L’Angelo dei Carriers /2

Storia per immagini della vita della Beata Irene Stefani, missionaria della Consolata.





Continua

a cura di Gigi Anataloni




La Consolata da trecento anni patrona di Torino

Filatelia religiosa

Nella ricorrenza dei 300 anni dalla proclamazione della Madre di Dio
Consolatrice e Consolata a patrona della Città di Torino, è stato programmato
nel 2014 un ricco calendario di iniziative. Tra le altre la grande mostra «300
anni patrona: la Consolata e la sua città», la solenne cerimonia istituzionale,
nella Sala Rossa di Palazzo di Città (il palazzo civico) con le autorità civili
e religiose: evento questo ricordato anche con un annullo commemorativo dalle
Poste Italiane (1) e una
mostra di filatelia religiosa sulla Vergine e i santi sociali piemontesi nel
corridoio degli ex voto del Santuario. (2)

Il culto della Consolata affonda le sue radici nella
storia della chiesa torinese sin dal X secolo. La tradizione della venerazione
dell’immagine della Consolata è descritta dal testo «il necrologio di
Sant’Andrea», in cui si racconta la storia del «cieco di Briançon» che
raggiunge il luogo della visione e sotto le macerie ritrova miracolosamente
intatta l’icona della Madonna con il Bambino riacquistando definitivamente la
vista (3). Era il 20 giugno
del 1104. Nel 2004, in occasione dei festeggiamenti per i 900 anni di presenza
dell’icona (anche se l’attuale, è stato appurato, non è quella originale ma un
probabile dono del 1483 del cardinale Domenico Della Rovere – vedi articolo
su MC 10/2014
) il Santuario aveva promosso un annullo filatelico (4) con l’immagine della corona e con il simbolo MC (Maria
Consolata); all’epoca il nostro gruppo filatelico aveva predisposto una «busta
erinnofila» (5) con una proposta
di francobollo dedicato alla Consolata ma l’iniziativa non ha avuto seguito.

Con l’inaugurazione della nuova chiesa (1704) e l’assedio
di Torino da parte dei Francesi del 1706, l’immagine della Consolata è
diventata la figura centrale della devozione cittadina. Dalle prediche del
beato Valfrè, (6) ai piloni votivi
fatti collocare attorno alla città da Vittorio Amedeo II, dalle funzioni
continue nel Santuario e dall’altare dedicato alla Consolata allestito in
piazza San Carlo, alle migliaia di volantini con l’immagine della Consolata
distribuiti dal beato Valfrè (7) e
appesi sulle porte delle case e dei palazzi, si è messa in atto una vera e
propria «occupazione territoriale» dell’effige mariana. A seguito della
liberazione della Città dall’assedio, avvenuta proprio alla vigilia della festa
della Natività di Maria, il Consiglio comunale nella prima seduta nel 1706
decide di proclamare la «Santissima Vergine Maria Avocatta e Protetrice»,
devozione certificata poi da una più specifica deliberazione «… Questo Conseglio tutt’unanime e concorde, memore delle
complicate, singolari e recenti gratie che la Beatissima Vergine della
Consolata s’è compiaciuta compatir a questo publico e divoti che alla medesima
hanno racorso… l’ha elletta et ellegge per singolar protetrice di questa Città
e publico et ha ordinato e ordina che la Città vada in corpo ogni anno nel
giorno che si solenisa la sua festa nella detta luoro chiesa a venerarla e
darli un publico contrassegno et atestato della gratitudine che la Città sempre
conservarà a una tanta Protetrice» (8). Era il 21 maggio del 1714 e da quella data è stata
stabilita la centralità della festa del 20 giugno (ricorrenza del presunto
ritrovamento dell’antica immagine miracolosa da parte del cieco di Briançon).

Giova ricordare che il corpo del santo Cafasso (9) è sepolto nel Santuario della Consolata, come risulta
dalla grande vetrata che lo ritrae tra i suoi carcerati e che il beato Giuseppe
Allamano, nipote del Cafasso, è stato rettore del Santuario sin dal 1880 per
quasi 50 anni; ne ha curato la ristrutturazione e l’ampliamento e con la sua
azione pastorale il santuario ha riacquistato importanza quale centro della
devozione mariana in Torino e nel Piemonte (10).

Angelo Siro

Sintetizzato
dall’autore da suo più ampio articolo
pubblicato sulla rivista Filatelia Religiosa Flash e inserito nel sito
www.filateliareligiosa.it

Tag: Filatelia religiosa

Angelo Siro




I Perdenti 5. Montezuma e Atahualpa

 

Montezuma (1466 circa – 29 giugno 1520),
ultimo imperatore azteco, prima di salire al potere era un capo locale
lungimirante e un buon amministratore. Fra i suoi compiti c’era anche quello di
esercitare il sacerdozio a servizio degli dei del suo popolo. Dopo la sua
ascesa al trono nel 1502, tutto cambiò: divenne dispotico e violento,
superstizioso e con un carattere insicuro e altalenante. Il giorno della sua
incoronazione fece uccidere diverse migliaia di prigionieri sacrificandoli agli
dei perché lo proteggessero e lo custodissero lungo tutta la sua vita.

Le poche volte
che si mostrava ai suoi sudditi si presentava sempre con abiti sfarzosi ed
eleganti. Viveva in una enorme reggia dove le sue due mogli e le numerose
concubine erano circondate da un lusso inimmaginabile.

Atahualpa (20 marzo 1497 – 23 agosto 1533), è
stato l’ultimo sovrano dell’Impero Inca, giunto al potere dopo aver sconfitto
il fratellastro Huascar alla fine di una lunga guerra civile, regnò di fatto
solo un paio d’anni, quelli cruciali dell’incontro delle due culture indigena
ed europea. Nelle diverse biografie che ci sono giunte viene presentato come un
sovrano che goveò senza saggezza il vasto impero che aveva conquistato. Di
famiglia nobile, era legato con vincoli di parentela alle famiglie che
controllavano porzioni del suo territorio, una situazione instabile che di
volta in volta determinava conflitti o accordi precari con vari maggiorenti
dell’impero.

Voi due siete gli
ultimi sovrani degli imperi Azteco e Inca. Avete vissuto un momento cruciale
della storia dei vostri popoli: l’incontro con due personaggi come Hean
Cortés e Francisco Pizarro, che incarnavano la sete di conquista e la bramosia
di ricchezza dei conquistadores.


Parlateci un po’ di voi, come si svolgeva la vita della vostra gente prima
dell’arrivo degli spagnoli?

Montezuma: Considerando che l’impero Azteco di
cui io ero il monarca assoluto, aveva praticamente sconfitto tutte le popolazioni
(Maya compresi) che vivevano in quello che adesso è grosso modo il territorio
del Messico, del Guatemala e di altri paesi centroamericani, si può dire che
vivevamo senza grosse preoccupazioni e con un certo benessere.

Atahualpa: Noi Incas vivevamo in quello che
adesso è il territorio del Perù, dell’Ecuador e del Nord del Cile. Un
territorio immenso di difficile controllo, tant’è vero che una delle attività
principali dei sovrani incaici era appunto quella di mantenere in buono stato
una rete di strade e sentirneri per far sì che i funzionari potessero arrivare
nel più breve tempo possibile fino ai villaggi posti agli estremi confini
dell’impero.

L’arrivo dei
conquistadores fu allora come un fulmine a ciel sereno.

Montezuma: In un primo momento fummo affascinati
da questi uomini bianchi dalle lunghe barbe, benché puzzassero oltre ogni
immaginazione; avevano strani bastoni lucenti che provocavano il tuono e la
folgore e ancora più strani ed enormi animali dai piedi di argento.

Atahualpa: Il fatto di vederli sopra quelle
bestie che noi non avevamo mai visto, in quanto gli animali più grossi presenti
nelle nostre terre erano il lama, l’alpaca e la vicuña, li rendeva ai nostri
occhi delle persone eccezionali, capaci di percorrere distanze molto superiori
a quelle che abitualmente facevamo noi a piedi.

Avevate coscienza che
prima o poi sarebbero arrivate genti da Oriente?

Montezuma: Rileggendo alcuni fatti antecedenti
l’arrivo dei conquistadores, capimmo una vecchia leggenda che annunciava alcuni
segni premonitori del crollo dell’impero Azteco. Infatti negli ultimi tempi era
apparsa una cometa in pieno giorno, alcuni avevano visto una colonna di fuoco
nel cielo notturno, un fulmine aveva colpito il tempio dei sacrifici e c’era
stata un’inondazione spaventosa come non se ne erano viste mai. Tutti segni di
morte che non lasciavano prevedere niente di buono per il futuro.

Atahualpa: I nostri saggi si tramandavano da
generazioni una profezia che parlava di genti diverse provenienti dal mare e da
terre lontane. Essi non entravano nei dettagli per non spaventare il popolo con
i foschi presagi della distruzione del nostro impero.

Quando vi siete
trovati davanti i conquistadores, qual è stata la vostra prima reazione?

Montezuma: Quando gli uomini bianchi arrivarono
nella nostra città, noi andammo loro incontro accogliendoli con tutti gli onori
dovuti agli ospiti e cercammo in ogni modo di soddisfare le loro richieste.

Atahualpa: Visto che non erano neanche un
centinaio, non mi preoccupai più di tanto, anzi, pensavo che proprio
l’accoglierli come ospiti di riguardo avrebbe permesso a me e alla mia gente di
vivere in pace con loro.

Quindi li faceste
entrare nei vostri palazzi.

Montezuma: Riservai a Cortés, il loro capo, uno
degli appartamenti regali e lasciai che i suoi uomini si sistemassero nelle
case di Tenochtitlan.

Atahualpa: Anch’io feci alloggiare il
comandante Pizarro in una casa riservata alla nobiltà, mentre i suoi uomini
venivano ospitati dalla gente che viveva vicino al palazzo imperiale.

Però dopo poco tempo
vi rendeste conto di quale fosse ciò che stava più a cuore a questi uomini.

Montezuma: Essi non facevano altro che
chiederci dove potevano trovare l’oro, se questo minerale fosse lontano dalla
costa e di come avrebbero potuto trasportarlo rapidamente alle loro navi.

Atahualpa: Anche da noi sembrava che la
richiesta maggiore fosse legata proprio all’oro, da noi utilizzato solo per
rendere più lucenti determinati oggetti di uso domestico.

Ma voi li sentivate
come avversari e nemici o come ospiti che, come erano giunti, prima o poi se ne
sarebbero andati?

Montezuma: La loro insistenza nel richiedere
oro e nell’avanzare pretese di ogni tipo riguardo le nostre donne, insinuò in
noi il dubbio che non fossero poi tanto cordiali come volevano presentarsi.
Anzi!

Atahualpa: Considerando le armi che possedevano
e gli animali che avevano, pensai addirittura di farmeli alleati per
fronteggiare eventuali nemici che insidiassero il mio Regno.

Come arrivaste ad
avere un conflitto con loro?

Montezuma: Ogni giorno che passava i nuovi
arrivati si comportavano sempre più da padroni, si appropriarono di quella che
era la nostra terra e quello che è peggio, prendevano i nostri giovani e li
facevano lavorare per loro trattandoli come schiavi.

Atahualpa: Si installarono nel mio palazzo e
praticamente mi tolsero ogni libertà di azione, pur rimanendo io il capo del
mio popolo, erano loro che davano gli ordini. Per la mia libertà arrivarono a
chiedere un riscatto: riempire un grande locale con tutto l’oro che riuscivamo
a trovare. Purtroppo anch’io caddi nella loro trappola invitando il mio popolo
ad assecondare i loro desideri.

Oltre a queste
richieste, ci furono altri motivi di attrito tra voi e gli spagnoli?

Montezuma: Cortés, comandante degli spagnoli,
diede ordine ai suoi uomini di distruggere tutte le immagini dei nostri dei e
le decorazioni sacre che li onoravano. Mentre compivano queste devastazioni, la
folla si sollevò dando così il pretesto per un eccidio che passò alla storia
come «Massacro del Tempio Grande». Per evitare ulteriori sofferenze mi
affacciai al balcone invitando la mia gente a ritirarsi. Credendo che io fossi
complice di quell’efferatezza, il mio popolo scagliò pietre e frecce anche contro
di me.

Atahualpa: I notabili spagnoli mi dissero che
essi erano giunti nelle mie terre perché il mio popolo si convertisse al
cristianesimo e noi riconoscessimo l’autorità di Re Carlo I di Spagna. Risposi
che io non sarei mai stato sottomesso a nessun re, a quel punto Pizarro diede
l’ordine di attaccare i miei uomini e di distruggere tutto ciò che trovavano
sul loro cammino. Fu una vera ecatombe, morirono migliaia di Incas, mentre io
durante la battaglia rimanevo in piedi circondato dai nobili più fedeli. Alla
fine fui catturato e imprigionato nel Tempio del Sole.

Questi avvenimenti
così drammatici posero fine alla vostra vita?

Montezuma: Ferito dalle pietre e dalle frecce
che mi avevano tirato, caddi a terra circondato dai conquistadores, i quali dopo
alcuni giorni mi tolsero la vita facendomi ingerire oro fuso.

Atahualpa: Nonostante il pagamento dell’enorme
riscatto, venni processato e condannato a bruciare sul rogo. Se avessi
accettato di convertirmi al cattolicesimo la mia pena sarebbe stata commutata.
Nella mia cultura era importante conservare l’integrità del corpo per accedere
all’immortalità, pertanto accettai di essere battezzato e fui ucciso mediante
strangolamento.

