Il Web… sei tu!

Giornata per le comunicazioni sociali 2014

Non bombardare di messaggi. Dialogare. E attenzione alla
velocità della comunicazione, che supera la capacità di riflessione e giudizio.
E può isolarci dal nostro prossimo. Questi sono alcuni degli spunti del
messaggio di papa Francesco. La nuova frontiera della comunicazione è il «Web 2.0».
Esso fornisce enormi potenzialità ma, come tutte le tecnologie, presenta molti
rischi e pericoli.
In queste pagine un rapido excursus di una persona che ha
fatto del Web 2.0 uno strumento imprescindibile per cooperazione e solidarietà.

«La testimonianza cristiana non si fa con il bombardamento di
messaggi religiosi». «Dialogare significa essere convinti che l’altro abbia
qualcosa di buono da dire, fare spazio al suo punto di vista. Non significa
rinunciare alle proprie idee, ma alla pretesa che siano uniche e assolute».
Questo coraggioso passaggio del messaggio del Papa per la Giornata delle
comunicazioni sociali 2014
(domenica primo giugno) sintetizza bene il
cambiamento profondo che in qualche modo sta vivendo tutto il mondo
dell’informazione, spesso contro la sua stessa volontà, a causa dello sviluppo
rapidissimo e pervasivo delle tecnologie digitali.

L’avvento del «web 2.0», di cui si parla da anni, è
stato prima di tutto una straordinaria rivoluzione culturale, non del tutto
compresa neanche oggi. Ormai lo sappiamo bene: il web 2.0 è il web dei
contenuti generati dagli utenti, quelli dei social network, dei blog, dei wiki
e di molto altro. Su Inteet il diritto di pubblicare informazioni è
distribuito «orizzontalmente» a tutti: a chi possiede una rete televisiva come
a chi ha soltanto un telecomando; al giornalista come al salumiere. Con i
vantaggi e i rischi che questo comporta. Il navigante 2.0 è Upa (User, author, publisher),
ovvero autore, editore, diffusore di se stesso; e ha a disposizione dei potentissimi
mezzi per promuovere le sue idee.

Informazione «collettiva»

Da Wikipedia in poi niente è più stato come prima:
l’informazione non è più unidirezionale ma si costruisce collettivamente, in un
processo che prosegue nel tempo e non è finito al momento della pubblicazione.
Come sostiene il giornalista americano Mathew Ingram: «La notizia si è
trasformata da prodotto a processo».

Ecco perché nell’epoca del web non ha più senso «bombardare
di messaggi» i nostri lettori, come dice il santo Padre, ma è necessario
dialogare, incessantemente, «attraverso la disponibilità a coinvolgersi
pazientemente e con rispetto». E, direi di più, non siamo di fronte a una
scelta etica o morale, ma una necessità per tutti perché la comunicazione
nell’epoca dei social network è intrinsecamente conversazione.

Ma se tutto questo è probabilmente molto chiaro ormai a
livello teorico, non lo è altrettanto nella vita quotidiana. Si verificano
resistenze profondissime, ad esempio da parte di molti giornalisti che si
sentono spodestati dal proprio ruolo di detentori della notizia e fanno
difficoltà a ridefinire il mestiere stando dentro il flusso delle informazioni
e accettando il contributo dei non professionisti. Ancora più sorprendenti sono
le resistenze nel mondo delle associazioni e del non profit, che dovrebbero
essere apparentemente le più votate a questo tipo di comunicazione. Come
sosteneva Paolo Ferrara, responsabile raccolta fondi dell’Ong Terres des Hommes, già
nel 2008: «La rete è quella piazza in cui le Ong possono recuperare il rapporto
con la gente e con il territorio, che negli anni hanno perso».

A inizio 2013, Ong 2.01 ha
realizzato una ricerca su tutte le Ong italiane registrate al ministero Affari
esteri. In sintesi i risultati hanno evidenziato che la maggior parte di esse
tende a usare siti, blog e social network come semplice vetrina delle proprie
attività, nel senso più tradizionale del marketing: cioè come «canale» per
informare o lanciare eventi e campagne, come si farebbe con uno spazio
pubblicitario in Tv. Molto meno si lasciano permeare da un nuovo modo di
lavorare che vede gli utenti protagonisti attivi e coproduttori di contenuti.

Dialogo continuo, online

«Non si tratta di promuovere prodotti vecchi attraverso
nuovi canali, ma di realizzare prodotti nuovi» sostiene Beth Kanter, guru del
web e autrice del libro «The networked non
profit». Come? Instaurando un dialogo continuo con la
propria comunità online fin dall’inizio della creazione di un progetto (e non
solo quando è già confezionato per chiedere soldi) rendendosi disponibili a
eventuali modifiche in base ai feedback ricevuti. Aggioando continuamente la «comunità»
sui risultati ottenuti o sulle difficoltà incontrate senza nascondere i
fallimenti. La trasparenza sul web è fondamentale e va decuplicata rispetto
all’offline (lavoro non sul web, ndr) per superare
l’inevitabile diffidenza dovuta al fatto di non incontrarsi di persona.

Esempio di grande successo in questo senso è una realtà
come Kiva.org, sito di microcredito online per i paesi poveri.
Attraverso la raccolta popolare di piccole quote di 25 dollari per sostenere
progetti dei contadini, ha raccolto in 9 anni quasi 550 milioni di dollari,
coinvolgendo oltre un milione e 150 mila donatori e realizzando migliaia di
progetti in 76 paesi del mondo. Con 243 partner sul terreno e il lavoro
volontario di 450 persone che traducono in 16 lingue e mettono online i
progetti dei piccoli imprenditori. Cosa ha fatto di nuovo Kiva.org? Il
microcredito esisteva da decenni nella cooperazione internazionale, Kiva ha
saputo però reinterpretarlo alla luce del web con una comunicazione diretta,
una mediazione ridotta all’osso, la trasparenza assoluta e il feedback continuo
sui risultati. Ha fatto sentire protagonisti gli utenti e diffuso il messaggio
con un ampio ricorso a strumenti virali (video, foto, testi accattivanti con
rapida diffusione sui social network, ndr).

Altro esempio internazionale molto rinomato è quello di Charity Water, Ong
americana non particolarmente innovativa nei progetti che realizza, ma
straordinariamente capace a comunicare sul web. Cosa ha fatto? Oltre ad avere
un sito graficamente accattivante, chiaro, semplice, in cui in ogni passo
coinvolge l’utente nelle attività della Ong, ha creato una sotto sezione «My Charity Water» dove
ogni navigatore con pochi click può crearsi un suo sito personale, con il suo
nome e la sua immagine allo scopo di far proprio e sostenere un progetto di Charity Water
diffondendolo sui propri social network e tra amici e parenti in occasione di
eventi familiari quali compleanni, feste, battesimi, diventando così
testimonial dell’associazione. Risultato: dal 2006 a oggi, in piena crisi,
11.621 progetti realizzati in 22 paesi.

Ma ci sono esempi anche più «nostrani», Action Aid Italia ha
lanciato la campagna «Dona il tuo profilo Facebook», ovvero per un tempo
determinato sostituisci alla tua foto e la tua descrizione sui tuoi social con
quella di una donna africana per far conoscere la sua storia ai tuoi amici. In
sostanza realizza il vecchio «voce a chi non ha voce», ma con sistemi nuovi.

Testimonial individuali

Un esercito di piccoli e grandi opinion leader,
persone comuni, che studiano, lavorano e comunicano non al grande pubblico, ma
a qualche decina di amici, parenti e conoscenti. Testimonial non pagati e, per
questo, molto più attendibili e influenti.

Certo, siamo abituati a immaginare i volontari come
quelli che partono per l’Africa o distribuiscono le colazioni ai senzatetto.
E per questo c’è chi ha distinto tra «soft» e «hard people raising»,
intendendo quest’ultimo il reclutamento di volontari disposti a rimboccarsi le
maniche: non solo infermiere al fronte, ma anche distributori di volantini e
venditori di azalee per finanziare la ricerca contro il cancro. Il «people
raising morbido», invece, è il reclutamento di volontari che alimentino il
passaparola, mettano una firma o promuovano il messaggio di una non profit o di
un politico «mettendoci la faccia». Tuttavia la distinzione tra i due si fa
sempre più sfumata e spesso una mobilitazione online ottiene risultati offline.

Come l’Ong Cefa di Bologna, che ha realizzato una pagina
Facebook del suo progetto «Africa Milk project» per la realizzazione di una
latteria in Tanzania, da quattro anni racconta passo passo il progetto
pubblicando foto, video, testimonianze, raccontando successi ma anche difficoltà
e fallimenti. Ha raccolto quasi 10 mila fan e attraverso Facebook ha trovato
nuovi volontari e partenariati per il progetto, ha realizzato una marcia di
solidarietà e raccolto fondi.

Relazioni virtuali

Ma la rete non cambia solo le tipologie di
comunicazione, cambia le nostre relazioni (una coppia su cinque oggi si conosce
in rete) e cambia anche l’economia.

Nel web sociale il valore economico si produce
attraverso la condivisione. L’esplosione della cosiddetta «sharing economy» ha
visto nascere centinaia di piattaforme per la condivisione del sapere, come «Insegnalo»
che permette di seguire e impartire video lezioni su vari argomenti, oppure «Neighborgood» per
lo scambio di attrezzi utili tra vicini di casa o ScambioCasa, Couchsurfing e
mille altri.

L’interessantissimo libro di Marina Gorbi «The Nature of the Future»
sintetizza con due neologismi il prossimo futuro. Il primo è «amplified
individual
»: indica la natura dell’essere umano «amplificato» dalla
tecnologia, dall’intelligenza collettiva e dall’appartenenza a innumerevoli
reti sociali. Il secondo è «socialstructing»: la creazione di una
economia fondata sui valori personali e relazionali, in cui i social network
sono di fatto la struttura portante.

Dice la Gorbi: «Nel futuro prossimo gli individui
amplificati dall’ubiquità della tecnologia costruiranno senso esistenziale e
valore economico in contesti social strutturati».

Anche le attività produttive si stanno ridisegnando in
rete, mentre il declino della grande industria sembra inesorabile, nascono
nuove forme di artigianato individuale grazie a tecnologie come le stampanti a
3D che permettono di «stampare» oggetti reali in qualunque parte del pianeta a
partire da file di progettazione multidimensionale. Il che apre anche nuovi
orizzonti per i paesi poveri, dalla «stampa» di protesi mediche in zone remote
(progetti già avviati in Sud Sudan e Kenya) a quella di pezzi di ricambio,
attrezzi agricoli e ogni genere di oggetti, anche organici (sono già stati
stampati in 3D interi aerei, case, pistole, cibo fino agli organi umani ricavati
da staminali).

Pericoli reali
Tutto bene dunque? Non proprio.

Ce lo illustra la storia di Sweetie, una bambina «virtuale»
realizzata da Terres des Hommes
Olanda, utilizzata come esca per studiare il fenomeno
pedofilia via web. Riporta il sito www.today.it: «In pochi mesi più di
20 mila utenti da tutto il mondo le hanno chiesto prestazioni sessuali on line.
Sweetie si presentava come una bambina filippina di dieci anni e gli utenti in
cambio di denaro le chiedevano delle prestazioni sessuali tramite la webcam. Mille di questi
sono stati identificati mentre si collegavano via chat. Le registrazioni video
delle conversazioni sono state consegnate all’Interpol. I risultati dello
studio hanno portato l’associazione per i diritti dei minori a lanciare un allarme
nei confronti di un fenomeno ancora poco conosciuto, quello del turismo
sessuale minorile via webcam, noto anche come Wcst (Webcam child sex tourism).
[…] Secondo Raffaele K. Salinari, presidente di Terre des Hommes
quest’esperimento “è la dimostrazione di come pedofili e sfruttatori di bambini
possano agire indisturbati nella rete, ma anche di come sia facile
rintracciarli”». E Terres des Hommes assieme ad Avaaz.org (noto
sito di petizioni online) hanno lanciato una raccolta firme per fare pressione
sui governi di tutto il mondo in tema di lotta contro il turismo sessuale
minorile tramite webcam».

Il caso di Sweete apre un ampio spazio di riflessione
sulla doppia faccia del web, se è un luogo che permette nuove forme di
coinvolgimento, protagonismo e azione sociale, ugualmente apre la porta a nuove
insidie, distorsioni relazionali non solo di natura sessuale. Come ricorda
ancora il Papa nel suo messaggio: «La velocità dell’informazione supera la
nostra capacità di riflessione e giudizio e non permette un’espressione di sé
misurata e corretta. L’ambiente comunicativo può aiutarci a crescere o, al
contrario, a disorientarci. Il desiderio di connessione digitale può finire per
isolarci dal nostro prossimo, da chi ci sta più vicino».

Disintossicarsi dal web

È emblematico il fatto che nel 2010 sia stato aperto
all’ospedale Molinette di Torino il primo centro per la «disintossicazione da
Inteet» per videodipendenti cronici da giochi e social network. «Le nuove
dipendenze – spiega il professor Donato Munno, responsabile del centro,
intervistato da La Stampa – sono quelle senza droga. Il rischio è il distacco
dalla realtà: tra i casi segnalati, ci sono quelli di persone che arrivano
tardi al lavoro perché non riescono a spegnere il computer attraverso il quale
dialogano a distanza. Oppure uomini e donne che soffrono di deprivazione del
sonno, che sviluppano un isolamento dal resto della famiglia, figli compresi».

Dietro la dipendenza da Inteet, come dietro la
dipendenza da ogni droga, stanno il disagio esistenziale ma anche enormi
interessi economici. Per dare un’idea secondo i dati di Socialnomics nel
2013 i giocatori online nel mondo hanno comprato prodotti virtuali per 6
miliardi di dollari, più del doppio dei 2,5 miliardi di dollari di prodotti
reali (popco, patatine, ecc.) consumati dagli spettatori dei cinema. Un
mercato iper miliardario e in piena espansione spinge in tutti i modi le
persone a vivere vite parallele in rete.

Tutti controllati

C’è poi il problema, serissimo, del controllo dei nostri
dati. Tutto quello che scriviamo, postiamo e alleghiamo sui nostri social è
materiale prezioso per aziende e multinazionali che ci profilano pubblicità
mirata sulla base dei nostri interessi. Ma anche per governi o centri di potere
che intendono controllarci.

Sul tema della sicurezza la questione maggiore è senza
dubbio quella relativa ai cosiddetti «Big Data», un termine che va di
moda per indicare quello che fanno le aziende nella raccolta e nell’analisi di
fiumi di informazioni su Inteet con lo scopo di ottenere indizi sui
consumatori, prodotti o modi migliori per gestire un business. Negli ultimi
tempi si è poi aggiunto un altro fenomeno che va di pari passo col travolgente
sviluppo delle connessioni mobili e cioè le aziende che raccolgono informazioni
sui dati di localizzazione estratti da smartphone o tablet.

C’è chi prevede che il condizionamento culturale ed
economico passerà sempre più da Inteet, così come per molti decenni è passato
dall’azione persuasiva della Tv e degli altri mass media, ma avrà ancora
maggiore capillarità e pervasività per arrivare a essere «controllo globale».

