Qualcosa di magico

Storie e volti di radio
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Gioalista spagnolo,
autore di un noto manuale di comunicazione radiofonica, Santiago García Gago da
oltre 15 anni percorre l’America Latina – Venezuela, Perù, Ecuador, Guatemala –
per fare e insegnare radio in ambito comunitario e indigeno. 

Con una missione:
contrastare gli oligopoli dell’informazione facendo conoscere e diffondendo liberamente
la tecnologia.


Il
manuale di chi vuole fare radio è scaricabile gratuitamente da internet: Manual para radialistas analfatécnicos, che si può tradurre con «Manuale per operatori radio
senza cognizioni tecniche». Il libro è strutturato su 100 domande e risposte
che vogliono servire ad alfabetizzare tecnicamente chi desidera fare radio. Si
tratta di una panoramica completa che spazia dalla spiegazione del suono alla
differenza tra radio Am e radio Fm, dalla descrizione del mixer alla
digitalizzazione dell’audio, dalle nuove tecnologie alla radio online.

Il manuale è nato per aiutare chi è meno rappresentato,
chi non riesce a emergere nell’arena dei grandi mezzi di comunicazione. Per
questo esso ha trovato l’appoggio prestigioso dell’Unesco, l’organizzazione
delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura.

Il suo autore si chiama Santiago García Gago, spagnolo di
Salamanca, da oltre 15 anni vagabondo dell’etere in vari paesi latinoamericani:
Venezuela, Perù, Ecuador e oggi Guatemala, sempre al servizio di emittenti
comunitarie e indigene. È membro dell’associazione Radialistas apasionadas y
apasionados
, una ong latinoamericana (con sede a Quito) il cui obiettivo è
democratizzare l’informazione, in particolare quella radiofonica. Lo abbiamo
raggiunto per rivolgergli qualche domanda.

Santiago, che
significa per te lavorare in radio?

«Più che un lavoro, la radio è una passione. In verità è
un mezzo che mi è piaciuto fin da bambino. Ho sempre desiderato essere un
giornalista. Ho finito per legarmi alla radio, non tanto per la parte parlata
quanto piuttosto per i controlli e la tecnologia. La cosa appassionante di essa
è che ti permette di essere molto più creativo rispetto ad altri mezzi di
comunicazione come la televisione o la carta stampata. In televisione si vede
tutto e dunque c’è poco spazio per l’immaginazione. Anche la carta ha molto
poco margine di manovra. Al contrario la radio possiede qualcosa di magico.

Puoi far parlare un cestino della spazzatura per educare
alla pulizia delle città. Puoi trasmettere dal vivo facendo partecipare molte
persone allo stesso tempo».

Nell’epoca di
internet e della televisione via satellite, gli abitanti dell’America Latina
ascoltano ancora la radio?

«Sì, e anche molto. Non fosse altro perché ancora oggi,
nel continente latinoamericano, l’accesso a internet è un privilegio che
riguarda soltanto il 30-35% della popolazione. La radio tradizionale è
gratuita. Alcune batterie possono durare un anno e consentire alla radio di
tenere compagnia per tutto il giorno. A parte il discorso economico, la radio
presenta alcuni vantaggi rispetto agli altri mezzi di comunicazione. In primo
luogo, essendo eminentemente locale, può adattarsi alle esigenze delle
popolazioni che abitano contesti differenti e parlano lingue diverse. Proprio
per questo si ascolta molto, principalmente in zone isolate e rurali. Si può
dedicare tempo alle notizie locali, parlare la lingua del posto, soprattutto se
le popolazioni sono indigene. Al contrario, le televisioni e internet sono
pensate più per un pubblico di massa e nazionale.

Altro fattore importante è l’accesso al mezzo. Così, ad
esempio, mentre è impossibile o molto difficile portare la televisione o
internet in un autobus (anche quando esista connessione, gli abbonamenti al web
sono ancora molto costosi), la radio ti può sempre accompagnare».

Santiago, proviamo a
parlare della qualità dell’informazione. Oggi il pericolo è quello di un
eccesso di informazione (conosciuto come «information overload», sovraccarico
informativo) e – allo stesso tempo – un pericolo di superficialità. Mi
riferisco in particolare al ruolo assunto e giocato dalle reti sociali (social
networks) come Facebook, Twitter, YouTube, etc. Qual è la tua opinione al
riguardo?

«Credo che i buoni giornalisti continuino ad esserlo
anche nell’epoca dell’informazione digitale. Ciò che invece accade è che i
cattivi giornalisti hanno oggi più opportunità di mettersi in mostra e di farlo
in maniera più importante. Mi spiego. Davanti a una illazione, un giornalista
serio investiga, fa confronti e verifiche prima di lanciare la notizia. I mezzi
digitali consentono di fare informazione in maniera più rapida e profonda. I
cattivi giornalisti – che nell’era predigitale si affrettavano a raccontare la
voce senza verificarla – adesso fanno lo stesso però in maniera più
generalizzata utilizzando le reti sociali. La loro mancanza di professionalità
raggiunge un pubblico ancora più vasto.

Io non credo che il problema sia nelle nuove tecnologie,
ma piuttosto nel modo in cui esse vengono utilizzate. Faccio un esempio.

In precedenza, per conoscere la storia, si faceva ricorso
a una enciclopedia scritta da un gruppo di persone a cui si credeva. Adesso
possiamo cercare in Wikipedia, l’enciclopedia digitale, e avere versioni
differenti di quanto accaduto. Ci sarà chi si accontenterà di quanto racconta
l’articolo di Wikipedia e non cercherà altre fonti, come quelli che prima
leggevano l’enciclopedia e lì si fermavano.

Però coloro i quali già prima, oltre all’enciclopedia,
andavano a consultare altri libri, oggi andranno a cercare i collegamenti verso
altre fonti e i rimandi degli articoli per approfondire di più.

In definitiva, internet aiuta a essere più superficiali
coloro che già lo erano. Allo stesso tempo, aiuta chi
realmente vuole investigare, approfondire, comprendere. Mai nella storia
dell’umanità si è avuta tanta informazione a propria disposizione. L’uso che di
essa facciamo dipende da ognuno». 

Nonostante la
proliferazione dei mezzi informativi, persiste la tendenza alla concentrazione
dei mezzi più influenti in poche mani (oligopoli). Esiste uno spazio reale per
i mezzi di comunicazione alternativi?

«Come si può parlare di libertà di espressione o di
democrazia in America Latina quando nella maggioranza dei paesi il 90% dei
mezzi di comunicazione appartiene a una fetta minuscola della popolazione? Questa
concentrazione è stata smisurata però si stanno intravvedendo cambiamenti
promettenti. In vari paesi, nel corso degli ultimi 10 anni, sono state
approvate norme di legge che favoriscono l’accesso di comunità e organizzazioni
alle frequenze di radio e televisione. Oggi, tra gli altri, Argentina, Uruguay,
Bolivia, Venezuela, Ecuador, Colombia hanno leggi che riservano o dividono lo
spettro radioelettrico tra i diversi mezzi di comunicazione: comunitari,
pubblici e privati.

Questo ha consentito a molte radio e televisioni
comunitarie di accedere a una frequenza. Tuttavia manca ancora molto. Ribaltare
tanti anni di oligopolio in così poco tempo non è facile. La cosa buona è che i
paesi riformatori non stanno abbandonando questa linea».