 

Con la morte dei loro
capi, il popolo Azteco e quello Inca, attraversarono un momento di sbandamento,
iniziarono la loro parabola discendente e vennero soggiogati dai nuovi
arrivati. La storia di queste comunità quindi, si mescola con la storia di
altri popoli precolombiani che subirono la stessa sorte. Gli spagnoli,
conquistate le loro terre, li inglobarono nella nuova realtà e nella società
che stava nascendo. Sterminate in larga misura le popolazioni amerinde e fatti
arrivare

dall’Africa gli
schiavi neri per sopperire alla scarsità di mano d’opera per le immense
coltivazioni che si avviavano in quegli anni, il continente americano diede
vita a una nuova umanità. Ben riassunta, questa, da una lapide posta nella
piazza delle Tre Culture a Città del Messico per ricordare l’incontro-scontro
fra popoli diversi, dove sono scolpite queste suggestive e commoventi parole:
«No fue triunfo ni derrota. Fue el doloroso nacimiento del pueblo mestizo que
es el Mexico de hoy». (Non fu trionfo né sconfitta. Fu la dolorosa nascita del
popolo meticcio che è il Messico di oggi).

Don Mario Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




La condizione degli anziani: abusi silenziosi

Nelle nostre società
si parla molto di abusi sui minori e sulle donne, ma poco di quelli nei
confronti degli anziani. Si tratta di abusi fisici, psicologici e finanziari che
occorre affrontare, considerato il numero delle persone con età avanzata in
costante crescita.

I progressi della medicina hanno portato a un aumento della durata della
vita e all’incremento della popolazione anziana, soprattutto delle persone
ultraottantenni. Nella società attuale l’allungamento della vita non va però di
pari passo con la qualità dell’esistenza e, tra i molteplici problemi che
questa situazione pone, uno in particolare, quello degli abusi, è ancora
relativamente poco conosciuto, ma in continua crescita.

Le tre categorie principali di abuso sugli anziani sono:
quello domestico (nell’abitazione dell’anziano o in quella del caregiver, cioè del/della
badante, la persona che si prende cura dell’anziano), quello istituzionale
(nelle case di riposo e nelle residenze assistenziali) e quello auto-inflitto
(comportamento autolesivo, tipico degli anziani con difficoltà cognitive e in
stato di abbandono).

In Europa si stima che siano 37 milioni gli anziani che
hanno subito qualche forma di abuso. Di questi, circa 29 milioni hanno subito
maltrattamenti fisici, 6 milioni abusi finanziari, un milione abusi sessuali.
Si stima che circa 2.500 persone all’anno muoiano per mano dei familiari, come
conseguenza delle vessazioni subite. Molto spesso abusi finanziari, fisici e
psicologici sono perpetrati contemporaneamente. In un’indagine condotta in
Francia, Italia, Spagna, Belgio, in cui sono stati esaminati 1.000 casi per
paese, il 20% degli anziani intervistati ha ammesso di essere stato vittima o
testimone di truffe, compiute da familiari o da estranei. È stato rilevato
infatti che spesso gruppi organizzati di criminali si installano nel vicinato
di persone anziane, che vivono sole. Le persone più facilmente vittime di abusi
fisici e/o psicologici sono donne (75%), generalmente anziane (79 anni e
oltre). Secondo l’Eurostat, nel 2050 la popolazione europea sarà costituita al
30% da over 65, ma al momento le istituzioni europee e nazionali non sono
ancora pronte a contrastare il fenomeno degli abusi su di essi e sui non
autosufficienti.

Rispetto alla violenza sui minori e sulle donne, di
violenza sugli anziani si sente parlare relativamente poco da parte dei media,
eppure gli studi condotti a livello internazionale dimostrano il costante
aumento del fenomeno.

In
famiglia e in ricovero

Il primo articolo su questo argomento apparve
sul British
Medical Joual nel 1975 e,
all’inizio degli anni ’80 venne definita una sindrome ben precisa, detta Elderly abuse syndrome ovvero «sindrome da abuso sull’anziano».
Questo tema venne trattato nel 2002, nell’ambito del primo Rapporto mondiale su
violenza e salute, dell’Organizzazione mondiale della sanità, presentato
durante la seconda «Assemblea mondiale sull’invecchiamento», tenutasi a Madrid.
Tale rapporto, basato su studi condotti a livello globale nei venti anni
precedenti, rivelò che gli abusi contro gli anziani sono estremamente diffusi,
ma che di solito non vengono denunciati e che comportano pesanti costi
finanziari e umani. I pochi studi demografici su cui è basato il rapporto
indicano che il 4-6% della popolazione anziana mondiale subisce abusi
all’interno della propria abitazione e che nei 2/3 dei casi gli abusatori sono
membri della famiglia, in particolare coniugi o figli. Secondo altri studi
sugli anziani condotti in Australia, Canada e Regno Unito, la percentuale degli
anziani che hanno subito abusi va dal 3% al 10%. Secondo il National Elder Abuse Incidence Study (Neias) condotto in Usa tra il 1986 e il
1996, l’incremento dei casi di prevaricazione riferiti dai servizi statali è
stato del 150%, ma si stima che i casi occulti siano cinque volte quelli
denunciati. Le violenze possono essere sia fisiche che psicologiche, ma possono
anche prendere la forma di sfruttamento economico, abbandono, disattenzione
(denutrizione, disidratazione, scarsa igiene, indumenti indecorosi). Purtroppo
molti casi non vengono alla luce perché spesso le vittime hanno un rapporto di
dipendenza con l’abusatore, per cui esse temono, denunciandolo, di subire
ulteriori vessazioni. A volte gli abusati sono anziani con turbe cognitive o
psichiatriche, incapaci di descrivere la condizione in cui si trovano. È chiaro
che i casi di violenza di cui si è a conoscenza sono solo la punta di un
iceberg e che i valori in nostro possesso sono ampiamente sottostimati.

Recentemente, in Italia sono venuti alla
luce casi di maltrattamento di anziani in alcuni istituti di ricovero, che
spesso hanno portato all’arresto di operatori socio-sanitari, di infermieri,
talvolta di medici. Tuttavia è altrettanto difficile conoscere l’incidenza del
maltrattamento degli anziani in queste strutture, sia per la reticenza dei loro
gestori, sia per il silenzio degli anziani ricoverati, che temono ritorsioni e
che spesso non hanno un adeguato sostegno familiare. Nell’unico rigoroso studio
a nostra disposizione sono stati intervistati 577 tra infermieri e assistenti
di 31 case di riposo del New Hampshire (Usa). Ebbene, il 36% degli intervistati
ha riferito di avere assistito all’abuso fisico sugli anziani ricoverati,
mentre l’81% ha assistito a casi di abuso psicologico.

In Italia, il fenomeno dell’abuso sugli
anziani è un problema sottovalutato sia per carenza di dati, che indicano una
quota di abusi intorno al 9% (anche qui un valore quasi certamente
sottostimato, dati i molti casi non denunciati), sia per la mancanza di una
specifica legislazione in merito.

Per definire un caso di abuso su persona
anziana, in Italia si fa riferimento ai seguenti articoli del Codice penale:
art. 570, sulla violazione degli obblighi di assistenza familiare; art. 571,
sull’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina; art. 572, sui
maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli; art. 591, sull’abbandono di
persone minori o incapaci; art. 643, sulla circonvenzione di persone incapaci (vedi box).

Abusatori
e abusati

Secondo il già citato Neias relativo agli
Usa, le categorie di anziani più a rischio di abusi sono le donne, gli ultraottantenni
e gli anziani con fragilità mentale e/o fisica. Secondo questo studio, per
quanto riguarda l’abuso psicologico, il 75% delle anziane vittime sono donne,
che salgono al 92% per quanto concee l’abuso finanziario. Inoltre i 2/3 dei
casi di autolesionismo denunciati sono di donne. Nella valutazione di questi
dati bisogna peraltro tenere in considerazione il fatto che la vita media della
donna è superiore a quella dell’uomo, pertanto, nella popolazione anziana, le
donne sono prevalenti. Gli ultraottantenni subiscono abuso nel 52% dei casi
(abuso fisico, psicologico, finanziario) e nel 45% dei casi sono vittime di
autolesionismo. Inoltre questo studio ha evidenziato che 3 su 4 anziani con
fragilità fisica e/o mentale sono vittime d’abuso o di disattenzione.

I perpetratori d’abuso sugli anziani sono
equamente distribuiti in entrambi i generi, sebbene vi sia una prevalenza dei
casi di disattenzione tra le donne, mentre le altre forme d’abuso sono
maggiormente commesse da uomini. Solitamente gli abusatori sono più giovani
delle loro vittime (65% sono sotto i 60 anni). In particolare, coloro che
commettono un abuso finanziario sono per il 45% al di sotto dei 40 anni. Nel
90% dei casi, abusatori e abusati sono parenti tra loro e i coniugi delle
vittime sono tra i più numerosi perpetratori di abuso domestico, sia per via di
una pregressa abitudine alla violenza domestica, sia, talvolta, per
l’appartenenza a credi religiosi, che non rispettano la parità tra i sessi e
che giustificano le prevaricazioni degli uomini sulle donne.

Talvolta gli abusatori dipendono
economicamente dalle vittime.

Nella prevenzione dei casi di abuso sugli
anziani è fondamentale il ruolo del medico, che ha sia un obbligo di
segnalazione dei casi d’abuso previsto dal Codice penale, sia un obbligo
dettato dal Codice di deontologia medica, il cui art. 29 dice che «il medico
deve contribuire a proteggere il minore, l’anziano e il disabile, in
particolare quando ritenga che l’ambiente, familiare o extrafamiliare, in cui
vivono, non sia sufficientemente sollecito alla cura della loro salute, ovvero
sia sede di maltrattamenti, violenze o abusi sessuali…». È altrettanto
importante il ruolo assunto dagli operatori sanitari e dagli assistenti
sociali. Queste figure, più facilmente di altre, dato il contatto diretto con
gli anziani e il loro nucleo familiare, possono mettere a fuoco la presenza di
fattori di rischio di abuso (vedi box). In
particolare, possono sottoporre gli anziani e i loro familiari a un’intervista
(svolta separatamente) con domande mirate a ottenere informazioni sulle
vessazioni subite o sul potenziale rischio di subirle. Nel caso del medico e
degli operatori sanitari è possibile rilevare, mediante esame fisico, la
presenza di segni riconducibili a forme di abuso. È inoltre fondamentale da
parte del medico verificare se vi siano nell’anziano dei problemi cognitivi o
psichiatrici, dal momento che questi, più di altri fattori, espongono a rischio
di abuso. È importante individuare anche eventuali fattori protettivi, che
possono essere individuali, come una buona condizione psicofisica e
socioeconomica, nonché essere di genere maschile; oppure possono essere di tipo
relazionale come fare parte di un’ampia rete sociale, con legami forti, che
limita il rischio di abbandono; oppure fattori protettivi legati all’ambiente,
come l’istituzione da parte della comunità di organizzazioni che sopperiscano
alle necessità dell’anziano e del suo caregiver. Nella
prevenzione degli abusi sugli anziani, oltre al ruolo svolto dal personale
sanitario, è importante quello svolto dagli operatori del diritto, mediante
l’applicazione di misure più efficaci come politiche governative e attenzione
legislativa incentrate sull’anziano, in aggiunta alle misure attualmente
presenti. Del resto, l’abuso sugli anziani rappresenta una violazione dei
diritti umani, nel momento in cui si verifichi la privazione della possibilità
di vivere in maniera degna e indipendente e di partecipare alla vita sociale e
culturale, principio che rappresenta un diritto fondamentale, sancito dall’art.
25 della Carta dei diritti dell’Unione europea.

Un
anziano «vale»

La prevenzione degli abusi sugli anziani è
molto importante, viste anche le conseguenze che essi possono avere. Gli abusi
infatti possono comportare costi sociali diretti e indiretti. Tra i primi vanno
annoverate le procedure di giustizia penale, l’assistenza ospedaliera, i
programmi di prevenzione, di educazione e di ricerca. Tra quelli indiretti ci
sono una ridotta produttività, la minore qualità della vita, le sofferenze emotive,
la perdita di fiducia e autostima, l’invalidità e i decessi prematuri, la
dipendenza da alcolici e farmaci, i disordini cronici dell’alimentazione, le
tendenze suicide.

Un ruolo fondamentale nella prevenzione degli
abusi agli anziani lo svolgono gli attori impegnati, tanto a scuola quanto in
famiglia, nell’educazione dei giovani, poiché l’abuso nasce soprattutto dalla
mancanza di consapevolezza del valore che l’anziano rappresenta. Purtroppo in
una società edonista come quella occidentale, in cui l’apparire conta più
dell’essere e si assiste a forme di smodata competizione, per raggiungere
livelli di carriera e di successo sempre maggiori, la figura dell’anziano,
lungi dall’essere considerata la depositaria di saggezza tipica del nostro
passato (o delle culture orientali), viene vista come quella di un perdente, di
una persona non più in grado di produrre e di conseguenza un peso per la società,
dalla quale viene via via emarginato. Sebbene gli anziani, specialmente i
nonni, rappresentino sempre più un pilastro per le loro famiglie sia di tipo
economico (il 10% dei nuclei famigliari sono sostenuti economicamente dai
nonni), che per l’accudimento dei nipoti, quando i genitori lavorano entrambi
(nel 30% dei casi i nonni badano ai nipoti), non appena cessano di svolgere
questi ruoli, con l’avanzare degli anni, essi in molti casi si trasformano in
un peso per i loro familiari. È a questo punto che si insinua il rischio di
abusi e di vessazioni o semplicemente la mancanza di rispetto. Tale esempio
rappresenta un messaggio molto negativo per i giovani della famiglia che,
divenuti adulti, potranno trasformarsi più facilmente in nuovi abusatori di
anziani.

Rosanna Novara
Topino


L’abuso
sugli anziani:

I
fattori di rischio

Fattori legati alla
persona anziana
: decadimento cognitivo, problemi comportamentali,
dipendenza da sostanze, malattie psichiatriche o problemi psicologici,
dipendenza funzionale, fragilità o salute cagionevole, basso reddito e/o
patrimonio limitato o inesistente, trauma o abuso pregresso, appartenenza a una
minoranza etnica, appartenenza al genere femminile.

