Il contadino di Dio, i valori della terra

Quasi un profeta

Gino Girolomoni nasce
in una famiglia contadina. Fin da piccolo si scontra con le difficoltà della
vita. Vede nella civiltà rurale e nella cura della Madre Terra l’unico futuro
possibile. Trova l’energia spirituale nelle piante e nella Bibbia. Con la
moglie Tullia «inventa» l’agricoltura biologica in Italia. Storia di un grande
personaggio, troppo poco conosciuto.

 


 

Chi
guarda le foto di Gino Girolomoni, con la barba bianca e lo sguardo severo ma
luminoso, ritto nel suo amato campo di grano, con le spighe in mano, non ha
difficoltà a immaginarselo nelle pagine delle sacre scritture. Come colui che
guida il suo popolo attraverso il deserto, ispirato da una fede tenace e
sapiente.

Così è stata la vita di Gino, padre dell’agricoltura
biologica italiana, fondatore del mitico marchio «Alce Nero», paladino di Madre
Terra e del mondo contadino in via d’estinzione, studioso della Bibbia e
tessitore d’incontri tra culture, religioni, fedi diverse.

Un percorso straordinario, purtroppo interrotto da una
morte repentina, il 16 marzo 2012.

Un cammino che viene esplorato da una bella biografia di
Gino, «La terra è la mia preghiera» (Ed. Emi 2014), scritta dal giornalista e
ricercatore spirituale Massimo Orlandi.

Origini «antiche»

Tutto comincia nel 1946 in un piccolo paese delle
Marche, Isola del Piano, a una ventina di chilometri dall’aristocratica Urbino.
Qui nasce Gino, da babbo Olindo e mamma Rina, qui cresce insieme alla sorellina
Vera e al fratellino Alessio. Qui, sono parole sue, vive l’esperienza più
importante della sua esistenza: «L’aver vissuto l’epopea antichissima della
vita contadina… nelle campagne c’era sì la povertà, la fatica, ma c’erano anche
i valori che gli uomini hanno dimenticato: la parola data, la solidarietà, la
cura di un paesaggio che era bello anche da vedere» (Gino Girolomoni, Alce Nero grida. L’agricoltura biologica, una sfida
culturale, Jaca Book, Milano, 2002, pg. 87).

Tra un piatto di polenta, l’acqua tirata su dal pozzo, i
giri nel bosco con la mamma a tagliare le vitalbe per il bestiame, il piccolo
Gino passa un’infanzia povera ma felice. Fino a sei anni, quando la mamma muore
per una puntura di spino, avvelenata dal tetano. La famiglia, che ha difficoltà
a accudire i tre bimbi, manda Gino in collegio, dove una vecchia suora gli
trasmette l’amore per la Bibbia. Una passione che segnerà tutta la sua vita.

Ma non viene mai meno l’attaccamento alla terra, ai
campi che ritrova durante le vacanze estive. Alla vigilia del ’68, quando si
chiude il ciclo del collegio, il ragazzo Gino si trova alle prese con la
domanda che tutti i giovani devono affrontare: «Dove mi porta la mia vita?».
Negli anni caldi della militanza politica e della ribellione giovanile
collettiva, mentre l’esodo dalle campagne segna pesantemente anche le sue
colline, Gino va controcorrente: si sente attratto dai ruderi di un antico
monastero abbandonato, sul colle di Montebello, che sovrasta la sua casa e da
cui la vista spazia da San Marino al Monte Conero. Quei ruderi contengono
seicento anni di storia della Chiesa: all’origine c’è il cammino di fede del
fondatore, il beato Pietro Gambacorta da Pisa e quello di altri 17 beati che
sono passati da lì.

«Questo è un luogo privilegiato dello spirito – si dice
Gino -. Non deve morire d’oblio».

La necessità lo spinge a cercare lavoro fuori: fa il
collaudatore di moto a Pesaro, il caporeparto di uno zuccherificio a Fano. Ma
quando gli si presenta l’occasione di andarsene davvero, in Svizzera, per un
posto fisso alle ferrovie (per quell’epoca, un teo al lotto) Gino fa
repentinamente marcia indietro, e torna là, nel luogo da cui tutti scappano:
alla sua terra. E vuole starci con la sua donna, Tullia, che dividerà con lui
il suo eretico cammino.

Civiltà contadina

«Anche a costo di doverlo fare da solo, il mio mestiere
nella vita sarà quello di contadino» scrive nel suo diario il 28 dicembre 1969.

In quasi totale solitudine, Gino giura fedeltà a quel
mondo rurale sull’orlo della scomparsa, privato di mezzi e dignità dal rampante
sviluppo industriale dell’epoca, segnato da quella che lo scrittore Moravia
definisce «putrefazione». Nel 1970, a soli 23 anni, diventa sindaco di Isola
del Piano: un’opportunità che coglie nella consapevolezza che sarà una carta in
più da giocare per combattere il degrado fisico e culturale della civiltà
contadina e per tentae il rilancio.

Qui, nel 1973, «mette in scena» gli antichi mestieri, la
prima esposizione delle «Attrezzature agricole tradizionali e degli strumenti
che ancora si fanno», cui faranno seguito una serie di eventi per rivalutare la
civiltà rurale, per restituire a contadini e artigiani la fierezza del loro
mestiere e indicare loro che si può continuare a vivere con la terra, grazie
alla terra.

Se la campagna scompare, è il futuro stesso dell’umanità
a essere in pericolo: «Senza la riappropriazione di questo genere di capacità,
senza essere capaci di piantare l’aglio né l’insalata, senza saper costruire un
giocattolo di legno per il proprio figlio, senza saper costruire un vaso
d’argilla, non si può capire bene il passato né aspettarsi molto dal futuro».
Insomma, Gino crede fermamente che sarebbe una sciagura se andassero perduti i
valori del mondo agricolo: la solidarietà, corrosa dall’egoismo della dominante
civiltà industriale, la manualità messa a rischio dal ruolo sempre più diffuso
delle macchine, il rispetto verso la natura, inquinata e corrotta dal nuovo
modello di sviluppo. Gino predica, e pratica, un’agricoltura in grado di
sintonizzarsi di nuovo con i ritmi di «Madre Natura», rispettosa di chi produce
e di chi consuma, capace, grazie alla sua qualità, di conquistare spazi di
mercato che la rendano anche remunerativa.

Energia spirituale

La spinta e l’energia per questa titanica impresa Gino
la trova dunque nella terra: «Nelle piante vedo veramente il soffio di Dio»
scrive. Ma anche nelle scritture: ogni giorno si ritaglia qualche ora per la
lettura della Bibbia. «La fede e la vita non sono separate – dirà -, tu dimostri
di aver fede secondo la vita che fai».

L’inizio della sua nuova vita, di quella della sua
comunità, Gino lo trova non a caso tra i ruderi di Montebello, che comincia a
restaurare e che nel 1976 diventerà la sua casa, dove andrà a vivere, in
un’unica stanza abitabile, senza acqua né luce, con la moglie Tullia e il loro
primo bambino.

Montebello diventerà, dal 1977, la sede della
Cooperativa Alce Nero – che oggi si chiama «Girolomoni» e non ha più nulla a
che vedere con l’attuale Alce Nero sul mercato -, antesignana dell’agricoltura
biologica: il nome non è scelto a caso, ma ricorda l’epopea del capo Sioux che,
cacciato con il suo popolo dalle sue terre ancestrali, rivendica con forza e
dignità i propri diritti. Il logo è appunto un indiano piumato, ritto sul suo
cavallo in corsa, lancia in resta. «Anche nel resto del mondo ci sono gli
indiani – osserva Gino -. In Italia sono i contadini».

La Cooperativa cresce, resistendo tenacemente alle
difficoltà finanziarie, agli ostacoli frapposti senza sosta da una burocrazia
ottusa e nefasta (un solo esempio: la pasta integrale sarà addirittura
sequestrata per diciassette anni dallo stato perché non ancora prevista nella
nostra normativa). Grazie alla qualità delle sue produzioni e alla sua abilità
nel mettere in piedi l’intera filiera, si farà conoscere in Italia e
all’estero, diventerà l’avamposto di un settore, quello biologico, all’epoca di
fatto inesistente e che oggi conta in tutta Italia 50mila aziende, è praticata
su un milione di ettari, cresce del 17% l’anno, per un fatturato di 3 miliardi
di euro (55 nel mondo intero).

Nel maggio 1978, il sindaco Gino organizza nel suo
paesino il primo corso nazionale di agricoltura biologica. Oggi, sulle colline
intorno a Isola del Piano si contano 25 aziende biologiche, simbolo della
volontà di un territorio di tornare a essere padrone del suo destino.

Una porta aperta

Ma non basta. Rivalutare il mondo contadino e i suoi
valori è un’avventura che richiede compagni di viaggio anche nei territori
della cultura e della scienza, alleanze con gli intellettuali, a livello
nazionale e internazionale. Montebello diventa così un luogo di incontri e di
scambi di altissimo livello, sede di eventi che faranno epoca e che toccano i
grandi temi della vita e della spiritualità, frequentata da filosofi e
scrittori del calibro di Guido Ceronetti, Sergio Quinzio, Massimo Cacciari,
Alex Langer, Ivan Illich, Vittorio Messori.

Non solo: sarà una «porta aperta», un punto di
accoglienza calorosa per chiunque pratichi la ricerca spirituale, sulle rotte
della natura e dello spirito.

Guardando il mondo dalla cima del suo monte, raccolto
nel silenzio del suo studiolo monacale, circondato dai suoi libri, migliaia, di
storia, archeologia, spiritualità, Gino scrive: «Mi sento un cane che abbaia
per difendere le campagne, un portatore di una seppure minima speranza di
curare le ferite dei monti non ancora moribondi. Mi sento uno che vede in
questi luoghi una possibilità per resistere alla corruzione del pensiero e dei
costumi, un luogo dove ricostruire frammenti di minuscole società» (Gino
Girolomoni, Terre, monti e
colline! Il caso Alce Nero, Jaca Book, Milano
1992, pg. 14).

In quest’ottica, Gino accetta anche di entrare in
politica e milita nella dirigenza dei Verdi dal 1999 al 2001, all’epoca in cui
io ero presidente del partito (lascerà poi qualche anno dopo, deluso dalla
politica politicante e dai meccanismi del potere). Abituato al parlare netto e
schietto, anche duro all’occorrenza, restio a chinare la testa davanti ai
potenti, Gino diventa in quel periodo una bandiera delle battaglie
ambientaliste, in particolare quella contro gli Ogm (organismi geneticamente
modificati) e contro l’uso dei pesticidi e dei veleni in agricoltura.

«Credo che sia evidente che per me il biologico è uno
stile di vita, un modo di abitare la campagna, di vivere, di mangiare, di fare
scelte come l’uso di medicine, dolci, della bioedilizia, di forme di energia
rinnovabile. Tutte queste cose stanno insieme e formano un modo diverso di
vivere» (Intervista tratta da un documentario «Montebello, una collina che non
si arrende»).

Insomma, come ben sintetizza Massimo Orlandi nella
biografia di Gino (pag. 108): «L’agricoltura biologica rappresenta il primo
nucleo di resistenza attiva… tocca un bisogno primario, il cibo, e racconta il
paradosso più lampante di una società tanto disumanizzata da avvelenare anche
ciò di cui si alimenta».

