Liberati dal crack

Lungo il Rio Branco.
Viaggio a Roraima / 4
La droga – il crack,
in particolare – ha raggiunto ogni angolo del Brasile. È un’epidemia che pare inarrestabile. A Iracema (Roraima)
abbiamo visitato una comunità terapeutica che fa parte della rete «Fazenda da
Esperança». Gli ospiti, in maggioranza giovani, stanno recuperando la loro
dignità con il lavoro e la vita comunitaria.

Br-174.
Lasciamo la desolata cittadina di Caracaraí per riprendere la strada federale,
sempre poco transitata.

Passiamo tenute agricole, aree verdi e praterie con
animali in libertà. Poi, in prossimità di Iracema, un cartello avverte che
siamo nei pressi della Fazenda da Esperança‚ una fattoria con caratteristiche particolari. «È una
comunità terapeutica per tossicodipendenti diffusa in tutto il Brasile», ci
spiega dom Roque Paloschi, nostra infaticabile guida.

La droga ha raggiunto ogni angolo del Brasile, compresa
l’Amazzonia. Anzi, dato che la regione confina con tutti e tre i grandi
produttori di coca (Colombia, Perù e Bolivia), essa è divenuta un importante
luogo di transito1, in particolare per la cocaina e i suoi sottoprodotti
(crack, óxi, merla)2.

Rafael e gli altri

La Fazenda è cresciuta proprio a lato della
strada, all’ombra di grandi alberi. Non facciamo in tempo a scendere dall’auto
che già si è formato un capannello di persone. Sono in maggioranza giovani, ma
tra loro c’è anche un signore con una maglietta di una squadra di calcio che
pare più avanti negli anni. Tutti hanno volti distesi e sorridenti, l’esatto
contrario di quelli segnati dalla droga o dall’alcol.

Nata nel 1983 su iniziativa di padre Hans
Stapel, missionario tedesco, e di Nelson Giovanelli Rosendo dos Santos, la
Fazenda da Esperança è oggi una realtà consolidata e soprattutto riconosciuta
nell’ambito del recupero dalla tossicodipendenza. Conta quasi 100 sedi
distribuite in tutto il Brasile e in altri 16 paesi.

La sede di Iracema porta il nome di Fazenda
Nossa Senhora de Guadalupe. Aperta nel dicembre del 2009, ospita una ventina di
«interni» (chiamati anche recuperandos, ma non
pazienti o ricoverati), tutti maschi. «Il più giovane ha 14 anni, il più
vecchio 41», ci dice Ednila, la segretaria.

Rafael, il responsabile, si offre di
mostrarci la struttura. Ci sono numerose casette dipinte con colori diversi
(azzurro, giallo, verde, rosso) e circondate da curatissime aiuole. Ognuna è
adibita a una specifica attività: l’ambulatorio, la palestra, le camere degli
interni, gli alloggi di coloro che già hanno fatto una parte del percorso, una
casa con la cucina comune (in cui lavorano alcuni interni), un’altra che ospita
una saletta per riunioni e video, la cappella Nostra Signora di Guadalupe. «E
quella là in fondo – indica Rafael – è la casa dei “padrini”. Cioè di coloro
che sono venuti per disintossicarsi e, una volta recuperati, si sono fermati
per aiutare gli altri».

Sono tanti coloro che, entrati come ospiti,
si sono in seguito fermati come volontari. È lo stesso percorso compiuto da
Rafael, ex tossicodipendente. «Sono entrato nella Fazenda nel 2005. Dopo il mio
recupero ho deciso di rimanere come volontario. Sono quindi uscito per qualche
anno, ma poi sono rientrato con mia moglie Erica. E oggi viviamo qui assieme ai
nostri due bambini»3.

Convivenza, lavoro, spiritualità

Nella Fazenda da Esperança non si entra per
caso. Al contrario, occorre seguire una precisa procedura.

Chi vuole provare questa esperienza deve in
primis
presentare una lettera scritta di proprio pugno in cui racconta se
stesso e spiega i motivi per cui chiede di entrare nella comunità. Quindi c’è
una sorta di precolloquio alla fine del quale alla persona vengono prescritti
una serie di esami fisici e psichici per capire il suo stato, «dato che –
precisa Rafael – la Fazenda non è una clinica, ma una comunità terapeutica». Se
gli esami medici mostrano la compatibilità del richiedente con la vita
comunitaria, viene fatto un colloquio finale durante il quale si valutano la
sua predisposizione personale e la sua volontà di recupero. Superato anche
questo colloquio, la persona può finalmente essere accolta per un percorso
della durata di almeno un anno.