La doppia faccia del mondo digitale rispecchia, nei
fatti, la doppia faccia di tutte le conquiste tecnologiche, aprono nuovi
orizzonti e straordinarie possibilità e insieme rischi e pericoli di enorme
gravità. Il problema è l’uso che si fa della tecnologia, chi la controlla e
quali sono i centri di potere dominanti, non la tecnologia in sé. Oggi
possibilità di azione ci sono ancora, la rete continua a essere lo spazio più
libero che abbiamo a disposizione e lo dimostrano i casi dei regimi
dittatoriali che trovano come unica soluzione estrema per contrastare i
movimenti popolari quella di disconnettere Inteet o di spegnere specifici
social network. Per questo dobbiamo essere preparati e coscienti delle
potenzialità e dei rischi. L’uso che ne prevarrà in futuro è ancora tutto da
vedere.

Silvia Pochettino*
 

________________
*Silvia Pochettino, giornalista, è direttrice
della testata Volontari per lo
Sviluppo  e
fondatrice di Ong 2.0.


La campagna di Ong 2.0


Ripensare la cooperazione

La testata «Volontari per lo Sviluppo»
lancia la campagna #cooperazionefutura e chiede di immaginare la cooperazione
internazionale di domani, partendo dalla piattaforma di Ong 2.0. Un nuovo
spazio online che sarà il punto di partenza per informare, formare e connettere
esperienze sull’uso dell’innovazione sociale e delle nuove tecnologie nella
cooperazione.

Telemedicina, applicazioni per
l’agricoltura, droni per le emergenze, big data… ma anche social
business
e sharing economy stanno ridisegnando le relazioni tra
paesi. E il Sud del mondo si scopre, in molti casi, più avanti di noi nell’uso
creativo della tecnologia e dei nuovi sistemi di economia sociale.

Così i vecchi schemi dell’aiuto
allo sviluppo appaiono sempre più superati, mentre diventa possibile
coinvolgere le popolazioni rurali attraverso semplici sms, attuare scambi
economici attraverso i social network o mappare in tempo reale situazioni di
crisi con software gratuiti.

Ong 2.0, progetto nato tre anni fa
dall’équipe di Volontari per lo Sviluppo, edito da Focsiv, Cisv e altre 12 Ong,
è oggi una testata e un centro di formazione e servizi online sulle nuove
tecnologie per la cooperazione. Nell’ultimo anno ha formato attraverso i webinar
(seminari online) oltre 2.500 persone in tutto il mondo.

Ora è allo
studio una nuova piattaforma e una app di Ong 2.0 che aiuti a connettere
le esperienze e realizzare progetti sperimentali tra Nord e Sud anche con la
finalità di facilitare l’entrata dei giovani nella cooperazione internazionale.
Per questo la campagna #cooperazionefutura: conoscere le idee, le necessità
e le difficoltà di chi vive, o vorrebbe vivere, la cooperazione internazionale
oggi.

Si può inviare la propria idea sul
form della campagna di Ong 2.0 (www.ong2zero.org) oppure con
un tweet a @rivistavps, una foto o un post sul canale Facebook 
(https://www.facebook.com/cambiareilmondoconilweb) utilizzando l’hashtag
#cooperazionefutura.

Messaggio di papa Francesco per la Giornata della Comunicazioni Sociali
– keggetelo su vatican.va il sito del Vaticano

tags: media, comunicazione, web, dipendenza,web 2.0, internet, informazione, dialogo, relazioni

Silvia Pochettino




Eroi per scelta (Do/Rd Congo 4) 

L’epoca
Mobutu è finita. Kabila ha ufficialmente inaugurato un paese che si dice
democratico. Ma la pace è ancora un sogno e tutta la regione dei Grandi Laghi,
alla cui periferia è l’Alto Uele dove ci sono i missionari della Consolata, è
i di milizie, ribelli, ladroni, sfruttatori vari.


Missionari in guerra: eroi per scelta

Ritorniamo a Doruma. L’avventura è
durata fino al 1999, a febbraio. Io sono stato per undici mesi l’ultimo parroco
della Consolata, e poi abbiamo dovuto chiudere, come ho già raccontato. Siamo
andati allora a Isiro, la capitale dell’Alto Uele, dove noi missionari abbiamo
il nostro centro. La guerra continuava, non c’era più comunicazione con
Kinshasa, il paese era diviso. Noi eravamo sotto gli ugandesi e ruandesi, a
Kinshasa erano sotto Kabila. Per questo abbiamo dovuto dividerci in due gruppi
indipendenti. I missionari della Consolatanella capitale avevano padre Stefano
Camerlengo come superiore e io sono stato eletto superiore del gruppo del
Nordest, e avevo la mia base a Isiro. Ho fatto questo servizio per sei anni.

A Isiro non c’era pace. Un giorno arrivava un gruppo di
ribelli che prendeva il controllo della città, poi arrivavano nuovi ribelli
contro quelli di prima, tutti contro Kabila, ma in lotta tra loro per avere il
controllo della città e soprattutto del suo aeroporto. I ribelli venivano
sempre in casa a chiedere la macchina, la moto… dovevamo sempre avere pronto
qualcosa per tenerli buoni. Nonostante la guerra ci sono stati degli italiani
che sono venuti a trovarci (via Uganda) per realizzare dei pozzi a Bayenga (MC
dicembre 2002, pag. 17
). Mentre erano là è scoppiata la guerra tra due
gruppi di ribelli e loro sono stati presi in mezzo. Sono andato a liberarli ed è
stata tutta un’avventura … veramente il Signore ci ha protetto.

Consolazione

In quel caos come missionari della Consolata abbiamo
fatto la scelta più ovvia: essere presenza di consolazione. Consolare
significava cercare di portare avanti le scuole, l’ospedale di Neisu, il centro
nutrizionale per bambini malnutriti, la pastorale degli studenti. «Prima o poi
la guerra finirà, ci siamo detti, cerchiamo quindi di aiutare i nostri giovani
a proseguire negli studi».

Stato disastroso della scuola

La scuola è stata una delle nostre priorità. Anche se
eravamo in guerra i responsabili della scuola e del ministero dell’educazione
continuavano a esserci. Il potere ugandese pensava solo al controllo e di
sfruttamento delle ricchezze, però tutto quello che era la vita normale: sanità,
scuola, burocrazia, continuavano a modo loro. Chiaramente dovevano dipendere
dal capo dei ribelli, a volte appoggiato dall’Uganda, altre volte dal Ruanda.
Le convenzioni tra Chiese e stato per la scuola erano sempre valide e quindi il
responsabile designato dal vescovo per l’educazione doveva far continuare le
nostre scuole elementari, medie e superiori.

Il finanziamento era un problema. Lì la scuola è sulle
spalle dei genitori da tanto tempo. Noi abbiamo puntato molto sulle adozioni a
distanza per far studiare bambini e giovani. E continuiamo ancora. Lo stato, da
quando è tornata la pace, ha cominciato a pagare alcuni maestri e professori
che sono stati riconosciuti. Però oggi come oggi a Isiro è ancora la famiglia
che paga la maggior parte dei maestri.

Uno dei problemi più gravi era la mancanza di testi. Il
maestro insegnava basandosi sugli appunti che lui aveva preso da studente. Li
scriveva sulla lavagna e i ragazzi li copiavano sui loro quadei.
I quadei arrivano in bicicletta dall’Uganda o dal Sudan. Questo ha creato una
situazione disastrosa. Da anni i maestri si passano gli appunti ricevuti dai
loro maestri, con una moltiplicazione di errori e imprecisioni. La situazione è
così, purtroppo. A Kinshasa so che il governo sta distribuendo dei libri grazie
agli aiuti inteazionali, ma al Nord è difficile vedere libri nelle scuole.
Noi abbiamo fatto dei progetti specifici, come a Neisu e Bayenga: se non un
libro per bambino, almeno uno per maestro, e libri nella biblioteca, così che i
ragazzi siano stimolati a studiare e conoscere. Durante la guerra era quasi
impossibile avere libri. Adesso che i rapporti con Kinshasa sono riaperti va
meglio, ma rimane il problema del costo. Da Kinshasa arriva tutto per aereo a
costi molto alti e questo rende i libri una merce rara e costosa.

Questo era ed è lo stato della scuola. Meglio non
parlare della sanità.

Evangelizzazione e/o sviluppo

Nel Nord del Congo abbiamo ancora quindici missionari in
quattro comunità (Isiro, Bayenga, Neisu e Somana). Anche se la situazione
sociale e politica è molto complicata e gran parte delle nostre energie sono
assorbite nell’affrontare problemi materiali, il centro della nostra azione
rimane l’annuncio del Vangelo. Costruire una scuola, mettere a posto un ponte,
una fontana, una strada sono tutte attività che si fanno insieme alle comunità
di base, al villaggio che si riunisce anzitutto nella chiesa, nella preghiera,
nella messa. L’impegno per migliorare la vita trova la sua radice dall’annuncio
del Vangelo. La nostra presenza è valida. Non siamo semplici operatori di una
Ong. Avessimo più personale… I vescovi ci chiedono di aprire altre missioni in
zone dove non ci sono ancora preti, ma non abbiamo personale. Mancano
missionari che vengano in Congo. È un problema. A dispetto delle difficoltà
economiche e strutturali, lo scopo della nostra presenza è essere in mezzo alla
gente, annunciare il Vangelo, celebrare l’eucarestia, far crescere le comunità
pian piano: questo è il nostro mandato, il nostro essere missionari.

Chiesa è
speranza

Una delle realtà belle di questi anni è stata la
crescita della Chiesa congolese, che – come laici, preti, suore, vescovo – è
stata davvero un’ancora di speranza per il nostro popolo. E continua a esserlo,
una chiesa impegnata nella società civile. Là dove c’è la Chiesa c’è ancora una
speranza.

Quando siamo arrivati nel ’72 non c’erano molti
sacerdoti locali. Adesso tutte le diocesi hanno i loro sacerdoti, e ci sono i
catechisti e le piccole comunità di base. Però è così esteso questo nostro
Congo, che ha ancora bisogno di missionari che collaborino con la chiesa
locale. Di fatto non facciamo più tutto noi da soli come un tempo. Oggi si
collabora strettamente col clero locale, coi vescovi, i catechisti, i laici.
Per questo la formazione dei laici è una delle nostre priorità.

Si pensi solo a un fatto. Quando ci sono state le prime
elezioni democratiche, chi era che arrivava nei paesini a spiegare perché e
come votare? Erano i nostri animatori di base, i nostri cristiani. Le comunità
di base, i catechisti, gli animatori sono la nostra forza. Ma anche le nostre
diocesi sono una forza che dà speranza alla nostra gente. Guai se non ci fosse
la Chiesa. Nonostante le difficoltà, malgrado le deficienze. Però il fatto che
i cristiani siano lì, che i sacerdoti siano lì, che i religiosi siano lì e noi
missionari della Consolata siamo ancora lì, è un segno della presenza del
Signore tra tanta miseria.

Quale futuro

Noi speriamo in un futuro. Il
problema è questa guerra che non finisce mai. Penso solo alla diocesi di Dungu:
c’è stata la presenza dell’Lra, ribelli che venivano dall’Uganda. Adesso non so
quanti gruppi di ribelli ci sono. Ogni tanto ne nasce uno nuovo. Per dominare e
sfruttare. Non hanno interesse per il popolo. Vogliono dominare e avere soldi.
Spesso sono militari mal pagati nell’esercito che disertano con le armi in
mano, diventano ribelli di un gruppo con un capo forte che controlla la
situazione. Ma sono più organizzazioni di ladri e banditi che gruppi politici.
Rubano i minerali (oro, diamanti, coltan) ma anche i raccolti della nostra
gente. E causano migliaia e migliaia di sfollati. Basta ricordare quel che
succede a Goma e Bukavu.

Noi, a Isiro, siamo abbastanza tranquilli. Abbiamo avuto
un po’ paura prima di Pasqua del 2013 perché abbiamo sentito che un gruppo di
ribelli era a circa 200 km, ma poi non sono arrivati. Purtroppo quando arrivano
è dura: applicano tasse, spillano soldi, controllano il commercio,
saccheggiano. Nelle zone di Isiro ci sono delle aree di diamanti e oro. I
nostri giovani, attratti da questo, abbandonano le loro case, il loro lavoro in
campagna e la scuola e vanno in quelle aree, ma non è che tornino poi con dei
soldi, perché chi guadagna non è il povero Cristo, il giovane o ragazzo che va
nelle gallerie o nell’acqua a scavare, sono solo i capi che incamerano tutto.

Il futuro della nostra zona non è nei minerali. Se
vogliamo dar futuro al Nordest del Congo occorrono strade per dare sbocco ai
prodotti agricoli, ché il terreno è fertile. Poi, avendo coltivazioni,
potrebebro anche venire delle fabbriche che diano lavoro… nel futuro. Si
coltiva riso, fagioli, banane, arachidi, olio di palma. Caffè e cotone
purtroppo sono stati completamente abbandonati per la solita cronica mancanza
di strade che ne impedisce il commercio. Una volta c’erano fiorenti piantagioni
di caffè, ora è un degrado completo, a cominciare ancora dai tempi di Mobutu,
quando ha voluto nazionalizzate tutto, comprese le piantagioni di caffè e di
olio di palma.

Avessero ascoltato anche solo il 50%

La Chiesa, come conferenza
episcopale, si raduna due o tre volte l’anno e prende sempre posizione sui
problemi del paese. Quante volte la Chiesa ha parlato contro questa guerra che
vuol balcanizzare il Congo, che è una guerra d’interessi contrapposti
maneggiati da fuori. Anche nel 2012 ad agosto si era fatta una grande
manifestazione in tutta la nazione contro la guerra che è scoppiata con l’M23
che intendeva separare le zone ricche, dividendo il paese.

La Chiesa si fa sentire a tutti i
livelli e con forza. Se i governanti avessero ascoltato anche solo il 50% di
quello che è scritto nei documenti della Chiesa! Perché se c’è una forza locale
che sa leggere la situazione dal punto di vista economico, sociale e politico,
questa è la Chiesa. Dal ’91 la Chiesa ha sempre denunciato questa situazione.
Ma chi l’ascolta?

Il jolly, missionario tappabuchi

Dall’agosto 2008 allo stesso mese del 2011 mi han
chiesto di fare il superiore di tutte le comunità, risiedevo a Kinshasa, ma ero
sempre in movimento anche per seguire il nostro gruppo di Isiro. Finito il mio
compito, ho passato tre anni, fino all’agosto 2013, a fare il tappabuchi.
Avendo esperienza sia del Nord che dell’Est, mi hanno fatto fare il jolly: ho
sostituito i confratelli che andavano in vacanza o avevano problemi di salute a
Kinshasa e a Isiro. Ultimamente ero a Somana, un quartiere popolosissimo di
Isiro che presto sarà parrocchia. È una comunità di periferia con qualche
cappella in piena campagna e nella foresta. Il mio lavoro è stato il solito:
scuola, salute, giovani e in più anche quello degli anziani.

