Cambogia: Troppi incubi, pochi sogni

La genesi della
tragedia e la tristezza del presente
Le?colpe di Sihanouk,
l’acrobata

Quarant’anni fa – era
il 17 aprile 1975 – i Khmer Rossi di Pol Pot entrarono nella capitale Phnom
Penh. Rimasero al potere per tre anni e nove mesi, fino all’invasione del
Vietnam. Come troppo spesso accade, le tragedie legate a quegli eventi non sono
mai state spiegate con obiettività. Anche per questo, la Cambogia del 2015 è un
paese degradato e corrotto, che sta perdendo tutte le sfide.

La Cambogia celebra quest’anno il quarantesimo
anniversario dell’arrivo dei Khmer Rossi a Phnom Penh. Il 17 aprile 1975
iniziava il periodo che oggi viene ricordato come Samai Pol Pot, l’era di Pol
Pot (il cui vero nome era Saloth Sar, 1925-1998). Un termine, Samai Pol Pot,
che più di ogni altro indica la forza con cui i tre anni e nove mesi di governo
dei Khmer Rossi (fino al 7 gennaio 1979, vedi scheda storica a pag. 40)
vengono (erroneamente) attribuiti alla responsabilità di un solo uomo, Pol Pot,
appunto.

Quella del 17 aprile è, da sempre, una ricorrenza
rievocata in modo diverso e controverso da chi ha vissuto gli anni di «Kampuchea
Democratica», il nome ufficiale dato al paese dai Khmer Rossi a partire dal
1976, e da chi, invece, non ha conosciuto in modo diretto difficoltà e
sofferenze patite da padri o nonni. Secondo le statistiche delle Nazioni Unite,
più del 70% dei cambogiani ha meno di quarant’anni. Il che indica
l’assottigliarsi di quella fetta di popolazione che è stata diretta testimone
di un periodo storico di cui ancora troppo poco si parla e che non si è
analizzato con sufficiente obiettività. A rendere più delicata e problematica
la trasmissione della memoria è la cronica ritrosia psicologica con cui chi ha
subito il trauma della Samai Pol Pot parla tra le mura familiari delle proprie
esperienze. Questo ha portato una netta frattura nella società cambogiana
divisa appunto tra chi ha conosciuto Kampuchea Democratica e chi è nato negli
anni successivi.

Fatta questa premessa, va detto che il dramma del popolo
cambogiano non è iniziato con l’arrivo dei guerriglieri a Phnom Penh. Quello è
stato solo l’atto finale di una tragedia che ha avuto innumerevoli attori e
altrettanti scenari. A cominciare da Norodom Sihanouk (1922-2012), regista
degli eventi precedenti il 1975, uomo pieno di contraddizioni, sicuramente la
figura più ambigua del panorama politico cambogiano.

 

Il sovrano, la
guerriglia, gli Stati Uniti

Fu Sihanouk il primo a gettare benzina sul fuoco della
nascente (e allora ininfluente) guerriglia comunista sin dalla metà degli anni
Sessanta. Il suo governo, corrotto e inaffidabile, gestiva l’intera economia
del paese come fosse stata proprietà privata, mentre la repressione della
polizia, abbinata alle strette maglie della censura, garantiva il tacito
assenso popolare.

Solo un manipolo di intellettuali ebbe il coraggio di
opporsi. Facevano parte dei circoli della sinistra parlamentare e avevano
contatti con i guerriglieri comunisti, ma nessuno di loro era mai stato
coinvolto in azioni militari né aveva intenzione di partecipare alla lotta
armata. La simpatia che questi ideologi, conosciuti per la loro abnegazione e la
loro incorruttibilità, destavano tra i movimenti studenteschi e tra i
contadini, indusse Sihanouk a cercare ogni pretesto per eliminare la loro
scomoda presenza. Tre, in particolare, erano le figure più spinose per il
monarca: Khieu Samphan, Hou Youn e Hu Nim, che in seguito diverranno membri di
spicco tra i Khmer Rossi in forte contrapposizione, in particolare gli ultimi
due, con la politica di Pol Pot. Hou Youn e Hu Nim verranno assassinati dai
loro stessi compagni dopo il 1975.