I primi mesi sono i più duri. «Durante questo
periodo – spiega Rafael – i contatti con familiari e amici possono avvenire
soltanto per lettera».

La metodologia adottata dalla Fazenda da
Esperança si regge su tre pilastri: la convivenza, il lavoro e la spiritualità.
Quest’ultima nasce dalla lettura e dalla pratica quotidiana della parola
evangelica e rappresenta un elemento centrale ma non escludente. «La differenza
religiosa – precisa Ednila – non costituisce un ostacolo per entrare in comunità».
Nella Fazenda la convivenza è a un tempo indispensabile e inevitabile: assieme
si vive, si mangia, si lavora. Il lavoro, infine, è visto come processo
pedagogico e fonte di autostima.

La forma della
speranza

Alla Fazenda di Iracema il lavoro non manca. C’è molta
terra per coltivare e per allevare bestiame: i prodotti ottenuti contribuiscono
al sostentamento della comunità. All’agricoltura e all’allevamento si
affiancano poi due attività artigianali.

Ecco la casetta che ospita la fabbrica di sapone. Lungo
il muro ci sono alcune taniche e decine di bottiglie di plastica piene di un
liquido scuro. «È l’olio riciclato che usiamo per fare il sapone», ci spiega
Rafael. Poi, forse vedendo la nostra faccia interdetta, subito aggiunge: «È un
sapone molto buono, soprattutto per lavare i vestiti. Lo vendiamo a un real per barra».
Entriamo nei locali dove avviene la produzione. Orgoglioso, Rafael ci mostra
gli strumenti necessari alla fabbricazione e ci spiega le fasi del processo
produttivo. «Eccolo», grida Rafael mettendoci in mano una sorta di mattoncino
di color giallo pallido avvolto da una plastica trasparente su cui è posta
un’etichetta con la scritta Sabão
da Esperança. Un prodotto che è quasi
una metafora: il sapone elimina le scorie della vita precedente e offre la
speranza di un’esistenza diversa.

Storia di Bruno

Tuttavia, l’attività più redditizia per la Fazenda viene
dalla panetteria, ospitata in un’altra casa. Quando entriamo, due ragazzi
stanno lavorando su un tavolone in acciaio: tirano la pasta con un mattarello,
ne fanno dei rotolini che depongono in padelle oliate. I ragazzi ci mostrano il
foo e la macchina per impastare (amassadeira), comprata con i soldi
guadagnati dalla vendita del sapone.

Su una lavagna sono segnate le ricette dei vari tipi di
biscotti, tutti (giustamente) fatti con frutta locale: ci sono al coco, al cupuaçu, alla castanha, alla maracuja. Anche il pane
viene sfornato in alcune varietà: pane della casa, pane francese… Tutti i
prodotti sono infine accuratamente confezionati. «Vengono venduti nelle
parrocchie e poi dai volontari», ci spiegano.

Bruno, 22 anni, è di Boa Vista e non nasconde né la
propria storia di droga né l’attuale felicità. Confessa: «Quando sono arrivato
ero distrutto, fisicamente e spiritualmente». «Qui tutto è allegria e amore»,
aggiunge. Ma più delle parole a convincere è il suo sorriso.

Paolo Moiola

(fine
quarta puntata – continua)

Ragazzi di strada a
Manaus
Sotto il ponte di
Kako Caminha

 Una trentina di
giovani, tra cui molti minorenni, vivono sotto un ponte di Manaus. Intossicati
da colla e crack, temuti dalla popolazione, picchiati dalla polizia, ad aiutare
questi ragazzi sono rimasti soltanto alcuni volontari di «O Pequeno Nazareno».
Li abbiamo seguiti.

Manaus (Amazonas). Il ponte di Kako Caminha conduce
al bairro di São Jorge. Pare un normale ponte, attraversato ogni giorno
da centinaia di auto. Invece tanto normale non è. Per scoprirlo è sufficiente
spostarsi su un lato e andare sotto il viadotto. Lo facciamo con Tommaso
Lombardi, nostra vecchia conoscenza, che da tempo frequenta questo luogo
assieme alla moglie Elaine e altri volontari1.