Sì, questa degli anziani è una cosa che devo dire.
Quando studiavo da giovane missionario mi insegnavano che l’anziano africano è
rispettato e riverito. Purtroppo non è più così. Abbiamo tanti, tanti anziani
(a 60 anni sei già vecchio in Africa) che sono abbandonati da tutti, non nei
villaggi dove la vita tradizionale tiene ancora, ma nelle periferie dellà città.
Kinshasa è enorme, ma anche Isiro ha oltre duecentomila abitanti. Ci sono figli
che abbandonano i genitori anziani o li accusano di malocchio e stregoneria, e
questi sono costretti a vivere da soli, senza risorse. Non solo i bambini sono
accusati di stregoneria, ma anche gli anziani. E quindi sono abbandonati. E
quando li incontri, vedi il dolore di questi padri, di queste madri che hanno
allevato cinque o sei figli e si ritrovano lasciati a se stessi in solitudine.

Un missionario contento

Io sono contento di essere missionario in Congo, ormai
sono vent’anni. Rifarei tutto. E ho un sogno: che i nostri ragazzi possano
crescere, andare a una scuola normale, che i padri di famiglia possano lavorare
e possano avere una vita dignitosa. Non chiedo grandi cose: desidero solo la
normalità che invece non c’è. Il sogno che questo paese, così ricco in umanità,
in agricoltura, in foreste, in minerali sia della sua gente, sia un paese dove
si possa lavorare, avere una vita degna, umana. Invece si soffre. Siamo sotto
la soglia del livello di povertà, uno degli ultimi paesi nella graduatoria
mondiale. Eppure è un paese che potrebbe far vivere bene tutti e dae anche
agli altri, con tutte le ricchezze che ci sono. Ho il sogno della quotidianità
più normale dove la nostra gente possa lavorare, guadagnare, vivere con le cose
fondamentali: salute, acqua, lavoro, libertà, mezzi di comunicazione e
trasporto, strade. La quotidianità della pace.

Ai lettori di Missioni Consolata

Leggete Missioni Consolata perché è una porta aperta sul
mondo che ci fa sentire più universali. Il leggere cosa capita nel mondo aiuta
il cristiano italiano a essere più cristiano qui in Italia. Essere cristiani e
aiutare i missionari non è solo mandare dei soldi o pregare per noi, il che è
molto bello e di cui vi ringrazio, ma anche impegnarsi ad accogliere, a
conoscere, a salutare, a non aver paura dello straniero. Accogliere colui che
viene. Perché i nostri fratelli che vengono dall’Africa, dall’Asia o
dall’America Latina, eccetto qualcuno che viene per turismo o opportunismo, per
la gran parte arriva seguendo il sogno di una vita dignitosa. Io capisco i
giovani del Congo che scappano. Pensano di avere in Italia o in Europa un
futuro.

Ai giovani lettori di MC dico
siate contenti di essere lettori di MC e sappiate che l’annuncio del Vangelo
richiede ancora dei giovani capaci di dare tutto. Noi lavoriamo con dei laici,
ed è bellissimo, però abbiamo ancora bisogno di gente capace di lasciare tutto
per il Vangelo. Abbiamo ancora bisogno dei missionari e di missionari della
Consolata con cuore grande che sappiano amare in questo mondo pieno di miseria,
guerre e divisioni, e credere che il bene è sempre più grande. Sono convinto
che anche in Congo, malgrado la situazione, faccia più rumore un albero che
cade, le nostre guerre e la nostra sofferenza, che i mille alberi che stanno
crescendo.

Epilogo

Dopo questa lunga chiacchierata che risale al maggio
2013, padre Rinaldo Do è rientrato in Congo. Dopo alcuni mesi passati come
viceparroco nella parrocchia Mater Dei di Mont Ngafula a Kinshasa, dal marzo
2014 è parroco di Neisu, nel Nordest, dove c’è il grande ospedale fondato da
padre Oscar Goapper, che là è sepolto.

___________________________

MC ha pubblicato molto
sul Rd Congo. Leggendo questo articolo su www.rivistamissioniconsolata.it
trovate i collegamenti a molti degli articoli pubblicati dal 2000 in avanti.
Eccone alcuni:

E sul muro una scatola vuota
A scuola con una bottiglia d’olio
NEISU (CONGO, RD): QUASI UN DIARIO «IO SONO LUCA»
CONGO – L’amore grande di Anghele
CONGO – Dopo cena, sotto la “pailotte” e altrove
CONGO, RD – Con le mani nel fango
BAYENGA (R.D. CONGO): storia di ordinaria insicurezza
NEISU (R.D. Congo): emozioni di un viaggio attesa
NEISU (R.D. Congo): storica assemblea su una questione
scottante
Futuro… in costruzione
Piccoli uomini, grandi inquietudini
Congo-Rwanda: guerra infinita
Scomparsi due milioni di voti
Voci dal Congo

Il folle dell’Africa centrale
Nel cuore dell’Africa

Tags: Rd Congo, missionari, evangelizzazione, vita missionaria, guerra,
instabilità, decolonizzazione, Kabila, Doruma, povertà, rifugiati, Chiesa, scuola, educazione, riconciliazione, pace

Rinaldo do e Gigi Anataloni




Solo la «Parola» (Do/Rd Congo 3)

Al Centro dell’Africa:


Nel
1998 il desiderio di andare nelle più difficili missioni dell’Alto Uele, su al
Nord, ai confini con Uganda, Sudan e Centrafrica, si realizza. Oltre ogni
aspettativa.

Nel
’98 finalmente mi hanno mandato al Nord, nel centro dell’Africa. Mi è piaciuto
moltissimo. Sono andato a Doruma, vicino al Sudan (vedi MC 4/2014, pag. 57).
Doruma è stata la nostra prima missione nel 1972, insieme a Wamba. Era sede di
diocesi, ma poi, per ragioni di sicurezza e di maggior facilità di
comunicazione, il vescovo ha spostato la sua sede a Dungu. Era una parrocchia
con 75 cappelle disseminate nella foresta, in mezzo agli Azande, un popolo
sparso in tre stati – Centrafrica, Sudan e Congo – dalle spartizioni coloniali
del tempo del congresso di Berlino, quando le potenze hanno diviso l’Africa
senza tener conto dei popoli che ci vivevano.

Mi trovavo finalmente nella missione che avevo sempre
sognato: nella foresta, lontano da tutto, dedito solo ad annunciare il Vangelo.
Invece… in quello stesso anno gli eserciti stranieri che avevano aiutato
Kabila ad arrivare al potere, quando hanno visto che non c’era stata né la
ripartizione di potere né la ricompensa economica che si aspettavano, hanno
ripreso la guerra. Una cosa sporca, in cui erano coinvolte diverse nazioni
africane e, ovviamente, i grandi poteri economici. Kabila ha avuto la meglio.
Ritirandosi verso le loro basi, i militari della Spla (Sudan People
Liberation Army
), ex alleati di Kabila, si sono rifatti saccheggiando anche
tutte le missioni che hanno trovato sulla loro strada.

La foresta, la bicicletta e la Parola

Quando hanno assalito Doruma, non ce lo aspettavamo. Poi
approfittando della loro disattenzione, siamo scappati in foresta con l’aiuto
dei nostri cristiani. Nella giungla, malgrado la paura, siamo stati abbastanza
tranquilli perché i catechisti e giovani vigilavano sulla nostra capanna, una
di quelle che loro usano quando vanno a coltivare nella foresta. Ci siamo stati
un mese. A 7-8 chilometri erano nascoste le suore (agostiniane) che si erano
organizzate meglio di noi uomini e ci hanno mandato dei materassi.

È stata un’esperienza molto bella. Non avevamo niente
perché abbiamo dovuto scappare in fretta e furia. Avevo un paio di ciabatte, i
vestiti che indossavo e la veste bianca che mi ero messo la mattina quando i
sudanesi erano arrivati e mi avevano obbligato ad andare a recuperare nella
foresta dei fusti di benzina che avevamo nascosto. Mi ero messo la veste per
suscitare in loro un po’ di timor di Dio. Anzi, nel tragitto, quando ho
scoperto che erano cattolici, li ho fatti pregare. Ma non è servito a niente,
perché se la preghiera non nasce dal cuore sono solo parole vuote. Infatti poi
hanno saccheggiato e distrutto tutto, portando via ogni cosa. E volevano
portare via anche noi. La gente locale era scappata, ma i guerriglieri hanno
preso i rifugiati sudanesi e, dopo aver bruciato i due campi delle Nazioni
Unite, li hanno forzati a portare il bottino e a rientrare in Sudan. Giunti
alla frontiera hanno obbligato i giovani ad arruolarsi nelle loro file.

Noi siamo ritornati in missione solo dopo un mese. Era
la festa di Tutti i Santi, una domenica. Sono arrivato dalla foresta, nessuno
sapeva del nostro ritorno eccetto qualche catechista. Il paese portava i segni
evidenti del saccheggio fatto dai «fratelli» sudanesi, appartenenti alla stessa
tribù. Ho celebrato la messa. È stata una messa lunga. E ho pianto nel vedere
la gente che, avendo sentito la campana, era venuta fuori dai rifugi nella
foresta e nei campi per riprendere una vita normale.

L’esperienza più bella in quei giorni è stata quella di
girare in bicicletta per visitare le oltre settanta cappelle. Prima, con la
macchina, viaggiavamo sempre con quadei, medicine e merce varia da dare o da
vendere nei villaggi. No, non eravamo commercianti e neppure approfittavamo
della miseria della gente, ma avendo una catena di rifoimento organizzata dai
nostri confratelli di Isiro, riuscivano a procurare provvigioni essenziali
altrimenti introvabili.

Mi sono sentito prete davvero perché con la bicicletta
giravo solo con la Parola di Dio, il pane e il vino per l’eucarestia (si erano
salvati perché i sudanesi non avevano saccheggiato la chiesa), e la gente era
contenta di accogliermi. Mi fermavo due o tre giorni in un villaggio, vivevo in
mezzo a loro, mangiavo come loro, condividevo la loro insicurezza e la gente mi
vedeva proprio per quello che noi dovremmo sempre davvero essere: uomini di
Dio. Non avevo niente, eppure portavo quel che davvero conta: speranza in mezzo
a tanta desolazione, vicinanza a chi è abbandonato da tutti e dimenticato. La
consapevolezza che la Chiesa è lì, con loro. Questo è importante.

Abbiamo ricominciato. Ma a febbraio del ’99 sono tornati
a saccheggiare. La nostra vita là era diventata troppo rischiosa. Bastava che
qualcuno ci facesse avere qualche rifoimento, che un mezzo qualsiasi
arrivasse da Isiro, che subito eravamo assaliti. Così, d’accordo col vescovo,
abbiamo consegnato quella missione alla diocesi e ce ne siamo andati per
sempre, dopo quasi trent’anni di presenza.

Povertà,
forza della missione

Certo quell’esperienza mi ha fatto riflettere. Per una
volta non ero il missionario bianco pieno di soldi cui si può chiedere tutto.
Ero solo un missionario, uomo di Dio, e basta. Probabilmente questa situazione,
unita alla crisi internazionale, fa bene alla missione. In più, le nostre
comunità missionarie sono diventate inteazionali, multietniche e
multiculturali, e i nostri cristiani del Congo vedono che abbiamo già
sacerdoti, fratelli e seminaristi africani e quindi pian piano si sta
abbandonando l’idea che il missionario è solo il bianco e  che essere bianco significa avere potere e
soldi. I nostri cristiani stanno cominciando a capire che devono aiutare i
sacerdoti e prendersi carico di loro. È vero, noi missionari dobbiamo
ringraziare i benefattori e l’istituto, che non ci abbandonano mai. Però il
fatto di non avere più la disponibilità economica di un tempo, aiuta anche la
gente a capire e a crescere nella propria responsabilità.

Certo va anche detto che molti dei progetti di sviluppo
che la Chiesa ha fatto in Congo, li ha dovuti fare perché lo stato era assente,
perché se ci fosse uno stato che fa scuole, ospedali, centri di salute, non ci
fossero ribellioni, ci fosse una vita normale, chiaramente come missionari
saremmo più dedicati alla Parola di Dio, alla comunità, alla formazione, alla
pastorale diretta. Invece il missionario ancora oggi, almeno qui in Congo, deve
continuare a pensare alla scuola, all’ospedale, al pozzo, all’acqua, alla
strada, al ponte perché le autorità locali non si muovono.

Missione e soldi, che fatica

A volte provo frustrazione al pensiero di essere
prigioniero di un meccanismo perverso di «missione – povertà – soldi», di «missionario
– soldi e soluzione a tutti i problemi». Tante volte è difficile far capire
alla nostra gente che se siamo lì insieme dobbiamo camminare insieme, senza
delegare tutto al missionario, restando degli eterni bambini. Però,
onestamente, ci sono delle situazioni di fronte alle quali non puoi stare con
le mani in mano. Per esempio, i nostri giovani che devono andare all’università,
alle volte mancano loro quei 200 o 300 dollari per finire di pagare le tasse;
oppure per l’ospedale: quando non hanno i soldi per pagare le cure e le
medicine e non c’è alcuna assistenza sanitaria, che fai? Li lasci morire così?

Tutti sanno che il Congo è ricchissimo e potrebbe essere
una nazione prospera. Ma tutti rubano; a tutti fa comodo un paese fuori
controllo. Basta guardare la situazione dei Grandi Laghi (*). Chi approfitta
del caos per rapinare le risorse? E così noi missionari continuiamo a chiedere
alla nostra Chiesa d’Europa di aiutarci per portare avanti tanti programmi di
pastorale, educazione, sanità e sviluppo. Veramente ho un po’ di rabbia e di
vergogna nel cuore. Però devo accettare anche questo, perché so bene che quel
che sto chiedendo non è per me, è per la nostra gente, è per aiutare i nostri
giovani che vogliono uscire dall’ignoranza, dalla dipendenza, dalla spirale
della violenza e della povertà per essere, un giorno, responsabili della loro
vita e del loro paese, il Congo.

 (*) A questo proposito è
sempre valido il numero monografico di MC, «Le mani sul Congo»,
pubblicato nell’ottobre-novembre 2004.

tags: Rd Congo, guerra, decolonizzazione, Kabila, violenze, massacri, Spla, profughi, saccheggi, missione, povertà, annuncio

Rinaldo do e Gigi Anataloni




Da Zaire a RD Congo  Cronostoria (Do/Rd Congo 2)

1960, 30 giugno. La colonia Congo Belga diventa Congo, nazione
indipendente. Ne è presidente Kasavubu, primo ministro Patrice Lumumba e capo
di stato maggiore Joseph Désiré Mobutu. L’11 luglio Moise Tshombe dichiara la
secessione del Katanga.

1961, 18 gennaio. Assassinio di Lumumba. Due anni dopo, le forze delle
Nazioni Unite sconfiggono i secessionisti della ricca regione del Katanga, che
si chiamerà Shaba.

1964, gennaio. I guerrieri simba di Mulele occupano il Nordest
del paese; fra i militanti c’è Laurent Désiré Kabila. Ma l’avventura fallisce:
Mulele è fucilato e Kabila fugge.

1966, 6 gennaio. Deposto con un golpe Kasavubu, Mobutu assume pieni
poteri, e nel 1967 instaura un regime a partito unico (Movimento popolare
rivoluzionario). Il 30 ottobre 1970 Mobutu, unico candidato in lizza, diventa
presidente.

1971, 21 ottobre. Il Congo diventa Zaire. Sull’onda dell’«autenticità»,
Mobutu rinnega il proprio nome cristiano, sostituendolo con Sese Seko.