I mezzi di
comunicazione piccoli o alternativi quasi sempre hanno problemi economici. Cosa
si può fare?

«Credo che questa domanda se la pongano ogni giorno tutti
i mezzi alternativi. Non è facile dare una risposta. È certo che queste radio
sono nate senza fini di lucro. Questo però non significa che esse non possano
trasmettere pubblicità e fare “commercio”, perché di qualcosa debbono pur
vivere, almeno per riuscire a pagare le bollette della luce.

Credo che i mezzi alternativi debbano utilizzare gli
stessi metodi per raccogliere denaro di qualsiasi altra radio. Soltanto gli
scopi per cui lo fanno debbono rimanere distinti. Però questo esige che le
radio alternative e i piccoli comunicatori entrino in una logica di competizione,
che pare suscitare paura. Qualcuno ha messo nella testa di questi mezzi di
comunicazione che non debbano competere, che non debbano entrare nella logica
“commerciale”. Io non sono d’accordo. Da quando abbiamo preso in mano il
trasmettitore siamo entrati in competizione con le altre radio per raggiungere
più ascoltatori. Perché non farlo anche sul terreno pubblicitario? Ovviamente
ci saranno clienti commerciali, come Monsanto, che non ci interesserà
pubblicizzare. Per questo si dovrà lavorare ragionando su una base etica e
coerente, ma pur sempre muovendosi in una direzione di competizione, anche
commerciale. L’idea è fare soldi affinché il nostro mezzo possa pagare le
fatture. Non per produrre profitti, ma semplicemente per sopravvivere».

Che ruolo possono
avere le radio alternative nel campo dei diritti umani e dei popoli originari?

«I gruppi di potere che posseggono la maggioranza dei
mezzi di comunicazione nel mondo non sono interessati ai diritti umani o ai
popoli originari. Le loro priorità sono altre: l’obiettivo è fare denaro. Oltre
a possedere i mezzi d’informazione, questi gruppi di potere posseggono le
banche o sono amici delle multinazionali (dei semi, del petrolio o delle
miniere). Imprese – e ci sono centinaia di casi che lo dimostrano – che passano
sopra la testa della gente pur di fare soldi. Ciononostante i mezzi
d’informazione commerciali non si interessano di queste ingiustizie e non le
riportano. Men che meno danno voce ai contadini, agli indigeni, alle donne. Gli
unici mezzi che aprono i loro microfoni a queste persone sono le radio
alternative. Senza di esse, i silenziati del sistema non avrebbero canali per
farsi sentire».  

Nel prologo del tuo
manuale José Ignacio López Vigil (autore, tra l’altro, di un altro conosciuto
manuale per le radio) parla di «democratizzare la tecnologia». È questo lo
scopo del tuo volume?

«Quando lavoravo a Puerto Ayacucho, nella regione
amazzonica del Venezuela, mi resi conto che il tema della tecnologia stava
avanzando molto rapidamente. Vidi che, se prima era il tecnico della radio che
conosceva e sistemava i retroscena tecnici, adesso giornalisti e annunciatori
lavoravano con la tecnologia tutto il tempo. Usando la console, editando i loro
audio, navigando in internet. Il problema era che – se succedeva qualcosa –
essi non sapevano cosa fare. Per questi motivi mi decisi a scrivere il manuale:
per avvicinare alla tecnologia la gente della radio in generale, non soltanto i
tecnici. Per raggiungere lo scopo ho cercato di scrivere un testo molto chiaro
ma allo stesso tempo piacevole».

Sul prezioso sito di Radialistas
ho trovato, tra le tante cose, una serie radiofonica dedicata a una rilettura
del Vangelo. Che cosa puoi raccontarci al riguardo?

«Rispetto a “Un tale Gesù” (Un Tal Jesús),
la serie ideata e scritta dai fratelli María e José Ignacio López Vigil, io non
ricordo molto dato che a quei tempi ero piccolo e vivevo ancora in Spagna. Fui invece più vicino a Maria e José durante la
“seconda parte” di quella serie, quella che essi titolarono “Un altro Dio è
possibile” (Otro Dios Es Posible). La prima serie fu molto perseguita
dalla gerarchia della Chiesa cattolica. Era l’inizio degli anni Ottanta, i
tempi della Teologia della liberazione e del Vaticano II in pieno vigore. I
fratelli Vigil dovettero ritirarsi dalla Chiesa perché la loro visione
rinnovatrice e di liberazione contrastava con quella della gerarchia. Entrambi
servivano in luoghi poveri e umili e credevano che questo Gesù giusto, vicino,
divertente e di caagione scura (moreno) poteva aiutare la gente a
uscire dalla miseria. Quella non era però la forma in cui la gerarchia
intendeva il Regno. I fratelli Vigil abbandonarono quindi gli abiti religiosi
che indossavano (José Ignacio era un gesuita, Maria una suora, ndr). La
loro serie radiofonica Un Tal Jesús provocò la chiusura del Serpal (Servicio
Radiofónico para América Latina
). La cosa che più dava fastidio era che Gesù
era descritto fuori dai canoni consueti: con la pelle scura e come una persona
scherzosa, divertente, ballerina. Secondo me, quella serie racchiude un
profondo sentimento teologico liberatore. È un Gesù nel quale si può credere.
Un dato va ricordato: ancora oggi le 144 puntate del programma vengono
scaricate quotidianamente dal web e la gente continua ad avvicinarsi al moreno».

Santiago, per
chiudere questa nostra conversazione, che cosa vorresti fare per migliorare le
radio e il loro ruolo nell’ambito della comunicazione?

«In questo momento siamo molto impegnati nel tentativo di
far comprendere alle radio e ai mezzi alternativi l’importanza di internet e
delle nuove tecnologie. E stiamo lottando perché esse siano libere. Anche per
questo abbiamo aperto il sito radioslibres.net. Un progetto che cerca di
discutere e formare in software libero. E cerca di spingere le radio a utilizzarlo
e allo stesso tempo a diffondere la filosofia della cultura libera e della
conoscenza aperta. Per dirla in altri termini, stiamo tentando di trarre
vantaggio dalle nuove tecnologie partendo da un’idea di libertà».

Paolo Moiola
(fine
seconda puntata – continua)
Siti per radio (e ascoltatori) alternativi:
www.radialistas.net
www.radioteca.net
www.analfatecnicos.net
www.radioslibres.net
 

Da questi siti è scaricabile l’audio di moltissimi programmi
radio. Sono inoltre scaricabili gratuitamente sia il Manual para radialistas
analfatécnicos che la versione scritta dei programmi radiofonici
Un
tal Jesús. La Buena Noticia contada al pueblo de América Latina e Otro Dios es posible. I tre volumi sono in formato PDF e in lingua
spagnola.


Tags: informazione, radio, oligopoli informativi, mezzi di comunicazione, nuove
tecnologie, radio comunitarie, radio indigene, software libero

Paolo Moiola




Lenin abita a Tiraspol

Ai confini
dell’Europa / 1: la Transnistria

Regione separatista
della Moldavia, indipendente de facto, la Transnistria è uscita da 23 anni
d’invisibilità in seguito alla guerra in Ucraina e all’annessione della Crimea
alla Russia. Tra la popolazione i sentimenti filorussi sono prevalenti. Mosca
lo sa e per questo non molla la presa.