L’igarapé,
un fiumiciattolo di acqua sporca e puzzolente, occupa soltanto una piccola
parte della larghezza del canale, il resto è una riva di terra e vegetazione.
Troviamo due vecchi divani, posti uno accanto all’altro. E poi stracci e cumuli
di rifiuti. «Qui sotto dormono e trovano riparo una trentina di giovani, alcuni
sono bambini di neppure 10 anni – ci spiega Tommaso -. Noi veniamo a cercarli
un paio di volte alla settimana. O per strada o al ponte».

Camminiamo
lungo la riva fino a uno spazio aperto. Eccoli: sotto alcuni alberi, raccolti
attorno a una pentola, ci sono i ragazzi. Tommaso saluta, e un paio di loro ci
vengono incontro. Sono Jean e Leandro, poco più che diciottenni. Il torso nudo
evidenzia la loro magrezza. Sorridono. Scambiamo qualche parola. Fa impressione
sapere che quella bottiglietta di plastica appesa al loro collo serve per
sniffare la colla o il crack.

Nel gruppo
notiamo una sola ragazza. «Sono molte meno, e di solito arrivano per la notte»,
spiega Tommaso, che aggiunge: «Nel gruppo c’è un alto tasso di omosessualità».

I ragazzi
sopravvivono e si procurano i soldi per la droga chiedendo l’elemosina ai
semafori, pulendo le scarpe, prostituendosi o facendo piccoli furti. «Alcuni –
aggiunge la nostra guida – commettono crimini maggiori, come furti nelle case o
assalti di autobus, abbastanza frequenti a Manaus».

Ogni volta che
la polizia interviene sotto il ponte di Kako Caminha per sgombrare l’accampamento
dei ragazzi, lo fa in maniera violenta. «Li picchia, li butta nell’igarapé,
li minaccia – racconta Tommaso -. Brucia le loro povere cose (materassi,
lenzuola, oggetti). Soltanto dopo le azioni più violente i ragazzi si sono
spostati. Ma mai per più di una settimana. Questa è la loro unica “casa”».

Tommaso è il
responsabile per Manaus di O Pequeno Nazareno, un’organizzazione
non governativa che si occupa di ragazzi di strada. «Quando li
incontriamo, facciamo loro la proposta di venire nella nostra casa
d’accoglienza, aperta per bambini e adolescenti dagli 8 ai 17 anni d’età».

«Con i
maggiori di 18 anni – spiega rammaricato – l’unica cosa che possiamo fare è
indirizzarli verso una casa di recupero dalla tossicodipendenza, tipo Fazenda
da esperança
».

«Criança não é de
rua»

In Brasile, le
dimensioni del fenomeno sono allarmanti. Un’indagine compiuta dalla campagna
nazionale Criança não é de rua («I bambini non sono di strada»),
lanciata e guidata da O Pequeno Nazareno, evidenzia dati drammatici2.

Tra le persone
che vivono in strada il 58,13% ha tra i 13 e i 17 anni, il 13,28% tra i 7 e i
12 anni e addirittura c’è un 4,69% che ha meno di 6 anni. Due terzi (64%) dei
bambini e adolescenti di strada usano il denaro raccolto per procurarsi droghe.
Meno di un terzo (23%) dicono di usare i soldi per comprarsi da mangiare e
appena un piccolo numero (5%) per aiutare la propria famiglia. Ben l’88% dei
ragazzi di strada dice di far uso di un qualche tipo di droga. Tra queste, la
più consumata risulta essere il crack (49%), seguito dalla colla (16%), dalla
marijuana (12%) e dalla cocaina (5%).

Lo slogan di O
Pequeno Nazareno
, tanto semplice quanto efficace, è racchiuso in una
domanda: «Che futuro potrà mai avere una società che nega ai propri bambini il
diritto al presente?»3. I ragazzi che vivono sotto il
ponte di Kako Caminha o nelle strade di centinaia di altre città meritano
un’esistenza diversa.

Paolo Moiola
 
Note

1 – Di
Tommaso Lombardi ed Elaine Elamid abbiamo parlato nel reportage João cresce con i libri, in MC dicembre 2012.

2 – I dati
sono riportati dall’indagine svolta dagli organizzatori della Campanha nacional «Criança Não é de Rua» (Campagna nazionale «I bambini non sono di strada»). L’indagine è
scaricabile dal sito: www.criancanaoederua.org.

3 –
Testuale: «Que futuro terá uma sociedade que nega à suas crianças o direito a
um presente?».

Tags: tossicodipendenze, droghe, recupero, ragazzi di strada

Paolo Moiola

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