Al di là del comune impegno politico e civile, abbiamo
per decenni condiviso una profonda ricerca spirituale e la sfida di calarla
nella nostra esistenza quotidiana. Una sfida che Gino ha continuato a praticare
fino alla morte, nel vortice delle sue poliedriche attività (libri, articoli,
conferenze, incontri culturali oltre che la quotidiana produzione biologica),
tenendo testa a difficoltà, sconfitte, amarezze. Ma gratificato anche,
soprattutto negli ultimi anni, dal successo della sua impresa, sia sul versante
economico sia su quello culturale. E soprattutto dalla promessa rappresentata
dai suoi tre straordinari figli, Samuele, Giovanni Battista e Maria, che oggi
custodiscono e fanno crescere la preziosa eredità del padre (e della madre,
perché senza l’inestimabile e instancabile presenza di Tullia, coadiuvata dalla
cara Nonna Tullia, Montebello sarebbe appassito in pochi anni).

Lo spirito di Montebello continua dunque a vivere. Ed è
sintetizzato in una frase che un giorno Gino mi disse, al ritorno da una
passeggiata nella neve, accanto al grande camino del monastero: «Nella realtà
del mondo, ha ragione solo chi vince. Nella realtà di Dio, non conta solo
vincere o perdere. Conta servire la causa».

Grazia
Francescato* 

* Ambientalista, giornalista, scrittrice, ex presidente
del Wwf, dei Verdi italiani e dei Verdi europei. È stata deputata nella XV
legislatura (2006-2008).

Tags: ecologia, agricoltura biologica, bioagricoltura, spiritualità, Girolomoni

Grazia Francescato




Cuba e l’attesa per il dopo «bloqueo»

il Futuro inizia domani

Il 17 dicembre 2014 è
stato un giorno storico per Cuba: è stata infatti annunciata la fine di 55 anni
di guerra fredda tra l’Avana e Washington. Un nostro fotografo era nell’isola
caraibica proprio in quei giorni.

 


 

Varadero. Sono venuto a Cuba per un reportage fotografico
su alcune aree intee dell’isola. Approfittando della stagione favorevole, ho
deciso di portare con me la mia famiglia che farà base a Varadero, zona adatta
ad accogliere – con i suoi circa 60 resort
– turisti da ogni parte del mondo, ma in realtà l’unico posto di Cuba che nulla
ha in comune con l’obiettivo del mio reportage: un racconto fotografico
attraverso percorsi non convenzionali e lontani dalle rotte turistiche, come
l’entroterra di Cardenas e Matanzas, territori immobili e intrappolati in ritmi
e stili di vita lontani decenni dai nostri.

Giunto all’hotel, prendo coscienza del fatto che saranno
due settimane di quasi completo «isolamento digitale». A causa dell’embargo (el bloqueo) Cuba
ha enormi difficoltà di trasmissione per via delle limitazioni dell’uso dei server e per l’utilizzo
dei cavi sottomarini, molto meno efficienti (ma più economici) dei satelliti.
Scegliendo Cuba mi ero preparato al fatto che avrei dovuto fare a meno della
connessione a internet sul mio inseparabile smartphone, ma non al fatto che
proprio in questi giorni anche in hotel la connessione sarebbe stata fuori uso.

Ormai rassegnato all’idea dell’«isolamento digitale», mi
ritrovo inaspettatamente sollevato: posso finalmente disintossicarmi (pur in
maniera forzata) dalla maniacale abitudine all’uso della rete a cui molti di
noi sono quotidianamente sottoposti. Mi sento già più libero. Leggero. Mi
preoccupo di noleggiare un’automobile in modo da potermi muovere in maniera
autonoma nelle zone dell’isola che mi interessano e che si trovano a Sud delle
paradisiache spiagge di Varadero. Mi viene proposta una fiammante auto cinese
dal nome impronunciabile che, nei giorni successivi, darà prova del suo stato
di usura, scarsa «qualità» e manutenzione. Nell’arco di poche ore, inizio a
comprendere meglio le limitazioni e i vincoli imposti dal bloqueo.

Senza supporto satellitare, Google Map è privo di vita. L’unico modo per muovermi sull’isola
sarà quello di tornare al vecchio, scomodo e silenzioso stradario che il
noleggiatore mi ha messo a disposizione.

In hotel indago sul percorso e sui territori che mi
interesserebbe fotografare. Incontro Jorge, un operatore turistico che, dopo
avermi proposto tutti i suoi tour organizzati, desiste e cede il passo alla mia
voglia di autonomia. L’uomo si lascia andare al racconto della precaria
situazione a cui il popolo cubano è costretto a causa dell’embargo, pur
sottolineando il fatto che persone come lui, operatori del settore più vitale
del paese, vivono in realtà una situazione «privilegiata».

Jorge è molto scettico sulla mia intenzione di visitare
le zone intee alla ricerca di testimonianze fotografiche e di volti lontani
dal sole delle spiagge. È abituato alle migliaia di canadesi, italiani e
tedeschi che vengono a Cuba solamente con l’obiettivo di bere rum, fumare
sigari, godere del sole dell’isola, magari in dolce compagnia. Ad ogni modo mi
fornisce indicazioni e suggerimenti strappandomi la promessa di mostrargli al
mio ritorno le immagini scattate nel mio peregrinare.

La Habana, tra
decadenza e splendori

È il 17 dicembre quando Obama e Raul Castro annunciano la
fine della guerra fredda tra i due paesi (leggere il riquadro a pag. 13, ndr).

Dopo oltre 50 anni dalla rivoluzione castrista, Cuba si
appresta probabilmente ad affrontare il più grande cambiamento di sempre.
Assaporo la fortuna di essere qui proprio nei giorni di questo storico
passaggio.

Anche se lontano dalle mie iniziali intenzioni, decido di
far partire il mio itinerario da la Habana (l’Avana, in italiano), una della
città più affascinanti del Sud America, obbligatoria per iniziare ad assaporare
il clima cubano («a due marce») ed entrare in sintonia con uno dei popoli più
cordiali e accoglienti che io abbia mai conosciuto. Girovagando per le strade
di Habana Vieja alla ricerca di angoli particolari della città vecchia e
dell’autentica cucina cubana, lontano dai locali turistici, percorro
un’infinita serie di viuzze, attraversate da rivoli d’acqua di varia natura,
che si infilano tra le macerie di edifici fatiscenti o pericolanti.

Alla fine, dopo l’incontro con una giovane coppia di
cubani, senza volerlo mi ritrovo in un famoso locale della capitale dove pare che,
in serata, ci sarà un ricevimento con la presenza del presidente Raul Castro.
Non so se questo sia vero, anche perché i due ragazzi, dopo l’iniziale
approccio disinteressato, una volta nel locale mostrano i loro reali obiettivi:
essere invitati a mangiare, a bere qualche mojito1 e magari ricevere anche dei Cuc2.

Il
ragazzo mi racconta di essere un musicista che ha anche preso parte al tour
documentario di Zucchero qualche tempo addietro. Suona la tastiera e il suo
salario mensile è di soli 30 Cuc (circa 25 dollari). Vive con la moglie, hanno
un bimbo di 3 anni e uno in arrivo. Lo intuisco anche dal pancione della
ragazza che lo accompagna.

La difficoltà di
informarsi

Voglio approfittare del fatto di essere qui per capire
meglio Cuba e per avere informazioni in presa diretta, ma non è facile. Avendo
la sensazione che sull’isola l’informazione sia ancora in mano ad un ristretto
numero di persone e non avendo la possibilità di accedere a internet, l’unico
modo per cogliere l’essenza di ciò che sta accadendo sia di parlare con la
gente comune. Spingo quindi la conversazione su quello che i miei due giovani
accompagnatori pensano del governo, della sua politica, dell’economia.

È difficile però avere dettagli. Il tono dei miei
interlocutori si anima e si placa con mezze risposte dettate al ritmo della
musica diffusa nel locale dal gruppo di musicisti che si sta preparando per la
serata.

Mentre diversi bicchieri di mojito passano sul nostro
tavolo, parliamo dello storico annuncio fatto il giorno prima dal presidente
Castro e dal leader americano. L’atmosfera si scalda al racconto di questo
evento memorabile e traspare dai loro volti la grande speranza che Cuba
finalmente possa entrare in una nuova era. Forse anche per l’effetto dei mojitos, sorridono e anche
i loro occhi brillano pensando ai cambiamenti che presto potrebbero migliorare
la loro esistenza. Come, ad esempio, la liberazione dalle restrizioni della libreta, la tessera statale
che offre un aiuto alle famiglie dando loro la possibilità di acquistare una
serie di beni primari a prezzi politici. Me la mostrano tirandola fuori con un
po’ di esitazione. Mi dicono di molti cubani che, pur disprezzandola, la
utilizzano per comperare quello che offre. Mi spiegano che la libreta non fa vivere, ma
che comunque è un utile supporto. Con essa anche il loro bimbo ha diritto alla
sua quota di riso, pane, olio, ma – aggiungono scherzando – non ai sigari che
invece a loro farebbero molto comodo: li potrebbero infatti rivendere per
comprare del latte.

Mi raccontano che, da qualche anno, Cuba sta attuando
riforme radicali soprattutto a livello agrario e stringendo accordi anche con
paesi che un tempo erano considerati nemici. In ogni caso, sia in città sia in
tutta l’area costiera, è soprattutto il turismo il comparto economico su cui la
maggioranza dei cubani punta.

Qualcosa sono riuscito a sapere. Tuttavia, l’obiettivo
della mia coppia non è tanto quello di parlare dei problemi e degli scenari
futuri di Cuba quanto di riuscire a portare a casa qualcosa in più del pranzo.
Mi parlano così di cornoperative e dell’opportunità di comprare rum e sigari a
prezzi inferiori a quelli ufficiali. Poi, all’improvviso, forse a causa del mio
scarso interesse, decidono che è ora di andare e, dopo avermi lasciato i loro
indirizzi e in regalo alcuni pesos cubani ufficiali, mi salutano
frettolosamente.

L’incontro mi porta alla mente una serie di letture che
avevo fatto prima di partire e che puntualmente mi avevano svelato quanto la
tecnica e la pratica di approcciare turisti, soprattutto a la Habana, sia
sofisticata ed elegante: gentili e affabili cubani pronti a dare il proprio
aiuto per districarsi nei meandri della capitale. Le avevo considerate leggende
metropolitane, tipiche della rete. Invece era tutto vero: la prova tangibile di
come il popolo cubano, stanco e impoverito dalla situazione economica, riesca a
escogitare strategie, anche elaborate, per sbarcare il lunario facendo leva su
quella che, probabilmente, è l’unica vera opportunità esistente nella capitale,
il turismo.

La Habana Vieja con i suoi edifici decadenti e fatiscenti
è Patrimonio dell’umanità. Probabilmente è una delle città coloniali più belle
che abbia visto nel Sud America, ma percorrendone le strade, accompagnato dagli
effluvi delle fogne, mi rendo conto del fatto che la maggior parte degli
edifici non è mai stata restaurata e che alcuni crollano inesorabilmente giorno
dopo giorno, accumulando montagne di macerie ai bordi delle strade.

Per visitare la Habana ci vuole non soltanto uno stomaco
forte, ma anche buoni polmoni. Le affascinanti e colorate automobili degli anni
Cinquanta sono infatti  quanto di più
inquinante ci possa essere perché, come gli edifici, sono rimaste quelle di un
tempo: luccicanti e appariscenti se viste da lontano, malandate, arrugginite e
decadenti se viste da vicino e all’interno.

Durante il percorso di ritorno verso la mia auto,
passando per i luoghi simbolo della città – Plaza de Armas, Palacio de los
Capitanes Generales, la cattedrale di San Cristobal -, mentre metabolizzo le
frasi e il comportamento dei due ragazzi che ho conosciuto, si rafforza nella
mia mente l’idea che, con la scomparsa del bloqueo, Cuba potrebbe non essere
più la stessa.