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Lo scalcinato minibus corre sulla strada rotta. In un cigolio di sospensioni porta ogni giorno i lavoratori da una parte all’altra del fiume Nistru (o Dnestr, in russo). Il ponte sulla strada principale per Tiraspol però non si può percorrere. C’è un blindato della 14.ma Armata russa: la forza di interposizione che da 23 anni sorveglia questo confine inesistente. Il bus deve fare un giro tortuoso prima di arrivare a un posto di frontiera che non dovrebbe esserci. Controlli veloci, divise sovietiche d’antan con grossi cappelli, un timbro con falce e martello sul visto. Quando la frontiera scompare in una nuvola di smog, siamo in Transnistria. E il «paese che non c’è» prende forma in tutta la sua realtà. Un mondo concreto, fatto di case e strade, e di gente che ci vive.

Un oblio lungo 23 anni

Non serve cercarla sulla mappa, perché non c’è. La Pridnestrovskaja Moldavskaja Respublika, per brevità chiamata Transnistria, non è riconosciuta da alcun governo al mondo, eppure ha una sua bandiera, una capitale, una moneta a corso legale e un Soviet supremo. È una sbavatura nella linea retta della storia. Nei giorni in cui l’impero sovietico cominciava a vacillare, una cittadina di provincia della Moldova (Moldavia), Tiraspol, si proclamava capitale di una nuova repubblica socialista sovietica, la sedicesima dell’Urss. Era il 1990, al Cremlino sedeva Gorbaciov e i problemi non gli mancavano. Il presidente fece preparare un decreto di scioglimento della neonata repubblica, ma rimase sulla sua scrivania insieme a mille altre carte. Dopo qualche mese l’Urss non esisteva più. Mentre milioni di ex cittadini sovietici si ubriacavano di libertà e capitalismo, la Transnistria issava la bandiera con falce e martello, la stessa che sventola oggi. La Moldova, anch’essa appena divenuta stato indipendente, ci mise un anno ad accorgersi che quel pezzo di terra oltre il fiume non le apparteneva più. Prima che potesse riprendersela, l’Armata rossa - che non aveva mai abbandonato la regione - imbracciò le armi al fianco degli oltre 300mila russi che vi abitavano. Fu una guerra lampo, morirono alcune decine di persone, poi tutto rimase così com’era. La Moldova non riconobbe mai l’indipendenza della Transnistria. E un lungo oblio avvolse quest’ultima per più di vent’anni. Fino a oggi.

Lo scoppio della rivoluzione in Ucraina ha sottratto di colpo la Transnistria all’invisibilità, portandola all’attenzione dei media inteazionali. Il colpo di mano in Crimea e i ripetuti proclami del Cremlino in difesa della diaspora russa sparpagliata per il mondo post-sovietico, hanno fatto subito guardare a questa piccola repubblica de facto abitata da mezzo milione di persone.

Goveata per vent’anni dallo stesso uomo, Igor Smiov, un politico di provenienza sovietica con due grosse sopracciglia brežneviane, la Transnistria due anni fa ha sorpreso tutti mandandolo in pensione ed eleggendo un giovane presidente, Yevgen Ševčuk. Ex presidente del Soviet supremo, eletto col 75% dei voti, considerato un riformatore, egli rappresenta per molti una speranza di cambiamento. Non sembrano però esserci passi avanti per una soluzione del problema con la Moldova. A dicembre dello scorso anno, all’inizio delle manifestazioni in Ucraina e dei passi di avvicinamento della Moldova all’Europa, Ševčuk ha presentato al Soviet supremo una proposta di riforma costituzionale per importare nel piccolo paese l’intero corpus legislativo russo. Un passo importante per portare «la Transnistria all’interno di un unico mondo russo che favorisca gli interessi geopolitici della Russia per la stabilità in tutta la regione», secondo le sue parole. Già nel 2006 il popolo transnistriano si era espresso in favore dell’unione con la Russia in un referendum plebiscitario: i sì erano stati più del 97%. È chiaro che il referendum di marzo in Crimea (e la sua successiva annessione da parte della Russia) abbia risvegliato gli animi anche a Tiraspol.

Mamma Russia è interessata

Il minibus scarica i suoi passeggeri davanti alla stazione. Tiraspol si trova sulla linea ferroviaria tra Chişinău e Odessa, un tragitto pensato prima che nuove frontiere rendessero il viaggio uno stillicidio di fermate e controlli. Sono pochi gli stranieri che si avventurano fino qui, a parte nostalgici dell’Urss e amanti di viaggi insoliti. Di norma li trovi tutti alla caffetteria Seven Fridays, sulla via intitolata alla Rivoluzione d’ottobre. Nonostante la posizione centrale, non c’è da fare la fila per una tazza di tè. I camerieri sono più dei clienti ed è difficile che le cose cambino finché lo stipendio medio continuerà a essere tra i più bassi d’Europa, inferiore ai 100 dollari. Una fetta di torta vale una giornata di lavoro. E la Moldova non se la passa meglio. È chiaro che, se l’Europa appare lontana, la Russia sembra l’Eldorado. Così, la voce che in Crimea si sono visti raddoppiare lo stipendio da un giorno all’altro dopo l’annessione corre veloce fino a Tiraspol.

Di recente le visite del rappresentante speciale del Cremlino per la Transnistria, Dmytri Rogozin, si sono intensificate. «Noi non solo seguiamo la situazione: ma in base al suo sviluppo prenderemo le misure necessarie. Vi abbiamo aiutato e vi aiuteremo», ha detto durante l’ultima parata del Gioo della Vittoria (la più grande festa russa, in cui si celebra la vittoria contro i nazifascisti durante la Seconda guerra mondiale) che si è tenuta a Tiraspol. Ma per il momento il paese non è riconosciuto dalla comunità mondiale. E l’unico organismo internazionale di cui fa parte - insieme all’Abcasia e all’Ossezia del Sud - è una comunità degli stati non riconosciuti, anch’essa priva di alcuno status giuridico.

Falce e martello

Tiraspol interpreta il ruolo di capitale con un pizzico di pretenziosità. È una cittadina sonnolenta che tra i suoi problemi non ha certamente il traffico né la frenesia della vita modea. La sua architettura piatta e anonima è animata da una magniloquente retorica pseudosocialista, che non la ha mai abbandonata dai tempi sovietici. Un busto di Lenin davanti alla Casa dei Soviet, su cui sventola il bicolore con falce e martello; un tazebao con le foto degli eroi locali, cosmonauti, generali dell’Armata rossa, alti papaveri della nomenclatura - c’è anche l’ex presidente Smiov - di fronte all’hotel «Amicizia»; e un grande Lenin di granito, solido e filante come un supereroe dei fumetti, che sembra prendere il volo davanti al palazzo presidenziale. A parte queste, non ci sono poi tante attrattive turistiche a Tiraspol, se non si vuole considerare tale la gloriosa distilleria di brandy «Kvint», riprodotta con orgoglio sulle banconote da cinque rubli.