1975-1990. Tempo di corruzione, mentre il presidente dittatore si
arricchisce. Sono pure anni di guerra e repressione: nel 1977 scoppia il
conflitto dello Shaba, nel quale intervengono Francia e Marocco; nel 1978 un massacro
di europei nello Shaba richiama i parà francesi; l’11 maggio 1990 a Lubumbashi
cadono decine di universitari.

1991, 7 agosto. Mobutu, costretto al multipartitismo, subisce la
Conferenza nazionale, presieduta dal vescovo Laurent Monsengwo, deputata a
scrivere una nuova Costituzione. Il 2 ottobre Etienne Tshisekedi, capo
dell’opposizione, è primo ministro; il giorno 10 viene destituito. Belgi e
francesi, vista la resistenza di Mobutu alla democrazia, interrompono (a
parole) la cooperazione militare e civile.

1992, 15 agosto. La Conferenza nazionale nomina Tshisekedi primo ministro
di un governo unitario «ombra». Il 6 dicembre nasce il Consiglio della
repubblica, sempre per redigere la Costituzione; lo presiede mons. Monsengwo.

1993-95.
Saccheggi di militari non pagati, diatribe fra Mobutu e Tshisekedi. È disastro
economico. La gente ha esaurito ogni sopportazione. Intanto, nel luglio 1994,
circa due milioni di profughi rwandesi si accampano nello Zaire.

>  1996, Febbraio. Poiché lo Zaire è allo sfascio, il «leopardo» (Mobutu) è
costretto a promettere libere elezioni. Ma in ottobre l’Alleanza delle forze
democratiche, capitanate da Kabila e sostenute da Rwanda, Burundi, Uganda,
Stati Uniti e da mercenari vari, inizia da Uvira la conquista militare della
nazione. Sono i Banyamulenge, ossia Tutsi del Rwanda e del Burundi
presenti nel paese da due secoli.

1997, 6 gennaio. Mobutu sfida i ribelli: l’integrità territoriale del
paese non si discute. Però i soldati di Kabila avanzano, trovando scarsa
resistenza nelle Forze armate zairesi di Mobutu. Contemporaneamente circa 300
mila profughi hutu ritornano in Rwanda fra indicibili sofferenze.
17 maggio. Dopo aver percorso a piedi centinaia di chilometri, le
truppe dell’Alleanza entrano vittoriose a Kinshasa. Kabila si autoproclama capo
dello stato. Dallo Zaire si passa alla Repubblica democratica del Congo.
Vietate le attività dei partiti.
16 giugno.
Organismi umanitari sostengono che i soldati di Kabila, durante la conquista
del paese, abbiano sistematicamente massacrato numerosi profughi rwandesi.
7 settembre. Mobutu,
con un cancro alla prostata, muore in Marocco: lascia ai famigliari
(all’estero) un’eredità di 6 miliardi di dollari. Ha tenuto in pugno lo Zaire
per 32 anni, indebitandolo per 14 miliardi di dollari. Kabila sarà migliore?

1998, 27 luglio. Kabila, dopo aver ringraziato Uganda e Rwanda, li invita
a lasciare il paese. Ma gli ex alleati dichiarano la seconda guerra in Congo
(la prima fu contro Mobutu). Kabila resiste, sostenuto da Zimbabwe, Angola e
Namibia. I paesi stranieri, presenti in Congo, mirano alle sue risorse agricole
e minerarie.

1999, luglio. A Lusaka (Zambia) le parti coinvolte nel conflitto in
Congo firmano un accordo di pace che prevede: ritiro delle truppe straniere dal
paese, rispetto della sua integrità nazionale, instaurazione della democrazia.
Il «cessate il fuoco» non regge. Intanto gli Stati Uniti simpatizzano per
l’Uganda e il Rwanda (che però si combattono), mentre la Francia ammicca a
Kabila. Gruppi di ribelli congolesi fanno sapere che, se il paese verrà diviso
(come si dice), sceglieranno la strada della guerriglia.

2000, 14 aprile. Ancora un «cessate il fuoco»,
firmato a Kampala (Uganda) da tutti i contendenti. Però il 5 maggio, alla
periferia di Kisangani, soldati rwandesi e ugandesi si danno battaglia. I
combattimenti proseguono nelle settimane successive; viene colpita anche la
cattedrale: mille morti, migliaia di feriti e numerosi abitanti senza tetto in
balia della fame e delle epidemie.
17 giugno. Il
Consiglio di sicurezza dell’Onu intima l’ennesimo «stop» ai due belligeranti e
il ritiro di tutte le forze. Ma l’anarchia politico-militare continua.

2001, gennaio. Il presidente Laurent-Désiré Kabila, 62 anni, è
assassinato da una delle sue guardie del corpo (secondo la versione ufficiale).
Dieci giorni dopo, Joseph Kabila, non ancora trentenne, succede al padre. Febbraio:
Joseph Kabila incontra il presidente rwandese Paul Kagame a Washington (Uganda,
Rwanda e le forze ribelli accettano di ritirare le loro truppe dalla linea del
fronte). Maggio: l’agenzia Onu per i rifugiati dice che la guerra, dal
1998, ha ucciso 2,5 milioni di persone. Ottobre: inizia ad Addis Abeba
(Etiopia) il dialogo intercongolese; l’Onu dispiega i primi caschi blu (Monuc).

2002, gennaio. Un’eruzione del vulcano Nyiaragono devasta gran parte
della città di Goma (nell’Est del paese). Dopo due pre-accordi, nei colloqui di
pace in Sudafrica (aprile e luglio) si stabilisce che gli eserciti di Rwanda e
Uganda si ritirino dal territorio congolese; si decide anche il disimpegno
delle truppe di Zimbabwe e Angola. Settembre-ottobre: Uganda e Rwanda
dichiarano di aver ritirato gran parte delle loro truppe dal paese. Dicembre:
a Pretoria è firmato un accordo globale e inclusivo, che prevede due anni di
transizione alla democrazia e, alla fine, elezioni presidenziali e legislative.
Continuano i combattimenti nella regione di Uvira tra i guerriglieri Mayi-Mayi
e le truppe ruandesi. La Monuc schiera 8.700 caschi blu.

2003, aprile. Prende il via il processo di transizione con governo
(presieduto da Kabila con 4 vicepresidenti) e parlamento; è creato un Comitato
internazionale di accompagnamento alla transizione (Ciat); inizia il processo
di disarmo, smobilitazione e reinserimento nella vita dei combattenti (i morti
della guerra sono saliti a oltre 3 milioni, in gran parte civili). Maggio:
le ultime truppe ugandesi lasciano il Congo. Luglio: gli effettivi della
Monuc sono 10.800; i leader dei principali ex gruppi ribelli giurano come
vicepresidenti del paese. Agosto: inaugurato il parlamento ad interim. Fine
anno
: i donatori inteazionali, riuniti a Parigi, promettono 3,9 miliardi
di dollari per la ricostruzione.

2004, gennaio-giugno. Inizia la formazione della prima brigata dell’esercito
nazionale integrato. Marzo: fallisce un colpo di stato attribuito a
mobutisti. Giugno: uomini della guardia presidenziale tentano di
rovesciare Kabila; militari Banyamulenge, con il supporto di truppe di
Laurent Nkunda (generale tutsi congolese), occupano la città di Bukavu per una
settimana; la Monuc (16.000 uomini) è contestata per non aver saputo difendere
Bukavu; un rapporto Onu afferma che «il Rwanda destabilizza l’Rd Congo», ma
Kigali rigetta l’accusa.

2005, maggio. Il parlamento adotta la nuova Costituzione. Settembre:
l’Uganda afferma che potrebbe rientrare nell’Rd Congo per inseguire i ribelli
dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra), gruppo ribelle guidato da Joseph
Kony. Dicembre: la nuova Costituzione, già approvata dal parlamento,
supera la prova del referendum.

2006, febbraio. La nuova Costituzione entra in vigore; è adottata una
nuova bandiera; decine di migliaia di donne e ragazze vengono stuprate
dall’esercito e dalle milizie. Luglio: dalle elezioni politiche e
presidenziali (le prime libere in 40 anni) non esce alcun chiaro vincitore:
Joseph Kabila e il candidato dell’opposizione Jean-Pierre Bemba si contendono
il secondo tuo a fine ottobre; forze leali ai due candidati si scontrano
nella capitale. Novembre: Kabila è dichiarato vincitore del secondo
tuo. Dicembre: le forze del generale Laurent Nkunda si scontrano con
l’esercito regolare (sostenuto dalle forze dell’Onu) nel Nord Kivu (50mila
persone costrette a fuggire).

2007, marzo. Nuovi scontri a Kinshasa tra truppe governative e
soldati leali a Bemba. Aprile: Rd Congo, Rwanda e Burundi rilanciano la
Comunità economica delle nazioni dei Grandi Laghi (nell’acronimo francese:
Cepgl); Bemba parte per il Portogallo, dopo essersi rifugiato per tre settimane
nell’ambasciata sudafricana; Serge Maheshe, giornalista della Radio Okapi, è
assassinato (è il terzo giornalista ucciso nell’Rd Congo dal 2005). Agosto:
Uganda e Rd Congo dicono di volere allentare le tensioni dovute a una disputa
sui confini; aumenta il numero dei rifugiati e sfollati nel Nord Kivu, a causa
della instabilità dovuta alle operazioni del generale dissidente Nkunda. Settembre:
scoppia un’epidemia di ebola.

2008, gennaio. Il governo e le milizie dei ribelli firmano un patto per
porre fine al conflitto nell’Est del paese. Aprile: scontri tra
l’esercito regolare e le milizie hutu (rwandesi). Agosto: nuovi scontri
tra esercito e soldati di Nkunda. Ottobre: le truppe ribelli catturano
la base di Rumangabo; gli scontri si intensificano; l’avanzare delle forze di
Nkunda crea il caos a Goma; le forze dell’Onu ingaggiano scontri diretti con le
forze ribelli, a sostegno dell’esercito regolare. Novembre: nuovo
attacco dei ribelli di Laurent Nkunda; il Consiglio di sicurezza dell’Onu
approva l’aumento temporaneo delle truppe Monuc. Dicembre: operazione
congiunta di Uganda, Sud Sudan e Rd Congo contro le basi dell’Lra nel Nordest
del paese, centinaia di civili uccisi durante gli scontri.

2009, gennaio. Offensiva congiunta (Rd Congo e Rwanda) contro le forze
di Nkunda; Nkunda è arrestato in Rwanda e rimpiazzato da Bosco Ntaganda. Aprile:
riemergono le milizie hutu nell’Est, causando la fuga di decine di migliaia di
persone. Maggio: Kabila concede l’amnistia ai vari gruppi armati, come
tentativo di terminare la guerra. Giugno: la Corte penale internazionale
cita in tribunale l’ex vicepresidente Jean-Pierre Bemba per crimini di guerra;
ammutinamenti di truppe regolari nell’Est per mancanza di paga. Luglio:
una corte svizzera restituisce i conti bancari (congelati) di Mobutu Sese Seko
alla famiglia. Dicembre: l’Onu estende il mandato della Monuc di 5 mesi.

2010, maggio. Il governo preme per il ritiro delle forze dell’Onu. Giugno:
il Consiglio di sicurezza modifica il mandato della Monuc e, avviando una
riduzione del personale, lo proroga fino al 30 giugno 2011. 30 giugno:
celebrazioni per il 50° anniversario dell’indipendenza. Luglio:
offensiva anti-ribelli dell’esercito nel Kivu; creata la nuova commissione
elettorale per preparare le elezioni del 2011; «Operazione Rwenzori» contro i
ribelli filo-ugandesi nel Nord Kivu. Novembre: stupri sistematici
durante le espulsioni in massa di immigrati illegali dall’Angola verso l’Rd
Congo; l’ex vicepresidente dell’Rd Congo, Jean-Pierre Bemba è condotto davanti
alla Corte internazionale dell’Aia; il Club di Parigi cancella metà del debito
estero dell’Rd Congo.

2011, gennaio. Viene cambiata la costituzione. Febbraio: una
corte condanna il colonnello Kibibi Mutware a 20 anni di carcere per stupri di
massa nelle zone orientali del paese. Maggio: il ribelle hutu Ignace
Murwanashyaka è portato davanti a un tribunale in Germania. Luglio: il
colonnello Nyiragire Kulimushi, accusato di aver ordinato stupri di massa
nell’Est del paese, si consegna alle autorità. Settembre: il leader
delle milizie Mai Mai, Gideon Muanga, fugge dalla prigione con 1.000 detenuti. Novembre:
elezioni presidenziali, Kabila ottiene un nuovo mandato.

2012, maggio. Le Nazioni Unite accusano il Rwanda di addestrare
ribelli nell’Est dell’Rd Congo. Luglio: il «signore della guerra» Thomas
Lubanga è condannato dalla Corte penale internazionale. Ottobre: il
Consiglio di sicurezza dell’Onu annuncia l’intenzione di imporre sanzioni
contro i leader del Movimento ribelle 23 Marzo (M23) e contro i violatori
dell’embargo delle armi contro l’Rd Congo; una commissione Onu rivela che
Rwanda e Uganda foiscono l’M23 di armi e supporto logistico.

>  2013, febbraio. In Etiopia firmato un accordo per porre fine al
conflitto nell’Rd Congo; il gruppo ribelle M23 dichiara il cessate il fuoco
alla vigilia dell’accordo. Marzo: il supposto fondatore di M23, Bosco
Ntaganda, si arrende all’ambasciata rwandese ed è trasferito alla Corte penale
internazionale dell’Aia. Agosto: le forze dell’Onu liberano 82 bambini
soldato, arruolati a forza dalla milizia Mai-Mai Bakata-Katanga; intensi
scontri armati tra l’esercito e le milizie del M23. Settembre: oltre 550
bambini lasciano le file dei gruppi armati in Katanga, liberati dalle forze
dell’Onu.

(fonte: MC e
Nigrizia)

 
 
 
tags: Rd Congo, guerra, instabilità, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu, M23, Rwanda, Uganda, Lumumba
 
 
 
 
RD Congo

Superficie:
2.345.409 kmq. Capitale: Kinshasa.
Abitanti
: 72
milioni.
Speranza di vita
:
52 anni.
Adulti alfabetizzati
:
67%.
Crescita demografica
:
3%.
Lingua
: francese
(ufficiale); inoltre: swahili, lingala, chiluba, kikongo.
Ordinamento dello
stato
: repubblica semipresidenziale con Joseph Kabila presidente, al
secondo mandato (novembre 2011).

Risorse economiche:
ingenti sia nel settore agricolo (mais, manioca, patate, arachidi, riso, caffè,
ecc.) sia in quello minerario (rame, stagno, petrolio, argento, diamanti,
ecc.). Ma le infrastrutture (specie le strade) sono quasi tutte in stato di
collasso. Cospicue risorse sono sfruttate da compagnie straniere: Lonrho,
Anglo-American e De Beers (sudafricane), Cluff Resources (inglese), American
Mineral Fields (statunitense), Barrick Gold e Lundin Group (canadesi), ecc.

Religione:
cattolici 48%, protestanti 29%. Seguono le religioni tradizionali e l’islam
(1,4%).