Nel 1967 si concluse il primo atto della tragedia
cambogiana: Sihanouk costrinse i tre politici alla fuga con la minaccia della
prigione e dell’esecuzione capitale. Non si seppe più nulla di loro, tanto che
il popolo cominciò a soprannominarli «i tre fantasmi». Riappariranno solo dopo
il 1970, quando l’atto finale del dramma si starà avviando alla conclusione.
Nel frattempo furono proprio questi «tre fantasmi» a delineare le basi
ideologiche del movimento comunista, mutuandole dall’esperienza del loro
soggiorno in terra di Francia nell’immediato dopoguerra. E sarà poi Pol Pot,
anche lui reduce da un lungo (e scolorito) periodo francese, a stravolgere
quasi completamente la loro elaborazione ideologica, radicalizzandola al fine
di bruciare i tempi necessari per trasformare una società agricola e
sottosviluppata in un immenso campo collettivistico.

Nella visione di Hou Youn, Khieu Sampahn e Hu Nim, la
politica rurale che la Cambogia liberata avrebbe dovuto ricalcare e
intraprendere avrebbe dovuto essere quella maoista, con una ridistribuzione
delle terre e un generale trasferimento della popolazione dalle città alle
campagne. L’ascesa di Saloth Sar e Ieng Sary ai vertici del partito durante gli
anni Settanta, pur conservando gran parte delle idee espresse dai «tre fantasmi»,
scardinò il programma della loro attuazione, accelerando in modo insostenibile
le tappe.

Il sipario si riaprì il 18 marzo 1969, poche settimane
dopo che Washington e Phnom Penh ebbero riallacciato le relazioni diplomatiche
interrotte da Sihanouk. Quel 18 marzo 1969 sarebbe poi passato alla storia come
il giorno in cui iniziarono i bombardamenti «segreti» degli Stati Uniti sulla
Cambogia per stanare i Viet Cong dai loro santuari appostati lungo il confine.
Per quattordici lunghi mesi, i B-52 appartenenti a un paese straniero
lasciarono cadere tonnellate di esplosivo e napalm su villaggi che,
formalmente, non facevano parte di una nazione in guerra (la Cambogia, infatti,
si era sempre dichiarata neutrale cercando attentamente di evitare il
coinvolgimento nelle ostilità).

Decine di migliaia di persone, la stragrande maggioranza
delle quali innocenti e inermi contadini, furono vittime di uno dei più
inutili, criminali e vigliacchi atti di distruzione a cui la storia abbia mai
assistito. Inutili, perché la distruzione delle basi «Charlie» (così erano
soprannominate le basi dei Viet Cong), anziché costringere i guerriglieri a
uscire allo scoperto, li spinsero sempre più all’interno della Cambogia.
Criminali, perché niente può giustificare la morte di civili in una guerra (e più
le armi si fanno sofisticate e «intelligenti», maggiore è la sproporzione tra
le vittime civili – la stragrande maggioranza – e militari). Vigliacchi, perché
chi seminava morte e distruzione non era tenuto ad avere il coraggio di
guardare negli occhi chi moriva a causa sua.

La crescita e la
vittoria dei Khmer Rossi

Le bombe che «innaffiavano» le risaie cambogiane, si
trasformarono in sementi per il minuscolo e pressoché inerme movimento di
guerriglia locale, i semisconosciuti (allora) Khmer Rossi. Un termine, Khmer
Rossi (khmer krohom), coniato in senso dispregiativo da Sihanouk nel
1966, che, così come fu per i Viet Cong, si trasformò in un potente simbolo
propagandistico del movimento guerrigliero.

Lo stesso Sihanouk, nel 1955 in uno dei suoi rari momenti
di lucida saggezza, descrisse con sorprendente intuizione un eventuale paese
governato dai comunisti: «Non ci sarà felicità. Tutti lavoreranno per il
governo. Nessuno guiderà macchine o moto o indosserà bei vestiti: tutti
vestiranno di nero, tutti esattamente allo stesso modo. Non ci saranno cibi
gustosi da mangiare. Se tu mangerai più di quanto ti sia concesso, il governo
verrà a saperlo segretamente dai tuoi figli, sarai portato via e ucciso».

Alla fine degli anni Sessanta, i Khmer Rossi erano solo
duemila, tutti sotto la direzione del Partito dei Lavoratori della Repubblica
Democratica del Vietnam e tutti con mansioni di gregari. Il loro esercito (se
così si poteva chiamare) nel 1969, quando iniziarono i bombardamenti, contava sì
e no qualche decina di guerriglieri dotati di vecchi fucili, retaggio della
Seconda Guerra mondiale e totalmente inadeguati alla lotta armata.