Due grosse bandiere, una transnistriana e una russa, coprono la facciata del palazzo dell’Università di stato. Qui i nomi delle strade sono in tre lingue: russo, romeno che si parla in Moldova e romeno trascritto in cirillico come su usava ai tempi dell’Urss. Ma la lingua che si sente parlare per strada è il russo, e nelle scuole non si insegna quasi più il romeno. La Transnistria ha avuto il suo momento di notorietà in Italia grazie al film di Gabriele Salvatores Educazione siberiana, tratto dal best seller dello scrittore transnistriano - naturalizzato italiano - Nicolai Lilin. Nel suo libro Lilin racconta un paese sotto il controllo dei criminali, con una polizia violenta e corrotta e bande in continua lotta tra loro. È difficile dire quanto ci sia di vero, anche se, al di là del romanzesco, le polizie di mezzo mondo conoscono la Transnistria come «il buco nero d’Europa». Certo è che i vent’anni di regno di Smiov hanno garantito una gestione oscura della cosa pubblica, ed è immaginabile come uno stato al di fuori di tutte le reti inteazionali e a metà strada tra Europa e Russia possa diventare crocevia di traffici illeciti.

La quasi totalità delle attività commerciali è monopolizzata da un’unica società, la Sheriff, che possiede supermercati e distributori di benzina, tivù e alberghi, oltre che la locale squadra di calcio e il nuovissimo stadio da 160 milioni di euro (www.fc-sheriff.com). La Sheriff è uno stato nello stato, i suoi vertici sono membri del Soviet e la società stessa ha finanziato per due decenni Smiov, prima di decidee la caduta appoggiando Ševčuk. Uno dei primi provvedimenti del nuovo presidente è stato però quello di abolire tutti i privilegi della Sheriff, il che lascia intuire il livello di commistioni e lotte tra il potere politico e quello economico.

Nostalgia e speranze

Sotto il monumento ad Alexander Suvorov, il generale russo che fondò la città nel 1792, alcune vecchie babushke (nonne) vendono su teli stesi per terra poveri oggetti di casa: un centrino, dei mestoli di legno, un paio di scarpe logore, qualche vecchia medaglia sovietica. Gli anziani sono probabilmente la classe sociale che se la passa peggio in Transnistria. Le pensioni sono ridotte al lumicino e lo stato sociale è insufficiente a garantire il loro benessere. Non possono emigrare, come hanno fatto e continuano a fare in molti, né andare a lavorare a Chişinău ogni giorno. È soprattutto tra queste anziane donne - chissà perché tutte sopravvissute ai loro mariti - che si radica il più profondo sentimento filorusso, che nasce soprattutto dalla nostalgia per il passato mista al ricordo di un livello di vita migliore.

Alcuni ragazzini fanno lo slalom tra le mercanzie con i loro skateboard. I giovani, in fondo, non se la passano tanto meglio. La vita qui non è il massimo, gli svaghi sono pochi e a sera la città cala in un buio silenzioso. Alcuni si ritrovano nella pizzeria Andy’s. Una margherita costa 70 rubli transitriani, bisogna dividerla e farla durare. Anna lavora qui, ma vorrebbe andare a vivere in Europa. «Adesso forse potrò, ora che per i cittadini moldavi non c’è più bisogno di visto. Lavoro, metto i soldi da parte e poi si vedrà». Anna ha il passaporto moldavo, ma non solo. Ne ha anche uno russo e uno transnistriano, ma quest’ultimo è poco più di un souvenir, proprio come i rubli che stampa la banca centrale di Tiraspol. «Non serve a niente, non è buono per nessun paese».

Anna si dice russa, perché russi sono i suoi genitori e russa la sua lingua. È una condizione comune a molti: il primo passaporto lo hanno avuto con l’indipendenza della Moldova dall’Urss, poi quello transnistriano dopo la breve guerra civile, infine quello russo per diritto di sangue. È un lungo filo rosso che lega Tiraspol a Mosca. Alle scorse elezioni presidenziali in Russia, quando furono aperti dei seggi anche qui, Ševčuk invitò i transnistriani con passaporto russo a votare per Putin, «per il rafforzamento dell’unione tra la Transnistria e la grande Russia».

Se il piccolo stato al di là del Nistru diventerà parte della grande Federazione russa, si chiuderà un capitolo rimasto aperto dal crollo dell’Urss, ma l’Europa si troverà ad affrontare una nuova annessione di Mosca. Con la Russia alle porte dell’Unione europea, la strada del dialogo sarà tortuosa ma obbligata.

Danilo Elia*

* Danilo Elia, giornalista, collabora con «Osservatorio Balcani e Caucaso» e con altre testate. Si occupa di spazio postsovietico con particolare attenzione all’area slava, Russia, Bielorussia e Ucraina. Autore inoltre di libri di viaggio, ha recentemente pubblicato Intoo al Mare per Mursia. Cura il blog www.daniloelia.it e twitta da
@daniloeliatweet.

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Scheda
Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc)

Nato nel 2000, con sede a Rovereto (Trento), l’«Osservatorio Balcani e Caucaso» (Obc) si occupa dei paesi del Sudest europeo e di quelli appartenenti all’area post-sovietica. Segue in totale 26 stati attraverso 50 corrispondenti in loco, che vanno ad aggiungersi a giornalisti, ricercatori e studiosi. L’approccio di lavoro è multimediale e multilingue. Il suo portale web raggiunge un pubblico di oltre 130.000 visitatori unici ogni mese. Oltre ai riconosciuti meriti d’informazione e ricerca, l’Obc presenta altre due peculiarità di rilievo: è finanziato da entità pubbliche (in primis dalla Provincia autonoma di Trento) e lavora in modalità Copyleft.

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La redazione di MC ringrazia l’Osservatorio per aver accettato la proposta di collaborazione giornalistica sui paesi di un’area tanto culturalmente lontana quanto geograficamente vicina. Con la serie «Ai confini dell’Europa» MC si propone di offrire un’informazione completa e attendibile. Obiettivo ambizioso in un’epoca caratterizzata dall’iperinformazione e troppo spesso da un basso livello qualitativo.

Il sito web di Obc:
www.balcanicaucaso.org

Il sito è in lingua italiana, inglese e serbocroata.

Scheda geopolitica


Transnistria

Una
striscia di terra abitata da moldavi, russi e ucraini.

La Transnistria è una sottile striscia di terra in
territorio moldavo, lunga circa 400 chilometri, delineata a Ovest dal fiume
Nistru/Dnestr e a Est dal confine con l’Ucraina. A chiamarla Transnistria
siamo   solo noi stranieri, perché il suo
nome ufficiale è Pridnestrovskaja Moldavskaja Respublika, cioè «Repubblica
Moldava del Dnestr» o, abbreviato, Pridnestrovie. È uno stato
indipendente de facto dal 1990, anno in cui dichiarò l’indipendenza
dall’Unione Sovietica. È abitata da circa mezzo milione di persone di diversa
etnia. Secondo i dati del censimento effettuato dalle autorità del paese nel
2004, l’ultimo disponibile, la sua popolazione è composta per il 32,1% da
moldavi, il 30,3% da russi, il 28,8 da ucraini, oltre che da minoranze bulgare,
gagauze, ebraiche e polacche. La sua capitale è Tiraspol, situata proprio sul
confine conteso con la Moldova. La sua moneta è il rublo transnistriano, che si
può spendere o cambiare solo all’interno del paese.

L’indipendenza della Transnistria non è stata riconosciuta
da nessun paese al mondo. Insieme all’Abcasia e all’Ossezia del Sud ha
costituito una comunità degli stati privi di riconoscimento. Da oltre vent’anni
si trascinano negoziati di pace con la Moldova, ma nessun passo in avanti è
stato fatto. In Transnistria è tuttora di stanza la 14° Armata russa che svolge
compiti di forza di interposizione. La recente firma dell’Accordo di
associazione della Moldova con l’Unione europea ha fatto riemergere
prepotentemente il problema del piccolo stato ribelle.