Fattori legati al
perpetratore dell’abuso
: badante sottoposto a carico eccessivo di lavoro e
stress, malattie psichiatriche, problemi psicologici, dipendenza da sostanze.

Fattori legati alle
relazioni interpersonali
: disarmonia familiare, relazioni scarse o
conflittuali.

Fattori legati
all’ambiente
: scarso supporto sociale, coabitazione in condizioni di
disagio socio/economico o con persone che presentano fattori di rischio, come
possibili perpetratori d’abuso.

Codice Penale
Italiano

Art.
570: Violazione degli obblighi di assistenza familiare.

«Chiunque, abbandonando il domicilio, o comunque serbando
una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli
obblighi di assistenza inerenti alla patria potestà, alla tutela legale o alla
qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa.
Le dette pene si applicano congiuntamente a chi:
– malversa o dilapida i beni del figlio minore o del pupillo
o del coniuge;
– fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età
minore ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia
legalmente separato per sua colpa».

Art.
571: Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.

«Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina
in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per
ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, ovvero per
l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il
pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei
mesi.
Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano
le pene stabilite negli articoli 582 e 583 ridotte ad un terzo; se ne deriva la
morte, si applica la reclusione da tre a otto anni».

Art.
572: Maltrattamento in famiglia o verso i fanciulli.

«Chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo
precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni
quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per
ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, o per l’esercizio
di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque
anni.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si
applica la reclusione da quattro a otto anni. Se ne deriva una lesione
gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la
reclusione da dodici a venti anni».

Art.
575: Omicidio.

«Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la
reclusione non inferiore ad anni ventuno».  (…)

Art.
577: Altre circostanze aggravanti.

«Si applica la pena dell’ergastolo se il fatto preveduto
dall’art. 575 è commesso:
1) contro l’ascendente o il discendente;
2) col mezzo di sostanze venefiche, ovvero con un altro
mezzo insidioso;
3) con premeditazione;
4) col concorso di talune delle circostanze indicate nei
numeri 1 e 4 dell’art. 61.
La pena è della reclusione da 24 a 30 anni, se il fatto è
commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre
adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta».

Art.
582: Lesione personale.

«Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla
quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione
da tre mesi a tre anni.
Se la malattia ha una durata non superiore ai venti
giorni e non occorre alcuna della circostanze aggravanti prevedute negli
articoli 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel numero 1 e nell’ultima
parte dell’art. 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa».

Art.
591: Abbandono di persone minori o incapaci.

«Chiunque abbandona una persona minore di anni
quattordici ovvero una persona incapace, per una malattia di mente o di corpo,
o per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale
abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a
cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino
italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello stato
per ragioni di lavoro. La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal
fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la
morte. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio,
dal tutore o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato».

Art.
643: Circonvenzione di persone incapaci.

«Chiunque per procurare a sé o ad altri un profitto,
abusando dei bisogni, delle passioni, o dell’inesperienza di una persona
minore, ovvero abusando dello stato di infermità o deficienza psichica di una
persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto,
che comporti qualsiasi effetto giuridico per lei dannoso, è punito con la
reclusione… e con la multa…».

 

Tag: Anziani, prevenzione, qualità della vita, abusi

Rosanna Novara Topino




Brunei la ricca, sulla via della sharia

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 29

È uno dei più ricchi
paesi del Sud Est asiatico grazie all’esportazione di petrolio. Tra i paradisi
fiscali maggiormente «frequentati». Conta una popolazione di 400mila persone
distribuite su un territorio poco più grande del Molise. Dal 1 maggio 2014, per
tappe successive, sta riformando il proprio codice penale nella direzione della
Sharia: «Un atto di fede e gratitudine nei confronti di Allah, l’onnipotente»,
ha dichiarato il suo sultano.

Un anno fa il pacifico e benestante
sultanato del Brunei virava verso l’islamismo. Ad annunciarlo, lo stesso
Hassanal Bolkiah, sultano del paese dal 1967: «Sono grato ad Allah
l’onnipotente nell’annunciare che il 1° maggio [2014] vedrà la luce la prima
fase dell’applicazione della legge coranica».

Le regole del nuovo codice penale
saranno estese gradualmente fino a sostituire le precedenti e saranno
caratterizzate da un’inasprimento rilevante delle pene. Il «nuovo corso» di
rigida applicazione della legge coranica contrasta con il passato del paese
segnato da un’interpretazione dell’Islam più liberale, utile anche a
legittimare la ricchezza sfacciata e gli eccessi dei regnanti (è degli inizi di
aprile scorso la notizia delle sfarzose nozze del figlio del sultano, segnate
da bouquet di pietre preziose, abiti d’oro, scarpe di diamanti, ndr).

Il nuovo codice penale è uno degli
strumenti che l’oggi 68enne sovrano sta mettendo in campo, oltre alla decisione
di limitare poteri e spese proprie e dei consanguinei, per risollevare la
dignità nazionale e il livello delle casse pubbliche di un paese su cui
esercita un potere quasi assoluto.

Dopo un avvio complesso e più volte
ritardato, il controverso codice penale basato sulla Sharia ha visto finora
un’applicazione graduale con scarsi risultati.

Già in vigore da tempo, in modo
parziale, in ambito civile, a esempio quello familiare, la Sharia è ora legge
di riferimento. Sulla carta, i provvedimenti sono gli stessi, severi e arcaici,
che vengono già applicati altrove: tra essi, l’amputazione delle mani per i
ladri, la fustigazione per reati che includono aborto e uso di alcolici, la
lapidazione per adulterio e sodomia.

Le nuove regole non riguardano solo i
musulmani che rappresentano la grande maggioranza della popolazione, ma anche
la folta comunità immigrata, tra cui diversi cristiani, necessaria al
funzionamento del paese e alle necessità di aziende e famiglie.

Svolta integralista

Benché nel Brunei le manifestazioni
di dissenso verso le decisioni del sovrano e in generale delle autorità, siano
assai rare, le nuove norme hanno suscitato perplessità e proteste da parte
della popolazione sia musulmana che non: attivisti e semplici cittadini hanno
trovato su internet e nei social media strumenti di cornordinamento e
diffusione del loro disagio.

Forte il timore che la legge crei
particolare ostilità e discriminazione nei confronti dei non musulmani. A esprimerlo
sono soprattutto i cinesi, che rappresentano il 15% dei 400mila abitanti del
paese, ma anche gli immigrati, in parte di fede cristiana.

Avvicinandosi la data del 1° maggio
2014, l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani aveva espresso «profonda
preoccupazione» per le pene previste dalle nuove norme, considerate – aveva
segnalato – alla stregua di «tortura o altri trattamenti o punizioni crudeli,
inumani e degradanti».

Con questo provvedimento, il Brunei
va ad aggiungersi all’elenco di quei paesi dotati di leggi draconiane di stampo
religioso, e si mette in una posizione disagevole tra vicini musulmani di ben
altre dimensioni e influenza (ma di minore benessere procapite), come Malesia e
Indonesia, che cercano di contrastare le pretese della politica d’ispirazione
islamista.

La fisionomia del nuovo codice penale
è stata fortemente plasmata dallo stesso sovrano Hassanal Bolkiah. Il sultano
ha specificato che l’emanazione della legge islamica era in cantiere da anni,
in discussione almeno dal 1996, e che «con l’entrata in vigore della presente
legge, adempiamo al nostro dovere verso Allah».

Hassanal, è erede di una famiglia al
potere da sei secoli, passata indenne attraverso conflitti e dominazioni
coloniali, ultima quella britannica che ha imposto un protettorato terminato
soltanto nel 1984. Proprio codici di ispirazione anglosassone avevano finora
definito delitti e pene, mentre la legge religiosa restava relegata alle
contese personali o familiari.

Con i suoi sudditi al 70% di etnia
malese, concentrati per oltre metà nella capitale Bandar Seri Begawan, e per il
resto sparsi su 5.770 chilometri quadrati di territorio, il Brunei si affaccia
su un mare ricco di petrolio e di gas, ed è tra gli stati più benestanti al
mondo con un tenore di vita elevato, sanità e istruzione gratuite. Nonostante
il benessere procapite superiore a quello di molti vicini, e nonostante
l’influenza britannica, da tempo il paese presenta una forma di Islam meno
tollerante rispetto a quello dei due partner regionali già citati, con forti
limitazioni alla presenza di fedi diverse, il bando degli alcornolici, la rigida
applicazione delle regole morali. All’apparenza è una situazione funzionale
all’immagine che la monarchia vorrebbe dare di sé, all’acquisizione di un ruolo
diverso nella regione e anche ai lucrosi rapporti con le petro-monarchie del
Golfo.

La legge e le reazioni

Le difficoltà del sultanato negli
ultimi dodici mesi, comunque, non sono solo quelle date dal dissenso interno o
da quello di carattere diplomatico, ma anche quelle relative alla scarsità di
avvocati in grado di consentire il funzionamento dei tribunali e l’approdo a
giudizi equi e legalmente ineccepibili.

Sui 103 avvocati che, a partire dal
2003, si sono qualificati e successivamente registrati per operare nell’ambito
della legislazione di ispirazione religiosa islamica, solo 16 hanno fatto
domanda di operare nei tribunali islamici. A confermarlo qualche tempo fa, il
giudice di uno di questi tribunali, Yahya Ibrahim, che ne definisce «insoddisfacente»
il numero, ancor più considerando che, in base all’Ordinanza 2013 sul Codice
penale della Sharia, agli avvocati viene chiesto di giocare un ruolo importante
nei dibattimenti a sostegno di sentenze corrette ed efficaci.

Per legge, infatti, gli avvocati
specializzati in legge coranica dovrebbero essere almeno la metà di quelli
registrati in ciascun tribunale, ha affermato Ibrahim durante la cerimonia di
consegna dei certificati ufficiali ai 26 avvocati che avevano completato la
preparazione in questa particolare branca giuridica. Il giudice ha anche
suggerito una seria indagine sulle ragioni per cui essere un avvocato
specializzato nella Sharia sembra al momento poco appetibile per i
professionisti.

Nel loro complesso, le nuove pene,
indicate dal sultano come una «barriera contro negativi influssi estei», sono
state salutate con grande scetticismo e, per la prima volta, come già scritto,
da una vera e propria ondata di proteste attraverso i social media.

Non a caso, recentemente il sultano
ha parlato della monarchia islamica come di un «firewall (il “muro
tagliafuoco” che difende una rete informatica da attacchi estei, ndr.)
contro la globalizzazione». Certamente dedita al controllo dei sudditi, tanto
che, al primo manifestarsi di voci dissidenti riguardo l’introduzione piena
della Sharia, ha avvertito, tramite un messaggio consegnato ai media ufficiali:
«I nostri denigratori non possono continuare con questi insulti. Se ci sono
elementi che consentiranno di portarli in tribunale, allora la prima fase di
attuazione del codice penale islamico avrà un’applicazione certa nei loro
confronti». Non viene specificato chi siano i destinatari del messaggio, i «denigratori»,
ma in un paese in cui i mezzi di comunicazione tradizionali sono strettamente
regolamentati e dove la presenza di inteauti è invece tra le più alte in
Asia, è probabile che nel mirino ci fossero proprio la grande rete e i suoi
strumenti. Infatti proprio su blog e social network cresce la
preoccupazione verso le nuovo norme. Come riportato in uno dei molti posts:
«Fa davvero paura la possibilità di essere lapidati a morte per essere amanti o
multati per diversità sessuale oppure essere puniti per un abbigliamento non
considerato conforme alla morale».

Morale dinastica

Se la levata di scudi contro il
provvedimento ha mostrato quanto poco esso sia sentito come funzionale alla
propria vita dalla popolazione autoctona o immigrata, resta da chiarire quali
siamo le vere ragioni dietro l’introduzione nella versione più severa (almeno
sulla carta) del codice penale islamico. Dalla varietà delle analisi in
proposito, emergono tre punti di convergenza.

Il primo è quello dell’identità nazionale, strettamente legata a quella della sua monarchia. Il passato ha
dimostrato la fragilità del sultanato davanti a potenze straniere. Se tra il XV
e il XVII secolo era stato al centro di un dominio esteso dal Boeo alle
Filippine, ai giapponesi occorse una settimana per conquistarlo durante la
Seconda guerra mondiale. Una fragilità che resta caratteristica del paese anche
oggi. Da qui la necessità di rafforzare (primo tra i paesi dell’area con questa
radicalità) l’identità nazionale attraverso l’ideologia di una «monarchia
islamica malese». Hassanal Bolkiah, al potere dal 1967, noto per disporre,
almeno in passato, di harem rigogliosi nel suo palazzo di 1700 stanze, ha
deciso di cambiare drasticamente l’immagine del suo regno e la propria,
puntando sull’islamizzazione non più solo di facciata.

Secondo punto da considerare è che
l’applicazione severa della Sharia fornisce al sultano – il quale è leader sia
temporale che spirituale – un nuovo potere di controllo in un sistema
che presenta crescenti segnali di disagio. Per questo motivo i gruppi e gli
individui che già prima lamentavano poca libertà e diritti, temono un ulteriore
peggioramento, in contrasto con le loro richieste di maggiore apertura
ideologica e culturale. La gran parte dei cittadini è infatti impiegata nel
settore pubblico, ma al livello di preparazione dei giovani non corrisponde un’adeguata
disponibilità di posti di lavoro qualificati, cosa che determina una
disoccupazione limitata ma in crescita. Il fenomeno è causa di una maggiore
disaffezione al proprio paese nelle fasce d’età inferiori che cercano in
attività come l’uso intensivo del web, il vandalismo, l’uso di anfetamine e la
microcriminalità, alternative alla noia e alla demotivazione. Una situazione
che il sultano ha addebitato a negative influenze estee e a un’adesione solo
parziale al dettato coranico che va rettificata.