Un anno dopo, il gruppo, a cui nel frattempo aveva dato
il suo appoggio re Sihanouk (incurante della sua stessa profezia), spodestato
il 19 marzo 1970 da Lon Nol con l’aiuto della Cia, aveva ancora tremila unità,
salite a diecimila alla fine del 1970.

Nel frattempo i bombardamenti, non più segreti perché a
Washington erano stati svelati a un attonito Congresso, furono sospesi, ma la
miccia comunista era stata accesa e nessuno sarebbe stato più in grado di
spegnerla.

Nel marzo 1973, quando la guerra si era allargata in
tutta la Cambogia, il Pentagono decise di dare avvio a una seconda campagna per
estirpare il «cancro rosso». Cinque mesi più tardi la cura venne di nuovo
sospesa dal Congresso, ma nel frattempo erano cadute al suolo 250.000
tonnellate di esplosivo.

Fu durante questa seconda fase che i Khmer Rossi
riuscirono a far fruttare tutta la loro potenza ideologica e politica. In breve
tempo collettivizzarono i territori liberati e, già nel 1974, l’esercito
governativo di Lon Nol si limitava a controllare solo le città più importanti.

La resa del 17 aprile 1975 fu, quindi, l’ultimo atto di
una serie di clamorosi errori sociali, politici e tattici commessi sia dagli
Stati Uniti, sia dagli stessi politici cambogiani susseguitisi alla guida dei
governi del paese.

Il 17 aprile 1975 tutta la nazione cadde nelle mani
dell’allora sconosciuto Saloth Sar, che l’anno seguente diverrà primo ministro
(mantenendo la carica di segretario del Partito comunista) col nome di Pol Pot.

Pochi giorni prima, i cittadini di Phnom Penh, stremati
e impauriti da una guerra imposta da stranieri, avevano visto un elicottero
atterrare sul tetto dell’ambasciata statunitense. Assieme a pochi eletti, vi
era salito anche l’ambasciatore John Gunther Dean. Tra le mani stringeva un
fagotto piegato alla bell’è meglio: la Stars and Stripes. La bandiera
era sventolata per la prima volta in una Cambogia relativamente felice,
prospera e pacifica. Quel giorno la lasciava devastata, miserabile e con un
futuro incerto: nessun cambogiano, allora, rimpianse la sua partenza.

La Cambogia, coinvolta suo malgrado nella guerra del Sud
Est asiatico, sembrò ritrovare la via della pace. Così non fu.

 

L’esperimento finì a
«S-21»

Kampuchea Democratica fu un esperimento unico e
drammatico. Tuttavia, a differenza di quanto la nostra idea ci porti a
immaginare, la vita sociale, i rapporti comunitari, gli orari di lavoro,
persino le libertà individuali dei cambogiani tra il 1975 e il 1979 furono
differenti da regione a regione a seconda delle autorità locali preposte al
controllo. All’indomani della vittoria del 17 aprile, i Khmer Rossi suddivisero
la Cambogia in sei aree: Zona Sudovest, Est, Nordest, Nord, Nordovest e Zona
Speciale, comprendente i territori attorno a Phnom Penh.

All’interno delle singole Zone esistevano vere e proprie
isole «autogestite» dove nei primi mesi della liberazione e, in certi casi,
ancora nel 1978, la gente viveva senza grossi problemi e traumi: i nuovi arrivati,
evacuati dalle città, ricevevano il medesimo trattamento riservato ai contadini
appartenenti al «popolo base» dividendo con loro lavoro e cibo senza subire
alcuna discriminazione. In certe aree la fedeltà dei contadini ai principi
della rivoluzione permetteva addirittura di evitare la presenza di militari
nelle vicinanze. In alcune province esistevano ospedali che, grazie alla scorta
di medicine e alla presenza di medici e infermieri se non professionisti per lo
meno esperti, funzionavano decentemente, garantendo riposo e adeguata
alimentazione ai pazienti. In altri distretti i bambini continuarono a
frequentare le scuole senza essere separati dalle loro famiglie. Vi erano
regioni in cui, se, al termine della giornata di lavoro, non si raggiungeva la quota
prescritta dai quadri, non era prevista alcuna penale e si riceveva la quantità
di cibo regolarmente prescritta.