Tags: Rd Congo, guerra, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu, Uganda, Rwanda, Lumumba, M23, sfruttamento minerario, violenze, massacri

MC e Nigrizia




E fu subito insicurezza (Do/Rd Congo 1)

Scegliere l’Africa e ritrovarsi in Congo


Lasciata la Spagna dove faceva una tranquilla vita da animatore
missionario, nel 1991 padre Rinaldo Do arriva a Kinshasa, la capitale dello
Zaire, futura Repubblica Democratica del Congo (Congo RD). Mobutu è ancora al
potere. Sono tempi turbolenti di violenze, disordini e saccheggi. Un
eccezionale battesimo alla vita missionaria. In questa lunga chiacchierata
padre Rinaldo ci rende partecipi di oltre venti anni di emozioni, fatiche,
giornie e speranza. Un’avventura che non è ancora finita.

Era
il 1986 quando sono andato in Congo per la prima volta. Si chiamava ancora
Zaire. È stato un contentino. Ero animatore missionario in Spagna, e mi hanno
permesso di fare un viaggio di tre mesi, per caricarmi.

Ho due ricordi di quel viaggio. Uno negativo: mi ero
messo a fare fotografie nell’aeroporto di Kinshasa dove era proibitissimo.
Quasi mi facevo cacciare ancora prima di entrare! L’altro ricordo è invece
bellissimo: la gioia, la festa delle messe, i canti e le danze, gli incontri
con i confratelli, lo splendido lavoro che stavano facendo a Doruma e a Wamba,
il cantiere per la costruzione della parrocchia di San Mukasa a Kinshasa. Il
Congo mi aveva preso il cuore.

Ma la vera partenza è stata nel 1991. Nell’86 avevo
visitato le missioni. Avevo avuto la possibilità di conoscere un po’ un paese
di missione, una Chiesa giovane. Poi finalmente nel 1991 mi hanno lasciato
partire. Avevo chiesto «Africa» in generale e mi hanno mandato proprio in Zaire
dove mi hanno accolto veramente bene.

Gli anni di Kinshasa

Sono arrivato con l’idea di andare
verso il Nord Est, in mezzo alla foresta, là dove i nostri missionari sono più
isolati. Invece il superiore mi ha proposto di diventare viceparroco a
Kinshasa, proprio nella parrocchia di San Mukasa che avevo visto in costruzione
nell’86. è sembrato un sogno
infranto, invece l’obbedienza si è rivelata una benedizione. Fino allora avevo
vissuto un’esperienza di animazione missionaria senza una responsabilità
diretta in una comunità e l’entrare nella pastorale (comunità di base, gruppi,
giovani, catechesi, scuole…) mi è servito molto. Kinshasa è una diocesi ben
organizzata, dove la presenza dei laici è veramente l’anima della Chiesa. La
forza della nostra enorme parrocchia (che qualche anno dopo è stata consegnata
alla diocesi) erano i laici e padre Santino Zanchetta, che era il parroco,
lavorava molto bene. Sono rimasto là dal ’91 al ’98.

San Mukasa è in un quartiere di
periferia della grande città di Kinshasa che ha oltre dieci milioni di
abitanti. Il quartiere non aveva strade vere e proprie e quella che conduceva
alla parrocchia era orribile, soprattutto durante le piogge. Spesso, come
comunità cristiana, abbiamo cercato di ripararla. Oltre la strada mancavano
l’elettricità, l’acqua potabile, le scuole e i servizi medici e sanitari. La
zona, però, non era il classico slum o bidonville, con case poste
una sull’altra, senza verde e senza ordine. Era una tipica zona di periferia,
con tanto verde, dove ogni famiglia aveva la sua «parcel», un pezzo di terreno
regolarmente assegnato, con la sua casetta. Case e non baracche, frutto del
boom degli anni ’70. Però molte erano incompiute o semi abbandonate perché poi
era arrivata la crisi. La dittatura di Mobutu era in declino e nel ’91, quando
sono arrivato, c’era stata una Conferenza nazionale per cercare di fare una
revisione di tutti quegli anni e prospettare un cammino di democrazia per il
paese.


Tra paura e saccheggi

È stato un periodo duro e turbolento, di saccheggi e
ladri in casa. Ci han preso la macchina e siamo stati fortunati a recuperarla,
dato che per noi era essenziale. La gente faceva la fame perché c’era poco
lavoro, e quello che c’era era poco remunerato. Migliaia erano i disoccupati.
In parrocchia, con l’aiuto di un organismo della Comunità europea, avevamo
trovato un canale per comprare mais e arachidi da rivendere a un prezzo
accessibile e nello stesso tempo sufficiente per darci un piccolo guadagno da
usare in aiuto ai più poveri delle varie comunità di base. La macchina ci
permetteva di rifoirci di cibo, di andare a cercare medicine, di fare tanti
servizi importanti per tutti. Per ben due volte siamo stati attaccati in casa
da gente armata, forse militari, forse no, pericolosi comunque. Grazie a Dio è
andata sempre bene. Tanta paura, certo…

Questo è stato il mio battesimo alla vita missionaria.
Sono arrivato a giugno del ’91 e a settembre c’è stato il grande saccheggio di
Kinshasa che ha lasciato la città in rovina. Non è stato un colpo di stato. A
proposito ci sono diverse teorie. Una dice che i militari non pagati si sono
rivoltati e hanno cominciato a saccheggiare negozi, fabbriche, banche, case di
ricchi e, dietro i militari, naturalmente, c’era anche il popolino, la gente
affamata. È durato per due o tre giorni. Poi Mobutu ha mandato la sua guardia
presidenziale e tutto è finito, come per dire: «Vedete, se c’è qualcuno che può
tenere calmo e sotto controllo lo Zaire, quello sono io». Un’altra teoria dice
che sia stato lo stesso Mobutu a dire ai militari: «Di soldi per pagarvi non ce
ne sono, trovateveli». Ma cambiando i fattori, il risultato è lo stesso. Ho
visto la città distrutta. I nostri ambasciatori avevano messo a disposizione
gli aerei, e chi voleva poteva andare via. Però noi missionari abbiamo deciso
di rimanere. Abbiamo firmato e siamo rimasti per ben due volte.

Rimanere: una presenza che conta

Mi ricordo che era il ’93 quando c’è
stato il secondo saccheggio. L’ambasciatore italiano mi ha detto: «Perché non
andate in altri paesi dove lo stato vi aiuta, dove se dovete costruire una
scuola vi dà un pezzo di terreno, dove non vi mette delle tasse? Qui non solo
non vi aiutano, ma vi rubano e vi saccheggiano». Io ho risposto: «Guardi, sig.
ambasciatore, se fossimo degli impresari come gli altri stranieri che sono
andati via, lei avrebbe perfettamente ragione, perché non conviene investire in
un paese dove non c’è sicurezza. Ma il fatto è che il nostro Capo (e gli facevo
il segno in su!) non la pensa così». Dove c’è miseria, sofferenza, difficoltà,
guerra, e dove la gente soffre, lì il missionario è presente.

E in quegli anni la nostra presenza
era proprio «solo presenza». Come missionari non avevamo grosse possibilità,
non essendo uno di quegli organismi che possono fare grandi cose perché
ricevono sostanziosi aiuti da governi o dall’Onu. Negli anni della guerra, a
Kinshasa o nel ’98 quando ero a Doruma, quel che contava era la presenza: le
persone vedevano che il missionario, il loro sacerdote, il loro prete era in
mezzo a loro. Il semplice fatto di non essere scappati, di restare con la
gente, dava tanta serenità e coraggio.

Tags: Rd Congo, missionari, evangelizzazione, vita missionaria, guerra, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu

Tre giorni di fuoco

Il 2 agosto 1998 cominciò l’offensiva. La gente del
quartiere era terrorizzata e non sapeva cosa fare. Gli uomini erano fuggiti per
paura di essere presi dai soldati. Donne e bambini, rimasti soli, si
rifugiarono nella nostra casa. Condividemmo quel po’ di riso e quant’altro
rimaneva delle scorte del seminario. Un gesto di solidarietà che è stato
ampiamente ripagato: in seguito la gente ci ha aiutato, soprattutto vigilando
sulla nostra casa, affinché non diventasse oggetto di rapine e saccheggi.

Per tre giorni, tappati in casa, sentivamo le pallottole
fischiare senza interruzione e senza sapere cosa capitasse fuori. Nessuno
fiatava. La notte, poi, senza luce elettrica, tensione e paura diventavano
palpabili. Quando si sparse la notizia
che i soldati di Kabila avrebbero bombardato Mont Ngafula, la gente cominciò a
fuggire all’impazzata verso il fondovalle. Una fiumana di persone scendeva la
collina, ciascuno tirandosi dietro i bambini, una pentola, due stracci, in una
fuga frenetica e disordinata, per arrestarsi di fronte ai blocchi militari.

Ad ogni barriera mi sentivo nell’occhio del ciclone: fui
minacciato e molestato più degli altri. […] A uno di quei blocchi non ricordo
cosa sia successo: mi trovai inginocchiato per terra, con un mitra puntato alla
testa. Un soldato urlava contro i bianchi, colpevoli di avere alloggiato i
ribelli. Col mitra puntato alle tempie, dapprima rimasi muto per l’incredulità;
poi stordito e pieno di paura; infine chiusi gli occhi e mi sentii pervaso da
una grande pace. Non so quanto tempo restai in quella posizione: un minuto o
un’eternità. Ricordo solo che, quando riaprii gli occhi, non vidi più nessuno
attorno a me. Mi alzai di scatto e rincorsi la gente, sentendomi risuscitato.

Rimasi nel fondovalle per tre giorni. Avrei potuto
raggiungere il seminario teologico verso il centro città, ma preferii restare
con la gente, accampata sulla strada, senza acqua né cibo, con i bambini che
piangevano.

I cannoni sparavano contro la collina. […] La
domenica, cessato il bombardamento, sperimentai uno dei momenti più commoventi
della vita. La gente mi circondò per dirmi: «Grazie, padre, perché sei rimasto
con noi» e tante parole piene di amicizia e solidarietà. Poi arrivarono i
confratelli che in quei giorni mi avevano cercato, pieni di apprensione per la
mia sorte. È stato bellissimo riabbracciarsi.

 

Padre Stefano
Camerlengo

(Da MC febbraio 2000, pag.
22-23)

Rinaldo Do e Gigi Anataloni




Dalla Consolata al mondo

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Questa frase è stata molto usata per spiegare la vocazione dei missionari e missionarie della Consolata, il cui Dna viene dal cuore della Madonna, patrona di Torino, sì, ma madre dell’umanità. Va ricordato che il quadro torinese, nascosta sotto la coice, porta la scritta «Sa Maria de Pplo de Urbe», Santa Maria del popolo dell’Urbe, perché copia di quello venerato nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, a sua volta copia di un’altra icona attribuita addirittura a San Luca. I torinesi fecero presto sparire quel «de Urbe», e nel 1714, trecento anni fa, acclamarono Maria Consolatrice come patrona del «popolo di Torino», e cominciarono a chiamarla «Consolà», complice l’affettuosa familiarità del dialetto che aborre nomi lunghi. La Consolata, che non si lascia ingabbiare o privatizzare da nessuno, non volle restare proprietà dei torinesi, e a fine Ottocento cominciò a viaggiare oltre oceano con i molti emigranti piemontesi diretti in Argentina. Ma l’universalizzazione ebbe il suo momento forte quando la Consolata stessa - lo testimonia il beato Allamano - «forzò» la mano al suo «tesoriere» a fondare un istituto, anzi due, totalmente dedicati all’evangelizzazione dei popoli. Da quel giorno la Consolata è diventata irrevocabilmente cittadina del mondo.

La parabola della Madre di Dio venerata sotto il nome di Consolata offre spunti forti al nostro essere cristiani oggi. Certo, Maria, la madre di Gesù, è cittadina del mondo anche senza essere «la Consolata». Però quel nome «Consolata» ha in sè una intrinseca forza missionaria. La Madre di Dio è anima della missione  fin dal giorno di Pentecoste e non può essere consolata se non da chi diventa «consolatore»: costruendo la famiglia di Gesù, «fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri», la pace dove c’è guerra, la gioia dove c’è paura, libertà e amore là dove c’è sfruttamento e schiavitù, amore dove c’è abbandono e odio. Lei è davvero Consolata solo quando i fratelli e le sorelle di suo Figlio vivono davvero la loro vocazione di essere «famigliari di Dio e cittadini del cielo». Osservando il mondo in cui viviamo, scorrendo le statistiche circa le vocazioni missionarie, vedendo le nostre chiese sempre più vuote, sperimentando il materialismo più dilagante, viene anche da chiedersi se la Consolata si sia stufata di Torino e dell’Italia; se come ha lasciato Roma tanto tempo fa per incontrare persone nuove altrove, così anche oggi non sia alla ricerca di «consolatori» in altre parti del mondo, pronta a mostrarci grosse sorprese... A meno che non ci svegliamo, qui nella nostra bella Italia drogata dal benessere, e torniamo a guardare a Colui che lo sguardo e la mano della Consolata continuano ad indicarci. Ci vuole poco, lasciamoci aiutare da lei.

Gigi Anataloni




Cari Missionari

Beato l’uomo castigato?

Il dossier «Giustizia riparativa», per quanto lungo e
articolato non dice alcune cose che a mio modesto avviso sarebbe stato meglio
dire.

1 – Ammesso che i carcerati
«effettivamente pericolosi» siano il 20% del totale non mi pare opportuno
definire «piccola» una percentuale così. Un conto è chiarire che la gran parte
della popolazione carceraria è costituita da persone che meritano più rispetto,
più credito, più fiducia, un altro è dire che la minoranza è esigua.

2 – Nella Bibbia punizione,
castigo, espiazione e giudizio non sono parolacce. Il Dio che castiga non è in
contraddizione col Dio che ama, che perdona, che salva: «Beato l’uomo che tu
castighi Signore», recita il Salmo 93, che può essere tradotto anche con «Beato
l’uomo che tu istruisci Signore». Qual è la traduzione giusta? Sono giuste
entrambe, perché l’originale greco paideuo può essere tradotto con
castigo, punisco, ma anche con: educo, ammaestro, istruisco, addestro. […] Come
facciamo a dire che nella Bibbia Dio non punisce? Se Dio vuole castigare,
purificare, decontaminare, […] chi siamo noi per contestarglielo? […] Chi siamo
noi per dire che «non sappiamo cos’è la giustizia», come se la Parola di Dio
fosse incomprensibile, come se l’insegnamento della Chiesa fosse roba alla
portata di una piccola élite? […].

3 – Gesù nel Vangelo non
parla mai del castigo e del giudizio di Dio come di sovrastrutture create dagli
uomini, ma come di atti di giustizia, di amore e di solidarietà con chi è stato
angariato, ferito, umiliato. E, quando parla di pentimento, di contrizione, di
cilicio (cfr. Matteo 11, 21-26), non ne parla mai come di optional e
neppure come di residui di religiosità gretta e antiquata. I castighi di Dio
sono sempre retti, equi, perfetti, ineccepibili. Se gli uomini non li
riconoscono come tali vuol dire che sono ancora prigionieri del loro orgoglio,
della loro arroganza, della loro superbia.