Il suo ex presidente, Igor Smiov, che ha guidato il
paese verso l’indipendenza e per i successivi venti anni, aveva dichiarato che
il suo compito si sarebbe esaurito con il riconoscimento internazionale della
Transnistria, ma non ha fatto in tempo a mantenere la sua parola. Il suo
successore, tuttora in carica, Yevgen Ševčuk, si è spinto oltre, dichiarando più volte di voler
favorire l’unione della Transnistria con la Federazione russa. Dopo lo scoppio
della crisi in Ucraina e l’annessione della Crimea da parte della Russia, il percorso
verso l’unificazione ha avuto un’accelerazione. Da ultimo, lo scorso marzo,
alcuni membri del Soviet supremo (il parlamento nazionale) hanno formalmente
fatto richiesta di entrare a far parte della Federazione russa.

Da.El.

La situazione religiosa


Con lo sguardo in alto

(al Patriarcato di
Mosca)

Oltre il 90% della popolazione della Transnistria è di
religione cristiano-ortodossa, appartenente al Patriarcato di Mosca. Una
minoranza cattolica è presente soprattutto nel Nord del paese, dove vive una comunità
di origine polacca. Inoltre è presente anche una piccola comunità ebraica di
corrente chassidica.

Ufficialmente la Transnistria
riconosce la libertà di culto, sancita nella sua Costituzione. La legge prevede
l’obbligo di registrazione per le comunità religiose. Secondo il Dipartimento
di Stato statunitense però le minoranze religiose sono soggette a
discriminazioni e si vedono negata la registrazione. In particolare
rappresentanti della Chiesa battista e dei Testimoni di Geova hanno più volte
denunciato attacchi e discriminazioni da parte delle autorità transnistriane.
Una proposta di legge in senso più liberale nel 2004 è stata fortemente
ostacolata dal vescovo di Tiraspol, Savva.

Periodicamente si verificano anche
atti di intolleranza ai danni della comunità ebraica. Il piccolo cimitero
ebraico di Tiraspol è stato più volte vandalizzato, mentre nel 2004 la sinagoga
è stata data alle fiamme.

Il territorio separatista coincide
con la diocesi di Tiraspol e Dubašari, fondata nel 1998 per riorganizzare la
Chiesa ortodossa nella regione a seguito dell’indipendenza del paese. La
diocesi di Tiraspol e Dubašari fa comunque riferimento al metropolita di Chişinău e di tutta la Moldova, Vladimir (Nicolae Cantarean). È
suddivisa in 104 distretti e due monasteri. Lo scorso anno il patriarca di
Mosca, Kirill, è stato in visita nel paese dove ha incontrato il vescovo Savva
e il presidente Ševčuk.
In quell’occasione ha ricordato il sostegno della Chiesa di Mosca
all’indipendenza della Transnistria.

Da.El.


Tags: Russia, Putin, separatismo, indipendenza, annessione, Patriarcato di Mosca, ortodossi, stati ombra, Transnistria, Moldavia

Danilo Elia




Comedor rosa nell’isola dei pirati

Diario di viaggio e
incontri / 1

Claudia, con il tocco
leggero della sua prosa familiare, ci guida sulle strade del Nicaragua. Incontriamo
persone diverse nel loro quotidiano, ne condividiamo la vita, i sogni, le
speranze e le difficoltà. Dai loro racconti emerge il ritratto vivo di un paese
che fa ancora fatica a trovare la sua strada, condizionato com’è da vicini invadenti.

Managua. Arriviamo nella capitale del
Nicaragua alla sera. Un taxi ci porta in città nel buio, su arterie bordate da
casupole e capannoni. Aspettiamo la mattina per capire dove siamo. La luce, il
sole, la brezza che tempera il calore, mi confortano. Siamo nello spazio sereno
di un patio antico con fontana e giardino, nel quartiere più tranquillo.

Managua
fu rasa al suolo da uno spaventoso terremoto nel 1972. In quello che era il
centro storico ora ci sono baracche dal tetto di lamiera e pochi edifici
governativi. La cattedrale rimane isolata, di fronte al palazzo Nazionale, in
grandioso stile déco. È una chiesa esagerata, annerita dagli incendi e ferita
dal sisma, chiusa da inferriate, che si affaccia sul vuoto del piazzale con lo
stendardo nazionale.

Dall’altura
dove abitiamo si ha l’impressione che la città sprofondi nel verde. Sono rari
gli edifici alti più di un piano. La nuova cattedrale, geniale progetto di un
architetto messicano, circondata da un vasto giardino con palme altissime, non è
lontana. Tutta in cemento lavorato ad arte, presenta una copertura formata da
numerose cupole, dal sapore esotico. Anche l’interno affascina per l’uso
sapiente dei colori e della luce, che dona leggerezza al grande edificio, pur
invitando al raccoglimento. Una targa ricorda i donatori, quasi tutti
statunitensi.

Co Island, l’isola
dei pirati.


6 Gennaio

Paolo
Jacob lavora a Managua da due anni per un progetto sui bambini lavoratori
finanziato dall’Unione europea. Ama il suo lavoro per la Rete, una Ong
torinese, ed è impegnato anche fino a sera tardi e nei fine settimana. Chiedo
che mi parli delle sue esperienze precedenti: Erasmus in Islanda, laurea a
Torino, master in educazione in Olanda. Paolo ha poi lavorato in Australia,
Romania e Albania, sempre a contatto con la povertà. Su suo consiglio
prenderemo un volo per Co Island, al largo della costa del Caribe, dove ha
trascorso le vacanze di Natale. Sorvoliamo la regione più selvaggia del paese,
dove dense foreste sono solcate da fiumi che scendono verso l’oceano Atlantico.
Pare che negli ultimi anni la zona verde si sia molto ridotta, a causa del
disboscamento illegale. Noto vaste lagune costiere e rari villaggi, dove vivono
i Miskito, popolazione risultato dell’incontro di indigeni e africani.

Co
Island, o isola del mais, ha la forma di un teschio ed è stata rifugio di
pirati. Morgan ne aveva fatto la sua roccaforte e i suoi discendenti vi hanno
tuttora le proprietà e le attività principali. Qui la cultura è inglese, perché
tutta la regione orientale del Nicaragua rimase protettorato inglese fino a
fine ‘800, poi gli americani subentrarono, fino al 1970.

Gli
italiani invece sono arrivati per occuparsi di accoglienza e cucina, attività
in cui restano imbattibili.

Alessandro
e Caterina hanno sempre amato viaggiare: sono stati tra i primi a visitare la
Cina, ma la loro vera passione è il mare. Dalla Nuova Caledonia a Zanzibar,
hanno visitato tantissime isole e, quando hanno deciso di andare in pensione,
si sono fermati qui. La Princesa de la Isla è un piccolo complesso,
circondato da prati soffici, in riva al mare. Un tempo qui era un albergo, che
fu distrutto dal tifone del ’88, che lasciò intatte solo le mura di madrepora e
cemento. I sandinisti poi ne fecero un campo, con camerate e servizi comuni.
Diciassette anni fa la simpatica coppia romana decise di comprare la proprietà
e fae la loro casa. Alcuni anni dopo una delle loro tre figlie li ha
raggiunti col marito avvocato, stanco dello stress della vita romana e
appassionato di cucina. In un ambiente così famigliare, mi trovo bene, ma la
notte il rumore del mare vicino è inquietante, dovrò abituarmi.