Anche questa, comunque, differiva in quantità, qualità e
dieta da regione a regione. Nel peggiore dei casi si riceveva un barattolo
(circa duecentocinquanta grammi) di paddy a testa al giorno (riso non
brillato; cento chilogrammi di paddy foiscono in media sessanta chili
di riso) o, in mancanza di riso, farina d’avena con l’assoluta proibizione di
procurarsi alimenti alternativi. Altre testimonianze indicano che il cibo non
fu mai un problema, potendo ottenere tre barattoli al giorno di riso per
persona a cui si aggiungeva frutta, verdura e, in casi speciali, pezzi di
carne, mentre nel tempo libero si poteva pescare e raccogliere i prodotti della
foresta.

Perfino la nuova moneta rivoluzionaria, prima di essere
completamente abolita nel settembre 1975, ebbe altee fortune circolando in
regioni sempre più ristrette. Al suo posto fiorì il baratto, di cui si servì il
«popolo del 17 aprile» per comprare alimenti. Alcune testimonianze affermano
che la parità di scambi variava di zona in zona seguendo le fluttuazioni della
domanda e dell’offerta: un damleung (l’unità di peso cambogiana
equivalente a 37,5 grammi) d’oro garantiva settanta scatole di paddy
subito dopo la vittoria dei Khmer Rossi, scendendo a venti barattoli un mese più
tardi, mentre in altre zone con la stessa quantità d’oro si potevano ottenere a
scelta trentacinque chili di riso, venti di sale, cinque di zucchero, cinque di
prahoc (pasta di pesce fermentata) o un chilo di zuppa in polvere. Anche
le medicine, sempre più rare a trovarsi, avevano un preciso valore di scambio:
a Kompong Cham, una delle principali città cambogiane, prima che il baratto
fosse proibito, un chilogrammo di riso veniva barattato con una compressa di
aspirina, mentre se ne potevano ottenere sette per un fiala di vitamina B12; un
flacone di streptomicina poteva valere quindici chili di riso.

Anche l’orario lavorativo si allungava o restringeva
secondo il volere della dirigenza locale. C’erano comunità che lavoravano
ininterrottamente per dieci giorni per quattordici ore al giorno, riservando il
giorno di riposo a interminabili riunioni politiche di autocritica o di
denuncia. In altre, invece, erano rispettate le otto ore di lavoro con il
decimo giorno riservato alle proprie incombenze personali.

Neppure sulle restrizioni ideologiche imposte dal nuovo
regime c’era uniformità di vedute: mentre in molti casi si assistette a
esecuzioni sommarie di soldati del disciolto esercito di Lon Nol, di ex
funzionari governativi, di intellettuali, di dissidenti o di persone poco
inclini al lavoro manuale, in altri queste stesse categorie poterono
sopravvivere convivendo pacificamente con il resto della popolazione.

Solo dopo il 1976, con l’istituzione pressoché
generalizzata delle mense comuni, cominciarono a esserci i primi attriti su
scala nazionale, generalmente dovuti a un ricambio dirigenziale voluto dal
governo di Saloth Sar (Pol Pot).

Da quel momento le condizioni di vita in Kampuchea
Democratica divennero insostenibili per la maggior parte dei cambogiani. Le
purghe all’interno del partito falciarono i rivoluzionari più moderati e oggi è
possibile visitare alcuni dei simboli più nefasti di quel periodo: la prigione
S-21 a Phnom Penh (oggi Museo del genocidio) e Choeng Ek, dove i prigionieri
della S-21 venivano portati a morire. Qui, dove circa sedicimila persone
vennero torturate e, in seguito, uccise con le accuse più disparate che
andavano dall’attività controrivoluzionaria a essere spie della Cia o del Kgb, è
concentrata tutta la ferocia del governo di Pol Pot.

Le due zone in cui la popolazione fu sottoposta alle
condizioni più brutte e meno brutte furono rispettivamente la Zona Sudovest (di
Ta Mok) e quella Orientale (di So Phim).