4 – Se non è bello fare di
tutta l’erba un fascio con i carcerati, non è giusto farlo per i luoghi di
detenzione. […] ci sono esempi di professionalità, di abnegazione, di
eccellenza. […] Che senso ha dunque dire che il carcere non serve e bisogna
abolirlo? Bisogna fare in modo invece che tutti i luoghi di rieducazione […]
raggiungano i livelli di eccellenza che finora solo alcuni hanno raggiunto […].

5 – Ormai del ritornello «ce
lo chiede l’Europa» ne abbiamo fin sopra i capelli, chi vuol fare
europersuasione deve specificare nome e cognome di chi brontola, minaccia,
tuona e sanziona. Dopo quello che è accaduto in questi ultimi anni solo una
persona molto disattenta, molto disinformata o molto in malafede può continuare
a equivocare tra la sacrosanta aspirazione a un’Europa pacificata, unita, equa,
solidale e l’Europa delle grandi speculazioni bancarie camuffate sotto le
spoglie del rigore, del risanamento, dell’efficienza, del consolidamento
dell’Euro. Non basta lamentare che 29 miliardi di euro in dieci anni sono
troppi per un sistema penitenziario come il nostro, bisogna intervenire laddove
vi sono stati abusi, sprechi, malaffare, clientelismo e corruzione. […]

Francesco Rondina
Email, 21/02/2014
Caro sig. Rondina,

la ringraziamo per la
sua lettera e ci scusiamo per averla dovuta tagliare. Speriamo di aver lasciato
le parti sostanziali delle sue obiezioni, alle quali è impossibile rispondere
se non rimandando a una rilettura del dossier e ai libri lì citati. Qui
abbozziamo solo qualche spunto di riflessione seguendo la numerazione da lei
usata.

1- L’aggettivo
«piccola» nasce da una reazione al pensiero che il corrispettivo 80% di
detenuti non pericolosi, circa 50mila persone tenute in carcere, senza una
reale necessità, in condizioni disumanizzanti, sia una quantità decisamente
«grande». Non diciamo che gran parte dei carcerati meritino più rispetto,
diciamo di più: che tutti i carcerati ne hanno diritto (il diritto non si
merita, si ha per il solo fatto di esistere), a prescindere dai loro delitti.

2 e 3- Non è il luogo
questo per una «disputa biblica». Ciascuno può citare versetti o capitoli
interi della Scrittura per avvalorare la propria posizione (addirittura Satana
lo fa in Lc 4). Noi facciamo solo due brevi esempi (sperando di non fare come
Satana). Gesù in Mt 5,38 dice: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e
dente per dente”; ma io vi dico di non oppporvi al malvagio; anzi…»; e in Lc
23,34: «Padre, perdonali». Inoltre, se volessimo credere a un Dio che punisce,
sarebbe Lui a farlo, non l’uomo. Il «pentimento» – o per lo meno la libera
disponibilità a rimettersi in gioco – da parte del reo è necessario per l’avvio
di una pratica di giustizia riparativa. Il pentimento quindi non è escluso,
anzi, la giustizia riparativa promuove la possibilità di un pentimento
autentico, che sia un atto libero e responsabile, non un atto indotto dalla
costrizione, dalla paura della punizione, o dal premio sperato (come è tipico
della giustizia retributiva-punitiva).

4- Nel dossier non si
dice che il carcere non serve e che va abolito, anzi, a pagina 39 viene
affermato: «Chi è pericoloso deve essere separato», aggiungendo poi che «la
separazione dovrebbe essere mirata a prevenire l’effettiva pericolosità. Non è
logico, né utile, ricorrere al carcere anche per chi non lo è. Nei confronti di
chi è pericoloso, la limitazione della libertà di movimento deve però essere
modellata caso per caso, e non deve essere accompagnata dalla limitazione, o
addirittura esclusione, delle altre libertà fondamentali che non comportino
pericoli per la società: il diritto allo spazio vitale, alla salute,
all’affettività, all’informazione, al lavoro, all’istruzione».

5- La corte di
Strasburgo, cui probabilmente si riferisce, e della cui condanna parliamo a
pagina 34 del dossier, è un organo del Consiglio d’Europa – e non dell’Unione
Europea – che vigila sui diritti umani. Ogni istituzione o organizzazione, e
ogni loro atto, sono ovviamente contestabili. Alcune volte però possono offrire
un’occasione per crescere nel rispetto della dignità umana.

Luca Lorusso


Leggibilità

Finalmente! Avete dunque capito dopo anni che tutte
quelle lettere piccole e i terribili sfondi colorati rendevano illeggibile la
bella rivista! Alla buon ora, hurrà! Poi via con gli sfondi che rendono
difficile la lettura. Ma perché non si può fare sempre i bei leggibili sfondi
bianchi? Che mistero c’è? Economico? Artistico? Voglia di non fare i normali ed
essere per forza creativi? Semplicità è bellezza. Corpo 11 e sfondo bianco. Un
vostro «vecchio» lettore ed ammiratore

Alfio
Tassinari
email 28/02/2014

Caro Direttore,

congratulazioni per il vostro sforzo per ingrandire il
corpo del testo della pregiata Rivista. Mi azzardo a darle la mia in tre punti:

1. Missioni Consolata è «rivista missionaria della
famiglia» come dice il sottotitolo. Ora nelle nostre famiglie chi legge la
rivista sono quelli che abbisognano di inforcare gli occhiali, per cui un corpo
leggermente più grande nel testo sarà molto apprezzato.

2. Gli articoli di Missioni Consolata sono in gran parte,
e giustamente, ad argomento unico di poche pagine, eccetto il Dossier, per cui
caratteri diversi e corpo diverso non tolgono nulla all’unità del tema, «la
missione», della rivista, anzi possono enfatizzae l’argomento.

3. Ho notato che nel n. 3/14 della rivista compare un
articolo sulla cerimonia di nozze in Corea del Sud in cui, forse per la prima
volta da tanti anni, la rivista sacrifica il testo per le foto. Forse è questa
una gradita risposta alla sincera e benevola curiosità dei lettori.

Mi permetto di dirle che questo numero 3/14 l’ho letto di
un fiato, mentre trovavo fatica a leggere i numeri precedenti, e di porgere a
lei e tutti i suoi collaboratori le più belle felicitazioni di buon lavoro,
conscio che portare avanti una rivista prettamente missionaria e renderla di
interesse a lettori, che possono spigolare per mezzo di Inteet su tutti i
campi, non è facile. Ma pure rimane in tutti la soddisfazione di leggere
qualcosa che si ha tra mano e che si sente più consono di tutto quello che si
può trovare «on line».

P.
A. Giordano
email 25/02/2014

Il corpo 11 va decisamente bene: si legge con facilità,
non si perde tempo a decifrare, volendo si legge «a colpo d’occhio». Ho dimenticato di premettere che ho 15 lustri, ma che
comunque con gli occhiali e in buona luce ci vedo benissimo! E che comunque gli esperti siete voi. Grazie e buon
lavoro a tutti!

Paola
Andolfi
email 14/03/2014

Diversi lettori ci hanno scritto rispondendo
alla domanda circa il carattere da usare nella rivista. Qui ne riportiamo solo
alcuni. Il consenso sui caratteri più leggibili è unanime e ci incoraggia a
continuare nel miglioramento della qualità delle rivista, e non solo dal punto
di vista grafico. Grazie a tutti voi.

Eritrea
Caro padre Gigi,
ho letto con piacere e interesse la serie di articoli
apparsi sulla tua bellissima rivista che parlano dell’Eritrea. Forse non sai
che mia moglie ed io siamo nati in Eritrea, lei ad Asmara e io a Massaua. Solo
dopo la guerra siamo andati a vivere in Kenya dove ci siamo conosciuti. Ed è
anche per questo che seguo con attenzione ciò che succede in quel paese ora
sconvolto dalla follia di un dittatore. Speriamo che un giorno la situazione
possa cambiare in meglio e che il popolo eritreo possa avere una vita
tranquilla e serena.
La speranza, purtroppo, è un po’ debole perché nessuno ha
interesse ad aiutare il popolo eritreo, così come sta succedendo per altre
parti dell’Africa. Basta vedere la guerra full scale che si sta
consumando tra vari paesi che ben conosciamo: Uganda, Ruanda, Congo, Zaire,
Zambia. Burundi, ecc. Se ne parla pochissimo!
Kenya Juu
(W
il Kenya)!

Augusto
Vezzaro
email 10/3/2014

Un grazie e una
poesia

Caro padre,

pur con ritardo desidero ringraziare per le tre parole
augurali per il 2014: gioia, bellezza, audacia. Non è semplice
attivarle, viverle e onorarle perché la quotidianità presenta tanti intoppi e
tante sofferenze, ma ci provo. A tale proposito ho dedicato la composizione che
allego a Matteo, figlio di un amico, che il 2 marzo compirà il suo primo anno
di esistenza; c’è la felicità per una nuova vita, c’è la celebrazione del gioco
come forma d’intesa interpersonale e di scoperta della realtà, e c’è l’invito a
vivere relazioni in cui si è orgogliosi l’uno dell’altro. Trovo tante analogie
con l’impegno dei missionari per tutelare e valorizzare la vita, impegno che, a
mio parere, rappresenta una delle espressioni del cristianesimo. Mi farebbe
piacere che il testo fosse pubblicato per onorare tutti coloro che, a partire
dai missionari, cercano di difendere il grande valore della vita.

A Matteo

Auguri a te, Matteo,
stupenda creatura,
in occasione del tuo primo compleanno!

La tua presenza ci dà gioia e felicità,
moltiplica le energie,
rende lievi le fatiche,
ci interpella sul cammino, mai concluso,
dell’essere
pienamente uomini.

Quando giochiamo insieme,
è come se ci trovassimo
per “strada”
e celebrassimo
il nostro incontro:
quel che tu sei
e quel che siamo noi
si compongono
come accordo di una sonata
e rifulgono
come una goccia di rugiada.

Quando ci rallegriamo
l’un l’altro
è come se ci
comprendessimo
misteriosamente
e per magia
diventassimo leggeri
come acrobati sul trapezio.

Ci libriamo nel cielo
e ci immergiamo
nelle profondità degli
abissi marini
per scoprire tanti mondi,
così siamo orgogliosi,
a vicenda,
delle nostre magnifiche
vite.

Milva Capoia
Torino 23/02/2014

Risponde il Direttore




Zingaro e santo: Ceferino Gimenez Malla

Ceferino (Zefirino) Gimenez Malla detto «El Pelè», membro del popolo gitano, fin dalla sua
nascita è bollato come uno zingaro, quindi un escluso della società. Nasce in
Spagna nel 1861, forse a Benavent de Sangria, probabilmente il 26 agosto 1861.
Il caratteristico nomadismo del suo popolo gli impedisce di frequentare
regolarmente le scuole, lasciandolo quasi analfabeta. è di famiglia povera, che diventa ancor più povera quando il
padre se ne va con un’altra donna. Girando di villaggio in villaggio conosce la
precarietà tipica della vita di coloro che vivono nell’emarginazione. Fin da
piccolo impara a fare il panieraio, a intrecciare cioè cesti e canestri, che poi
vende nei villaggi. A 18 anni si sposa con il rito gitano con Teresa Jimenéz,
un matrimonio che durerà più di quarant’anni. Purtroppo la loro unione non sarà
coronata da figli, adotteranno quindi “Pepita” (Giuseppina) una nipotina di
Teresa. Ceferino è il primo zingaro a essere elevato alla gloria degli altari.

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Ceferino - o preferisci che ti chiami «El Pelè» come ti chiamavano tutti? -, parlaci un po’ di te.

Appartengo al popolo gitano - gli zingari -, le cui origini si perdono nelle nebbie della storia. Provenienti dall’India, ci siamo sparsi per tutta l’Europa. In Spagna siamo poco meno di un milione, la terza comunità più numerosa nel nostro continente.

Un popolo che non ha mai rinunciato ai suoi usi e costumi, soprattutto al nomadismo.

Proprio così. Pensa che il saluto ben augurante che usiamo tra di noi è lacio drom, che significa «buon cammino» o «buon viaggio», per indicare un modo di vivere in movimento, con il mondo intero come orizzonte.

Questo vostro modo di vivere vi ha causato parecchie noie, sofferenze e anche persecuzioni.

Ormai sono innumerevoli le prese di posizione legislative su (e contro) di noi. Il fatto di non essere stanziali fa di noi degli uomini liberi, poco controllabili da chi è preposto a garantire l’ordine pubblico e quindi anche temuti. In tutti i modi si cerca ancora oggi di obbligare gli zingari a diventare stanziali al pari di tutti i «payos» (termine che nella nostra lingua definisce chi non è zingaro).

L’ostilità nei vostri confronti ha avuto il suo apice con le leggi razziali di Hitler che voleva sopprimervi così come il popolo ebraico.

Vivendo in Spagna sono stato toccato solo marginalmente dal nazismo, ma l’orrore dei campi di sterminio resta una ferita sanguinante ancora oggi. Pensa che ad Auschwitz, sulla lapide che riporta i nomi dei popoli che soffrirono le pene dell’inferno, il nome del popolo zingaro non compare! Una dimenticanza non da poco.

La tua famiglia che posizione occupava?

Sono nato e cresciuto in una famiglia povera e numerosa. Le bocche da sfamare erano tante. In più mio padre a un certo punto se ne andò per vivere con un’altra donna lasciandoci nella più nera indigenza.

Nonostante ciò non sei diventato né ladro né accattone né imbroglione, come spesso e volentieri i «payos» pensano di voi.

C’è una legge fondamentale nel cuore di ogni uomo: essa dice che prima di tutto devi rispondere ai dettami della tua coscienza. La mia, fondata sulla fede cristiana e sui valori del popolo rom, mi ha sempre spinto ad agire per il bene.

Ti sei fatto la fama di uomo retto, con una autorevolezza morale tale da diventare un capo dei gitani aragonesi di Barbastro.

Proprio così, per il mio modo di fare e per i miei atteggiamenti mi trovai senza volerlo a essere un riferimento per coloro che avevano bisogno di un consiglio. Più volte sono stato chiamato a far da paciere nelle liti familiari, nelle controversie tra gitani e tra questi e gli abitanti della nostra cittadina.

Però devi ammettere che un giorno hai avuto un bel colpo di fortuna, o è stata la provvidenza? ce ne parli?

Una sera tornando a casa vidi sul ciglio della strada un uomo, per la precisione un ricco possidente della zona. Malato di tubercolosi, era svenuto e il sangue gli usciva dalla bocca. Incurante del rischio di contagio l’ho caricato sulle spalle e portato fino a casa sua. La famiglia volle ricompensarmi per quel gesto di carità e con quei soldi intrapresi un piccolo commercio di muli e cavalli.

Essendo un gitano non è difficile immaginare che quello era il tuo mondo.

Ma l’ambiente del commercio degli animali non era dei più puliti e pur cercando di essere limpido e onesto fino allo scrupolo, fui arrestato e incarcerato perché due animali che comprai risultarono rubati. Cosa più che sufficiente per accusarmi di ricettazione. La mia origine gitana e il pregiudizio razziale per cui ogni zingaro è un ladro e un disonesto, pesarono sul processo, ma alla fine riuscii a dimostrare la mia buona fede e la completa estraneità ai fatti. Fui quindi assolto con formula piena.

Perciò hai continuato la tua redditizia attività commerciale?