Tutti a bordo

Toare verso Varadero non è facile. A Cuba sono
praticamente inesistenti i cartelli stradali. Sono stati tutti, o quasi,
rimossi dalla gente del posto. In modo intenzionale: chiunque ti darà le
indicazioni di cui hai bisogno, ma spesso in cambio di un passaggio. Quando mi
fermo a chiedere informazioni, diventa così quasi inevitabile ritrovarmi, per
qualche chilometro, con una persona a bordo. E alla fine non è detto che io
prenda sempre la direzione corretta o più breve verso la mia destinazione
avendo a fianco un accompagnatore interessato.

Daniele Romeo

(fine prima
parte)

Tags: Cuba, embargo, bloqueo, vita quotidiana, rinnovamento

Daniele Romeo




Cari Missionari

 

Franchezza sulla Chiesa

Sono un lettore della vostra rivista di cui apprezzo la
franchezza generosa, e desueta, con cui parla dei popoli e delle nazioni del
mondo, e sono stato sorpreso anche del coraggio con cui, parlando del Ce nel
numero di dicembre, P. Pescali riconosce che la scienza è riuscita ad unificare
gli uomini più delle religioni; un riconoscimento certo non facile per una
rivista  religiosa, e neppure del tutto
vero per quanto riguarda la stessa scienza, di cui conosciamo le manipolazioni
passate e della cui onestà di ricerca non siamo sicuri neppure per l’avvenire.
Con la stessa franchezza vi dico che mi sembra inutile l’allegato
sull’Allamano, troppo acriticamente agiografico, così come non trovo lo stesso
coraggio quando affrontate i problemi della Chiesa, soprattutto della sua
gerarchia. Capisco che non si può parlare di corda in casa dell’impiccato, ma
credo che una maggiore schiettezza non danneggerebbe ne voi né la Chiesa
stessa; ricordate Rosmini.

La pratica
liturgica

In un inserto di qualche mese fa, curato da p. A.
Rovelli (di cui sono compaesano, così come lo sono di p. G. Rigamonti), il
problema della crisi della Chiesa è stato affrontato con onestà, ma, a mio
giudizio, tacendo su un fenomeno che la caratterizza da sempre e che reputo uno
degli elementi insieme più limitanti e più da rivedere: intendo il peso che ha
in essa la pratica liturgica e cultuale. Che è centrale nella Chiesa
contemporanea, come nella Chiesa da sempre, almeno dalla sciagurata età
costantiniana in poi, ma che non trova fondamento nel Nuovo Testamento (e qui
mi potrebbe essere d’aiuto p. Farinella, di cui auspico ed attendo il ritorno
sulle vostre colonne). Non ci sono nei vangeli e nell’intero corpus
neo-testamentario esortazioni a funzioni religiose, anzi per lo più se ne parla
in senso molto critico: vedi la parabola del fariseo e del pubblicano,
l’esortazione ad abbandonare il sacrificio per conciliarsi con il fratello, la
stessa preghiera del Padre nostro, che sembra letteralmente strappata a Gesù
dai suoi discepoli. L’unico caso che sembrerebbe smentirlo è l’istituzione
dell’eucaristia, ma il fatto che già ne parli Paolo (I Cor. 11, 23-26) e con
gli stessi accenti che troviamo nei sinottici – e Paolo non ha avuto nessuna
conoscenza diretta del Cristo – fa capire che il memoriale appartiene già alla
prima comunità cristiana come momento di consapevolezza di sé più che alla
verità storica dell’evento. E questo si inserisce perfettamente nella
predicazione del Cristo, che non intende sostituire i vecchi sacrifici e le
vecchie liturgie, ma si propone di creare una mentalità ed un’etica nuova, un
uomo «altro» sia rispetto al modello dell’ebreo che del pagano.

Certo mi direte che la liturgia non fa male a nessuno,
ed in fondo raccoglie la comunità dei credenti in un atto di riaffermazione di
identità e di comunanza di fede. Ma è proprio l’avere puntato soprattutto sulla
liturgia che ha reso marginale l’elemento dirompente dell’annuncio cristiano,
ovvero l’uomo nuovo e l’etica nuova. D’altra parte, a memoria, le esortazioni
che sento e che sentivo sono sempre quelle, riduttive: «sei andato a messa?», «hai
fatto la comunione?», «hai fatto Pasqua?», proprio le domande che Cristo non
rivolge mai ai discepoli. Forse il rispetto della liturgia si accompagna a una
vita scellerata, o anche semplicemente immemore dei suoi doveri o finalizzata
al guadagno senza moralità; l’una e l’altra possono convivere senza lacerazioni
proprio perché il primato della liturgia è neutro; esso assolve la coscienza ed
insieme non impegna, non mette in crisi il proprio modo di vivere.

Due esempi

Mi limito a citare due casi che ne mettono in evidenza
la contraddittorietà. Il momento della cresima, che dovrebbe essere quello
dell’acquisizione della consapevolezza matura di essere cristiano, rappresenta
per lo più un «rompete le righe», il momento in cui finalmente ci si è liberati
del catechismo (per tacer del fatto che la stessa funzione religiosa viene
regolata sugli orari dei ristoranti). Se questa è la reazione più diffusa è
evidente che c’è qualcosa che non funziona nel processo di formazione; nella
maggior parte dei casi quel tempo è stato sprecato e quel seme è andato
perduto. Non si può arrivare alla celebrazione come se questa fosse il tutto;
essa non ne è neppure una parte.

Un altro fatto riguarda la messa: la predica deve essere
ascoltata nel più assoluto silenzio (ho sentito rimproveri alle madri con
bambini molto piccoli o turbolenti; e dove li lasciano?), ma la raccolta delle
offerte è fatta durante la recita del Credo (che dovrebbe essere il momento di
identificazione comunitaria per eccellenza), e se i partecipanti sono numerosi
e il sagrestano è solo si rischia di portare tale raccolta fino al Padre
nostro; è possibile un simile sovvertimento di valori? L’omelia, la parte più
umana, discutibile, spesso la più stantia deve essere privilegiata rispetto ai
momenti più definenti e caratterizzanti? Senza contare (e anche qui don
Farinella mi potrebbe essere d’aiuto) che ecclesia significa comunità, e
soprattutto comunità non organizzata gerarchicamente, e omelia
significava dialogo, confronto, non ascolto supino, spesso volte distratto o
annoiato; e questo dipende anche dal predicatore.

Riempire le
anime

È certo difficile fare proposte: le chiese luterane e
calviniste, che sono da sempre più attente alla Parola, conoscono una crisi
forse ancora superiore a quella della chiesa cattolica. Ma è comunque evidente
che su questa via non si creano né buoni cristiani, né semplicemente persone
messe in crisi dalla loro professione di cristianesimo. Sono consapevole, e
qualcuno me l’ha ricordato, che le celebrazioni liturgiche finiscono con
l’essere l’ultima difesa alla prospettiva di una totale assenza del
cristianesimo nella società contemporanea. Ma non mi pare che si ponga la
stessa cura nella formazione. La conoscenza della storia della cristianità
tutta, la lettura critica dei testi, anche di quelli basilari, la
frequentazione dei numerosi autori cristiani soprattutto delle origini la si
trova più in alcuni laici che non negli stessi uomini di chiesa, che spesso ne
propongono una lettura rapida ed annoiata. Senza dimenticare il monito di
Pascal nella sua polemica contro i gesuiti: vi interessa solo riempire le
vostre chiese, non le anime dei vostri fedeli. Penso che il problema principale
sia innanzitutto uscire da questa condizione che crea fedeli inerti, per
formare cristiani che possono sì sbagliare anche più di quelli che vivono
secondo il modello corrente, ma per vitalità, per passioni, per principi etici.
Se è vero che la conoscenza (purtroppo!) non è tutto e non garantisce, è
altrettanto vero che l’approssimazione non creerà un cristiano autentico. E la
via della liturgia non educa, non forma, non fa crescere.

Per ragioni di correttezza voglio puntualizzare che chi
vi scrive è un agnostico, che tuttavia interessi storici hanno portato allo
studio del cristianesimo delle origini; e ritiene che il cristianesimo abbia
ancora, in questa stagione priva di ideologie e freddamente fondata su principi
economici (non si possono far fallire le banche, ma si può portare alla
disperazione un popolo, vedi la Grecia!), un grande ruolo da svolgere nella
coscienza contemporanea, ma deve cercare modi nuovi e non usuali per parlare
all’uomo. In fondo quegli antichi cristiani lo trovarono: senza chiese, intese
come edifici, e con un culto scao; forse è necessario riesaminare nel profondo
i caratteri delle origini; certo la consapevolezza e l’etica, ma anche la
conoscenza, erano superiori. E, lo ripeto ancora una volta, la comunità non era
fondata sul culto.

Mi scuso del disturbo, e con i più sinceri auguri che la
vostra rivista sopravviva.

Giuseppe
Corti
Barzago (LC), 16/02/2015

Grazie
sig. Giuseppe di questa lunga e interessante email. La sua disamina circa la
liturgia, tocca punti sostanziali della vita delle nostre comunità cristiane e
denuncia una situazione che certamente è una delle sfide più impegnative che la
Chiesa sta vivendo oggi.


Per
chi, come un missionario, rientra da paesi dove la liturgia è viva e celebrata,
il ritrovarsi in chiese dove la prima regola è «sii breve» perché la gente ha
fretta e ha tanto altro più importante da fare, lascia davvero sconsolati e
confusi.


«Si
ha spesso l’impressione che oggi nella chiesa la liturgia sia percepita più
come un problema da risolvere che una risorsa alla quale attingere. Eppure il
futuro del cristianesimo in occidente dipende in larga misura dalla capacità
che la Chiesa avrà di fare della sua liturgia la fonte della vita spirituale
dei credenti. Per questo la liturgia è una responsabilità per la chiesa di oggi».
Così scrive Goffredo Boselli, monaco di Bose.


Che
i cristiani italiani abbiano spesso ridotto la liturgia a un culto fatto di
pratiche esteriori, riti folkloristici, obblighi assolti, precetti e devozioni,
è un fatto. Senza entrare poi in merito a funerali a partecipazione zero e
matrimoni ridotti a spettacolo. Se poi si aggiungono le processioni in odore di
mafia e la difficoltà di trovare padrini e madrine «in regola» per battesimi e
cresime, il quadro è davvero preoccupante. La liturgia che la Chiesa sogna e
tutt’altra cosa. Per questo non posso concordare con lei quando dice che «la
via della liturgia non educa, non forma, non fa crescere».


Il
Concilio Vaticano II ha scritto che «la liturgia è il culmine verso cui tende
l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (Sacrosantum Concilium n. 10). Culmine e
fonte: due parole molto significative. Tutta la vita della comunità cristiana
dovrebbe trovare la sintesi nella liturgia e dalla liturgia attingere poi
l’energia per dare senso alla vita.


I
Cristiani dovrebbero poter dire «Senza la Domenica non possiamo vivere»,
insieme ai 49 martiri di Abitene (Tunisia) che nel 304 preferirono morire
durante la persecuzione di Domiziano piuttosto che rinunciare a celebrare
settimanalmente il memoriale della Pasqua del Signore.


Certo,
se quel che si celebra comincia in chiesa e in chiesa finisce, allora lei ha
pienamente ragione.

Non demordete

Da anni sono un’assidua lettrice della vostra rivista, e
dopo averla letta e apprezzata e meditata cerco di diffonderla, di «farla
girare» anche presso persone non completamente «cristiane ortodosse». È oggetto
ogni volta di discussioni costruttive. Trovo che riuscite sempre a essere
obiettivi, anche se trattate argomenti sociali, ambientali o politici.

