Lo scandalo della prescrizione

Toiamo a parlare di
corruzione e dei danni che produce. Pur registrando livelli da primato, nelle
carceri italiane ci sono soltanto una decina di persone (su 54 mila!) detenute
per quel reato. Colpa anche della prescrizione che, da norma di garanzia, si è
trasformata in una scappatornia legale per imputati eccellenti e colletti
bianchi. Le soluzioni ci sarebbero, ma troppo spesso manca la volontà politica.
Così, a 25 anni dall’uscita di «Educare alla legalità», in Italia la situazione
è addirittura peggiorata.

Papa Francesco ha fatto riferimento al tema della
corruzione, dal giorno della sua elezione a Pontefice, in moltissime occasioni,
in particolare nella Evangelii gaudium.
Parole dure egli le ha pronunziate anche in occasione dell’incontro con la
delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale (23 ottobre
2014). Secondo il Papa la corruzione, come gravità, viene subito dopo la tratta
delle persone. È un male più grande del peccato e, più che perdonato, va
curato. È diventata «una pratica abituale nelle transazioni commerciali e
finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti
dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà». Quanto alla sanzione
penale, essa «è come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i
grandi liberi nel mare». Meritano maggiore severità le forme di corruzione «che
causano gravi danni in materia economica e sociale». Per esempio, «le gravi
frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione»; ovvero «qualsiasi sorta di ostacolo frapposto
al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per
le proprie malefatte o per quelle di terzi».

Di
corruzione, purtroppo, ce n’è un po’ dovunque, ma in Italia – almeno rispetto
gli altri paesi europei – di più, se è vero che da noi si registra una
corruzione pari al 50% di quella dell’intera Comunità. Le parole del Papa,
dunque, ci interpellano in modo speciale.

 La prima considerazione da fare è che la
corruzione (nonostante le tante inchieste, da «Tangentopoli» in poi) sembra
riprodursi all’infinito. C’è quindi prima di tutto un problema di regole, di
leggi che riescano a rendere la corruzione non conveniente. Questo problema
investe l’adeguamento delle pene (non solo carcerarie; anche e soprattutto  interdittive, quelle in ultima analisi ancor
più temute e  quindi assai efficaci).
Nonché la definizione delle fattispecie, che una recente riforma (attesa per
oltre vent’anni e tradottasi nella cosiddetta «legge Severino») ha finito per
confondere e annacquare, costringendoci a mettere in cantiere una nuova
riforma. Ma ancor più gravi e urgenti sono i problemi connessi alla certezza
della pena. Se i tempi del processo sono biblici e la prescrizione quasi sempre
inghiotte tutto e lo azzera, o si interviene
efficacemente su questo versante o si continua a ballare sul Titanic.
Per salvarsi bisogna avere coraggio: interrompere la prescrizione quanto meno
con la condanna di primo grado, come accade ovunque nel mondo salvo che da noi
(ed ecco perché i processi non finiscono mai…), e abolire il grado di appello,
che di fatto non c’è nei sistemi accusatori cui anche noi ci siamo allineati
col nuovo codice di procedura penale del 1988.

Occorre
poi prendere atto che la corruzione in Italia non è riconducibile a un circolo
delimitato per quanto esteso, ma  è
sempre più un vero e proprio «sistema», che mette in crisi l’intero apparato
economico-sociale del paese. Per poter fotografare questa realtà, la legge
anticorruzione deve allo stesso tempo essere inserita in un sistema di misure e
interventi che la supportino. Per cominciare vanno incentivate le denunzie
delle situazioni illecite. La corruzione è un fenomeno occulto, e il controllo
più efficace è quello interno (nell’ambito pubblico e privato), per cui sono
indispensabili misure  protettive e
premiali per i collaboratori di giustizia. Va inoltre disciplinato l’impiego di
«agenti provocatori» come fonte di prova. Nello stesso tempo anche il nostro
paese deve dotarsi di forme di difesa tipo Whistleblower
(letteralmente «suonatori di fischietto»), ovvero le vedette civiche che con le
loro segnalazioni possono smascherare comportamenti illeciti. Ovviamente tutto
ciò deve viaggiare di pari passo con un monitoraggio e un potenziamento degli
istituti ispettivi che puntino a uno Stato con mura di vetro e porte blindate,
attraverso la trasparenza integrale della pubblica amministrazione (specie in
punto svolgimento ed esiti di gare e concorsi; dati sull’uso delle risorse;
bilanci). Utili possono essere appositi test di integrità per politici,
amministratori e funzionari. Confisca dei beni e reimpiego per fini sociali
vanno estesi dalla mafia alla corruzione. Per la loro decisiva funzione di
reati civetta vanno perseguiti – con efficacia e non per finta – il falso in
bilancio, l’evasione fiscale, vari reati societari e l’autoriciclaggio
(quest’ultimo dopo una lunga attesa segnata da veti contrapposti, alla fine
vietato e punito, ma con la ambigua esclusione del reimpiego del denaro sporco
per… godimento personale).

 

Va da sé infine che la battaglia va combattuta con
determinazione, senza che gli ammonimenti
del Pontefice restino isolati o peggio senza seguito concreto. Come
invece sembra purtroppo essere accaduto per la nota pastorale della Commissione
ecclesiale della Cei «Giustizia e pace» del 4 ottobre 1991 intitolata Educare
alla legalità, che denunziava come inquietante «la nuova
criminalità così detta dei “colletti
bianchi”, che volge ad illecito profitto la funzione di autorità di cui è
investita, impone tangenti a chi chiede anche ciò che gli è dovuto, realizza
collusioni con gruppi di potere occulti e asserve la pubblica amministrazione a
interessi di parte». Parole energiche e di straordinario valore, ma presto
dimenticate: forse perché non vi è stata quella «mobilitazione delle coscienze»
che i vescovi di allora segnalavano come assolutamente necessaria, e che ancora
oggi è conditio sine qua non per
sperare di  frenare e ridurre i fenomeni
illegali. Perché «non vi è solo paura, ma spesso anche omertà; non si dà solo
disimpegno ma anche collusione; non sempre si subisce una concussione, ma
spesso si trova comoda la corruzione per ottenere ciò che altrimenti non si
potrebbe avere. Non sempre si è vittima del sopruso del potente o del gruppo
criminale, ma spesso si cercano più il favore che il diritto, il “comparaggio”
politico o criminale che il rispetto della legge e della propria dignità».
Peccato che queste parole del 1991 sembrano essere state  come cenere al vento, tanto da poter essere
ripetute pari pari ancora oggi. La speranza è che gli interventi di papa
Francesco riescano finalmente a trasformare le buone intenzioni in vere
attitudini cristiane.

Gian Carlo?Caselli

Gian Carlo Caselli

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