Terzo punto, quello economico-diplomatico,
per molti centrale. La legge in vigore, per un biennio in fase transitoria,
consentirà infatti al Brunei di diventare il centro della finanza e del sistema
creditizio islamico nella regione, accogliendo anche maggiori investimenti
dalle economie islamiche, con una differenziazione maggiore di attori e
tipologie d’impresa. Con una svolta netta rispetto alla sua finora quasi
completa dipendenza dalle risorse petrolifere, esportate soprattutto in
Giappone e Corea del Sud, il paese ha deciso di sfruttare le prospettive di
crescita dell’economia islamica globale. Questa, che un rapporto di Thomson
Reuters
stima in un potenziale del valore di 5.000 miliardi di dollari, in
parte consistente dovrebbe convergere sul Sud Est asiatico, sull’Indonesia e la
Malesia.

Una situazione di cui il sultanato,
che punta a diventare una «Singapore musulmana», vuole approfittare dandosi più
salde radici islamiche, un sistema penale e civile consequenziale e strutture
finanziarie-economiche basate sul diritto religioso per attrarre iniziative e
investimenti da Medio Oriente e Asia occidentale.

Una scommessa per il futuro che
potrebbe farlo diventare, suo malgrado, un centro di diffusione dell’ideologia
integralista di matrice araba, e un santuario finanziario per gruppi jihadisti
globali nel cuore dell’Asia.

Stefano Vecchia

Tag: Sharia, Sultanato, Libertà religiosa, Paradiso fiscale, Petrolio

Stefano Vecchia




5×1000, la lunga strada verso la chiarezza

A un mese dalle scadenze
per la presentazione della dichiarazione dei redditi proviamo a fare il punto
sul «cinque per mille» partendo dalla deliberazione della Corte dei Conti, che
non risparmia critiche al meccanismo attuale.

Troppi enti beneficiari e poca chiarezza su quello che davvero fanno,
otto amministrazioni pubbliche coinvolte fra Agenzia delle entrate e ministeri
per gestire conteggio e erogazioni dei fondi, ritardi cronici, elevati costi
per le procedure, contribuenti esclusi dalla possibilità di scegliere e «scippi»
da parte del governo, che trattiene una parte del denaro destinato dai
contribuenti declassando il cinque per mille a un effettivo quattro. Sono delle
vere bordate quelle che la Corte dei Conti, la magistratura che vigila sul
corretto uso dei fondi pubblici, riserva alla quota dell’imposta Irpef per
finalità di interesse sociale nella deliberazione 14/2014 dell’ottobre scorso.
In essa sono riportati i risultati della richiesta di chiarimenti alle
amministrazioni governative competenti chiamate in causa dalla stessa Corte,
con una precedente deliberazione del 2013.

Elementi di debolezza

A onor del vero, una prima «correzione» fra quelle
raccomandate dai magistrati contabili è stata fatta: con la legge di stabilità
2015 (articolo 1, comma 154), l’istituto del cinque per mille non è più «precario»,
cioè non deve essere rinnovato di anno in anno con una legge ad hoc, ma
entra stabilmente nel panorama normativo italiano. Tuttavia gli «elementi di
debolezza», come li definisce la Corte, sono ancora molti. A cominciare dal
fatto – è il primo punto della deliberazione – che i beneficiari sono troppi:
cinquantamila fra enti di volontariato, ricerca scientifica, ricerca sanitaria,
Comuni, associazioni sportive dilettantistiche e di tutela dei beni culturali e
paesaggistici. Quest’ultimo ambito presenta fra l’altro un’anomalia rispetto
agli altri: chi vuole dare il proprio cinque per mille alla cultura non ha la
possibilità di scegliere un ente riportandone il codice fiscale. Deve
semplicemente limitarsi ad apporre la firma nel riquadro relativo e sarà poi il
ministero dei Beni e delle Attività culturali (Mibac) a decidere a chi
destinare i fondi per le attività culturali, assegnandoli agli enti che hanno
fatto domanda al ministero e che hanno presentato un programma di attività e
interventi.

«Ciò suscita perplessità», rilevava la Corte già nella
deliberazione del 2013, poiché non permettere al contribuente di scegliere
l’ente «è in contrasto con la ratio stessa dell’istituto del cinque per mille»,
che mira a introdurre «una forma di democrazia fiscale all’interno
dell’ordinamento italiano».

Scarsa trasparenza

In contrasto con il principio di trasparenza e lealtà
nei confronti di chi paga le tasse sono, invece, gli ostacoli che impediscono
ai cittadini di acquisire rapidamente informazioni che consentano loro una
scelta consapevole: solo dal 2014 l’Agenzia delle entrate ha cominciato a
pubblicare gli elenchi degli ammessi e degli esclusi in forma aggregata, cioè
tutti insieme in un solo documento con importi e numero di scelte. Questo, fra
le altre cose, permette anche di vedere facilmente quali enti accedono al
cinque per mille in più di una categoria, ovvero, ad esempio, sia nella ricerca
medica che nel volontariato.

Farraginosità

Quanto alla farraginosità del meccanismo di conteggio,
attribuzione ed erogazione dei fondi, basti pensare che nel 2014 le quote
ripartite sono state quelle relative alle dichiarazioni Irpef del 2012,
riferite ai redditi dell’anno precedente. Le procedure amministrative connesse
al cinque per mille – iscrizione degli enti beneficiari agli elenchi, vaglio
delle rendicontazioni, mandati di tesoreria da approntare per procedere
all’erogazione, eccetera – sono troppo complesse, si legge nel rapporto, e le
amministrazioni stanno fra loro in un rapporto di scarso cornordinamento,
aggravato dalle disfunzioni intee di ciascuna di esse. Tutto questo ha ovviamente
un costo in termini di risorse umane e materiali impegnate da Agenzia e
ministeri.

Altra disfunzione rilevata dai guardiani contabili è
quella del rischio che intermediari e consulenti, assistendo il contribuente
nel fare la dichiarazione dei redditi, tentino di influenzae la scelta. Fra i
potenziali conflitti di interesse da tenere d’occhio ci sarebbero, secondo la
Corte, i Caf (centri di assistenza fiscale) appartenenti a enti che sono anche
beneficiari del cinque per mille o che hanno chiari legami con associazioni
beneficiarie e che potrebbero fare da «suggeritori» non disinteressati.

Tagli arbitrari

Vi è poi la questione del tetto di spesa, cioè la cifra
massima che lo stato si impegna a sborsare dopo il conteggio delle effettive
scelte dei contribuenti. Un esempio, riportato nella deliberazione del 2013:
per l’anno finanziario 2011, il totale dei fondi del cinque per mille destinati
dai contribuenti era di quasi 488 milioni di euro; di questi, lo stato ne ha
stanziati 395 poiché quello era il tetto stabilito nella legge finanziaria, cioè
la cifra per cui lo stato poteva impegnarsi data la situazione delle sue
finanze. Risultato: 93 milioni di euro che pure i cittadini avevano deciso di
destinare a enti o categorie di loro scelta non sono, di fatto, stati sborsati
ma utilizzati per altri fini. Ecco come, rifacendo i conti, il cinque per mille
era diventato un quattro e qualcosa.

La legge di stabilità 2015 ha aumentato il tetto di
spesa a 500 milioni di euro, provvedimento salutato dagli enti del no profit
con reazioni molto positive; l’eliminazione del tetto, tuttavia, rimane
l’auspicio della Corte che, in alternativa suggerisce: se non è possibile
eliminare il limite, almeno non si chiami l’istituto cinque per mille ma lo si «ribattezzi»
con la reale percentuale. «E? grave», si legge nella deliberazione, «che il
patto tra lo stato e i contribuenti venga sistematicamente violato,
analogamente a quanto accade per la quota dell’8 per mille di competenza
statale, che viene, spesso, dirottato su altre finalità rispetto a quelle
indicate».

I contribuenti

Il grosso delle destinazioni del cinque per mille viene
dai 730, i modelli presentati da dipendenti e pensionati: secondo gli
ultimi dati disponibili (2010), il 70% di questi contribuenti fanno una scelta in
merito al cinque per mille, contro il 26% di chi presenta l’Unico, per
lo più liberi professionisti. Quanto a chi usa il Cud, meno di un
contribuente su cento esprime la propria preferenza. Chi, invece, ha imposta
netta pari a zero, solo in un caso su cinque appone la firma mentre fra chi non
presenta la dichiarazione dei redditi la quota di optanti scende di nuovo sotto
l’un per cento. Secondo la Corte, questo quadro mostra che «risulta
disincentivata la partecipazione all’opzione di una rilevante quota di
cittadini, generalmente quelli più a basso reddito» e che c’è, rispetto
all’accesso alla scelta del cinque per mille, una differenza di trattamento fra
questi contribuenti e coloro che presentano 730 o Unico.

Le soglie

La deliberazione da un rilievo particolare al problema
delle soglie: secondo i magistrati contabili, distribuire le somme a quegli
enti che hanno ottenuto importi minimi non aiuta nessuno e meglio sarebbe
stabilire una quota sotto la quale il cinque per mille non viene sborsato
all’ente beneficiario ma ridistribuito fra chi ha ottenuto preferenze oltre la
soglia minima. Attualmente quest’ultima è 12 euro, una cifra – a detta della
Corte – che non fa alcuna differenza sulle finanze dell’ente e quindi sui suoi
eventuali assistiti, ma la cui distribuzione appesantisce la macchina
amministrativa: anche per erogare una somma così piccola occorrono calcoli e
procedure che impegnano impiegati e risorse dell’Agenzia e dei ministeri. Al
tempo stesso potrebbe essere opportuno stabilire una soglia verso l’alto. Gli
enti che ottengono già tanto con il cinque per mille dai sostenitori
potrebbero, suggerisce la Corte, essere esclusi dalla seconda distribuzione di
fondi, quella cioè che deriva dal cinque per mille dei contribuenti che non
scelgono un ente preciso ma solo la categoria.

Ultime, dolenti note sono secondo la Corte quelle
relative alle rendicontazioni: lenta, laboriosa e costosa la procedura per
verificare i rendiconti, cioè i documenti che i beneficiari presentano per
dimostrare come hanno usato i fondi ricevuti.

Focus sul
volontariato: frammentazione e dispersione

Gli organismi di volontariato fra cui il contribuente può
scegliere sono più di quarantamila, il doppio rispetto al 2006, anno di
introduzione del cinque per mille. A voler fare un conto della serva, dividendo
la popolazione italiana per il numero di enti si ottiene che c’è
un’organizzazione ogni 1.500 abitanti. È vero che questo costante aumento
degli enti senza fini di lucro rispecchia la
frammentazione dei bisogni della nostra società, dice la Corte, ma resta il
fatto che alcuni di questi «non producono alcun tipo di valore sociale», e cita
ad esempio le fondazioni politiche – oggi più che mai al centro di un dibattito
su come si finanzia la politica in vista della fine del finanziamento pubblico
ai partiti – o le associazioni di categorie professionali di avvocati, notai,
militari eccetera. A volte capita che un’organizzazione che può contare su
contribuenti con un alto reddito ottenga cifre alte pur avendo poche firme.

A questo si aggiunge che su quarantamila enti, oltre
novemila ottengono meno di cinquecento euro, e più di mille non hanno ottenuto
nemmeno una firma, segno che nemmeno il presidente sceglie la sua stessa onlus.
Questa situazione indica che le risorse del cinque per mille si disperdono in
tanti rivoli e che, in alcuni casi, non è nemmeno chiaro come e perché
un’organizzazione continui a sopravvivere. Occorrono controlli rigorosi che
misurino la reale utilità sociale degli enti ma, rilevano i magistrati
contabili, già su questo c’è un primo incaglio: il ministero del Lavoro e delle
Politiche sociali, l’amministrazione che meglio conosce il mondo
dell’associazionismo e le sue attività, non ha competenza nella compilazione
della lista dei beneficiari del cinque per mille, che è invece redatta
dall’Agenzia delle entrate, la quale si limita a verificare che le carte siano
in ordine.

Altro elemento rilevato dalla Corte già nel 2013 è che «attraverso
le attuali modalità di iscrizione e riparto, vengono agevolati, di fatto, gli
organismi di maggiori dimensioni e più strutturati», che possono investire in
promozione pubblicitaria e ottenere maggior visibilità. Risultato: «i primi 40
beneficiari si aggiudicano, costantemente negli anni, una percentuale di circa
il 30% del totale dei contributi» della categoria volontariato; la percentuale «sale
ad oltre il 90% per la ricerca scientifica e supera costantemente il 97% per
quella sanitaria».

Fra gli enti di volontariato esclusi dal cinque per
mille ci sono gli enti di natura pubblica. Ecco che, sottolinea la
magistratura, resta fuori dai beneficiari un’organizzazione come la Croce Rossa
Italiana, «pure percepita da molti contribuenti meritevole di sovvenzionamento».

Chiara Giovetti



I numeri del cinque
per mille

Contribuenti che
esprimono la preferenza:
oltre 16 milioni (55% del totale).

Categorie beneficiarie:
volontariato, ricerca scientifica, ricerca medica, beni culturali e
paesaggistici, Comuni, associazioni sportive dilettantistiche.

Enti beneficiari:
circa 50 mila, di cui 40 mila enti del volontariato.

Cifre erogate
(ultimi dati disponibili: 2012, redditi 2011): 393 milioni di euro, di cui 264
milioni al volontariato.

Media nazionale:
intorno ai 25 euro a contribuente (ma cambia molto a seconda del reddito; media
MCOnlus 33 ca.).

Principali differenze
con l’otto per mille
: l’otto per mille va allo stato o a una confessione
religiosa, il cinque per mille a una delle sei categorie o a uno dei
cinquantamila enti sopra; inoltre, l’otto per mille non destinato viene
comunque distribuito fra stato e confessioni, mentre il cinque per mille non
destinato rimane allo stato.

Come funziona:
quando si fa la dichiarazione dei redditi, nell’apposito formulario si riporta
il codice fiscale dell’ente che si vuole sostenere e si appone la firma, oppure
si appone solo la firma scegliendo così non uno specifico ente ma una categoria.
Questo secondo tipo di scelta fa sì che i fondi siano ripartiti per i membri di
quella categoria.