È logico che quello che anima il vostro «andare a chi ha
avuto di meno» è animato dalla carità di Cristo, anche quando non viene
espressamente detto negli articoli: «non quando dite Signore, Signore siete
fedeli osservanti, ma quando fate la volontà del Padre mio» (cito a memoria
[cfr. Mt 7,21 ndr])… e qual è questa volontà di Dio se non dare la
vita per il progresso sia spirituale che umano dei nostri fratelli, spartendo
la nostra esperienza di Dio e, a volte, anche imparando da chi, a prima vista
giudichiamo «lontani».

Lo Spirito soffia dove vuole e non viene meno l’amore
alla nostra identità di Cristiani, se non ci mettiamo sempre sul pulpito,
credendoci gli unici detentori della Verità. D’altronde (dico un’eresia), il
Figlio di Dio avrebbe potuto starsene tranquillo col Padre e il Santo Spirito,
invece, per puro amore ha voluto scendere a «sporcarsi le mani» con le povere
faccende di noi umani, condividendo con noi giornie e dolori, e «ci ha pure
rimesso le piume» per aver denunciato le ingiustizie dei poteri del suo tempo.

Scusate le imprecisioni e le inesattezze nell’esporre
quel che penso (non ho studiato e sono vicina agli ottanta), ma quando ho letto
lo scritto del signor Alfredo di Genova (MC 03/2015, p. 7) non ho potuto far a
meno di mandarvi il mio incoraggiamento nel proseguire lo stile della vostra
rivista. Grazie del bene che fate a me, che fate a tutti quelli che vi leggono
e… non demordete: il Cristo è con voi!

Mira
Mondo,
Condove (TO), 08/03/2015

Caro Padre Gigi,

ho iniziato a ricevere e a leggere la vostra rivista
casualmente, e ora l’attendo con impazienza tutti i mesi; le scrivo per
condividere con lei alcune riflessioni (un po’ tardive, mi perdoni!) sulla
lettera molto bella e molto profonda del signor Garianol sullo stravolgimento
della figura del missionario.

Insegno storia e geografia ai licei e sono cattolica,
credente ma non strettamente osservante, anzi spesso lacerata da dubbi
interiori in merito ad alcune posizioni della Chiesa: ritengo doverosa questa
premessa perché la mia formazione culturale mi porta a guardare le cose da osservatrice
estea, cercando di comprendere le ragioni degli uni e degli altri, di essere
imparziale e oggettiva (esercizio faticoso e difficile).

Per questo motivo ho trovato gli articoli della vostra
rivista interessanti al punto da leggerli regolarmente in classe, e vi
considero un prezioso punto di riferimento: nelle vostre pagine si parla di
umanità – vicina e lontana – che spesso non riceve dai media l’attenzione che
meriterebbe, oppure la riceve distorta, condizionata da interessi di parte ed
appartenenze politiche. Un esempio per tutti: siete stati gli unici a suo
tempo, ad esporre in modo chiaro, equilibrato ed esauriente in che cosa
consista la protesta dei No Tav. Non ho mai trovato niente di equiparabile in
nessun articolo o rivista di geopolitica, tanto meno sui quotidiani.

Quindi la vostra testimonianza è importantissima, e così
come avete scelto di presentarla rispecchia – a parer mio – l’intenzione di
essere al passo con tempi e con il mondo che si evolve: la creazione di pozzi,
di strutture, l’attenzione alla figura femminile, alla gioventù e all’ambiente
ritengo siano gli strumenti ineludibili per una evangelizzazione consapevole e «matura».

Ma il messaggio cristiano c’è eccome: io lo vedo ovunque,
fra le righe e non. Ed è proprio questa la vostra forza: coniugare il messaggio
di Gesù con le urgenze del nostro mondo e del nostro tempo, con serenità ed
apertura verso l’altro. Inoltre la vostra preoccupazione di voler essere letti
da tutti – come lei afferma nella risposta – mi sembra non una debolezza, ma un
saggio modo per avvicinare alla lettura e alla riflessione il maggior numero di
persone.

Con gratitudine

Anna
Patrone
email, 14/03/2015

Il papa
stile Consolata

Cari fratelli e sorelle missionari della Consolata, con
gioia mi sto rendendo conto che c’è un grande parallelismo tra quello che il
nostro papa sta insegnando e gli insegnamenti del nostro padre fondatore, il
beato Giuseppe Allamano. Dall’anno della vita consacrata all’anno della
misericodia, è tutta gioia di consolazione che ci porta Gesù, la vera
consolazione. Noi come missionari della Consolata, credo che siamo chiamati a
questa testimonianza. Con papa Francesco giochiamo in casa.

Nel libretto Rallegratevi, prima lettera
circolare ai consacrati e alle consacrate (basata su citazioni dal magistero di
papa Francesco), il papa lancia il tema della gioia dicendo: «La gioia del
Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù».
Il papa cita poi il profeta Isaia: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il
vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme» (Isaia 40,1-2). Il parlare al
cuore è proprio la nostra chiamata. Il papa ci dà poi uno spunto importante: «Si
tratta perciò di un linguaggio da interpretare nell’orizzonte dell’amore, non
in quello dell’incoraggiamento: quindi azione e parole insieme, delicate e
incoraggianti, ma che richiamano i legami affettivi intensi di Dio “sposo” di
Israele». Continua poi: «La consolazione deve essere epifania di una reciproca
appartenenza, gioco di empatia intensa, di commozione e legame vitale». In
quest’ultima frase trovo in nostro fondatore quando manda i missionari dicendo
che dobbiamo amare la gente, imparae la lingua e stare con loro. Imparare la
lingua credo non sia solo questione di grammatica, ma richieda entrare in
gioco, sapere la lingua comune, la lingua dei giovani e la lingua degli
anziani. Da tanzaniano dico che non basta saper lo swahili occorre imparare a
parlare al cuore della gente. Il padre fondatore diceva che dobbiamo «elevare»
la gente (cfr. MC 06/2014, p. 32), questo è parlare al cuore.

Il papa scrive ancora: «La gente oggi ha bisogno
certamente delle parole, ma soprattutto ha bisogno che noi testimoniamo la
misericordia, la tenerezza del Signore che scalda il cuore, che risveglia la
speranza, che attira verso il bene. La gioia di portare la consolazione di Dio!».
«Gli uomini e le donne del nostro tempo aspettano parole di consolazione, di
prossimità, di perdono e di gioia vera. Siamo chiamati a portare a tutti
l’abbraccio di Dio, che si china con la tenerezza di una madre verso di noi». È
un richiamo al chinarci, al cercare di farci «tutto a tutti, per salvare ad
ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

La domanda è: come? La risposta del papa è che tocca a
noi curare l’amicizia tra di noi umanizzando le nostre comunità. Dobbiamo
curare la vita della comunità, perché diventi come una famiglia. Lì lo Spirito
Santo è nella comunità. Sempre con un cuore grande. Lasciar passare, non
vantarsi, sopportare tutto, sorridere dal cuore. È il segno della gioia. Non è
per caso che il nostro padre fondatore ci volesse famiglia. Noi lo siamo. Il
papa ci invita a non privatizzare l’amore. Padre Allamano ci voleva fratelli e
sorelle.

Quando il papa annuncia la gioia di un anno giubilare
della misericordia, mi lascia senza parole. Il papa spera che «tutta la chiesa
possa ritrovare in questo Giubileo la gioia per riscoprire e mantenere feconda
la misericordia di Dio, con la quale, siamo chiamati a dare consolazione ad
ogni uomo e ad ogni donna del nostro tempo».

Noi riusciremo a dare questa testimonianza della misericordia
o della consolazione sapendo che Dio ci ha consolati per primo. Il papa trova
il coraggio di annunciare l’anno della misericordia perché «Ecco, questo sono
io, un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi». Soltanto colui
che è stato perdonato sa perdonare, uno sa amare se è stato amato, e uno è misericordioso
perché trova la misericordia di Dio.

Danstan
Mushobolozi,
Martina Franca, 17/03/2015

Risponde il Direttore




Biodiversa è meglio

Manaus 2015: Forum sulla Biodiversità

Sommario
1. Difendiamo i colori
del mondo

2.
La biodiversità  indigena
3. 
Aree protette e
popoli indigeni

4.
La voce delle imprese
idroelettriche (Uhe)

5.
Lince pardina chiama
tonno rosso


 

Biodiversità e Popoli indigeni

1. Difendiamo i colori
del mondo

Per parlare di
biodiversità l’Amazzonia è il luogo ideale. Non esiste altro posto al mondo che
ne ospiti di più. L’Amazzonia e la sua biodiversità sono però in grave
pericolo, a causa dell’azione umana. Preservare la diversità della vita è
sempre più complicato, ma forse non impossibile. Il primo passo è il rispetto
dei popoli indigeni, per i quali la natura è una «casa» e non una «miniera» da
sfruttare.

Manaus. Sono parecchie le donne indigene
venute al Fórum social mundial da biodiversidade pensando di vendere i
loro prodotti artigianali (bigiotteria, oggetti in legno, tessuti), ma l’evento
non ha richiamato molta gente. Il Centro de convenções Vasco Vasques di Manaus,
costruito a lato della Arena Amazonas (lo stadio degli ultimi campionati
mondiali di calcio), è accogliente, luminoso e funzionale, ma partecipanti e
visitatori quasi si perdono negli spazi della struttura.

Un vero peccato, perché le
tematiche messe in agenda dagli organizzatori sono del massimo interesse:
difesa dell’Amazzonia e della biodiversità, diritti umani, cambiamenti
climatici, agroecologia, sicurezza e sovranità alimentare, economia solidale e
lavoro degno, bioetica, ambiente e progetti idroelettrici. Organizzato da una
serie di realtà sindacali, movimenti sociali e cornoperative, il Forum sulla
biodiversità si inserisce nella tradizione dei Forum sociali mondiali nati nel
2001 a Porto Alegre, nello stato brasiliano di Rio Grande do Sul.

Da qui proviene Lélio Luzardi Falcão, già proiettato
sugli eventi futuri: a gennaio 2016 il Forum toerà infatti a Porto Alegre. Più
concentrata sul presente è Rosane Pinheiro da Silva, che nega la scarsa
partecipazione all’evento di Manaus: «Abbiamo fatto tutto senza soldi e senza
l’aiuto che sponsor e autorità ci avevano promesso. Nonostante ciò siamo
riusciti a coinvolgere 5 mila persone». Probabilmente i numeri non sono quelli
della vulcanica Rosane. Certamente al Forum sulla biodiversità la
partecipazione degli indigeni è significativa. Sono venuti per parlare, per
ascoltare o anche soltanto per vendere, ma tutti con l’orgoglio
dell’appartenenza.

La lotta dei
Munduruku contro la prepotenza del potere

Da anni in Brasile si litiga sulla
proliferazione delle grandi centrali idroelettriche (usinas hidrelétricas)
previste dal Pac, il Piano di accelerazione della crescita (Programa de
aceleração do crescimento
) ideato dal governo Lula e proseguito da Dilma.
Molte centrali sono già in funzione, altre sono in costruzione o in fase di
progetto, sempre in un mare di polemiche, principalmente per due motivi: perché
le opere producono grandi impatti ambientali e perché troppo spesso sono localizzate
in terre abitate da popolazioni indigene. La questione non poteva dunque
mancare al Forum di Manaus.

Roseninho Saw è un giovane indigeno
munduruku. Il popolo dei Munduruku conta circa 12 mila persone. Vive negli
stati di Amazonas e Mato Grosso, ma soprattutto nella regione Sud del Pará
lungo il fiume Tapajós e i suoi affluenti. Sul Tapajós il governo di Brasilia
ha in programma la costruzione della centrale di São Luiz, che dovrebbe
diventare la terza più grande del paese. L’opera comporterà l’allagamento della
terra Sawré Muybu, appartenente ai Munduruku (anche se essa non è ancora
ufficialmente demarcata). Oltre a ciò, sconvolgerà le modalità di vita della
popolazione, considerando che si inserisce in un progetto complessivo che, nel
bacino idrografico del Tapajós e del Tele Pires, prevede la costruzione di ben
nove centrali.