Sì. Avrei anche potuto diventare ricco, ma avevo, come si dice, le «mani bucate» perché soccorrevo chiunque si trovasse nel bisogno o in difficoltà, specialmente la mia gente, e facevo tutto di nascosto perché nella mia famiglia, mia moglie compresa, non condividevano la mia generosità.

Tutto ciò ti veniva dalla fede cristiana che professavi senza imbarazzo davanti a tutti.

Della mia fede non ho mai fatto mistero a nessuno, avevo sempre con me la corona del rosario e di notte mi piaceva guardare il cielo stellato facendo una specie di adorazione che consiglio a molti di fare. Contemplando il cielo e le stelle pregavo con più intensità.

La tua fede cosa ha cambiato nella tua vita?

Mi ha fatto regolarizzare la mia posizione familiare con il matrimonio religioso che ho celebrato nel 1912 con Teresa a Barbastro, dove mi sono stabilito acquistando una casa. Potendo quindi accostarmi ai sacramenti, facevo della Messa e Comunione quotidiana un punto importante della mia crescita spirituale. Mi dedicavo anche alla catechesi dei bambini sia rom sia spagnoli ed ero molto attivo nella san Vincenzo. Nel 1926 sono diventato anche terziario francescano e organizzatore dei pellegrinaggi annuali dei Rom a diversi santuari. Dal 1931 ho cominciato a partecipare regolarmente all’adorazione nottua dei «giovedì eucaristici».

Però sul tuo capo come su quello di milioni di spagnoli incombeva minacciosa la rivoluzione del 1936 che scatenò violenza, distruzione e morte, ed ebbe anche una forte connotazione antireligiosa.

La rivoluzione, cresciuta in un brodo di odio popolare e conflitto sociale dovuto alla turbolenta situazione economico-politica che viveva la Spagna in quegli anni, spinse alla radicalizzazione dello scontro tra le fazioni in lotta portando quelle d’ispirazione marxista a uccidere migliaia di religiosi.

Alla fine della guerra di Spagna si contavano più di 6800 preti e religiosi uccisi, tra questi anche tredici vescovi e oltre 200 suore di vita contemplativa. È invece impossibile avere il numero preciso dei laici, uomini e donne, uccisi per la fede. La tempesta che si abbattè in quel periodo sulla Chiesa fu una delle più feroci persecuzioni anticristiane del XX secolo.

E com’è che anche tu sei finito in carcere?

Devo dire che gli avvenimenti bellici che si susseguirono dall’inizio delle ostilità non scalfirono minimamente il mio essere cristiano, anzi. Però nel mese di luglio del 1936 difesi un sacerdote che era stato aggredito e per questo fui arrestato con lui. Perquisendomi, in tasca trovarono la corona del rosario. Quello fu più che sufficiente per sbattermi in galera accusato di ogni falsità.

Immagino che quella corona in carcere sia diventata «un’arma preziosa» tra le tue mani proprio per avvicinarti di più al Signore.

Non solo per me, ma anche per tutti i miei compagni di prigionia. Amici influenti si mossero in mio favore, vennero a trovarmi e mi garantirono l’immediata scarcerazione se solo avessi consegnato la corona del rosario e smesso di sostenere i compagni di prigionia con le mie preghiere. Ovviamente mi rifiutai, perché il rosario significava la fede in Cristo e il recitarlo con fede affidandomi alla Madre di Dio aiutava me e tutti gli altri a sopportare la brutta situazione in cui ci trovavamo.

Quando lo fucilano il 9 agosto del 1936, insieme a Florentino Asensio Barroso vescovo di Barbastro e ad altri prigionieri, l’ultimo suo grido è «Viva Cristo Re!» mentre in mano tiene alta come una bandiera la sua corona del rosario. Il giorno dopo alcuni zingari sono obbligati a scavare una fossa comune per tutti i fucilati e a buttare calce viva sui loro corpi per evitae il riconoscimento e cancellae la memoria.

A Roma il 4 maggio 1997, alla presenza di migliaia di zingari, Giovanni Paolo II lo proclama beato. Nell’omelia il papa dice: «Il beato Ceferino seppe seminare concordia e solidarietà fra i suoi, mediando anche nei conflitti che a volte nascono fra “payos” e zingari, dimostrando che la carità di Cristo non conosce limiti di razza e di cultura». Con lui è stato beatificato anche il vescovo Florentino, fucilato dallo stesso plotone di esecuzione. Di Ceferino non è rimasto niente se non lo sgualcito certificato di battesimo, che portava sempre con sé, e il rosario, segni concreti per confermare che si può essere zingari e santi secondo il monito dell’apostolo Paolo che ogni uomo si converta e viva, rimanendo nella sua cultura e tradizione.

Don Mario Bandera, Missio Novara
Tags: Ceferino, Zeffirino, zingari, santi, martiri spagnoli, martiri
Mario Bandera




Libertà in affanno 

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 19


La libertà di religione si conferma un diritto a rischio per
la maggioranza della popolazione mondiale. La regione più restrittiva è quella
del Medio Oriente-Nord Africa, seguita da quella dell’Asia-Pacifico. In Europa,
al terzo posto, a una crescente ostilità sociale corrisponde una crescente
pressione governativa.

Il 14 gennaio scorso è uscito il
quinto rapporto annuale del Pew Research Center1 sulle restrizioni alla libertà
religiosa nel mondo, Religious hostilities reach six-year high. I dati
riferiti riguardano l’anno 2012, che è stato il peggiore per la libertà
religiosa da quando l’organizzazione con sede in Washington DC ha iniziato a
monitorare la situazione, nel 2006-2007.

Libia post Gheddafi

È sufficiente fare attenzione alle
agenzie d’informazione riguardanti un paese come la Libia – scelto a esempio –
per trovarsi concordi con l’analisi del Pew Center che indica un
incremento molto forte delle restrizioni alla libertà religiosa in quelle terre
nel 2012, e per immaginare che, dopo quell’anno, non è probabilmente seguita
una sostanziale diminuzione.

Era il 25 febbraio quando l’agenzia Fides
pubblicava sul suo sito le dichiarazioni del Vicario apostolico di Tripoli
riguardanti il massacro di sette copti a Bengasi: «“Non si capisce bene cosa
vogliano questi fondamentalisti. Sicuramente vogliono mettersi in evidenza
spargendo il sangue di vittime innocenti. I copti ortodossi sono da tempo il
loro bersaglio, soprattutto in Cirenaica” dice […] mons. Giovanni Innocenzo
Martinelli […], commentando l’uccisione di sette lavoratori egiziani di
confessione copto ortodossa […]. Secondo fonti di agenzia, domenica 23 febbraio
i sette egiziani erano stati prelevati nelle loro abitazioni da uomini armati.
I loro corpi sono stati ritrovati il giorno successivo in una località alla
periferia della città. Le vittime sono state uccise da colpi d’arma da fuoco al
petto e alla testa. “Non sappiamo altro […]” dice mons. Martinelli. […] “Siamo
nelle mani di Dio, in queste situazioni incerte e insicure”». Agenzie
precedenti parlano di aggressioni a sacerdoti cattolici o copti ortodossi da
parte di milizie armate, di arresti ed espulsioni di decine di egiziani copti,
o di membri di comunità protestanti, in seguito ad accuse di «proselitismo», di
chiese prese d’assalto.

«In Libia due fedeli sono stati
uccisi in un attacco contro una chiesa copta ortodossa nella città di Misurata
nel mese di dicembre 2012. Questo è stato il “primo attacco [in Libia]
destinato a una chiesa dopo la rivoluzione del 2011”», scrive il Pew Center
nel suo rapporto, illustrando la crescita dell’ostilità sociale nel paese.

L’ostilità sociale nei confronti delle religioni

Per quantificare gli ostacoli
all’espressione e alla pratica religiosa nei singoli paesi, il Pew Center
usa due indicatori: l’indice delle ostilità sociali (Shi: social hostilities
index
), il quale misura gli atti contrari alla libertà di credo verso
determinati gruppi religiosi da parte della società civile, di gruppi o di
singoli; e l’indice delle restrizioni governative (Gri: govement
restrictions index
), il quale misura le azioni delle istituzioni nazionali
o locali che contrastano la religione. Lo studio statistico, avverte il Pew
Center
, tiene conto di alcuni dati e non di altri: misura gli impedimenti
alla libertà religiosa, ma non misura, ad esempio, la quantità di attività
libere e senza ostacoli, non giudica se le restrizioni siano giustificate o
meno, non valuta i processi storici, culturali, sociali che portano alle
restrizioni.

Attraverso una panoramica sul primo
dei due indici, veniamo informati del fatto che l’anno esaminato nel rapporto,
il 2012, è stato quello con i livelli più alti di ostilità sociale nei
confronti della religione mai registrato dall’inizio delle indagini nel
2006-2007. Se nel 2007 si era verificato un livello alto o molto alto nel 20%
dei 198 paesi presi in esame, nel 2011 tali livelli si erano attestati nel 29%
dei paesi, e nel 2012 nel 33%. L’aumento dell’ostilità sociale tra il 2011 e il
2012 è stato constatato in 4 delle 5 aree in cui il Pew Center suddivide
il mondo: l’unica area in cui c’è stata una lieve diminuzione è quella delle
Americhe, mentre l’incremento maggiore è stato rilevato nell’area del Medio
Oriente-Nord Africa. Quest’ultima regione, che è quella con livello medio
dell’indice di ostilità sociale più alto, nel 2012, su una scala di 10 punti,
ha fatto registrare un valore di 6,4 (nel 2011 era 5,4). In alcuni paesi della
zona l’aumento è stato molto vistoso: nella Libia di cui abbiamo già parlato
(da 1,9 nel 2011 a 5,4 nel 2012), in Tunisia (da 3,5 a 6,8), in Siria (da 5,8 a
8,8) e in Libano (da 5,6 a 7,9).

Prendendo in considerazione il mondo
intero, oltre ai quattro paesi dell’area Medio Oriente-Nord Africa, altri sette
hanno fatto registrare un aumento di due punti e più tra il 2011 e il 2012:
Mali, Messico, Guinea, Olanda, Madagascar, Afghanistan e Malawi. Nessun paese
al mondo ha avuto una diminuzione altrettanto cospicua.

L’incremento generale dell’indice è
stato dato dall’aumento molto forte di alcune forme di ostilità sociale: ad
esempio casi di individui aggrediti o sfollati dalle loro case per le loro
attività religiose (questo tipo di vessazione nel 2007 era stato registrato nel
24% dei paesi del mondo, nel 2011 nel 38%, e nel 2012 nel 47%). Il Pew
Center
riporta alcuni episodi emblematici avvenuti in diversi paesi: nel
Nord del Mali, per esempio, gruppi di estremisti islamici hanno condotto
esecuzioni, amputazioni, fustigazioni, distrutto chiese, vietato battesimi,
provocando la fuga di centinaia di cristiani verso la parte Sud del paese; «nello
Sri Lanka a maggioranza buddista alcuni monaci hanno attaccato luoghi di culto
musulmani e cristiani nella città di Dambulla nell’aprile 2012 ed è avvenuta
un’occupazione forzata di una chiesa degli Avventisti del settimo giorno nella
città di Deniyaya nell’agosto dello stesso anno per trasformarlo in un tempio
buddista».

Le restrizioni governative

Per quanto riguarda l’indice relativo
alle restrizioni governative della libertà di credo, il Pew Research Center
informa che non si sono registrati nel 2012 aumenti significativi. Restrizioni
elevate o molto elevate da parte delle istituzioni nazionali o locali si sono
verificate nel 29% dei 198 paesi presi in esame (28% nel 2011; 20% nel 2007).

Nell’ambito delle restrizioni
governative, nel 2012 rispetto all’anno precedente, i cambiamenti significativi
(almeno 2 punti su una scala di 10) sono avvenuti in due soli paesi: un grande
aumento di restrizioni in Rwanda, dove una legge di regolazione delle
organizzazioni religiose ha introdotto requisiti di registrazione molto
stringenti; e una grande diminuzione in Costa d’Avorio dove nel 2012 si sono
placate le violenze etnico-religiose postelettorali del 2011.

Il livello medio delle restrizioni
governative è aumentato in due delle cinque aree: in Medio Oriente-Nord Africa
e in Europa, mentre nelle Americhe è rimasto inalterato, e nelle altre due
regioni (Africa subsahariana e Asia-Pacifico) è diminuito. In particolare
l’Europa è stato il continente in cui le restrizioni governative sono aumentate
di più. L’area in cui invece sono diminuite di più è stata l’Asia-Pacifico.

Anche per le restrizioni governative
il Pew Center riporta alcuni episodi: parla ad esempio del caso di
Tuvalu, il cui governo centrale nel 2012 ha iniziato ad applicare una legge che
impedisce ai fedeli di religioni non riconosciute di riunirsi; della Tunisia,
in cui sono stati fatti dalle autorità pubbliche molti sforzi per rimuovere
alcuni imam che predicavano il salafismo.

I governi hanno usato atti di forza
contro gruppi religiosi o singoli fedeli in quasi la metà (il 48%) dei paesi
del mondo. Altro esempio è quello della Mauritania, il cui governo nell’aprile
2012 ha arrestato 12 attivisti anti-schiavitù con l’accusa di sacrilegio e
blasfemia per aver pubblicamente bruciato alcuni testi sacri considerati dagli
attivisti ispiratori dello schiavismo.

Uno sguardo d’insieme

Mettendo insieme i rilevamenti relativi
ai due indici, il Pew Center afferma che nel 2012 ci sono state
restrizioni elevate o molto elevate (sia sociali che governative) nel 43% dei
paesi (la percentuale più alta registrata dall’organizzazione in 6 anni). Data
la particolare popolosità di alcuni di questi paesi (Nigeria, India, Pakistan,
Egitto, Indonesia e così via) la porzione di popolazione mondiale che ha
vissuto il 2012 in un paese con livelli di restrizione della libertà religiosa
elevati o molto elevati è stata pari al 76% (5,3 miliardi di persone). Nel 2011
la percentuale era del 74%, nel 2007 del 68%.

Tra i 34 paesi con restrizioni molto
elevate (sociali o governative o entrambe) l’unico paese europeo presente era
la Russia (con entrambi gli indici al livello molto elevato). Tra quelli con
restrizioni elevate, i paesi europei erano 17, di cui tre – Bulgaria, Grecia e
Moldova – avevano entrambi gli indici al livello elevato, due avevano al
livello elevato solo l’indice di restrizioni governative, dodici avevano un
elevato indice di ostilità sociale (tra questi ultimi anche l’Italia).

Nel complesso le restrizioni, sia
sociali che governative, alla libertà religiosa nel mondo sono aumentate tra il
2011 e il 2012 almeno un po’ nel 61% dei paesi, e sono diminuite almeno un po’
nel 29%.

Vessazioni nei confronti di gruppi specifici

Un ultimo approfondimento cui vale la
pena accennare, è quello riguardante le vessazioni rivolte a specifici gruppi
religiosi.

I maltrattamenti nei confronti di
gruppi specifici possono avere una matrice sia sociale che istituzionale:
aggressioni fisiche, arresti e detenzioni, profanazione di luoghi sacri,
discriminazioni nel mondo del lavoro, dell’istruzione, delle possibilità di
accesso a un alloggio, aggressioni verbali, intimidazioni. Questo genere di
molestie si sono verificate, nel 2012, in 166 paesi su 198 studiati. Prendendo
in considerazione solo le tre religioni monoteiste, vessazioni nei confronti di
gruppi di musulmani sono state registrate in 109 paesi, nei confronti di gruppi
di ebrei in 71 paesi, verso i cristiani in 110 paesi.