_____________

Destinare il cinque per mille non ha alcun costo per il
contribuente; per contro, non destinarlo non significa tenerlo per sé perché
comunque verrà trattenuto dallo stato per le spese destinate alla produzione e
al funzionamento dei servizi pubblici.

TaG: volontariato, 5×1000, cinque per mille, tasse, stato, cooperazione

Chiara Giovetti




Per rimpiazzare la pianta dell’odio

Diario di un giovane
da Isiro / 3

Via FB Tommaso
ci racconta altri due mesi della sua esperienza africana. Tra letture sulla
storia sanguinosa del Congo, bimbi da nutrire e con cui giocare, siccità e
pioggia, calore umano ed essenzialità, la sua vivace e profonda testimonianza
ci accompagna anche tra i Pigmei, fino alla Pasqua dei crocifissi d’Africa.

25 Gennaio 2015

Sto
leggendo la storia, sanguinosa, del Congo: le stragi, i milioni di persone
morte, i «Kadogo» (bambini soldato), e l’Occidente che ne approfitta per
succhiare le ricchezze del paese (oro, diamanti, coltan, rame, avorio, ecc.).
L’Occidente ha le mani sporche di sangue: invece di imparare dalle atrocità che
ci hanno coinvolto in passato, come il nazismo, abbiamo accettato che
succedesse ad altri, purché lontani dai nostri occhi e purché ci tornasse
qualcosa in tasca.

Dal
centro nutrizionale Gajen sono partiti altri bimbi: Pico e Paco, Jojo. La «banda
bassotti» è così, ci saranno sempre nuovi bimbi da conquistare e amare.

È
arrivata a Gajen un’aspirante suora da una missione a 500 km da qui. Lì c’è un
centro nutrizionale ma poca esperienza e nozioni. Spetta a me farle un po’ di
formazione. In realtà non avrei le competenze ma, sapendo come funziona il
nostro centro e prendendo del materiale da internet, me la sto cavando.

Proprio
mentre scrivo inizia una bella pioggia. La prima da due mesi. Finalmente le
piante potranno bere un po’ e l’aria pulirsi dalla polvere che la invade.

 

31 Gennaio 2015

Grazie
per il vostro sostegno e contributo. Il famoso freezer per cui avevamo raccolto
le offerte è arrivato con tanto di pannelli solari e batterie. Finalmente potremo
acquistare carne o pesce e conservarli.

In
questi giorni Ivo è partito per Bayenga per riposarsi e riprendersi
dall’esaurimento degli ultimi mesi, così tutti i suoi lavori sono passati a me
e padre Flavio. Sono già esaurito anch’io dopo due giorni. Ho scoperto il «Noix
de cola», un frutto che usano le sentinelle per fare il tuo di notte.
Contiene qualcosa come la caffeina e, al di là del sapore amarissimo, mi tiene
sveglio per affrontare le giornate intense.

Da
lunedì al centro sarò promosso nutrizionista. Ci sono alcuni bambini piccoli
che vorremmo seguire in maniera specifica. In particolare una bimba di due mesi
che pesa solo 2,6 kg, ha perso la mamma e quindi non ha latte materno da bere,
e, considerata l’elevata diffusione di Aids, è impensabile farla allattare da
altre donne. Non avrei le competenze, ma devo intervenire lo stesso se vogliamo
salvarla, quindi, con le linee guida dell’Oms sotto mano, mi cimento in questa
sfida.

Il
bello di questa esperienza è il fatto di non avere un ruolo. L’unico impegno è
quello di essere al servizio degli altri: puoi essere animatore, panettiere,
agricoltore, insegnante, padre, nutrizionista, ecc. Non importa se non si hanno
le conoscenze, ci si mette in gioco lo stesso.

 

9 Febbraio 2015

Domani
dovrebbe tornare Ivo, poi saremo io e P. Flavio a partire.

Al
centro la prima settimana da «nutrizionista» è stata piuttosto impegnativa. Al
primo sguardo i bambini che seguo sembrano nella «norma», ma quando misuro peso
e altezza e li confronto con l’età mi si gela il sangue. Alcuni bambini sono già
migliorati. Lo si nota dal volto, in particolare dagli occhi che sono più
vispi.

Si è
conclusa ieri la «Coupe d’Afrique» in cui il Congo si è classificato terzo. È
stato troppo bello: qui pochi hanno il televisore, in compenso ci sono radio in
abbondanza. Le sere delle partite si poteva sentire ovunque il commentatore
che, a tutto volume, ne faceva la cronaca: sembrava di essere dentro un mega
stereo. Per non parlare di quando c’erano i goal o, ancor più, di quando si
vinceva: un bornato di festeggiamenti che risuonava dovunque.

Oggi
ho saputo che è finito in prigione Pascal, un lavoratore di Gajen. Ha avuto una
discussione parecchio accesa col cognato che non si occupa della sorella e del
loro bambino. Così ora uno è all’ospedale, mentre Pascal con sua moglie e sua
sorella sono finiti in prigione (quando la polizia arriva prende chi trova). La
miseria rende molto più difficile risolvere malintesi e discussioni, e la
violenza fa presto ad avere la meglio quando si vive alla giornata.

La
nuova banda bassotti è fatta da elementi piuttosto impegnativi, in particolare
Bube e Dumbo (come li ho soprannominati).

15 Febbraio 2015

Theo è
un ragazzino di circa 14 anni che viene spesso al pomeriggio per fare qualche
lavoretto e soprattutto per avere un po’ di compagnia. Quando aveva 9 anni sua
mamma si è ammalata gravemente e il padre se n’è andato abbandonandoli. Così
lui è rimasto ad assistere la mamma all’ospedale. Quando è morta, è stato lui a
chiuderle gli occhi. La forza che ha mostrato e la sua grandissima educazione, è
un esempio e motivo di riflessione per me.

Al
centro è arrivato un bimbo di tre anni che non ha mai camminato. Ha una qualche
infiammazione alle gambe che lo fa urlare dal dolore quando prova a mettersi in
piedi. I genitori hanno raccontato di aver provato di tutto per aiutarlo. Un
giorno l’hanno seppellito fino al bacino dal mattino a mezzogiorno. Ho
consultato la pediatria dell’ospedale Bufalini di Cesena, e sembra che sia
sufficiente una cura con antinfiammatori per tre settimane per farlo rimettere.

Il
prossimo aneddoto per me è molto doloroso, riguarda il babbo vedovo della bimba
Marie di cui vi ho parlato qualche settimana fa. Avevamo dimesso la figlia
perché era in condizioni buone. Un giorno si presenta domandando una lettera
per lasciare i tre figli, di cui una piccola, in orfanotrofio. Rimasto vedovo
non ha modo di lavorare e di occuparsi di loro in maniera adeguata. Pensando
alla cura e all’amore con cui seguiva la figlioletta, mi si è stretto il cuore.
Dividersi dai propri figli per permettere loro di sopravvivere è come
rinunciare a una parte di sé. Non so bene come andrà a finire, forse toerà a
prenderli quando saranno più grandi, fatto sta che un gesto d’amore come questo
non è scontato. Credo sia così dare la vita per gli altri, penso significhi
questo «morire a se stessi» per amore.

Una
mattina le infermiere del centro mi hanno chiesto: «È vero che in Europa non vi
salutate ma vi guardate soltanto senza dire niente?» (facendo l’imitazione con
una faccia da stoccafisso imbambolato). Questa cosa mi ha fatto molto
arrabbiare, mi sono sentito colpito nell’orgoglio. Eppure come dare loro torto?

Oggi,
forte della mitica ricetta della nonna Agostina ho fatto le chiacchiere (bugie,
frappe o come le chiamate). Sono state un successone, come al solito padre
Tarcisio dà le soddisfazioni più grandi: a suo dire «imparadisano la bocca».

P Tracisio Crestani, qui ritratto in una foto del gennaio 2015, è stato rimpatriato d’rgenza lo scorso maggio e il Signore lo ha chiamto al premio dei missionari il 30 maggio 2015 ad Alpignano – Torino. La sua è stata una dedizione totale alla missione con umiltà e semplicità, in una vita di nascondimento.

22 Febbraio 2015

Bube,
mentre parlavo con una persona, improvvisamente mi ha dato un bacino sulla
mano. Quanto è universale l’amore? Un gesto per esprimere la felicità per la
mia presenza. In quel momento mi sono detto: quando Bube sarà grande non penserà
solo «bianco=ingiustizia» o «bianco=soldi». Sono questi i piccoli semi di amore
che un giorno cresceranno rimpiazzando la pianta dell’odio e del razzismo così
radicata in questo mondo.

Al
centro è arrivato un bambino orfano, nato da una settimana e mezzo, con una
pancia gonfia su cui si potevano vedere in rilievo tratti dell’intestino. Si
trattava di un problema al di fuori delle nostre possibilità. Abbiamo quindi
consigliato di portarlo con urgenza all’ospedale. Il bimbo è partito e non lo
abbiamo più rivisto. Secondo i missionari probabilmente non ce l’ha fatta: era
troppo piccolo per un intervento, e la sua famiglia era senza soldi per
l’ospedale.

01 Marzo 2015

È
ritornata la stagione delle piogge. Evviva. Non l’avrei mai detto che mi sarei
trovato a desiderare la pioggia, ma quando vedi la difficoltà della gente (e
anche la mia nel lavorare l’orto) per la mancanza di acqua, non puoi che essere
felice quando arriva. A proposito di orto, ho piantato le sementi arrivate
dall’Italia. Considerando che di solito non tutti i semi germogliano, ne avevo
piantati un buon numero. Non avevo però pensato al fatto che il Congo ha una
delle terre più fertili del mondo, e quindi mi sono ritrovato con una marea di
piante di pomodori. Beh, faremo un po’ di passata. Ho finito di leggere un
libro sulla storia del Congo. Penso che non potrò mai mettermi nei panni di
questo popolo sempre rigirato nelle mani dei potenti. Faccio fatica anche a
giudicare i comportamenti di gente che non ha conosciuto altro che guerra,
sfruttamento, violenza, corruzione, ecc. Le ingiustizie sono all’ordine del
giorno e la cosa che fa più male è che provengono in primis dall’alto.
Ho parlato con un senatore che ha famiglia qui a Isiro. Dice che bisogna stare
attenti a cosa si dice in parlamento perché possono farti fuori politicamente e
fisicamente. Sempre lui dice che con il guadagno annuale delle ricchezze del
Congo (in particolare minerali) il paese potrebbe risollevarsi subito.

La
banda bassotti ha visto diventare protagonista del gruppo una macchietta che si
è distinta dagli altri, Manù. Questo bambinetto di un anno è tanto meraviglioso
quanto peste. Essendo nell’età in cui si incomincia a «parlare», non smette mai
di dire «yo» (tu) indicando con il dito la persona (nel 99% dei casi sono io).
Per non parlare del suo ghigno veramente malefico quando ne combina una. Il
programma nutrizionale per lui fino adesso non ha dato risultati positivi,
quindi l’ho rivisto, grazie all’aiuto fornito dal personale del Bufalini.

Per
un’urgenza a Bayenga, padre Flavio questa settimana partirà, e io come potrei
perdere l’occasione di tornare tra i Pigmei?

09 Marzo 2015

Bayenga:
questo luogo mi affascina e mi sorprende. Sarà la bellezza naturale della
foresta equatoriale, sarà il calore della gente o sarà che ogni giorno è
un’avventura, fatto sta che stare qui è bellissimo. Il viaggio questa volta è
stato quasi piacevole, le strade erano decenti. In questi primi giorni mi sta «portando
a spasso» padre Evans, un giovane missionario del Kenya. Girare con la moto per
chilometri dentro la foresta è qualcosa di indescrivibile.

Ci
siamo fermati in un accampamento pigmeo dove la settimana prima era morto un
bambino. Abbiamo scoperto che era stato picchiato da alcuni Bantu per delle
stupidate. Probabilmente aveva altri problemi, ma la sua morte è stata
provocata anche da quello. È triste vedere che il razzismo è ovunque. La morte
rimane sempre un mistero, e non ci sono parole adeguate. L’unica cosa che può
portare sollievo è essere presenti e vicini nella sofferenza degli altri. Può
sembrare assurdo, ma la morte fa parte della vita.

L’altro
giorno ho giocato due ore a calcio. Qui si gioca per il gusto di giocare. I
bambini si divertono da matti, a nessuno importa del risultato, tanto che
quando qualcuno segna un goal applaudono tutti. In Italia, invece, giocando con
i bambini, ho notato una mentalità, a mio avviso, preoccupante: non giocano per
divertirsi, ma per vincere. Questo è frutto dell’influenza della nostra società
malata che impone di primeggiare e annientare gli avversari. Proteggete i
vostri figli da questa logica.

14 Marzo 2015

Di
quel poco che ho avuto modo di conoscere dei Pigmei ammiro una cosa in
particolare, il carattere mite e pacifico, al punto che sono addirittura
schivi. Quando fissi un bambino negli occhi si nasconde quasi sempre dietro la
mamma. Se incroci qualcuno in foresta senza vederlo, rimane nascosto. Ti
osservano da lontano per capirti, poi, se ti trovano innocuo, ti vengono
incontro e diventano simpatici e socievoli.

Una
delle prime sfide che ho affrontato è stata la caccia. Sono partito una mattina
con due bambini, eravamo armati di arco e una freccia ciascuno. Oltre a girovagare
in modo inconcludente abbiamo anche perso tutte le frecce: una volta lanciata,
se non la segui con gli occhi, scompare nella foresta. Rientrato, cercavo un
bastone per sostituire la freccia persa. C’erano lì dei Pigmei in attesa di
farsi vedere da mama Bomao, una Pigmea che funge da infermiera/ostetrica, ma
soprattutto da mediatrice tra i Pigmei e i missionari, nella piccola stanza
della missione adibita a farmacia/dispensario. Nel vedermi impacciato con un
bastone inadeguato, mi hanno regalato ben quattro frecce. Sono stato
felicissimo. Mi sono assicurato che non fossero frecce con la punta avvelenata
perché, con la mia sbadataggine, sarei di sicuro morto ferendomi per sbaglio.