Roseninho Saw parla senza alzare la
voce, ma le sue parole sono dure come pietre. «Io chiedo: se il governo
considera l’energia tanto importante, perché non fa un progetto migliore, che
non preveda la distruzione della nostra foresta? Il governo sta cercando di
dividere il nostro popolo: comunità contro comunità, associazioni contro
associazioni. Ma noi indigeni parliamo una sola lingua e abbiamo il consenso
anche della popolazione ribeirinha e di quella che vive nei municipi
coinvolti». Roseninho parla di diritti non rispettati, ad iniziare dall’obbligo
di consultazione, previsto dalla Convenzione 169 sui popoli indigeni.

«Ci dicono – conclude il giovane
leader munduruku – che l’energia andrà anche a nostro beneficio. Ma non è così:
l’energia sarà per gli imprenditori, i proprietari terrieri e i produttori di
soia. Per noi la foresta è vita, casa, piante medicinali. Per tutto questo la
lotta non può fermarsi». Il pubblico presente, composto in buona parte da
indigeni, apprezza salutando l’oratore con applausi e rulli di tamburi.

Se la biodiversità  sta (anche) nel nome

Meno arrabbiate di Roseninho Saw
Munduruku sono tre simpatiche signore indigene che hanno allestito banchetti
artigianali negli ampi spazi del Centro di convenzioni Vasco Vasques. Indossano
copricapi, orecchini e collane, tutti coloratissimi. Sono meno arrabbiate, ma
non meno orgogliose del loro essere indigene.

Maria Valda Feitosa (Martequi, in
lingua indigena) è tikuna. «Nella nostra comunità – dice – siamo più di mille
persone. Non c’è acqua potabile, la luce è una calamità e il medico viene
soltanto una volta alla settimana quando non è impegnato altrove. Se abbiamo
necessità di una cosa urgente, è necessario venire a Manaus. Per raggiungerla
dobbiamo prendere la lancia che, andata e ritorno, costa 12 reais a persona.
Come può sostenere questo costo una famiglia?».

Maria do Carmo Rarê (Hari Wor) è sateré mawé. «Non è
vero che le istituzioni pubbliche aiutano gli indigeni. La sanità è gratuita,
ma pessima. I medici non hanno mai le medicine. Come le nostre scuole non danno
mai la merenda ai nostri ragazzi». E aggiunge: «Siamo discriminati in quanto
indigeni. Ad esempio, se io salgo su un autobus di Manaus con questi vestiti e
queste pitture sulla pelle, la gente si dà delle gomitate. Pensa che sia una
cosa da drogati, mentre per noi dipingersi è un atto di felicità. Anni fa,
quando io avevo circa 30 anni, feci un colloquio di lavoro e lo superai. Quando
mi presentai per iniziare, il datore di lavoro vide i miei tattuaggi e con una
scusa mi disse di tornare a casa e che mi avrebbe richiamato più avanti. Ci
rimasi malissimo dato che avevo bisogno di quel lavoro. Tuttavia, non mi sono
mai arresa davanti alle avversità perché sono una guerriera come la gran parte
delle donne indigene». Una guerriera divenuta sportiva: Hari Wor è stata più
volte campionessa indigena della specialità «arco e freccia». Come dice lei,
scherzando sulla sua età, è la «vovó de arco e flecha», la nonna dell’arco e
della freccia.

Wall França (Wytá) viene da una
famiglia con papà xavante e mamma sateré mawé. «Sì, è vero, spesso c’è
discriminazione nei confronti di noi indigeni. Anche per questo sono grata agli
organizzatori del Forum sociale che ci hanno dato la possibilità di venire qui
a far conoscere il nostro lavoro artigianale».

Le tre donne appartengono a gruppi
etnici diversi, ma i loro nomi indigeni fanno tutti riferimento alla natura:
Martequi significa «macchia di leopardo», Hari Wor indica la «termite bianca»,
Wytá sta per «uccellino». Non si tratta di una banale tradizione, ma di un dato
culturale che evidenzia l’intima connessione dei popoli indigeni con la madre
terra. Stesso discorso vale per i prodotti artigianali che le signore indigene
vendono. Tutti rimandano alla natura dell’Amazzonia. O perché sono fatti con
materie vegetali o perché raffigurano animali.

La foresta: come «casa»
o come «miniera»

Ezequiel Feandes André – in
lingua indigena Yauatucü, «foglia verde» – è un giovane tikuna di Tabatinga. È
venuto a Manaus per studiare psicologia all’Università.

«Nei nostri confronti ci sono
preconcetti e discriminazioni. E razzismo. Inoltre, la mia gente patisce lo
shock culturale di trovarsi schiacciata tra due filosofie, quella indigena e
quella dei non indigeni. Io ho scelto di studiare psicologia anche per riuscire
a capire gli uni e gli altri».

In quest’ottica delle due filosofie
Ezequiel spiega la diversa attitudine nei confronti della biodiversità. «Per
esempio, a differenza del capitalismo, noi dobbiamo preservare la natura e
avere cura della nostra casa che è la foresta da cui noi ricaviamo alimenti e
benessere».

Anche Henoc Pinto Neves, 33 anni, è
tikuna. «Sono tikuna nell’anima e nel sangue – dice -. Non mi vergogno a
esserlo, né a dirlo a chiunque». Magari anche a quel sindaco che, qualche anno
fa, gli disse che un indio non ha la capacità di diventare dottore. Nel 2012
Henoc si è laureato in biomedicina e oggi è un analista clinico.

Con le idee chiare anche sull’Amazzonia,
«un patrimonio da difendere strenuamente. Noi indigeni abbiamo cura della
natura ed essa ci ricompensa ampiamente quando peschiamo, cacciamo e
coltiviamo. Al contrario di noi, il bianco pensa soltanto a sfruttae le
risorse senza preoccuparsi del futuro».

Eledilson Corrêa Dias, genitori
kaixana e tikuna, si nota più degli altri. Alto, magro, torso nudo, una grossa
e rumorosa collana di conchiglie al collo, un copricapo di piume in testa, ma
soprattutto il volto dipinto di color nero pece. Proviene dall’Alto Solimões,
municipio di Santo Antônio do Içá, ma adesso risiede con la famiglia alla
periferia di Manaus.

«Sono venuto a Manaus perché voglio
che i miei tre figli studino. Perché, dopo gli studi, possano far valere i
nostri diritti come promotori di giustizia, avvocati o giudici. Il governo
brasiliano deve ricordare che noi siamo popoli originari e che stiamo qui da più
di 600 anni. In passato ci hanno ucciso e massacrato. Oggi ci disprezzano.
Vogliamo che i nostri diritti passino dalla carta alla pratica».

Anche dalle sue parole esce una
foresta intesa come «casa», lontanissima dalla concezione dei bianchi, che la
vedono invece come una «miniera» da sfruttare.

In lingua indigena il nome di
Eledilson è Kauixe, che – tanto per confermare la simbiosi con la natura –
significa «albero grande e forte». «Noi siamo nati nella natura. Noi facciamo
parte di essa. Se la distruggiamo, distruggiamo noi stessi». •


 

 

LA?TESTIMONIANZA
2. La biodiversità  indigena
di Paolo Moiola

Sono tempi duri per i
popoli indigeni del Brasile. Le loro terre sono invase o sotto assedio. Le loro
modalità di vita si stanno perdendo o vengono messe in discussione. Difendere i
popoli indigeni significa difendere anche la biodiversità. Al loro fianco, in
una battaglia che pare improba, si sono schierati Laurindo e Gilmara, una
coppia di volontari rispettosa delle diversità, competente e appassionata. Ecco
cosa ci hanno raccontato.

Tabatinga. Gilmara Feandes e Laurindo Lazzaretti sono una di quelle coppie che ti
fanno dire: «Si sono trovati». Tanta è la complicità, il desiderio di camminare
assieme verso una meta comune: la difesa dei popoli indigeni e delle loro
modalità di vita. Hanno chiamato il loro figlio – oggi ha un anno – Giovani
Kamuu, dove la seconda parola significa «sole» in lingua wapixana. Dopo varie
esperienze a Roraima, Gilmara e Laurindo ora lavorano con il Conselho
indigenista missionário
(Cimi) nella Vale do Javari, una terra indigena
abitata da vari popoli: Matsés, Matis, Kulina-Pano, Korubo, Marubo, Kanamari e
anche alcune etnie isolate.

Secondo voi, in Amazzonia quali sono i
maggiori pericoli per la biodiversità?

«La domanda
mondiale di beni naturali, le cosiddette materie prime, fa sì che l’Amazzonia
sia vista come una grande fonte di guadagni. L’intervento umano per l’apertura
di strade, la fondazione di centri urbani, la costruzione di enormi dighe per
la produzione di energia elettrica, la sfrenata ricerca di minerali di tutti i
tipi, l’occupazione di spazi per la produzione di alimenti destinati al mercato
mondiale rappresentano una grande minaccia per i differenti biomi dell’Amazzonia.
È necessario trovare modalità diverse d’azione altrimenti tutto è a rischio, a
iniziare dalla stessa sopravvivenza della specie umana».

È giusto affermare che i popoli indigeni
sono i primi difensori della biodiversità? E che, proteggendo le loro caratteristiche
esistenziali, si difende al tempo stesso la biodiversità?

«Per i popoli
indigeni i fiumi, i laghi, le montagne, le pietre hanno vita. La foresta è
piena di spiriti della vita. Difendere questo spazio sacro significa dunque
difendere la continuità dell’esistenza.

Le vite degli
animali della foresta, di pesci e tartarughe nei fiumi e nei laghi sono
sinonimo di più vita umana. La morte o la scomparsa di altre specie significa
mettere a rischio anche la vita umana e l’esistenza di un popolo. Per i popoli
indigeni la vita umana è inconcepibile senza la diversità di altre vite attorno
a essa. Per loro è vitale e unico difendere la biodiversità, perché è la
garanzia per continuare a esistere sulla terra.

Ci sono popoli
che sono stati sradicati dal loro ambiente e adesso vagano da un luogo a un
altro, senza meta, senza gioia, senza speranza. Altri hanno dovuto adattarsi
per sopravvivere. Tutti hanno in comune il sogno di tornare un giorno nella
loro terra promessa dove c’è vita in abbondanza. Possiamo qui ricordare la
tristissima vicenda dei Guarani Kaiowá, che sono stati espulsi dalle loro
terre, in cui abitavano lungo la costa del Brasile e nella parte centrale. Oggi
vivono in campi ai margini delle autostrade (è l’etnia indigena con il più
alto tasso di suicidio, ndr
)».

Sembra che i governi Lula e Dilma abbiano
lavorato per favorire l’agrobusiness (soia, allevamenti, piantagioni, ecc.) e
lo sfruttamento delle risorse naturali (foreste, sottosuolo, ecc.) a discapito
degli ecosistemi e dei diritti dei popoli indigeni. Qual è la vostra opinione
al riguardo?

«Noi avevamo
una grande speranza nella piattaforma di governo del Partito dei lavoratori (Partido
dos trabalhadores
, Pt). I valori fondamentali erano l’eguaglianza delle
opportunità e la lotta alle disparità che rendono i ricchi sempre più ricchi e
i poveri sempre più poveri.