Nel 2012, alcuni gruppi religiosi
avevano più probabilità di essere molestati dai governi che da gruppi sociali o
da privati cittadini, mentre altri avevano più probabilità di essere oggetto di
vessazioni da parte di individui o gruppi sociali che da parte di politiche
governative. Gli ebrei, per esempio hanno subito maltrattamenti sociali in 66
paesi, mentre hanno affrontato vessazioni governative in 28 paesi. Al
contrario, i membri di altre religioni del mondo, come i sikh e i baha’i, sono
stati molestati più volte dai governi (in 35 paesi) di quanto non lo siano
stati da gruppi o individui nella società (21 paesi).

Luca Lorusso
Note

1. Il Pew Forum (pewforum.org) è
un progetto del Pew Research Center, con base a Washington, finanziato
dalla Pew Charitable Trusts: un’organizzazione indipendente non-profit,
non governativa (Ong), fondata negli Usa nel 1948. Tutte le relazioni del
centro sono disponibili su www.pewresearch.org

Tags: libertà religiosa

Luca Lorusso




Luce e speranza a Marandallah

Dopo una guerra civile e dieci anni di conflitto latente la Costa
d’Avorio, ex perla dell’Africa occidentale, conosce oggi una crescita economica
sostenuta. Ma la riconciliazione nazionale e il miglioramento delle condizioni
di vita della popolazione avanzano lentamente. Mentre l’ex presidente Laurent
Gbagbo resta in carcere all’Aja e l’attuale capo di stato Alassane Ouattara
affronta in patria accuse di parzialità e inefficienza, il paese si prepara a
tornare alle ue l’anno prossimo.
I missionari della Consolata lavorano a Marandallah, nel Nordovest. Attraverso
progetti di sanità e alfabetizzazione cercano di sostenere lo sforzo di un
paese che vuole rimettersi in piedi.

Zoppicando verso le
elezioni

Laurent Gbagbo resta in prigione. È questa la decisione
della prima camera preliminare della Corte penale internazionale (Cpi)
dell’Aja lo scorso 12 marzo, in risposta alla richiesta di scarcerazione
avanzata dalla difesa del ex capo di stato della Costa d’Avorio. Gbagbo,
presidente ivoriano dal 2000 al 2010, era stato arrestato nell’aprile del 2011
insieme alla moglie Simone Ehivet Gbagbo, anche lei in seguito perseguita dalla
Cpi, dopo aver dato avvio a un’ondata di violenze per il rifiuto di lasciare il
potere al suo oppositore Alassane Dramane Ouattara, detto Ado, vincitore delle
lelezioni di fine 2010. Le violenze avevano causato la morte di circa tremila
persone e la fuga di poco meno di un milione d’ivoriani che trovarono rifugio
nei paesi limitrofi o si spostarono in aree del paese meno turbolente.

La Costa d’Avorio aveva già sperimentato un quinquennio
di conflitto fra il 2002 e il 2007, durante il quale i ribelli controllavano il
Nord del paese mentre il Sud era dominato dalle forze governative. Fra i
principali motivi del contendere c’erano il controllo del mercato del cacao e i
diritti della popolazione di origine straniera insediata da decenni nel paese (vedi
dossier sulla Costa d’Avorio in MC, marzo 2007 e febbraio 2011
). Le
elezioni del 2010 dovevano mettere fine a questa situazione di tensione dopo
che il presidente e il capo dei ribelli, Guillaume Soro, avevano accettato di
convivere in un governo di transizione – con Gbagbo presidente e Soro primo
ministro – per traghettare la Costa d’Avorio fuori dall’impasse politica. Ma
subito dopo il voto, il popolo ivoriano si è visto ripiombare nell’incubo della
guerra civile.


Rifugiati, sfollati,
apolidi, stranieri: l’eterno rompicapo della politica ivoriana

A oggi, sebbene si siano registrati diversi ritorni dei
rifugiati e degli sfollati alle loro case, la situazione rimane tutt’altro che
risolta. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, a metà 2013 i
rifugiati ivoriani erano ancora centomila, due terzi dei quali nella sola
Liberia. Il timore di subire rappresaglie e vendette una volta rientrati in
patria resta il principale motivo che spinge i rifugiati ivoriani a ritardare
il loro ritorno.

Inoltre, circa settecentomila persone risultano apolidi,
cioè prive di nazionalità. Quello della nazionalità è un problema di vecchia
data nel paese, dove poco meno di sei milioni di persone, cioè oltre un quarto
della popolazione, sono immigrati provenienti dai paesi limitrofi. Una gran
parte di questi immigrati si sono stabiliti in Costa d’Avorio molti anni fa,
attirati dalle opportunità di lavoro nelle piantagioni di cacao e in altri
settori ai tempi – erano gli anni Settanta – in cui l’economia ivoriana era il
motore della sub-regione e Abidjan, la capitale economica del paese con i suoi
grattacieli e le sue tangenziali sopraelevate, era chiamata la Manhattan dei
tropici. L’esodo dai paesi confinanti è proseguito anche negli anni successivi
al periodo d’oro, ma in moltissimi casi i migranti hanno continuato fino a oggi
a vivere in un limbo giuridico che non permette loro di godere di una serie di
diritti, fra cui quello alla terra e al voto.

Nel 2013 l’annuale studio dell’autorevole Fondazione
Mo Ibrahim
, creata dal magnate delle comunicazioni anglo-sudanese Mohamed
Ibrahim per incoraggiare il buon governo in Africa, ha collocato la Costa
d’Avorio fra i dieci stati africani che hanno avuto i risultati peggiori in
campi come i diritti umani, lo sviluppo, la sostenibilità economica e la
legalità. Diversi osservatori, inoltre, cominciano ad avanzare preoccupazione
rispetto all’imminenza delle nuove elezioni, previste per l’anno prossimo: la
pacificazione fra i gruppi in conflitto sembra ancora lontana e gli oppositori
criticano il presidente Ado accusandolo di parzialità soprattutto verso i
perpetratori dei crimini del 2010-2011, dato che in prigione ci sono solo i
sostenitori dell’ex presidente Gbagbo. La commissione indipendente che dovrebbe
aggioare le liste elettorali è stata sciolta dopo le elezioni del 2010 e non è
ancora stata ricostituita.

Nonostante un altro conflitto sembri per ora scongiurato
e la crescita del Pil sia stata pari al 8,7 per cento nel 2013, la Costa
d’Avorio conserva nelle città grosse sacche di povertà, mentre nelle zone
rurali della parte occidentale del paese il conflitto e la violenza rimangono
elementi del quotidiano.

La sanità in Costa d’Avorio

Fra le presenze dei missionari della Consolata in Costa
d’Avorio c’è quella di Marandallah, un villaggio di circa quattromila abitanti
che di fatto è il punto di riferimento per oltre trentamila persone dei
dintorni. Si trova nella regione di Worodougou, nella parte centro
settentrionale del paese, a poco meno di cinquecento chilometri da Abidjan. Con
il Nord della Costa d’Avorio, Marandallah condivide un maggior svantaggio
economico rispetto al Sud del paese e una mancanza di infrastrutture che
rendono molto difficili gli spostamenti e le comunicazioni. «La situazione dei
trasporti qui è veramente critica», scrive padre João Nascimento, uno dei
missionari. «Ci si muove quasi esclusivamente su piste sterrate piene di buche
e crepe e durante le piogge tutto si complica ulteriormente». Anche energia
elettrica e acqua potabile scarseggiano, soprattutto dopo gli scontri del
decennio 2002-2011 che hanno gravemente danneggiato gli impianti di
distribuzione e le infrastrutture.

Uno studio del 2012, effettuato su un campione nazionale
di circa diecimila famiglie dal ministero della sanità e dall’istituto di
statistica ivoriani in collaborazione con diverse agenzie ed enti inteazionali,
descrive la situazione sanitaria della zona come peggiore della media
nazionale. Per quanto riguarda la salute matea, ad esempio, se nella città di
Abidjan 97 donne su cento ricevono cure e assistenza durante la gravidanza,
nella regione Nordovest, solo 75 ne beneficiano. I parti assistiti da personale
sanitario qualificato sono l’88% a Abidjan mentre nella regione di Worodougou
ad assistere le partorienti sono le levatrici tradizionali o i familiari in
almeno un caso su due. Inoltre, la pratica delle mutilazioni genitali
femminili, con tutte le sue conseguenze dannose per la salute della donna, è
presente nel Nord e nell’Ovest del paese molto di più che nelle altre zone e
tocca circa sette donne su dieci.

Il dispensario di Marandallah

Le testimonianze dei missionari sono in linea con i dati
del rapporto: «È molto difficile trovare il personale sanitario», conferma
padre Ramón Lázaro Esnaola, responsabile del Centro sanitario cattolico Notre
Dame de la Consolata (Cscndc) di Marandallah, fondato nel 2007, «perché in
pochi sono disposti a venire a vivere in un luogo dove mancano acqua e
elettricità. Mancando la corrente, poi, diventa molto più complicato anche
offrire servizi di base come le vaccinazioni: per ottenere i vaccini occorre
infatti andare a Mankono, una città che si trova a quasi settanta chilometri da
qui e, viste le condizioni delle piste sterrate, è facile immaginare quanto
tempo, energie e denaro se ne vadano per fornire un servizio così fondamentale».

Il centro è nato per sopperire alla mancanza di copertura
sanitaria nella zona: la struttura più vicina, infatti, si trova a circa
novanta chilometri, una distanza proibitiva per la maggior parte della
popolazione locale. Il Cscndc offre servizi di medicina generale, ha una
mateità ed esegue analisi di laboratorio avvalendosi del lavoro di un medico,
un infermiere, due biotecnici, un’assistente sociale, due aiuto infermiere, tre
agenti sanitari comunitari, tre addetti alle pulizie e due guardiani nottui.
Ha dodici posti letto più altri sei nella mateità e effettua oltre tremila
consultazioni all’anno, mentre la mateità segue circa 170 parti e il reparto
chirurgia esegue più di duecento operazioni l’anno. Dal 2008 le attività
relative alla lotta all’Hiv/Aids si svolgono con il sostegno tecnico di
Icap-Costa d’Avorio, l’Inteational Centre for Aids Care and Treatment
Programs
gestito dalla statunitense Columbia University e dal
governo Usa. La cura della malnutrizione avviene con il supporto della
statunitense Father Norman Gies Foudation.

Più energia alla
salute e gli altri progetti sanitari

Nel 2013, con il sostegno di Caritas microprogetti, è
stato avviato «Più energia alla salute», un intervento per l’installazione di
un sistema fotovoltaico: «A lavori ultimati», spiega padre Ramon, «grazie
all’energia prodotta con i pannelli solari non dovremo più temere i tagli di
corrente frequenti nella zona e avremo una affidabile catena del freddo:
potremo cioè far funzionare regolarmente il frigo che ci è stato donato dal
sistema sanitario nazionale ivoriano per conservare i vaccini – senza doversi
spostare sempre fino a Mankono – e anche il sangue per le trasfusioni».

Un’altra componente dell’intervento è quella di
informatizzare la farmacia del dispensario in modo da avere un controllo più
dettagliato sullo stock e prevedere meglio i tempi e le necessità per i nuovi
acquisti. «Per procurarci i farmaci dobbiamo andare fino ad Abidjan», continua
padre Ramon. «Per questo è importante programmare il viaggio sapendo con precisione
quali farmaci devono essere reintegrati. Fare i conteggi “a vista” e segnarli
su una lista cartacea non è impossibile e lo si è sempre fatto, ma il margine
di errore e il dispendio di tempo sono molto maggiori. L’uso del computer
dovrebbe ridurre il numero di viaggi e, di conseguenza, i costi per il
mantenimento del centro».

Anche a Dianra, altro centro a una cinquantina di
chilometri da Marandallah, i missionari fanno funzionare un piccolo
dispensario. L’obiettivo per il futuro è costruire anche presso il centro
sanitario di Dianra una mateità, che per ora manca. Sono invece già attivi i
servizi di formazione del personale sanitario, svolta in cornordinamento con il
centro di Marandallah, e le missioni di visita ai villaggi che hanno
un’importanza fondamentale nella prevenzione delle malattie più comuni.

L’alfabetizzazione,
strumento per superare l’odio

Secondo lo studio a campione citato prima, la situazione
della regione di Nordovest rispetto all’alfabetizzazione è problematica tanto
quanto quella sanitaria: delle persone intervistate per la raccolta dei dati
statistici, sessantasei uomini e ottantotto donne su cento non sanno leggere né
scrivere mentre ad Abidjan – presa ancora una volta come esempio «virtuoso» –
le donne e gli uomini in questa condizione sono rispettivamente il quaranta e
il diciotto per cento. Tre quarti delle donne intervistate e circa metà degli
uomini hanno dichiarato di non avere alcun titolo di studio e di non leggere
giornali né utilizzare altre fonti di informazione. I bambini che frequentano
la scuola elementare a livello nazionale sono 68 su cento, ma nel Nordovest
sono mediamente dodici in meno.

«È vero», conferma padre João, «qui l’analfabetismo è più
diffuso che altrove. È un insieme di fattori che crea questa situazione:
l’isolamento, il fatto che la popolazione locale sia in parte di origine
straniera e mai integrata e anche, a volte, un senso di apatia e di
rassegnazione».

Grazie a fondi dell’Opera di promozione
dell’alfabetizzazione nel mondo
(Opam), padre João ha realizzato il
progetto A scuola di pace all’apatam, un intervento che prevedeva la
costruzione di sei strutture tipicamente africane note anche come paillotes,
in altrettante località intorno alla missione. Ora negli apatam si
stanno svolgendo i corsi di alfabetizzazione per gli adulti e per i bambini non
scolarizzati. La prossima tappa del progetto sarà fornire alle piccole
strutture l’illuminazione con impianti fotovoltaici, perché i corsi si tengono
quasi sempre di sera, dopo la giornata lavorativa, e un’illuminazione adeguata è
indispensabile per la buona riuscita della formazione. È previsto anche
l’acquisto di una moto che permetta all’équipe di cornordinamento di visitare le
comunità.

Oltre che all’alfabetizzazione vera e propria i corsi
serviranno anche a sensibilizzare e informare su temi come diritti umani,
diritto alla terra e riconciliazione fra comunità. «Leggere e scrivere non è
indispensabile solo per poter affrontare le attività quotidiane che comportano
la lettura o la compilazione di documenti amministrativi, ma anche per essere
in grado di comprendere meglio ciò che sta accadendo nel paese», conclude padre
João. Essere più consapevoli e più informati aiuta a sentirsi parte delle
dinamiche sociali, economiche e politiche della società in cui si vive.
L’obiettivo è dissolvere a poco a poco la paura, la diffidenza e il
risentimento e ridurre l’isolamento non solo geografico ma anche culturale in
cui la popolazione di Marandallah si trova a vivere.

Chiara Giovetti




Tags: sanità, salute, dispensario, Marandallah

Chaira Giovetti