9 Gennaio

Stamattina
alle sei siamo già sulla strada che porta in paese. Lungo la spiaggia dove
cresce anche l’erba, ci sono mucche che pascolano. Il locale sul porto apre
alle sette e serve per colazione il gallo pinto, riso condito da fagioli
scuri e uova strapazzate. È arrivato un piroscafo da Bluefields, stanno
scaricando a mano sacchi di zucchero. Noto uno strano personaggio dalla pelle
scura, grande naso e un’enorme chioma, bianchissima e crespa, che lo rende
speciale. Chiedo se posso fotografarlo, lui, Denis, sorride compiaciuto e mi
presenta la giovanissima moglie e il figlioletto, cui sta dando il biberon
pieno di Fanta.

La
popolazione dei territori orientali del Nicaragua è il frutto di immigrazioni
da tutti i continenti. Quando nel 1502 Cristoforo Colombo, durante il suo
quarto viaggio, sbarcò a Co Island, le isole erano abitate dai Kukra,
popolazione indigena ora estinta. I primi contatti con europei si ebbero a
partire dal 1660, con l’arrivo di pirati francesi, olandesi e inglesi, che
iniziarono a portare schiavi africani della Giamaica per lavorare nei campi di
mais. Altri schiavi fuggirono dalle navi negriere e, unendosi alle tribù
locali, diedero vita a una popolazione creola di lingua inglese.

In
poche ore incontreremo molte persone, di varie nazionalità, tra le quali una
famiglia con due bimbi, residenti a Moncalieri, Torino, che da anni lavorano
per una Onlus impegnata nella costruzione di asili nella capitale.

Questa
volta hanno portato un bagaglio pieno di Lego per i bambini adottati a
distanza. Miriam è architetto, Mario è un ingegnere con vasta esperienza
internazionale. Ora stanno pensando di trasferirsi in questo paese, dove lo zio
di Miriam vive da parecchi anni e dove pare ci siano buone possibilità di
lavoro e spazio per investimenti.

10 Gennaio

Abbiamo
fatto il giro dell’isola con uno dei taxi che girano continuamente e raccolgono
chiunque abbia bisogno di un passaggio. Noto numerose chiese, molto
frequentate. Quella cattolica apre la domenica e il giovedì sera, ma il prete
arriva da Bluefields solo a Natale, Pasqua e per comunioni e cresime. Le case
sono di legno, col tetto in lamiera, a parte le ville dei «ricchi». Numerose le
pensioni e i piccoli hotel, ma la nostra sistemazione mi pare la migliore. La
sera arrivano altri ospiti, una bella famiglia spagnola, con tre figli.
Francisco a Saragozza aveva frequentato i missionari della Consolata ed era partito
missionario laico per il Sud America. Ora lavora per le Nazioni Unite e, tra le
molte esperienze, questa è la più dura. L’estate scorsa i due ragazzini hanno
preso la dengue, malattia che può essere mortale, specie tra i piccoli. Quando
piove, le strade di Managua sono difficili da percorrere, in pochi minuti si
arriva a un metro d’acqua.

In
questo viaggio potrò sentire diverse opinioni sulla situazione politica del
paese. Francisco non approva l’opera del presidente Ortega che, pur avendo
militato con i sandinisti, si comporta ora come un tipico dittatore centro
americano, non molto diverso dai Somoza. L’opposizione è stata praticamente
soppressa, la stampa zittita, chi critica viene eliminato. Per poter rimanere
al potere è riuscito a cambiare la Costituzione. Gli intellettuali che avevano
sostenuto i sandinisti, ora prendono le distanze da questo governo. Le scuole e
gli ospedali sono di infimo livello e le nazioni che offrivano cooperazione
allo sviluppo del paese se ne stanno andando. I primi sono stati i paesi
scandinavi.

Si fa
molto tardi, parlando, e i due bambini si sono già addormentati nelle amache.

11 Gennaio
Siamo
andate a nuotare presso il relitto e mi hanno rubato occhiali, costume e
zainetto. Forse per la gente dell’isola, come ho notato in molte altre intorno
al mondo, questo non è furto. Quello che trovano è loro, ossia di tutti.
Alessandro ha chiamato la polizia, sono venuti tre giovani in divisa a
interrogarmi, parlano inglese perché sono di Bluefields. Poi Alessandro ha
fatto la sua indagine personale, perché nel quartiere vicino conosce tutti. È
uscito il nome di un ragazzo, che è stato visto allontanarsi con lo zainetto
blu sotto braccio. Ora aspettiamo che si faccia vivo, prima di denunciarlo.

Qui
la gente è povera, abita capanne su palafitte circondate da maialini
grufolanti, ma di notte le luci accendono i colori e le vivaci decorazioni.

Gli
anziani passano il tempo a guardare i ragazzi che giocano a baseball, le donne
hanno tanti bambini, come Barbara, che lavora da noi e ha sei figlie femmine.
Tre hanno già una bimba, e tutte vivono insieme, in una casupola circondata da
alberi esotici, a pochi minuti dalla nostra «Principessa dell’Isola».

Alcuni
isolani lavorano nella fisheries dei Morgan, discendenti del famoso
pirata, o sui pescherecci. Stanno via un mese per la pesca di aragoste e
ritornano con qualche centinaio di dollari, che spendono subito per saldare i
debiti, giocare e bere al bar. A volte raccolgono in mare sacchi di cocaina,
gettati dalle barche dei trafficanti colombiani, quando sono intercettati dalla
polizia.

12 Gennaio

Con
qualche dollaro ho recuperato gli occhiali, grazie ai buoni rapporti di
Alessandro con i vicini. Sua figlia Costanza per anni ha passato le vacanze qui
con i genitori, quindi ha visto l’evolversi della situazione nella società
nicaraguense. Non vuole criticare Ortega, anche se si sente parlare molto di
arricchimenti esagerati dei suoi famigliari. «Questo governo si sta muovendo,
vediamo che prende decisioni per migliorare la vita degli abitanti. Sta
formandosi una classe media, che prima di Ortega non esisteva».

Sono
arrivati altri ospiti. Luca è un giovane ingegnere di Colonia in vacanza con la
moglie medico. Sono stanchi per il viaggio, perché stressati dal lavoro. In
ospedale si lavora 9 ore al giorno e, una volta la settimana, 24 ore. La crisi
colpisce anche la Germania, Luca aveva perso il suo lavoro e ora che ne ha
trovato un altro viene sottoposto a tensioni e orari punitivi.

Stasera
ceniamo insieme nel Comedor di Francis White, con la cucina aperta sulla
strada dell’aeroporto, dove le grasse donne di casa preparano pietanze
sostanziose. I quattro fratelli White sono nerissimi e corpulenti, hanno
ciascuno quattro figli e i due nipotini più piccoli sgambettano tra i tavoli.
Dopo aver gustato un ottimo pesce con salsa caribeña, mi vogliono
mostrare le grandi foto di famiglia, nel salottino dalle tende di pizzo rosa. I
nonni erano arrivati da Puerto Cabeza, un postaccio sulla costa caraibica da
dove provengono quasi tutti i poveri abitanti dell’isola, in cerca di lavoro.
Pochissimi ce la fanno a rimanere, questi invece sembrano ben organizzati.