Il Brasile
usciva da governi per i quali le privatizzazioni rappresentavano l’unica
opzione di politica economica. In quel contesto aveva assunto il comando del
paese prima il governo Lula (dal 2003 al 2010) e poi Dilma (dal 2011).
Molte cose buone sono state fatte, ma davanti alle ingiustizie dei grandi
capitalisti ci sono state troppe battute d’arresto. In nome della governabilità
sono stati concessi spazi ancora più vantaggiosi alle grandi imprese. In nome
di una certa idea di sviluppo finiscono per aprire spazi nella legislazione a
imprenditori che non si fermano davanti agli ecosistemi, spinti come sono
dall’unico desiderio di massimizzare i loro profitti. Pressioni inteazionali
e dell’oligarchia nazionale rendono il governo debole, non rappresentativo e
sempre coinvolto in scandali. Questa posizione fa sì che le classi più
svantaggiate si sentano di nuovo completamente impotenti. La grande delusione,
quindi, nasce dal fatto che il partito e i suoi eletti non hanno risposto alle
aspettative. Per esempio, realizzare finalmente la tanto attesa riforma agraria
e garantire i diritti alle popolazioni indigene di questo paese. Purtroppo,
niente di tutto questo accadrà e quindi dovremo continuare a lottare e a
sognare.

Oggi il
governo Dilma è fortemente legato ai gruppi agricoli, ai grandi proprietari
terrieri e ai produttori di monocoltura, come dimostra il curriculum della
nuova ministra dell’agricoltura (la latifondista Kátia Abreu, ndr).
Contando i parlamentari evangelici, la camera e il senato federale sono in mano
ai rappresentanti dei gruppi politici ed economici che vedono i popoli indigeni
e le loro terre come un ostacolo allo sviluppo del Brasile. Nel corso degli
ultimi quattro anni, grandi lotte sono state combattute in campo legislativo e
giudiziario per abbattere o quantomeno ridurre i principali diritti dei popoli
indigeni, come ad esempio la garanzia sulle proprie terre.

La
Costituzione federale ha festeggiato il suo 27mo anno di promulgazione: con
essa, nel 1988, i popoli indigeni cominciarono a essere riconosciuti (articolo
231). È proprio per difendere quanto conquistato che oggi il movimento indigeno
si è organizzato e unito nella lotta».

Dire che l’invasione fisica e culturale dei
bianchi è passata anche attraverso un uso distorto della religione è
un’affermazione veritiera?

«Qualsiasi
presenza religiosa che non riconosca e non rispetti le modalità di vita dei
popoli indigeni è nociva. In molti hanno eliminato simboli religiosi, credenze
profonde, luoghi sacri, lasciando i popoli indigeni in un vuoto esistenziale
che li ha spesso condotti ai bordi delle strade o delle discariche, o nelle
periferie delle città. Gli evangelici sono i primi responsabili, ma in passato lo
hanno fatto anche molti cattolici».

Voi lavorate con il Cimi, un’istituzione
della chiesa cattolica brasiliana molto nota per la sua combattività. Per
evitare gli errori del passato, in che modo vi relazionate con i popoli
indigeni?

«Oggi la
chiesa cattolica e il Cimi lavorano per la formazione delle coscienze, per il
rispetto della diversità della vita sulla terra e per la costruzione dei
diritti in uno stato rappresentativo e rispettoso. Noi lavoriamo anche per
organizzare la speranza e per non lasciare che le forze che distruggono la vita
prevalgano sul bene.

In
particolare, nel nostro servizio ai popoli indigeni, noi cerchiamo di
sviluppare un dialogo interreligioso, di rispetto e valorizazione dei costumi,
di promozione della dignità, dell’autonomia e del protagonismo dei popoli
indigeni affinché essi siano soggetti della loro storia.

Continueremo a
essere una voce che grida nel deserto o nel mezzo della foresta. Per dire che
l’ultima parola non è quella del mercato che tutto trasforma in merce o quella
dei prepotenti che vogliono dominare su tutto e tutti. La nostra meta è la vita
nel senso più ampio, completo e profondo. In una parola, il Bem viver».

Se ragioniamo però facendo prevalere il
pessimismo, il «Bem viver» pare soltanto uno slogan, magari bello e romantico
ma sempre slogan. Un po’ come «Um outro mundo é possível» dei Forum sociali
mondiali. Che potete dire al riguardo?

«Il Bem
viver
è una proposta di vita presente in ciascun popolo indigeno. In essa
si ritrovano lingua, credenze, costumi, organizzazione sociale, consonanza con
la biodiversità.

Con la sua
prepotenza e il suo desiderio di universalità, il progetto economico
capitalista introduce nelle altre culture concetti e modi di vita estranei a
quelle popolazioni, rompendo l’armonia. Cercare il Bem viver significa
riprendere le vere tradizioni spirituali, economiche e organizzative.

Secondo noi,
il Bem viver sarà la salvezza dell’umanità, del pianeta terra, della
biodiversità». •


 

Aree protette e
popoli indigeni

3. I parchi hanno
bisogno
dei Popoli

di Francesca Casella
(Survival Inteational)*

In nome della
«conservazione», molti popoli indigeni sono stati sfrattati da aree naturali di
cui da sempre sono i migliori custodi. Si tratta di una scelta profondamente
sbagliata: per i popoli e per l’ambiente.

Quasi tutte le aree protette del
mondo, siano esse parchi nazionali o riserve faunistiche, sono o sono state le
terre natali di popoli indigeni che oggi vengono sfrattati illegalmente nel
nome della «conservazione». Questi sfratti possono distruggere sia la vita dei
popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato e salvaguardato per
generazioni.

Spesso, le terre indigene sono
erroneamente considerate «selvagge» o «vergini» anche se i popoli indigeni le
hanno vissute e gestite per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree
di cosiddetta wildeess, governi, società, associazioni e altre
componenti dell’industria della conservazione si adoperano per fae «zone
inviolate», libere dalla presenza umana.

Per i popoli indigeni, lo sfratto
può risultare catastrofico. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono
l’autosufficienza. E mentre prima prosperavano, spesso si ritrovano poi a
vivere di elemosina o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di
reinsediamento. Una volta privato di questi suoi tradizionali guardiani
indigeni, inoltre, anche l’ambiente può finire per soffrire perché il
bracconaggio, lo sfruttamento eccessivo delle risorse e i grandi incendi
aumentano di pari passo con il turismo e le imprese.

Con la campagna Parks Need
Peoples
, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni

Survival Inteational denuncia il lato oscuro della
conservazione e spiega perché parchi e riserve hanno bisogno dei popoli
indigeni oggi più che mai.

 

Contro
i «selvaggi»

L’idea di preservare le aree di wildeess
attraverso l’espulsione dei suoi abitanti nacque in Nord America nel XIX
secolo. Si fondava su una lettura arrogante della terra che mancava
completamente di riconoscere il ruolo giocato dai popoli indigeni nel plasmarla
e alimentarla. La convinzione era quella che a sapere cosa fare per il bene
dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti e che essi avessero il
diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano. A promuovere
questo modello esclusivista dei parchi nazionali fu il presidente Usa Theodore
Roosevelt (1858-1919), secondo il quale «la più giusta fra tutte le guerre è
quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e
disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende
l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti… È d’importanza
incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro
proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle
razze dominanti a livello mondiale».

Il primo parco nazionale della
storia è stato quello di Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando fu creato, nel
1872, ai nativi che vi vivevano da secoli fu inizialmente permesso di restare,
ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. Ne scaturirono battaglie tra
le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow. In
una sola e singola battaglia si dice siano morte 300 persone. Dettagli storici
come questo vengono spesso omessi o imbellettati per preservare il fascino del
parco. Tuttavia, tale modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è
diventato consuetudine in tutto il mondo e la visione di Roosevelt continua a
influenzare molte importanti organizzazioni conservazioniste, con impatti
devastanti non soltanto per i popoli indigeni, ma anche per la natura. In
un’intervista rilasciata nel 2003, Mike Fay, un influente ecologista della Wildlife
Conservation Society
(www.wcs.org), dichiarava: «Nel 1907, quando gli Stati
Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino
del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di
aree protette facendone un pilastro della sua [politica intea]… In pratica,
il mio lavoro nel bacino del Congo è stato quello di cercare di riprodurre il
modello statunitense in Africa». E se qualcuno fosse tentato di pensare che in
questo processo non si siano ripetuti gli eccessi che hanno flagellato i popoli
del Nord America, gli basterà una rapida scorsa alla storia recente di
persecuzione delle tribù pigmee dell’Africa Centrale per cambiare idea. A mero
titolo d’esempio, tra gli anni ’60 e ’80 le autorità congolesi hanno espulso almeno 6mila Batwa
dal «Kahuzi-Biega National Park». Un rapporto suggerisce che la metà di queste
persone sia morta in seguito agli sfratti, mentre i sopravvissuti versano in
cattive condizioni di salute (A. K. Barume, Heading Towards Extinction?, 2000).

 

DallAsia
all
Africa, laltra
faccia delle aree protette

Nel mondo esistono oggi oltre
120.000 aree protette, pari al 13% della terra emersa. Anche se è impossibile
fare stime precise, le persone che sono state sfrattate dalle loro case nel
nome della conservazione, o che vivono sotto la minaccia incombente di sfratto,
sono molti milioni. La maggior parte sono popoli tribali.

Le aree protette si differenziano
per il grado di restrizioni a cui sono soggette ma, spesso, chi dipende dalle
risorse dei parchi si vede ridurre drasticamente ogni attività. I popoli
tribali devono cambiare stile di vita e/o trasferirsi altrove, il legame con i
territori e i mezzi di sostentamento viene reciso, e le possibilità di scelta
che vengono lasciate loro sono spesso nulle, o quasi.

Un caso esemplare è quello dei
Wanniyala-Aetto dello Sri Lanka, conosciuti anche con il nome di Vedda. Nel 1983,
i Wanniyala-Aetto, o «popolo della foresta», furono sfrattati dalla loro patria
che oggi prende il nome di Maduru Oya National Park. La tribù aveva già subito
ingenti perdite di terra a causa di dighe, coloni e deforestazione: il Maduru
Oya era il loro ultimo rifugio. Una volta estromessi dalla foresta dovettero
cambiare tutto, dal modo di vestirsi a quello di vivere, e furono costretti a
conformarsi alla società dominante, mentre i loro vicini e le autorità li
trattavano come «demoni» e «primitivi». La loro autosufficienza, legata alle
foreste, è andata perduta e oggi stentano a sopravvivere alla povertà e a tutti
i problemi ad essa connessi.

Poche comunità sono disposte a
rinunciare volontariamente a tutto il loro mondo per far spazio ai parchi. Ma
quando resistono, le conseguenze sono gravi. Ovunque, i popoli indigeni
denunciano pestaggi, arresti arbitrari, persecuzioni e persino torture.

Nelle terre dei Baka del Camerun
sudorientale sono state istituite alcune aree protette – comprendenti sia
parchi nazionali sia riserve di caccia sportiva – senza il loro consenso. Le
eco-guardie, in parte finanziate dal «Fondo mondiale per la natura» (Wwf) e dal
governo tedesco, non permettono ai Baka di praticare la caccia e la raccolta
nelle foreste che un tempo erano la loro casa, o addirittura di entrarvi.

Le eco-guardie, talvolta
accompagnate da personale militare, minacciano, arrestano e picchiano uomini,
donne e addirittura i bambini baka accusandoli di bracconaggio. Interi villaggi
sono stati rasi al suolo e molte persone baka sono state torturate. Secondo
varie testimonianze, anche fino a morie.

Nel maggio 2013, la Commissione
nazionale del Camerun per i diritti umani e la Fusion-Nature hanno
denunciato un raid anti-bracconaggio durante il quale sono stati torturati
dieci Baka, uomini e donne. Mancando strumenti concreti a difesa dei Baka,
nella maggior parte dei casi le eco-guardie possono agire impunemente.