Mama
Bomao abita qui vicino con i suoi figlioletti, e io vado a trovarli spesso
perché sono troppo curioso di conoscere il loro modo di vivere. Un giorno mi
hanno detto che dovevano andare a pescare al fiume. Io, non stando nella pelle,
ho chiesto se avessi potuto accompagnarli e loro ridendo hanno accettato. Ci
siamo inoltrati nella foresta attraversando il torrente, l’acqua mi arrivava
agli stinchi. Dopo aver scelto una sponda hanno incominciato a costruire una
diga di fango per isolare una parte di acqua, poi con delle foglie hanno
iniziato a tirare fuori l’acqua. Quando c’era ormai quasi solo fango, hanno
iniziato a tastare con le mani finché sono saltati fuori dei piccoli pesci
gatto.

Per
non farmi mancare niente stamattina sono partito da solo a esplorare la foresta
sperando che il mio senso dell’orientamento non mi tradisse. Inizialmente
procedeva tutto bene, poi a un certo punto ho incontrato il peggiore nemico di
chi è solo: la mente. Mi sono ricordato di tutte le storie che simpaticamente
padre Flavio mi aveva raccontato sui serpenti, e ho incominciato a vedee
dappertutto. Mi sono armato di un bastone e mi sono fatto coraggio.
Fortunatamente non ne ho incontrati (o non li ho visti), e il mio senso
dell’orientamento è stato fedele.

24 Marzo 2015

Poter
entrare in contatto con un mondo che ha conservato qualcosa di antico è un’esperienza
davvero affascinante. Poter assaporare uno stile di vita in cui ci si «arrangia»
è un’occasione preziosa. Riscoprire la caccia, la pesca, la costruzione delle
case, la raccolta della legna o del miele. Quando dietro un pezzo di carne o un
ortaggio riconosci il lavoro e la fatica di più persone, il tempo speso per
renderlo disponibile, allora in te nasce una specie di rispetto. E oltre a
gustartelo meglio ti guardi bene dallo spreco.

La
vita in mezzo ai Pigmei continua a regalare piacevoli avvenimenti. Oltre ad
aver visto come si preparano le frecce, ho partecipato alle pitture del corpo,
che vengono fatte più che altro per estetica. Grazie al succo di un frutto
della foresta e al carbone si prepara una specie d’inchiostro. Con un
bastoncino si tracciano sul corpo e sul viso varie decorazioni che durano
alcuni giorni. Ovviamente mi sono fatto decorare anche io. Mi sono
piacevolmente ritrovato a provocare stupore e scandalo tra i Bantu che in buon
numero considerano con occhio razzista tutto ciò che è pigmeo. Per i Bantu
razzisti vedere un bianco, simbolo di potere, dipinto secondo le usanze pigmee
deve essere stato un trauma. La cosa che più mi ha divertito è stata vedere i
bambini bantu che, dopo qualche giorno, hanno preso a pitturarsi il corpo come
me.

04 Aprile 2015

Lasciare
Bayenga non è stato semplice, soprattutto quando ho visto il corteo di bambini
che è venuto a salutarmi. Non lo è stato nemmeno il viaggio. Quattro ore in
moto su quelle «strade», con i bagagli dietro. Dopo un’ora di viaggio stavo già
soffrendo terribilmente. Ad ogni modo il rientro a «casa» è stato molto bello,
ritrovando tutti che mi aspettavano. Quante cose sono cambiate in quasi un
mese. A Gajen tutti i bambini che avevo lasciato sono stati dimessi e
rimpiazzati da varie new entry che ho già incorporato alla banda
bassotti. Inoltre Gajen è passato sotto la gestione dell’ospedale di Neisu. Tra
qualche giorno ci sarà un pediatra a lavorare come responsabile. La notizia più
bella è che, in questo modo, il centro è gestito dallo stato, così Gajen ha un
futuro garantito indipendente dalla presenza dei missionari. Ovviamente noi
saremo ancora lì a dare una mano, soprattutto nella fase di passaggio.

Questi
giorni di Pasqua sono proprio speciali, vivendoli in un luogo che richiama
continuamente al dolore e alla croce, vedendo ogni giorno tante persone
crocifisse. È stato particolarmente intenso celebrare la via crucis
all’ospedale: ogni stazione era in un padiglione diverso in mezzo a malati e
morenti. L’ultima nel reparto mateità, in mezzo a quelle piccole creature
venute al mondo da poco. Lì c’era il senso della croce che si compie nella vita
eterna, nella resurrezione. Di croci da portare nella vita ne abbiamo tutti.
Non possiamo deciderle, ma possiamo decidere come portarle. Se lasciarci
schiacciare dal loro peso oppure affrontarle e portarle nel nostro cammino, se
stare a testa bassa nella disperazione o alzare lo sguardo e incontrare un
cireneo che ci viene in aiuto o qualcuno che ci asciuga il viso.

Tommaso degli Angeli

(3 – continua)

Tags: missione, razzismo, sobrietà, Pigmei, CongoRD, Tommaso

Tommaso Degli Angeli




Camminare insieme

Incontro interreligioso
cristiano-buddista

I cattolici in
Mongolia sono una piccola minoranza. Ma la storia della loro presenza è lunga.
I missionari, arrivati alla caduta del comunismo, si occupano di promozione
sociale. E il dialogo con il Buddismo maggioritario è fondamentale. Riflessioni
di un missionario della Consolata dopo un incontro interreligioso in India.

 

 

 

Secondo
dati recenti delle Nazioni Unite (2012) il 53% dei cittadini della Mongolia si
professa buddista, mentre il 38% si dice non credente di alcuna religione. Per
il resto, il 5% della popolazione è musulmana, il 2% seguace dello Sciamanesimo
e il 2% cristiana. All’interno della minoranza cristiana, solo un piccolo
gruppo appartiene alla chiesa Cattolica Romana, meno di un migliaio di
individui su una popolazione di 3,2 milioni. Nonostante io rappresenti un
gruppo che statisticamente conta solo lo 0,02% in un paese a maggioranza
buddista, è stato per me un grande onore essere presente a Bodhgaya, uno dei più
sacri luoghi per la tradizione buddista, per seguire il quinto colloquio
Buddista-Cristiano, insieme ai rappresentanti di diversi paesi asiatici. Questo
incontro, unico nel suo genere, è stato possibile solo grazie al lavoro
instancabile del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e del
comitato locale a Bodhgaya, nello stato Bihar dell’India. Sono stati due giorni
intensi (12-13 febbraio 2015), spesi ad ascoltarsi gli uni gli altri,
condividere esperienze, impegnarsi nella realizzazione di un’effettiva
collaborazione una volta ritornati ciascuno nei nostri rispettivi territori.


Pochi ma buoni

Per quanto ci riguarda, nonostante i numeri
insignificanti, la nostra esperienza nella terra di Gengis Khan ha profonde
radici storiche: in Mongolia le relazioni tra buddisti e cristiani beneficiano
di uno dei più forti legami nel continente asiatico. La cristianità nestoriana
(il nestorianesimo è una dottrina che rifiuta la natura umana e divina di
Cristo, affermandone la totale separazione, ndr) in Mongolia era presente già nell’VIII secolo
ed è abituata a coesistere con la tradizione buddista, proveniente dal Tibet.
Nello scenario multi etnico e multi religioso del grande Impero mongolo, il
governo dei Khan è noto per essere stato particolarmente tollerante verso tutte
le religioni praticate nei loro territori. Per questo, nel nostro impegno
attuale per promuovere il dialogo e la comprensione reciproca, possiamo fare riferimento
a una storia positiva di interazione pacifica e condividere questa esperienza
in Asia e nel resto del mondo.

Dopo il comunismo

Dopo l’epica degli scambi medioevali, sostenuti anche da
iniziative diplomatiche tra i pontefici romani e gli imperatori mongoli, le
mutue relazioni si ridussero, fino quasi a scomparire, a causa della
diminuzione di credenti cristiani, troppo isolati dai loro capi, e la crescita
concorrente del Buddismo, che gradualmente divenne religione di stato. Il «re-incontrarsi»
tra buddisti e cristiani in tempi più modei capitò in un momento critico
della storia del paese, un periodo segnato dalle lacrime. Quando i primi
missionari ebbero il visto di ingresso all’inizio degli anni ’90 del secolo
scorso, la Mongolia stava lentamente rialzandosi dopo 70 anni di regime
comunista, durante il quale il Buddismo, nel suo complesso, aveva sofferto dure
persecuzioni, con migliaia di monaci mandati a morte o forzati ad abbandonare
il loro credo, considerato un pericoloso ostacolo alla società atea importata
dall’Unione Sovietica.

Il
rapido cambiamento dal sistema comunista verso una debole democrazia si
realizzava in un contesto di povertà diffusa e fu chiara la chiamata della
chiesa a essere coinvolta in iniziative di promozione sociale. Missionari
cristiani di varie denominazioni iniziarono a realizzare progetti di sviluppo
umano di svariati tipi, a dal semplice inserimento in aree povere per aiutare
la popolazione, a programmi su larga scala di educazione e sanità. Il Vaticano
fu tra i primi stati a essere formalmente invitato a stabilire relazioni
diplomatiche con la Mongolia. Così la Chiesa cattolica – a differenza di altri
gruppi cristiani – è stata fin da allora presente in modo ufficiale.

In
questi 23 anni di installazione legale, la Chiesa cattolica ha sempre giocato
un ruolo trainante nella promozione dei diritti umani e nella lotta alle
conseguenze della povertà e del sottosviluppo. Dove le lacrime abbondano sulla
faccia della gente, la chiesa si muove per agire perché identifica questi
sofferenti con lo stesso Cristo, così le azioni di carità diventano una
risposta naturale, e non un subdolo modo di fare nuove conversioni.

Una
percezione allarmata del lavoro della chiesa in questo senso può aver spinto
qualcuno a una sorta di sospetto, ma la chiesa ha costantemente cercato verità
e chiarezza a questo riguardo, dimostrando la sua attitudine imparziale a
lavorare per la promozione della dignità e rispetto umani. Come cristiani in un
paese buddista, condividiamo i nostri tesori spirituali e le nostre risorse
materiali perché noi crediamo fortemente che «la frateità asciuga le lacrime».

Una lunga lista di iniziative della chiesa dovrebbero
essere ricordata qui: dai centri di accoglienza per bambini di strada aperti
nella capitale, alle molteplici scuole e scuole d’infanzia, dalla cura di
bambini disabili ai progetti di agricoltura, da una clinica al servizio degli
svantaggiati a un centro culturale con esperienza in studi mongoli.

Sì, perfino l’orizzonte culturale dello sviluppo ha costantemente
marcato l’impegno della chiesa per una crescita armonica dei nostri valori
comuni, sui quali una società equa e pacifica, è costruita. Fino dall’inizio
della sua presenza, il nostro attuale prefetto apostolico, monsignor Wenceslao
Padilla, e i suoi collaboratori hanno intrattenuto relazioni fratee con la
gerarchia buddista, dando un taglio concreto alla convinzione che il dialogo
interreligioso è un percorso fondamentale su cui siamo tutti chiamati a
camminare insieme. Un’occasione annuale in cui si riuniscono Cristiani e
Buddisti, è sempre stata la «Giornata internazionale della pace», promossa
dalle Nazioni Unite. In questa occasione, una parte della cerimonia altamente
simbolica si svolge alla «campana della pace» nel centro della capitale
Ulaanbaatar. Qui i rappresentanti di differenti fedi offrono le loro parole
ispirate sul raggiungimento di una pace duratura, e iniziative di studio comuni
sono state tenute con l’obiettivo di incoraggiare la comprensione reciproca,
basata su conoscenza autentica delle tradizioni rispettive. La Chiesa cattolica
ha spesso invitato come ospiti d’onore monaci buddisti e pure capi di
importanti monasteri, per condividere i loro punti di vista e favorire i legami
esistenti di amicizia e dialogo.

Piantare la propria
tenda

Come
ospiti e pellegrini delle splendide steppe dell’Asia centrale, abbiamo
umilmente piantato la nostra tenda tra la gente, cercando di imparare da essa
la saggezza di vita che ogni gruppo umano sviluppa secondo le proprie
tradizioni. La ger mongola (tenda
tradizionale), nella quale la nostra chiesa si raccoglie ogni giorno a pregare
nella provincia di Uvurkhangai, è aperta a chiunque venga, che sia egli o ella
mosso da curiosità, bisogno o da un desiderio profondo di conoscere Colui che
ci ha mandati là.

Stimiamo
molto i valori morali e spirituali tipici del Buddismo, che hanno modellato
indelebilmente l’intera Asia, come pure i cuori dei mongoli: senso della
sacralità, profondità, serietà, moderazione, ascetismo, abnegazione. Crediamo
che a questo livello di esperienza religiosa ci sia un potenziale immenso di
mutuo arricchimento, se solo cogliamo la sfida di sederci insieme a condividere
i nostri tesori.

Allo
scopo di dare un taglio concreto a questo impegno per il dialogo interreligioso
e alla ricerca culturale, stiamo pianificando di aprire presto un centro
specifico destinato a queste attività. Il sito scelto è esso stesso altamente
simbolico: Kharkhorin (anche conosciuto come Karakoroum), l’antica capitale
dell’impero mongolo, dove nel XIII secolo Buddisti, Cristiani, Musulmani e
Shamanisti vivevano insieme e avevano i loro rispettivi luoghi di culto.

All’inizio
del terzo millennio, in linea con l’antica tradizione di armonia tra le diverse
esperienze religiose che distinsero la storia mongola, speriamo di contribuire
alla crescita del rispetto e apprezzamento per ogni altra entità, lavorando per
il bene comune della società mongola.