La Zona Sudovest, posta sotto il comando di Ta Mok, un
comandante militare fedelissimo a Pol Pot, fu una delle regioni che implementò
con maggior vigore le direttive del governo centrale in materia di ordinamento
sociale e ideologico. Già prima della caduta di Phnom Penh, i contadini di
questa zona ebbero a lamentarsi dei metodi troppo rudi imposti dai loro capi,
giungendo anche a organizzare delle ribellioni che indussero il partito ad
allentare, almeno temporaneamente, la morsa. Per contro, la Zona Orientale,
amministrata dal moderato So Phim, alleggerì le misure radicali imposte alla
popolazione dal governo centrale garantendosi l’appoggio sincero dei cambogiani
sotto la sua giurisdizione attraverso un miglioramento delle condizioni di
vita, un ritmo di lavoro meno ferreo, una certa libertà di movimento, la
protezione dell’integrità dei nuclei familiari. Certamente la superiorità dello
stile di vita degli abitanti della Zona Orientale era dovuta anche al fatto che
le sue risaie foivano alla nazione una quantità di cereale seconda solo alla
provincia di Battambang, ma il governo di So Phim contrapposto a quello
intransigente di Ta Mok avrebbe potuto essere additato dal governo di Phnom
Penh come esempio da imitare. Invece il governo centrale interpretò il relativo
benessere come una prova della distorsione ideologica che stava infettando i
quadri del partito, intraprendendo una serie di azioni che, alla fine,
emarginarono So Phim dalla cerchia dirigenziale, decretandone prima
l’espulsione e poi la morte. A rendere insostenibile la posizione di So Phim,
contribuì anche la collocazione geografica della Zona Orientale, posta ai
confini con il Vietnam, cosa che induceva l’ala dura dei Khmer Rossi a credere
che Hanoi stesse infiltrando spie e collaborazionisti al fine di sottomettere
l’intera nazione cambogiana.

 

L’invasione del
Vietnam

Lo scontro fu inevitabile e il 7 gennaio 1979 le truppe
vietnamite entrarono a Phnom Penh decretando la fine di Kampuchea Democratica.

L’invasione vietnamita (perché di invasione si trattò)
portò il mondo occidentale a insorgere pressoché compatto contro quella che
esso considerava una guerra di espansione ai danni di un governo regolarmente
accettato sul piano diplomatico internazionale. A chi giustificava l’intervento
di Hanoi portando le prove della durezza del governo di Pol Pot, veniva
risposto che nessun paese aveva il diritto di imporre la propria politica a un
altro, anche se questo negava i diritti umani dei propri cittadini. Poche
settimane dopo, però, si consumò un altro dramma del tutto simile a quello in
atto nel Sud Est Asiatico: in Africa, le forze armate tanzaniane costrinsero il
dittatore ugandese Amin Dada a lasciare il potere, sostituito da Obote. Questa
volta il colpo di stato non venne condannato dall’Occidente che, anzi, mostrò
chiari segni di approvazione.

Il confronto tra i due avvenimenti venne portato come
esempio di faziosità dell’Occidente da chi riteneva giustificato il
rovesciamento cruento di Pol Pot.

Le Nazioni Unite continuarono per diversi anni a
riconoscere Kampuchea Democratica come legittimo e unico rappresentante del
popolo cambogiano. La guerra civile cambogiana si protrasse fino al 1998, anno
in cui Pol Pot morì dopo essere stato processato e accusato di tradimento dai
suoi stessi ex compagni.

Le regioni occidentali, assieme ad Anlong Veng, la
cittadina nella quale si era arroccata la dirigenza comunista, passarono sotto
il controllo di Phnom Penh che, per evitare il pericolo di una nuova rivolta,
vi incentivò il trasferimento di nuovi abitanti in modo da diluire la
componente fedele ai Khmer Rossi.

Ancora oggi un viaggio ad Anlong Veng e a Pailin,
l’altra città sul confine thailandese rifugio degli ultimi dirigenti khmer
rossi, rappresenta una sorta di deja vu nella storia cambogiana. Non è
raro incontrare gente che ricorda con nostalgia il periodo in cui erano i Khmer
Rossi ad amministrare la regione: i lavori di sviluppo agricolo intrapresi
sotto la direzione dei tecnici comunisti dopo gli anni Ottanta, avevano portato
un benessere diffuso e il livello di vita degli abitanti era decisamente
superiore a quello registrato nelle zone poste sotto il controllo governativo.
La vicinanza con il confine thailandese garantiva, inoltre, un rifoimento
pressoché continuo di qualsiasi tipo di manufatti e prodotti provenienti da
tutto il mondo.