13 Gennaio

Yellow
tail
è un centro diving (immersioni) molto spartano, con un comedor
che serve gallo pinto e birra e due casette per ospiti, controllate da
due grosse oche. La barriera corallina si trova a cento metri dalla riva, e
nella laguna si possono vedere massi di corallo e pesci tropicali. Gli uragani
ricorrenti devastano anche le barriere e i colori stentano a riprendersi.

Parleremo
della tragedia del 1988 la sera, a casa di Barbara, che ci ha invitato per
gustare un meraviglioso rondon, la zuppa di pesce con latte di cocco,
manioca, platanos (grosse banane), e il delicato frutto dell’albero del
pane. Nella stanzetta con le tende rosa e l’albero di natale di plastica sono
circondata da figlie e nipotine, davanti il piccolo televisore. In quella
accanto, minuscola, sono sistemate le amache per tutta la famiglia. Barbara al
tempo aveva 11 anni e si ricorda bene di quando furono evacuati in fretta su
una nave militare e portati in continente, a Masaya, in una scuola. Al ritorno
trovarono una distesa di fango al posto del villaggio, si affondava fino alle
ginocchia. La sua mamma, aiutata dal maggiore dei 9 figli, piantò pali nel
fango, vi appoggiò le assi e fece un riparo di foglie. Mancava tutto, cibo e
acqua, poi arrivarono gli aiuti con le navi da San Andrés, isola colombiana non
distante da Co, e dagli Usa.

16 Gennaio

Lasciamo
l’isola in un pomeriggio ventoso, con un mare forte che fa rullare i
pescherecci.

La
sera a Managua andiamo in pizzeria e conosciamo il proprietario, un romagnolo
che segue con attenzione i dipendenti. Subito chiarisce la sua situazione. «In
Italia non è possibile lavorare, non ci ritorno più, ho tolto i canali italiani
dal mio televisore». Anche lui ha una giovane moglie e una bambina, mentre il
figlio del primo matrimonio è arrivato da poco per lavorare nel ristorante.
Sono storie comuni in questi paesi, quelle di italiani che, stanchi di un
matrimonio sbagliato, di una moglie anziana e figli esigenti o problematici, si
trasferiscono e cambiano vita. Domani andremo verso Nord, a León, l’antica
capitale rivale di Granada.

 
Claudia Caramanti
(fine prima parte, continua)

Claudia Caramanti




Somaliland: Il paese che non c’è

Una storia coloniale
che lo divide dalla Somalia. Indipendente dal 1991 ma non riconosciuto dalla
comunità internazionale.

l Somaliland è riuscito a mantenere l’equilibrio tra
i clan e a evitare la frammentazione del territorio. Ha ottenuto una stabilità
e una pace invidiabili in Africa. Il bestiame e le rimesse sono le sue risorse.

Ma dove va il Somaliland?

«Nabad y Cano», «La pace e il latte». Ad Hargeisa, la capitale del
Somaliland, lo slogan è ribadito sui muri delle case, dà nome a negozi e
ristoranti, trionfa in bocca ai Somali che ti spiegano la distanza che passa
tra il loro paese, che non ha seggio all’Onu e formalmente non esiste, e la
Somalia, più a Sud, reale come possono esserlo delle macerie, o un buco nero di
aiuti inteazionali, o un titolo per l’ennesima conferenza internazionale.

«Pace
e latte», ovvero la stabilità politica e la prosperità. In realtà, nei 23 anni
passati da quando questo estremo lembo settentrionale di Somalia, affacciato
come una terrazza sul Golfo di Aden e sul Medio Oriente, proclamò
l’indipendenza, sia la stabilità che la prosperità sono stati soprattutto un
esercizio retorico e il prodotto di un esperimento politico che la comunità
internazionale non ha capito del tutto. O forse non ha voluto capire. Perché
altrimenti avrebbe dovuto ammettere che il Somaliland, un paese non
riconosciuto dal resto del mondo, e che pertanto non riceve aiuti
inteazionali, è riuscito laddove il legittimo governo somalo ha fallito:
impedire massacri tra fazioni, la radicalizzazione religiosa, la
balcanizzazione del territorio e una perenne emergenza umanitaria. L’immagine
plastica della sicurezza Hargeisa la dà nel centro città, dove schiere di
cambiavalute aspettano i clienti all’ombra di muraglie di banconote logore e
sbiadite, su cui troneggia il sigillo della Banca del Somaliland.

«Non vedresti nulla di simile a Mogadishu», dice
Abdirizak, un venticinquenne con la finanza sulla punta delle dita: scorre
rapidamente i biglietti consunti, li raggruppa in mazzette, li stringe tra le
nocche. «Questo è un dollaro», dice. I biglietti verdi arrivano dalle agenzie
di rimesse che costellano il centro, attorno all’hotel Oriental, all’inizio del
mese e durante le feste come Ramadan ed Eid. Le ricevute dei trasferimenti
monetari dall’estero disegnano una geografia di migrazioni e flussi su scala
globale, dal Kenya all’Inghilterra, da Dubai agli Stati Uniti. E poi più in là,
fino a Cina e India, da dove businessmen locali importano le merci che vengono scaricate nel
porto di Berbera, giovando della tassazione minima, e da lì raggiungono sulla
via dei contrabbandieri Etiopia e Gibuti.

Non
ci sono guardie, attorno all’hotel Oriental. I soldi arrivano in carriole piene
direttamente dalla banca centrale e sono usati per acquistare dollari in
eccesso: il metodo somalo anti inflazione. Ed è quasi una metafora del
Somaliland, dove istituzioni e privati stringono insieme il timone di questo
raffazzonato paese attraverso acque tormentate, verso l’agognato riconoscimento
internazionale.

Somalia o Somaliland?

Somaliland e Somalia non sono
solo i prodotti di diverse avventure coloniali, ma rappresentano due opposte
concezioni d’Africa agli occhi dei colonialisti, inglesi nel primo caso,
italiani nel secondo. Il Somaliland britannico era null’altro che un posto di
transito sulla rotta verso la perla dell’impero, l’India. Empori marittimi
protesi verso lo Yemen, con alle spalle solo una distesa riarsa, attraversata
da nomadi e soprattutto dalle loro mandrie. Per gli inglesi, il valore di
questo territorio di guerrieri indomabili stava per l’appunto nel bestiame e
nella posizione: il primo garantiva l’approvvigionamento dell’avamposto di Aden
e la seconda, da preservare a ogni costo, evitava che sul passaggio in India si
proiettasse l’ombra dei francesi, annidati a Gibuti, o degli italiani.
Coltivando rapporti con i leader tradizionali e religiosi, le autorità
coloniali britanniche preservarono i sistemi locali di governo ed esercitarono
un controllo indiretto sul territorio.