Giorgio Marengo

Tag: Chiesa, dialogo interreligioso, dialogo, Cristianesimo, Buddismo

Giorgio Marengo




I bastioni della sicurezza

Le intercettazioni
telefoniche e ambientali sono come le radiografie per un medico:
indispensabili. Se si vuole accertare la verità, non si può rinunciare a questo
strumento investigativo, fissando però qualche «paletto» che salvaguardi gli
altri diritti coinvolti e bilanci gli interessi in gioco.

Di sicurezza si fa un gran parlare, nel nostro paese, e con
toni sempre forti. In campagna elettorale esagitati. Ma la propaganda e le
strumentalizzazioni possono spingere a scelte illogiche e incoerenti. Penso a
chi per tutelare la sicurezza invoca persino l’impiego dell’esercito nelle
strade. Penso a chi vorrebbe che la flotta respingesse in Libia i disgraziati
in cerca di sopravvivenza (scriviamo queste righe nei giorni dell’ultimo,
gigantesco naufragio). Penso a chi vorrebbe pattugliare le strade delle nostre
città con ronde di salute pubblica. E sono spesso le medesime persone che,
mentre strepitano di «tolleranza zero», non si preoccupano più di tanto dei
tentativi – ciclicamente ricorrenti – di smantellare i veri bastioni della
sicurezza, che sono le intercettazioni telefoniche e ambientali.

I vari tentativi di restringere il campo di operatività delle
intercettazioni che hanno costellato la storia del nostro paese negli ultimi
anni, avrebbero infatti ostacolato o condannato a esiti infausti le indagini su
delitti anche gravissimi, indagini che proprio della sicurezza sono il primo e
più solido baluardo. Il segreto della efficacia delle intercettazioni sta nel
fatto che esse sono vere e proprie «radiografie giudiziarie» che consentono di
vedere in profondità, dentro i fatti da punire, scoprendone i responsabili. Ma
a certuni non piacciono perché sarebbero troppo «invasive». Facendo un
parallelo fra sicurezza sanitaria e sicurezza sociale, essere contro le
intercettazioni equivale a pretendere che i medici rinunzino a radiografie,
tac, risonanze magnetiche e simili perché – pur essendo utilissime – sono
appunto invasive. Meglio tornare alla medicina tradizionale, battere con le
nocche sulla schiena del paziente facendogli dire trentatrè… Se mai qualcosa di
simile dovesse accadere, si ribellerebbero all’istante non solo i medici, ma
tutti i cittadini italiani. Nessuno, uomo o donna, vecchio o bambino, potrebbe
accettare che si giochi con la sua pelle. Così come nessuno dovrebbe mai
accettare che si giochi con la sua sicurezza sociale comprimendo la possibilità
di ricorrere a quelle speciali «radiografie» che sono le intercettazioni.

Per fortuna questi tentativi «riduzionisti» sono stati per
lo più respinti. Almeno fino a oggi. E così possiamo tuttora constatare come
l’esperienza di un qualunque ufficio giudiziario inquirente o giudicante
quotidianamente offra un elenco interminabile di casi risolti grazie alle
intercettazioni telefoniche o ambientali. Ogni giorno fior di colpevoli vengono
individuati, o persone innocenti sono scagionate da false accuse, grazie a
questo insostituibile strumento di indagine, fonte di certezze processuali.

Personaggi e
cittadini comuni

Per altro, il problema delle intercettazioni e della loro
disciplina sta tornando prepotentemente di attualità sotto un diverso profilo,
quello dell’utilizzo processuale ed extraprocessuale delle conversazioni
registrate. Questo problema, che periodicamente viene riproposto, acquista
speciale intensità quando emergono vicende che riguardano personaggi di una
certa notorietà, soggetti «forti» che hanno voce politica e/o mediatica. In
questi casi, infatti, scatta regolarmente – con significativa tempistica – la
richiesta di interventi restrittivi a tutela di coloro che si trovano sbattuti
o temono di finire sulle prime pagine dei giornali. Preoccupazione più che
comprensibile, ma non c’è populismo nel sottolineare come analoga sensibilità
quasi mai si riscontra quando sono in gioco gli interessi di «semplici»
cittadini comuni. Vero è che da sempre gli «arcana imperii» segnano le
barriere  con cui il potere cerca di
proteggere le sue deviazioni.  Poiché le
intercettazioni violano queste barriere e mettono a nudo il potere, ben si
spiega l’ostilità pregiudiziale di certa politica per gli incisivi controlli
che le intercettazioni consentono e per la divulgazione dei loro contenuti. Ma
questa ostilità non è certo un buon motivo per scagliare siluri sotto la linea
di galleggiamento della sicurezza di tutti gli altri cittadini.

Comunque la si pensi di questa «reattività» selettiva, è un
dato di fatto che le intercettazioni – strumento investigativo irrinunciabile –
pongono però complessi problemi di bilanciamento fra i diversi interessi in
gioco. Vale a dire: l’esigenza di accertare la verità, cioè la colpevolezza o
l’innocenza degli indagati, che può entrare in conflitto con il diritto alla
riservatezza dei soggetti intercettati; il diritto-dovere dei media di
informare; il diritto del cittadino di conoscere le vicende di interesse
pubblico; e infine anche il cosiddetto controllo sociale sulla amministrazione
della giustizia, il diritto cioè dei cittadini di verificare il funzionamento
della macchina giudiziaria. Il giusto equilibrio fra questi interessi non è
facile da trovare, ma va cercato senza sacrificarne nessuno, essendo tutti di
rilevanza costituzionale.

L’informazione e le
intercettazioni

In questi ultimi anni l’informazione ha avuto un ruolo
decisivo per far conoscere e, quindi, per contrastare meglio alcuni gravi
scandali avvenuti nel nostro paese. Basta ricordare le cronache cosiddette di Tangentopoli, Mafiopoli, Bancopoli, Furbettopoli,
Calciopoli, Vallettopoli e via seguitando. O
elencare i principali «scandali finanziari» italiani: dalla vicenda Sindona, ai
fondi neri di grandi imprese italiane (petrolieri e non solo), ai casi
Eni-Petromin, Banco Ambrosiano e Ior, alle trame della P2, ai retroscena del
lodo Mondadori, all’Enimont madre di tutte le tangenti, al crollo di Ferruzzi e
Montedison, alle traversie del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia, fino ai
crack Cirio e Parmalat e alle scalate bancarie, per arrivare ai giorni nostri
con Expo, Mose e Mafia capitale.

Se non ci fosse stata una informazione attenta (basata
anche su un’ ampia divulgazione delle intercettazioni), come per fortuna invece
c’è stata, la qualità della nostra democrazia avrebbe potuto subire delle
ripercussioni negative. Dunque, il ruolo che l’informazione ha avuto in questi
casi deve costituire un punto di partenza. E se questo ruolo viene cancellato o
gravemente impedito, sono guai. Guai irreparabili, se del processo – mentre è
in corso – non si potesse raccontare più nulla (o quasi). E se, per raccontare
finalmente qualcosa, si dovesse aspettare la fine del processo stesso, una fine
che a causa del pessimo funzionamento della nostra giustizia arriva (se non
interviene la prescrizione che tutto cancella, cfr. MC 4/2015) con
ritardi biblici. Premesso ciò, si comprendono le preoccupazioni che solleva
l’intenzione proclamata dal presidente del Consiglio (per altro senza che sia
stato ancora presentato un qualche progetto scritto) circa la riforma delle
intercettazioni, posto che tra gli orientamenti che si fanno trapelare ve ne
sarebbero di drasticamente ispirati alla riduzione della pubblicabilità delle
intercettazioni, con gravi pene (persino il carcere) per i giornalisti e gli
editori che non rispettassero il divieto.

Accade spesso che si registrino conversazioni non
rilevanti per l’accertamento della verità ovvero relative a fatti e soggetti
del tutto estranei al processo. In linea di principio si è di solito d’accordo
nel ritenere che tali registrazioni non devono essere utilizzabili all’interno
del processo e neppure pubblicate all’esterno. Resta però il problema di
definire la «rilevanza» delle registrazioni tutte le volte che essa assuma
contorni sfumati e non sia possibile ancorarla a parametri univoci. Problema
che si pone soprattutto in presenza di «reti relazionali» articolate che
coinvolgano più soggetti (con posizioni diversificate, anche penalmente
irrilevanti), quando questa rete nel suo complesso possa incidere sulla prova
del reato indagato alla luce della sua tipologia (ad esempio, mafia e
corruzione, che tipicamente si nutrono di un intreccio di relazioni ricercate e
stabilite allo scopo di apparire in un certo modo, così da facilitare il giro
d’affari e l’accettazione nei salotti buoni).

Sciolto questo nodo, fissati i paletti necessari per
delimitare il perimetro delle conversazioni intercettate non utilizzabili nel
processo (in quanto relative a fatti o soggetti estranei), rimane soltanto il
materiale che è utile, necessario per l’accertamento della verità. All’interno
di questo perimetro, comprimere più di tanto la libertà di informazione
(costituzionalmente garantita) mi sembra pericoloso, perché rischieremmo di non
conoscere tempestivamente fatti gravi che i cittadini hanno il diritto di
conoscere. Di più: si impedirebbe anche alle autorità di controllo e al potere
politico che voglia ben funzionare di intervenire per frenare o raddrizzare le
storture segnalate. In altre parole, comprimere oltre i limiti suddetti il
diritto/dovere di informazione rischia di far prevalere l’«Italia delle impunità»
sull’«Italia delle regole». Con pregiudizio diretto per i cittadini onesti.

Grande fratello e
sperpero di denaro?

Si è soliti dire (e a forza di ripeterlo si finisce per
crederci) che la magistratura italiana avrebbe creato un «grande fratello» che
tiene sotto controllo (o scacco) milioni di cittadini, sperperando una quantità
incredibile di denaro pubblico. I dati della Procura di Torino parlano un
linguaggio tutt’affatto diverso. Le rilevazioni statistiche evidenziano che il
numero delle indagini (fascicoli) in cui è stato utilizzato lo strumento delle
intercettazioni telefoniche è in media di circa 300 all’anno, a fronte di un
introito medio dell’intero ufficio di Procura di 170.000 (noti e ignoti)
fascicoli all’anno. In percentuale, di tutte le indagini svolte dalla Procura
di Torino, quelle condotte anche attraverso l’utilizzazione di intercettazioni
telefoniche restano sotto lo 0,5%.

Per quanto riguarda la spesa, dal 2003 essa ha subito un
decremento costante. È giusto tuttavia continuare a pretendere un certo self restraint dei
magistrati sul numero delle intercettazioni, ma non è certo colpa dei
magistrati se il crimine (specie quello organizzato) ha la diffusione che ha
nel nostro paese, e se, per fronteggiarlo, gli strumenti principe sono i
collaboratori di giustizia e le intercettazioni.

Infine, va ricordato che, in Italia, tutte le
intercettazioni sono disposte e si svolgono sotto il controllo della
magistratura. In altri paesi quelle disposte dalla magistratura sono in
percentuale ridottissima rispetto ad altri organismi pubblici (si pensi alla
statunitense National Security
Agency e al caso Edward Snowden), mentre si sta
estendendo enormemente la raccolta massiva di intercettazioni telefoniche e di
dati internet soprattutto sul versante della lotta al terrorismo
internazionale. Ora, non v’è dubbio che il terrorismo vada combattuto senza
riserve, ma la risposta non può essere soltanto «militare». La sicurezza è un
bene fondamentale (da sempre obiettivo delle migliori intelligenze e
dell’impegno più intenso). Un tema decisivo, che tuttavia non può essere
esclusivo. Altrimenti c’è il rischio che i diritti diventino ostaggio della
sicurezza. Se si negano aiuti (effettivi, seri) all’istruzione, alla sanità,
allo sviluppo umano, ecco che finiamo per avvitarci dentro logiche contorte e
inefficaci. Un circolo vizioso che occorre rompere. Anche perché esso rischia
di preparare e introdurre nuovi poteri. Magari così assoluti da costituire – al
di là delle intenzioni – un pericolo per le libertà e la democrazia, nel
momento stesso in cui si avviano azioni finalizzate a tutelare proprio libertà
e democrazia.

Gian Carlo
Caselli

Tag: sicurezza, intercettazioni, diritti, giustizia

Gin Carlo caselli




Non di solo pane

La Chiesa cattolica a
Expo 2015

Perché la Chiesa cattolica
prende parte a quella che, a parere di qualcuno, rischia di essere una grande
sagra dei consumi e dell’effimero, un tempio in cui proprio a partire dal cibo
si celebrano i piaceri della vita e si esaltano valori poco in linea con lo
stile che il Vangelo ci chiede? Che legami ci possono essere tra questo evento
e il messaggio cristiano?

Essere capaci di porre domande e accendere
metafore; essere presenti e prendere la parola in un luogo che sarà un grande
laboratorio di idee sul futuro del pianeta e sulle forme di convivenza e di
collaborazione tra i popoli. Questo è per i cristiani addirittura un dovere.

Il
titolo scelto per la manifestazione dice bene la ragione per cui esserci: «Nutrire
il pianeta, energia per la vita» chiama in gioco dimensioni fondamentali
dell’esperienza cristiana. Il riconoscersi creature dentro un disegno che non è
nostro, ma di Dio; la vocazione a diventare custodi e non tiranni di un pianeta
che dobbiamo rendere ospitale; la lotta quotidiana perché a tutti sia garantito
il «pane quotidiano» del Padre nostro; la figura di Cristo, pane vero disceso
dal cielo… quanti temi cristiani vengono trascinati nella scia del titolo di
Expo 2015. La presenza della Santa Sede, della Caritas Inteationalis, ma
anche della Caritas italiana e ambrosiana, sono state pensate proprio in questa
linea.