 

Hun Sen,
padre-padrone

La resa dei Khmer Rossi nel 1998 obbligò la comunità
internazionale a chiedere a gran voce un processo per i crimini da loro
commessi tra il 1975 e il 1979. Un atto dovuto, ma che non ha mai fatto piacere
a nessuno.

Un processo equo coinvolgerebbe troppi attori che
dovrebbero dare spiegazioni sui loro comportamenti prima, durante e dopo
l’avvento dei Khmer Rossi al potere. L’Occidente e le stesse Nazioni Unite
dovrebbero, ad esempio, spiegare gli aiuti diplomatici, finanziari e militari
dati ai Khmer Rossi dopo il 1979; Sihanouk (morto nel 2012) avrebbe dovuto
spiegare a un’eventuale giuria (obiettiva) le sue acrobatiche manovre politiche
per restare aggrappato al trono regale sostenendo la dirigenza khmer rossa sin
dal 1970; Hun Sen, attuale primo ministro e da tempo padre-padrone della
nazione, avrebbe dovuto raccontare come aiutò Pol Pot a conquistare il potere e
come si trasformò nel suo più violento accusatore.

La scuola non è ancora pronta ad affrontare seriamente
il periodo di Kampuchea Democratica. Quattro decenni, se possono sembrare tanti
per la nostra percezione del tempo immediato, sono un’inezia per la storia e
per potersi confrontare con essa con obiettività.

La Cambogia post Khmer Rossi è corrotta nel suo interno.
Nell’animo, si potrebbe dire. Le speranze di ricostruire un paese nuovo, libero
e moralmente virtuoso, si sono infrante di fronte agli scogli del potere. Un
potere personificato in primo luogo dai politici: da Hun Sen, al governo
ininterrottamente dal 1993, ma anche dall’inconcludente Sam Rainsy, esponente
di spicco dell’opposizione.

Non sorprende, quindi, il disinteresse con cui i
cambogiani hanno seguito e stanno seguendo le fasi del processo (scheda a
pag. 40
). Fatto che dimostra quanta sfiducia vi sia nella nuova classe
dirigente.

 

Angkor, specchio del
degrado

La Cambogia, paese relativamente poco popolato (15
milioni di abitanti sparsi su 181 mila kmq), potrebbe essere una nazione tra le
più ricche del Sud Est Asiatico. Un sottosuolo ricco di rubini, un terreno
fertile e attraversato da innumerevoli corsi d’acqua, un mare e un lago, il
Tonle Sap, pescosi e alcuni dei siti archeologici più straordinari al mondo
potrebbero garantire un relativo benessere a tutta la popolazione.

Eppure così non è. La Cambogia non è mai riuscita a
superare lo stallo di Kampuchea Democratica.

L’evidenza dell’inefficienza e dell’incuria con cui le
autorità locali e nazionali (con la complicità della comunità internazionale)
trattano la stessa cultura khmer si manifesta ad Angkor, sito in cui ogni anno
si riversano più di due milioni di persone trasportate da pullman, tuc tuc, macchine private, motorette.
Una volta scese, le masse di turisti invadono i centri archeologici senza rispettare
le più elementari regole di educazione artistica e storica. Più che dai Khmer
Rossi e dalle guerre, Angkor è stato e continua a essere devastato
dall’inquinamento e dagli eserciti dei turisti, la maggior parte dei quali si
dimostra completamente disinteressata a tutto quello che il sito archeologico
rappresenta. Da parte loro i funzionari ministeriali si preoccupano solo di
accrescere il numero dei visitatori, visto che ognuno di essi paga la bellezza
di 20 dollari al giorno per visitare il sito.

L’esempio di Angkor, della corruzione dilagante e del
degrado morale a cui si è ridotta la società cambogiana rimangono i cavalli di
battaglia di chi cerca di rivalutare, se non Kampuchea Democratica, almeno la
classe dirigente Khmer Rossa. E, con la classe politica che oggi governa la
Cambogia, non è difficile trovare chi, seppur provocatoriamente, rimpiange il
passato.•

Tags: Cambogia, Khmer Rossi, Pol Pot, massacri, genocidio, Vietnam

Piergiorgio Pescali

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