Oltre ad avere l’effetto di
alienarsi le popolazioni locali, questa gestione militarizzata dei programmi di
conservazione non riesce a contrastare le cause politiche del mercato della
selvaggina e la corruzione che spesso lo sorreggono. Il bracconaggio
finalizzato al commercio della carne è organizzato da un network che include
personaggi influenti, che spesso usano il loro potere per mantenere i loro
circuiti di traffico liberi dai controlli. Benché esistano organizzazioni che
lottano contro il bracconaggio dei «colletti bianchi», l’obiettivo principale
delle eco-guardie rimangono le popolazioni locali. Essendo i meno potenti, i
Baka sono quelli colpiti più duramente.

Drammatica anche la situazione dei
Boscimani del Botswana. Storicamente, i Boscimani dell’Africa meridionale erano
cacciatori-raccoglitori. Oggi, la maggior parte delle comunità sono state costrette
ad abbandonare questo stile di vita, ma la «Central Kalahari Game Reserve» del
Botswana è ancora la casa degli ultimi Boscimani a vivere in gran parte di
caccia. Nel 2006, dopo una lunga battaglia legale contro il governo, l’Alta
Corte ha confermato il loro diritto di vivere e cacciare nella riserva.

Nonostante la sentenza dell’Alta
Corte, tuttavia, da allora i funzionari non hanno rilasciato ai membri della
tribù nemmeno una singola licenza. Di conseguenza, la caccia di sussistenza
praticata dai Boscimani è stata equiparata al bracconaggio commerciale. A
decine sono stati arrestati semplicemente per aver cercato di sfamare le loro
famiglie.

Survival riceve segnalazioni di
Boscimani torturati sin dagli anni ‘90 e recentemente ha pubblicato un rapporto
che documenta più di 200 casi di abusi violenti registrati tra il 1992 e il
2014, tra cui un Boscimane morto a seguito delle torture e un bambino ferito
allo stomaco da un colpo di pistola dopo che il padre si era rifiutato di far
entrare la polizia nella sua capanna senza un mandato. Nel 2012, due Boscimani
sopravvissero alle torture inflitte loro delle guardie del parco perché avevano
ucciso un’antilope. Pare che uno dei due uomini, Nkemetse Motsoko, rischiò di morire
quando la polizia lo prese alla gola per soffocarlo, e lo seppellì vivo. Nel
2014 si è verificato un altro terribile attacco. «Mentre mi aggredivano – ha
raccontato Mogolodi Moeti a Survival – mi dissero che persino il presidente
sapeva quel che stava succedendo, che potevano uccidermi senza essere accusati
di nulla, perché quello che mi stavano facendo era per ordine del governo. Mi
dissero che volevano usarmi come esempio, per dissuadere gli altri dal
ritornare nella Central Kalahari Game Reserve e mancare di rispetto al governo».

Il diritto dei Boscimani del
Kalahari a cacciare per nutrirsi è un diritto umano fondamentale e il
comportamento del governo è stato duramente criticato da varie istituzioni
inteazionali tra cui l’Onu e la Commissione africana per i diritti umani e
dei popoli. Ciò nonostante, recentemente il presidente Khama ha anche vietato,
illegalmente, la caccia in tutto il paese a eccezione, però, che per i ricchi
cacciatori di trofei. Continua a giustificare la persecuzione di questo popolo
unico nel nome della «conservazione», ma allo stesso tempo permette
l’estrazione di diamanti e il fracking (modalità di estrazione di
idrocarburi dalle rocce, ndr) nella riserva, creata nel 1961 come «santuario»
proprio per permettere ai Boscimani di mantenere il loro stile di vita. Non
avendo alcuna possibilità di procurarsi cibo nella terra ancestrale, molti sono
costretti a vivere nei campi di «reinsendiamento» governativi, da loro definiti
come «luoghi di morte».

Una situazione inaccettabile e paradossale
se si pensa che, per stessa ammissione dei funzionari governativi, i Boscimani
non cacciano con armi, e non esistono prove che il loro modo di cacciare non
sia sostenibile. Anzi, come la maggior parte dei popoli indigeni del mondo, i
Boscimani sono più motivati di chiunque altro a proteggere l’ambiente che
abitano da tempo immemorabile.

E devono farlo: per vivere e
prosperare dipendono da esso.

 

Dove
sta la biodiversità

Se l’80% della biodiversità
terreste si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande
maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono terra indigena, non è
un caso. Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, adattati alle terre che
abitano e amano, i popoli tribali hanno contribuito direttamente all’altissima diversità
di specie che li circonda, a volte nel corso di millenni. Ma i popoli indigeni
sono anche i migliori custodi del mondo naturale. In Amazzonia, per esempio,
studi scientifici dimostrano che i territori indigeni, che coprono un quinto
dell’Amazzonia brasiliana, costituiscono una barriera estremamente efficace
alla deforestazione e agli incendi. Le immagini satellitari sono
impressionanti: in molti casi la deforestazione si ferma esattamente là dove
iniziano le aree indigene. Effetti simili si registrano nell’Amazzonia
boliviana, dove la deforestazione è sei volte minore nelle foreste comunitarie,
e in Guatemala (venti volte minore). I popoli indigeni conoscono la loro terra
intimamente.

«Non stiamo rispolverando il mito
del buon selvaggio. Non stiamo dicendo che i popoli indigeni siano tutti
eccellenti custodi delle loro terre – puntualizza Stephen Corry, direttore
generale di Survival -. Quello che sosteniamo, dopo un’attenta valutazione
delle prove, è che in generale loro sappiano conservare i loro ambienti meglio
di quanto abbiamo mai fatto noi». È un dato di fatto. Nel corso di generazioni
hanno accumulato una conoscenza ineguagliabile della flora e della fauna
autoctone, nonché delle relazioni che le uniscono, e questo sapere li ha resi i
più efficienti ed efficaci manager delle loro terre. Questa tesi è sostenuta
oggi anche da alcune organizzazioni responsabili dello sfratto dei popoli
indigeni. La Banca Mondiale è stata una delle istituzioni più distruttive degli
ultimi decenni, eppure uno dei suoi studi dimostra che nei luoghi in cui vivono
i popoli indigeni, la deforestazione è minore. Il Wwf afferma che l’80% delle «ecoregioni»
più ricche del pianeta sono la casa dei popoli indigeni e che questo «testimonia
l’efficacia dei sistemi di gestione delle risorse adottati dagli indigeni».

È dunque tempo di mettere fine alle
gravi violazioni dei diritti umani compiute nel nome dell’ambiente, e fare in
modo che i diritti dei popoli indigeni, incluso quello di consultazione, siano
pienamente rispettati così come sancito anche dall’Onu e da molti codici di
condotta adottati, in linea teorica, dalle stesse associazioni
conservazioniste, ma spesso del tutto ignorati o raggirati nella pratica. Se si
vuole realmente proteggere l’ambiente, si devono esplorare soluzioni innovative
fondate sul rispetto dei diritti indigeni, in particolar modo quello alla
proprietà collettiva della terra e quello a proteggere e alimentare le terre
natali. E chiede rispetto per le loro conoscenze e i loro sistemi di gestione
delle risorse naturali. I popoli indigeni meritano di essere riconosciuti e
aiutati a confermarsi come i migliori guardiani delle loro terre e, di
conseguenza, della natura da cui tutti dipendiamo. •


 

 

4. La voce delle imprese
idroelettriche (Uhe)

«Stiamo lavorando per
voi»

Itaipu è la seconda centrale idroelettrica al mondo. Belo
Monte sarà la terza. Il Brasile (come altri paesi) vuole sfruttare le risorse
idriche dell’Amazzonia per produrre energia. Il futuro della produzione
dell’energia dai fiumi non risiede però nei grandi progetti, ma in impianti di
piccole dimensioni, meno dannosi dal punto di vista umano e ambientale.

Manaus. «Nella regione della centrale di Belo Monte abbiamo
già investito 2 miliardi (di reais, circa 570 milioni di euro, ndr) in progetti
socioambientali». Alcuni numeri: «90% di riduzione dei casi di malaria nella
regione del Xingu, 205 milioni investiti nelle comunità indigene, 26 mila
ettari di area di preservazione o recupero ambientale, 27 punti di salute, 3
ospedali, 458 milioni investiti in strutture fognarie, 95 milioni in azioni per
rafforzare la sicurezza nella regione del Xingu». E ancora: «Andremo a generare
energia pulita e rinnovabile con rispetto dell’ambiente e delle persone. Belo
Monte è un esempio di sviluppo sostenibile per il mondo». Essere d’accordo con
queste affermazioni risulta impossibile, ma sono alcuni stralci di una pagina
pubblicitaria inserita in una rivista brasiliana e firmata da Norte Energia, il
consorzio di imprese pubbliche e private che sta costruendo una centrale
destinata a diventare la terza al mondo, dopo quella cinese delle Tre gole e
quella brasiliana di Itaipu.

La centrale di Itaipu, situata sul fiume Paraná, al confine
tra Paraguay e Brasile, è in funzione dal 1984. Sul proprio sito, l’impresa si
vanta di essere la più grande produttrice di energia pulita e rinnovabile del
pianeta.

Al Forum di Manaus incontriamo Jair Kotz, responsabile della
gestione ambientale di Itaipu e gerente esecutivo del programma Cultivando Agua
Boa.

Ci racconti in due
parole le dimensioni di Itaipu.

«Itaipu genera il 20 per cento della energia consumata dal
Brasile e il 95 per cento di quella consumata in Paraguay. Fino al 2013 era il
più grande produttore di energia elettrica del mondo».

Perché un’impresa
idroelettrica come la vostra ha deciso di presenziare a un evento come il Forum
sulla biodiversità?

«Siamo qui perché dal 2003 stiamo portando avanti un
progetto di sviluppo territoriale sostenibile che ha l’acqua come elemento
centrale. Il progetto include 65 azioni su tutto il territorio e coinvolge
tutta la gente che su quel territorio vive. Esso tocca ogni tipo di aspetto:
economico, sociale, culturale, ambientale e ovviamente quello della
biodiversità».

In Brasile, ovunque
ci siano progetti di centrali idroelettriche, ci sono proteste, in particolare
da parte dei popoli indigeni.

«Secondo una nostra inchiesta dell’anno scorso, il 95% delle
persone del territorio in cui operiamo considera Itaipu essenziale per lo
sviluppo della regione. Si tratta della prova che un’impresa può e deve essere
strategica per il luogo dove va ad operare. Può e deve portare benefici per le
persone che vi abitano, siano esse brasiliane, giapponesi, italiane o indigene.
Noi lo abbiamo fatto attraverso Cultivando Agua Boa».

Produzione e ambiente
possono coesistere?

«Noi pensiamo che sia possibile conciliare la produzione di
energia con le esigenze di preservazione ambientale. Una volta si riteneva che
l’ambiente fosse un nemico dello sviluppo. Oggi la visione è cambiata:
l’ambiente è essenziale per la sostenibilità di oggi e di domani».

Perché prevale sempre
e comunque lo stesso modello di sviluppo?

«Noi abbiamo invitato a parlare personaggi come Leonardo
Boff (teologo ed ecologista, ndr).
Per noi discutere il modello è fondamentale. Lo dimostra il fatto che abbiamo
introdotto nel dibattito temi quali il cambio climatico e la “felicità intea
lorda”».

Se i progetti socioambientali attuati nell’ambito del
programma Cultivando Agua Boa sembrano interessanti (non abbiamo però avuto
modo di verificarli sul campo), non possiamo dimenticare alcuni fatti storici.