Una presenza per
stimolare

La
Chiesa cattolica ha intuito l’importanza e le potenzialità di una sua presenza
dentro eventi come questo praticamente dal loro nascere. Sin dagli inizi la
Santa Sede ha compreso il ruolo nevralgico delle esposizioni inteazionali. In
momenti storici anche molto complessi e spesso segnati da tensioni e
contrapposizioni politiche e culturali, le esposizioni inteazionali si sono
dimostrate luoghi di confronto, spazi di dialogo sulle questioni della modeità
e del progresso tecnologico, momenti di aggioamento sulle tematiche sociali e
politiche, occasioni di dibattito ecumenico e interreligioso, una reale
possibilità di promozione e di diffusione del messaggio cristiano. Un’occasione
di primo annuncio e di nuova evangelizzazione, diremmo oggi.

C’è
da aggiungere che negli ultimi decenni il ruolo delle esposizioni universali si
è radicalmente trasformato: da luoghi di esibizione delle ultime scoperte e
innovazioni, da luoghi di celebrazione della capacità di conquista e della
volontà di dominio dell’uomo sul mondo, le Expo sono state trasformate in
luoghi di riflessione, di scoperta e di contemplazione della complessità del
creato e della sua storia, dando così risalto ai temi del limite e dell’armonia
tra le diverse forme di vita, sottolineando in particolare la necessità dello
sviluppo di una convivenza tra i popoli sempre più profonda e strutturata.

La
Chiesa ha visto in questo mutamento una conferma ulteriore dell’importanza di
una sua presenza alle Expo. Esserci e prendere parte ai dibattiti (sempre più
incentrati sulle questioni del futuro del pianeta, come abitarlo e custodirlo);
saper articolare la propria tradizione di fede con le sfide sociali e culturali
del presente; far conoscere i capolavori che la cultura e l’arte cristiana
hanno saputo generare: quanti motivi per giustificare una presenza non
marginale ma capace di portare frutto, di generare influssi dentro la più ampia
cultura mondiale.

Alla tavola di Dio con
gli uomini

Il
tema scelto per Expo 2015 tocca molte corde della riflessione cristiana. Il
cibo e l’azione del nutrire sono per l’uomo uno spazio di educazione senza
paragoni, vista la forza e l’universalità delle dinamiche simboliche
attivabili.

Non c’è cultura che non abbia elaborato riti, simboli,
racconti, calendari e regole al riguardo. E non c’è religione che non abbia
assunto questa operazione dentro i propri dispositivi e le proprie regole di
vita e di comportamento. Gli uomini e le donne, proprio attraverso l’azione del
nutrirsi, hanno imparato a conoscere la loro identità: il proprio corpo, le
relazioni tra le persone e con il mondo, il creato, il tempo e la storia, la
relazione con Dio.

L’esperienza del nutrire può essere un’ottima palestra
per imparare a essere uomini, e a crescere sempre più in maturità.

Per noi cristiani il destino dell’uomo sta in un grande
disegno ecologico che al centro ha l’uomo stesso. Un disegno raccontato
attraverso una visione molto significativa per chi era nomade come il popolo
della Bibbia: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su
questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25, 6).

La
storia della nostra fede ci ha insegnato che il gesto del nutrire è diventato
ben presto pasto e convivium, per poi trasformarsi
in sacrum convivium,
momento di comunione in cui non soltanto gli uomini possono osare una relazione
con Dio, ma addirittura il luogo in cui Dio stesso rivela la sua volontà di
relazione e di comunione con gli uomini. Il destino dei popoli della terra, il
destino della terra stessa, è questo grande gesto di comunione voluto da Dio,
simboleggiato da una tavola che Lui imbandisce per tutti, per ogni uomo e
donna, per ogni creatura.

Il
nostro futuro è di sederci tutti assieme alla tavola imbandita da Dio,
realizzando così quel destino di comunione fatto proprio in senso realistico
dallo stesso Gesù, nel momento della sua passione.

Cibo di vita…
eterna

«Voi
mi cercate – dice Gesù alle folle – non perché avete visto dei segni, ma perché
avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo
che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna» (Gv 6, 26). L’uomo
ha bisogno di molti cibi per vivere e per realizzare il proprio destino. E il
cibo ci consente di scoprire veramente chi siamo, se lasciamo che l’operazione
del nutrire dischiuda tutte le potenzialità che contiene. Il Vangelo è pieno di
esempi che ci illustrano come l’esperienza dell’essere nutriti diventa fonte di
interrogazione e di verifica della qualità del nostro essere uomini e donne.

L’uomo ha bisogno di molti cibi per vivere e per
realizzare il proprio destino. «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola
che esce dalla bocca di Dio» è un’affermazione messa in bocca a Mosè (Dt 8,3)
che Gesù riprende (Mt 4,4) proprio per contrastare la tentazione di ridurre
l’uomo ai soli bisogni fisici e materiali; e allo stesso tempo per rilanciare
l’idea che l’azione del nutrire, intesa in modo integrale, è lo spazio che Dio
ha istituito per educare gli uomini e per incontrarli. Solo in questo modo
possiamo scoprire di essere veramente uomini: quando rispondiamo alla fame,
quella vera; quando attraverso il cibo ci leghiamo tra di noi, ci mettiamo in
relazione; e dentro questa relazione scopriamo la presenza di Dio.

Proprio
come intuiva in modo lucido don Lorenzo Milani: «Lo diceva anche Gesù: l’uomo
non vive di solo pane e casa, ma anche di scuola e di pensiero e di libertà
interiore, perché da questa si passa direttamente alla fede e alla vita eterna,
mentre dal pane e dalla casa si può tranquillamente passare alla televisione e
al cine».

Accendere
l’immaginazione

La
Chiesa vuole essere in Expo per accendere domande e riflessioni critiche,
pensieri che consentano di andare oltre la superficie. Non intende
assolutamente essere una presenza oppositiva, ma metaforica: aiutare a superare
il diaframma del presente e dell’immediato per cogliere dentro di esso il senso
dell’esistere, la dimensione mistica, ossia l’apertura a Dio. Il metodo da
seguire è quello della denuncia e della proposta, un metodo che usa spesso e
anche con successo papa Francesco, per far vedere che la Chiesa non è una
maestra acida, ma una sorella che condivide il percorso dell’uomo con lucidità
e visione di futuro, una madre appassionata capace di indicare strade e risorse
per il domani.

Il
rapporto col cibo può essere assunto come il luogo nel quale si rende più
evidente la disarmonia che segna la relazione dell’uomo con il creato e con gli
altri esseri umani. Qui più che altrove la cultura dello scarto si evidenzia in
maniera lampante. Ed è proprio qui allora che occorre essere presenti per
stimolare le domande giuste, per sviluppare un pensiero metaforico che può
arricchire tutti.

La
vita quotidiana è così, in questa prospettiva, una grande palestra, un luogo di
esercizio in cui Dio ci educa attraverso il cibo e l’atto del nutrirci. Questo
esercizio di apprendimento ha una grammatica, che ruota attorno a quattro
aspetti che esprimono l’identità umana: le dimensioni ecologica, economica,
educativa e religiosa.

Ecologici e solidali

Potremo
così riscoprire, grazie allo stimolo di Expo 2015, che proprio perché cristiani
non si può non essere ecologici. Oggi è molto più visibile l’imposizione di una
cultura del consumo che oscura il nostro compito originario legato al cibo e al
gesto del nutrire. E le conseguenze di questa cultura sono ben visibili, anche
se spesso poco denunciate: emergenze come quella dello spreco delle risorse e
della enorme diseguaglianza nella loro distribuzione, con la piaga conseguente
e ancora più grave della povertà e della fame, o il fenomeno altrettanto
attuale e ugualmente grave dell’inquinamento e dello sfruttamento selvaggio
delle risorse del pianeta, contrastano con l’originario disegno creatore e sono
il segnale di un modo ancora molto immaturo di vivere il nostro compito di
abitare il pianeta come un giardino che nutre tutti.

Da
qui deriva l’urgenza per un convinto impegno di noi cristiani a favore del
creato. L’ecologia è un luogo di testimonianza della nostra fede, contro i
nuovi idoli che seducono l’uomo moderno. L’Expo deve essere l’occasione per un
lavoro di sensibilizzazione che, a partire dalle conseguenze ben visibili di
questa gestione immatura e peccaminosa del creato (cambiamenti climatici,
migrazioni in massa di popolazioni in seguito a questi cambiamenti), permetta a
ogni essere umano di sentirsi responsabile del mondo che lo ha generato, lo
nutre ed è il luogo della sua vita.

Per
la Chiesa, per i cristiani, esserci in Expo vuol dire avere l’audacia di
prendere la parola anche sui temi scottanti della fame e delle grandi
ingiustizie create dallo squilibrio nell’accesso alle risorse. Come cristiani
abbiamo molte cose da dire non soltanto sul modo con cui oggi usiamo il cibo
per creare solidarietà. Più profondamente ancora, stiamo dentro Expo per mostrare come la
grande questione del cibo e delle risorse (alimentari e non) sia la cartina di
tornasole che porta alla luce i tanti difetti e le tante ingiustizie del nostro
modo di immaginare e di governare l’economia.

La
presenza diretta di Caritas dentro il sito espositivo ha proprio questa
intenzione: ricordarci con urgenza l’attualità dell’invito a essere all’altezza
di una simile sfida. Expo ci permette di ricordarci che abbiamo il compito di
essere nella storia come l’anima del mondo, proponendo la vita buona del
Vangelo in tutti gli ambiti dell’esistenza, quello economico compreso.

L’Expo
è lì per ricordarci che dobbiamo vincere la tentazione di restare muti di
fronte alle grandi questioni del nostro tempo.

Il
mondo ha anzitutto fame di futuro. Expo può essere un grande megafono di questa
fame, e al tempo stesso un grande laboratorio dentro il quale come cristiani
partecipare alla costruzione di processi di soluzione, di guarigione, di
risanamento e di rinascita.

Un Dio che si fa pane
per noi

Per
la fede cristiana il cibo è il crocevia di tutta una serie di legami (tra Dio e
gli uomini, degli uomini tra di loro, con il creato) generatori a loro volta di
pratiche che maturano le persone e ne arricchiscono le identità.

Attraverso
la disciplina del cibo l’uomo ha imparato molto circa il suo legame con il
creato come anche circa la sua relazione con Dio.

Sin
dalle sue origini, l’esperienza di fede ha saputo scrivere il rapporto con Dio
nella carne degli uomini proprio tramite il calendario alimentare e lo
strumento dell’ascesi. Il vento della secolarizzazione ha fatto sì che noi
occidentali lasciassimo questo nostro tesoro alle Chiese orientali o alle altre
religioni, Islam in primis (basta pensare al Ramadan; non dimentichiamo
che è il digiuno quaresimale cristiano ad aver ispirato il Ramadan musulmano).

L’evento
di Expo può essere l’occasione giusta per riapprendere a nostra volta questo
legame fede-corpo e fede-cibo. Un legame così forte e originario da aver
conosciuto una sua variante laica: la secolarizzazione ha fatto scomparire le
pratiche del digiuno e della rinuncia ma non è riuscita a cancellare il bisogno
religioso a cui queste pratiche sapevano rispondere. Ed ecco che sono nate le
diete, forme laiche di ascesi e di astinenza, in nome di un benessere che
assume sempre di più i colori e i toni di una spiritualità laica, di una
religione della gratificazione inusuale e intramondana, senza Dio.

Ogni
anno il tempo della Quaresima è un buon momento per riprendere, anche noi,
quella disciplina, che abbiamo perso, del cibo e quella capacità di scrivere la
nostre fede sui nostri corpi.

Potremo
così essere capaci di leggere ancora più in profondità, sempre nel clima di
Expo, il dono che ci fa Dio nel suo Figlio: il Dio cristiano è un Dio che si incarna,
si rende presente tra gli uomini; e che consegna la memoria di questa sua
presenza proprio nel pane eucaristico, un pane che dà vita e salvezza.
L’incarnazione è il grande dono di Dio che nutre gli uomini, come Gesù Cristo
afferma di se stesso più volte nei Vangeli.

Questo
mese celebriamo la festa del Corpus Domini (7 giugno, ndr)
proprio durante Expo 2015. Quale occasione migliore per testimoniare al mondo
che il nutrimento e il futuro dell’uomo e del creato sono custoditi e generati
da questo pane che in realtà è il corpo e il sangue di Gesù Cristo morto per
noi e risorto, amore di Dio fatto carne? Potremo mostrare come la logica
eucaristica è in grado di assumere e fare sue tutte le fami del mondo e degli
uomini. Potremo mostrare come in Gesù Cristo Dio ci rende capaci di diventare
solidali con queste fami, e allo stesso tempo – proprio perché le portiamo
assieme a coloro che ne sono vittime – come Gesù Cristo diventa il cibo, il
nutrimento capace di saziare ogni desiderio, ogni ferita, ogni fame e sete che
l’uomo e il creato provano oggi come nel passato.

I
cristiani hanno il compito di abitare Expo 2015 per svelare l’anima mistica
dell’identità umana, il cuore mistico dell’esperienza, la dimensione
profondamente e radicalmente religiosa del creato, del mondo. Esserci per
condividere, esserci per dare da pensare, esserci per aiutare a stupirsi,
esserci per promuovere giustizia e solidarietà: Expo 2015 può essere
l’occasione per ricordare a tutti il cammino che come umanità stiamo
percorrendo, per rispondere all’invito che Dio ha rivolto a tutti gli uomini di
sedersi alla sua tavola e di spezzare il suo pane per loro.

Luca Bressan*

*Nato a Varese nel 1963 è presbitero
della diocesi di Milano dal 1987. È docente di teologia pastorale alla Facoltà
teologica dell’Italia settentrionale e ha insegnato o collabora presso altre
facoltà italiane. Ha pubblicato diversi libri. Ha partecipato al Sinodo del
2012 sulla Nuova evangelizzazione. Nello stesso anno il cardinale Angelo Scola
lo ha nominato Vicario episcopale per la Cultura, la carità, la missione e
l’azione sociale della Diocesi di Milano.

 

Tag: Expo, cibo, giustizia, pace, Chiesa

Luca Bressan