è stata certamente positiva. Non è
riduttivo definirla così: durante il confronto nei laboratori, si è infatti man
mano abbandonata la categoria del lamento, l’uso come filtro visivo della
fatica sperimentata quotidianamente, per lasciare invece spazio alla gioia
dell’incontro, dello scambio e al desiderio di ripartire. Alcuni spunti sono emersi dai
laboratori, ma altri sono venuti con libertà: ci sono stati ad esempio
rappresentanti di alcune diocesi che si sono riuniti spontaneamente per
riflettere, altri che si sono organizzati per proporre degli interventi comuni
in assemblea, dimostrando un forte desiderio di concretezza e la volontà di abitare
questo Convegno come gli spazi della nostra vita.

L’elenco dei verbi può forse apparire troppo schematico o
riduttivo. Ma leggiamolo come un’occasione di orientamento del nostro lavoro di
animazione missionaria, come, parafrasando Gianni Rodari, una «grammatica
della missione»
.


Continua il prossimo numero
con la quarta parte del documento:
«D. Quello che noi abbiamo narrato, ora lo desideriamo».


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Gigi Anataloni (a cura)