Per esempio che, per costruire Itaipu, furono sacrificate le
cascate di Guaira, considerate le maggiori del mondo per portata d’acqua, e
obbligate al trasferimento decine di comunità guarani, mai indennizzate.
D’altra parte, oggigiorno anche la comunità scientifica internazionale è concorde
nell’affermare che il futuro per l’energia idroelettrica risiede in impianti di
piccole dimensioni. Troppe infatti sono le conseguenze negative prodotte dalle
grandi dighe sulle persone e sull’ambiente. Forse il governo di Brasilia
dovrebbe capire che è giunto il tempo di tornare al dialogo, mettendo da parte
prepotenza e arroganza.

Paolo Moiola


 

22 maggio: «Giornata
mondiale della biodiversità»

5. Lince pardina chiama
tonno rosso

Mai come oggi la diversità biologica del pianeta è stata in
pericolo. La globalizzazione mercantilista ha aumentato a dismisura i fattori
di pressione. Gli stessi che minacciano la diversità culturale. In un caso e
nell’altro, si dimentica che la diversità è ricchezza.

Pare che della lince pardina rimangano circa 150 esemplari,
della foca monaca 350-450 (Commissione europea, Natura 2000), dei gorilla di
montagna 880 (Wwf, Living Planet). Per salvare queste specie animali una
persona comune può al massimo aderire a qualche campagna internazionale. In
generale, se si ha a cuore la biodiversità, esistono però anche ambiti d’azione
più diretti. Il tonno rosso, pescato anche nel mar Adriatico, è un pesce in
pericolo d’estinzione. Non richiederlo nei ristoranti di sushi che lo offrono
(soltanto i più esclusivi, considerato il costo del piatto) è un gesto di
protesta piccolo ma significativo. Stessi problemi vigono per le piante. In
Europa si sta assistendo alla progressiva riduzione della diversità vegetale.

Questi sono soltanto alcuni esempi di biodiversità in
pericolo. Per rendersi conto dell’entità del problema è sufficiente visitare il
sito dell’«Unione internazionale per la conservazione della natura»
(www.iucn.org). L’organizzazione pubblica regolarmente una «lista rossa» delle
specie minacciate, divisa in 9 categorie a seconda della portata del rischio
d’estinzione.

Una definizione e
qualche numero

Una prima definizione di biodiversità viene dall’etimologia
del termine: biodiversità è «diversità della vita». Secondo l’articolo 2 della
«Convenzione sulla diversità biologica», firmata (da quasi tutti i paesi) a Rio
de Janeiro nel 1992, la biodiversità include gli organismi viventi di ogni
origine (animali, piante, microrganismi, geni in essi contenuti), ma anche le
differenze tra individui della medesima specie e tra gli ecosistemi. Gli
scienziati hanno fino a oggi catalogato circa 1.900.000 specie viventi diverse.
Si ritiene però che il loro numero effettivo sia molto superiore: ci sono stime
che indicano in 100 milioni gli organismi viventi.

La biodiversità consente la vita umana. Da essa dipendono
infatti il cibo, l’energia, i medicinali, le materie prime: tutto ciò che ci
permette di vivere. Eppure il tasso d’estinzione delle specie è in continuo
aumento. Detta in altri termini, oggi la biodiversità si riduce a un ritmo ben
più elevato del normale tasso d’estinzione.

 

I fattori di
distruzione

Esistono diversi fattori che determinano – da soli o più
spesso in combinazione – la perdita di biodiversità. I ricercatori del Living
Planet Index hanno individuato 7 minacce principali: il degrado e la perdita
degli habitat, lo sfruttamento attraverso caccia e pesca indiscriminate, il
cambiamento climatico, l’introduzione e la diffusione di specie aliene,
l’inquinamento, le malattie.

L’esempio più eclatante di degrado o perdita di habitat
riguarda le foreste tropicali, localizzate soprattutto in Indonesia, Congo e
Amazzonia (Brasile, in primis). La
distruzione di queste foreste per fare posto a monocolture (soprattutto di
soia), per prelevare legname o minerali, per allevare bestiame o per costruire
dighe, produce enormi perdite di biodiversità di cui queste aree sono molto
ricche. «Il danno non si limita alla sola perdita di biodiversità. A?causa
della distruzione delle foreste si liberano in atmosfera enormi quantità di
gas-serra, responsabili del riscaldamento globale» (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale).

Altro fattore di distruzione è l’introduzione di specie
aliene (alloctone), che entrano in competizione con quelle autoctone e che
possono diffondere patologie sconosciute. È importante ad esempio ricordare che
le foreste native (con i loro serbatorni di biodiversità) non potranno mai essere
recuperate con piantagioni di Eucalyptus grandis o di Acacia mangium: «green
deserts», le chiama Rainforest News, l’organizzazione internazionale di
salvaguardia delle foreste.

Negli ultimi anni hanno assunto sempre più importanza i
cambiamenti climatici in tutte le loro manifestazioni: aumento delle
temperature medie, alterazione del regime delle piogge, innalzamento del
livello dei mari, scioglimento dei ghiacciai, maggiore frequenza di eventi
estremi (alluvioni, siccità, cicloni, ecc.). Le mutate condizioni climatiche
stanno producendo importanti effetti su animali, vegetali ed ecosistemi. «La
rondine anticipa la data media di arrivo alle nostre latitudini», ma
soprattutto in Europa, negli ultimi 10 anni, è diminuita del 40% (Lipu-BirdLife).
Quanto alle piante: «Alcune specie di salice presenti sulle Alpi stanno
conquistando fasce altitudinali mai colonizzate in precedenza» (Lipu,
Cambiamenti climatici e biodiversità).

L’altra diversità

«La diversità culturale è, per il genere umano, necessaria
quanto la biodiversità per qualsiasi forma di vita». Così afferma l’articolo 1
della «Dichiarazione universale sulla diversità culturale», adottata
dall’Unesco nel 2001. E seguita, nel 2005, dalla «Convenzione per la protezione
e la promozione delle espressioni culturali» che tra l’altro riconosce
«l’importanza del sapere tradizionale, in particolare per quanto riguarda i
sistemi di conoscenze dei popoli indigeni».

La relazione tra diversità biologica e diversità culturale è
analizzata da Vandana Shiva. «La diversità biologica  – scrive la nota scienziata indiana (spesso
oggetto di attacchi a causa della sua battaglia contro gli Ogm) – ha plasmato
le diverse culture del mondo. L’erosione della diversità biologica e l’erosione
della diversità culturale costituiscono le due facce di un unico problema.
Entrambe sono minacciate dalla globalizzazione di una cultura industriale
basata su conoscenze riduzionistiche, su tecnologie meccanicistiche e sulla
mercificazione delle risorse».

Paolo Moiola
 

Tags: biodiversità, popoli indigeni, ambiente, Amazzonia, foreste, parchi, conservazione

Paolo Moiola e Francesca Casella




Martiri: Il Sale non ha perso sapore

 

In questi primi giorni di aprile tutto
e tutti parlano del massacro dei cristiani nel mondo. Pur con mille distinguo.
L’eccidio di Garissa, in Kenya, sembra aver fatto traboccare il vaso. Perfino
papa Francesco ha ripetutamente richiamato le nazioni con toni più duri del
solito. Due pesi e due misure: è l’accusa più comune soprattutto ai governi
occidentali. Grande partecipazione e mobilitazione per i tristi fatti di
Parigi, indifferenza e silenzio invece per le vittime di Garissa, Damasco,
Lahore, Mogadiscio, Bangui, Iraq, Nigeria. … Non voglio perdermi nei meandri
di una casistica infinita.

Due fatti mi hanno colpito in modo particolare: la coincidenza
(voluta?) con la Pasqua e con il centenario del «Grande Male», cioè la mattanza
di oltre un milione di Armeni cristiani in Turchia che ha visto il suo picco a
partire dal 24 aprile 1915.

È verissimo ciò da più parti
viene ribadito con insistenza, non è in atto una guerra di religione, non è
Islam contro Cristianesimo. Le cause di tutto questo vanno ricercate
nell’arbitraria divisione del mondo dopo la prima guerra mondiale, nella
tutt’altro che santa alleanza tra il capitale petrolifero e la casa di Saud,
nella grande bugia interventista a difesa della democrazia, nell’asservimento
della politica al neo liberismo sovranazionale, nell’impoverimento e
schiavizzazione progressiva della maggior parte della popolazione mondiale,
nella corsa agli armamenti e dominio delle lobbies economiche,
nell’ignoranza in cui gran parte dell’umanità è ancora mantenuta, privata anche
di servizi necessari come l’istruzione e la salute, e nell’impotenza delle
istituzioni sovranazionali. Ma è pur vero che il Cristianesimo è diventato il
capro espiatorio di colpe che non sono sue. Poi sul terreno, per i giovani di
Garissa o la gente della Nigeria o della Siria o dell’Iraq, questo poco
importa. Vittime due volte: dell’ingiusto sistema sociale ed economico mondiale
e del fanatismo dei puri che, nuovi veri idolatri, si sono costruiti un dio a
propria immagine e somiglianza.

«Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi», ha detto Gesù (Gv
15,20). L’abbiamo ben visto proprio durante il tempo di preparazione alla Pasqua.
Gesù è stato fatto fuori perché ha presentato un Dio diverso da quello
incasellato negli schemi ufficiali di chi gestiva il potere, un Dio impossibile
da piegare alla loro visione del mondo che professa il Dio della vendetta,
dell’elezione, della potenza, della distruzione dei nemici, del premio ai puri
ed eletti. Forse per alcuni sarà eccessivo scrivere che non c’è differenza tra
l’atteggiamento autogiustificatorio dei farisei e loro accoliti e quello dei
fanatici dello stato islamico. Come non è troppo dire che erano della stessa
pasta i rivoluzionari del Terrore francese, i bolscevichi anticapitalisti della
rivoluzione russa, i Kemalisti turchi intenti al riscatto di una nazione
umiliata, le brigate inteazionali e i franchisti della guerra civile
spagnola, i nazisti di Hitler, i fascisti, i maoisti, i talebani e troppi altri
che sono sicuri di essere gli unici nel giusto.

Gesù è stato ucciso perché
rappresentava la libertà di Dio, un Dio signore dell’uomo e non strumento nelle
mani degli uomini. Un Dio che preferisce i deboli, i peccatori, gli esclusi,
gli scarti, gli orfani e le vedove. Un Dio che apprezza di più un bicchiere
d’acqua dato per amore che i grandi templi luccicanti d’oro. Un Dio che si fa
servo, anzi schiavo. Un Dio che allarga i recinti, che esce incontro, che va a
cercare chi è fuori, diverso, escluso, impuro. Un Dio mite e paziente, che è
perdono, che è inclusivo non esclusivo. Il Dio amore che chiede di amare come
lui ci ha amato, di perdonare i nemici, di fare il bene a coloro che ci odiano,
di essere misericordiosi a misura della sua misericordia. Gesù ha mostrato un
mondo diverso, a misura di Dio.

Di questo Dio sono testimoni i giovani cristiani di Garissa, i caldei
della Siria e dell’Iraq, i copti dell’Egitto, le ragazze rapite della Nigeria,
le Asha Bibi del Pakistan, le Leonella e Annalena della Somalia, gli Oscar
Romero dell’America Latina, i Bakanja del Congo. …

«Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno» (Mt 5,11). Non
c’è da aver paura se oggi le persecuzioni si intensificano. È segno che i Cristiani nel mondo sono
ancora testimoni del vero Dio di Gesù Cristo. Sarebbe molto più preoccupante se
tutti li applaudissero. Forse sarebbe un sintomo che il sale ha perso sapore.

Gigi Anataloni