Tocco leggero britannico che
contrasta con il bisturi italiano nel Sud: la Somalia doveva essere l’ennesima
propaggine d’Italia, e per un periodo lo fu, tra le piantagioni di banane e i
fiumi Juba e Shabelle e la dolce vita di Mogadiscio, dove la borghesia
coloniale italiana di giorno si crogiolava sul Lido e la sera passaggiava su
via Roma. Una Versilia sull’Oceano Indiano in cui i nativi musulmani
scivolavano come ombre accanto a commendatori e signore. L’amministrazione
italiana rimescolò le carte: promosse dei leader e ne cancellò altri, fece
saltare senza accorgersene equilibri delicati e neutralizzò meccanismi
tradizionali di risoluzione dei conflitti che per secoli avevano consentito a
gruppi di pastori, amanti della poesia ma armati fino ai denti, di coabitare
nello stesso ambiente scarso d’acqua e di pascoli.

Indipendenza: strano paese

Il paese
che l’Italia consegnò all’indipendenza, nel 1960, era una strana creatura di
ufficiali cresciuti nei carabinieri ma ben radicati nei clan d’appartenenza e
partiti modellati sulla Democrazia Cristiana e con una pericolosa vocazione
autoritaria. La Somalia italiana e il Somaliland britannico diventarono
l’indipendente Repubblica somala. Ma secoli di migrazioni avevano disseminato
comunità somale per tutto il Coo d’Africa, nel Kenya Nord orientale e
nell’Haud etiope. Le tensioni tra la neonata Somalia e i paesi vicini
iniziarono all’indomani dell’indipendenza, con l’insurrezione degli irredentisti
somali in Kenya, repressa nel sangue da Jomo Kenyatta. Per riscattare l’onore
violato della democrazia somala sconfitta, il generale Siad Barre, «bocca larga»,
come era chiamato, prese il potere e virò il timone verso il campo sovietico,
lanciando una sedicente rivoluzione socialista per secolarizzare il paese sul
modello della Turchia di Ataturk.

Negli anni ’70, però, la
guerra contro l’Etiopia per ricongiungersi ai fratelli somali in Ogaden fece
deragliare la rivoluzione, l’alleanza con l’Urss (che prese le parti
dell’Etiopia di Menghistu) e la Somalia intera.

Perso lo sponsor sovietico,
la Somalia si affidò sempre di più agli aiuti inteazionali, che negli anni
‘80 fluirono nel paese per sparire nelle tasche dei papaveri del regime, tutti
legati allo stesso clan Darod di Siad Barre.

La secessione

La politica dei clan, mai
scomparsa del tutto, era riemersa nelle crepe delle istituzioni democratiche e,
nel Nord del paese, era stata abbracciata dagli Isaaq, famiglie di commercianti
e allevatori, insofferenti all’accentramento in mani Darod. Il Somali National Movement (Snm) nacque
all’inizio come forza politica per rivendicare maggiore autonomia, ma la feroce
repressione del regime lo trasformò durante gli anni ’80 in movimento di
guerriglia. Nell’88, Siad Barre autorizzò bombardamenti a tappeto su Hargeisa
per domare i rivoltosi (e per puntellare il consenso attorno al suo ormai
decrepito regime). Migliaia di profughi si riversarono in Etiopia, ma
Mogadiscio non riuscì a completare la distruzione: nel ’91 il regime somalo
collassò e una miriade di fazioni se ne contese le spoglie (e, col passare del
tempo, gli aiuti umanitari in arrivo). Lo stesso anno, i leader dell’Snm
proclamarono la resurrezione dell’ex Somaliland britannico, stavolta come
Repubblica del Somaliland.

La guerra civile dell’88 fu
l’atto di mutilazione dal resto della Somalia. Nel cuore di Hargeisa, la
carneficina è raccontata in un murales sul monumento iconico della città, un
piedistallo su cui è issato un Mig somalo, abbattuto dalla contraerea dell’Snm.
Il sangue versato alimentò l’aspirazione all’indipendenza. Il nuovo Somaliland
emerse da una conferenza durata quasi un anno a Borama, una città
nell’entroterra, dove leader religiosi, capiclan e politici navigati si riunirono
per discutere l’assetto da dare al nuovo paese. Ne emerse un sistema ibrido,
che riunisce istituzioni politiche di stampo occidentale, un parlamento di
rappresentanti e uno di anziani, e poi diversi meccanismi giuridici a vario
livello. Questa complessa architettura, non priva di tensioni, è per molti la
chiave che spiega la relativa stabilità del Somaliland. Sistema in cui gli
assetti interni furono decisi fin dall’inizio in consultazioni locali, e non in
conferenze inteazionali come in Somalia.

Il primo presidente Egal, già
uomo forte del regime di Mogadiscio caduto in disgrazia con Siad Barre e rinato
come padre dell’indipendenza del Somaliland, giocò la carta della supremazia
Isaaq, in effetti maggior clan del nuovo stato. Ma ciò alienò i clan Darood
dominanti nelle regioni orientali, sul confine con il Puntland, altro brandello
di Somalia scampato al caos, ma privo di velleità indipendentiste. È qui, nelle
regioni di Sol e Sanaag, che la politica si fa ancora mitra in mano e, per
quanto le elezioni del 2011 si siano concluse regolarmente secondo gli
osservatori inteazionali, la tensione resta alta. Tanto più da quando
circolano voci sulla presenza di petrolio nella zona. A Las Canood, capitale di
Sol, i leader Dulbahante e Warsangeli, i sottoclan più influenti, immaginano già
una nuova Dubai sul Coo d’Africa.

Bestiame e rimesse

Per il
momento, il «petrolio» del Somaliland consiste in due risorse: quella
principale è il bestiame, cammelli, bovini e capre, che da qui, e dalla zona di
confine con l’Etiopia, fluisce verso l’Arabia Saudita e lo Yemen attraverso il
porto di Berbera: una ricchezza che vale quasi il 30% del prodotto interno
lordo (appena un miliardo e quattrocento milioni di dollari, il quarto più
basso del mondo per reddito procapite) e impiega circa il 25% della forza
lavoro, sia uomini che donne, ma che è estremamente dipendente da variabili
estee. Così, il bando imposto tra il 2001 e il 2009 dall’Arabia Saudita
all’importazione di bestiame per motivi sanitari fu un duro colpo per l’economia
del paese. Oggi, i casi di Mers (Middle east respiratory syndrome) rilevati nella penisola Arabica e legati ai
cammelli fanno temere un giro di vite sulle esportazioni future. Anche l’altra
risorsa cruciale, le rimesse inteazionali, che tiene a galla il paese,
dipende dagli equilibri inteazionali.

Il
gigante locale nel settore, Dahabshiil, fondato negli anni ’70 da Mohamed Duale
e oggi guidato dal figlio Abdirashid, è una delle avventure imprenditoriali
d’Africa di successo. Da qui transitano gran parte dei circa 500 milioni di
dollari (cifra stimata) inviati dai migranti per sostenere famiglie e business.
Per operare in Europa, tuttavia, le agenzie di rimesse devono appoggiarsi a
un’istituzione bancaria riconosciuta. Nel 2013, la banca Barclays, che consente
a Dahabshiil di operare in Gran Bretagna, aveva annunciato la chiusura dei
conti per incapacità di monitorare le transazioni. Solo dopo una mobilitazione
di massa di intellettuali e attivisti la misura è stata revocata.

«Anche
se non siamo riconosciuti, il Somaliland è un paese davvero globale», dice
Mohamed Behi Yonis, il ministro degli Esteri. «In tanti qui hanno doppio
passaporto. Vanno in Europa o negli Stati Uniti, acquisiscono la cittadinanza e
poi tornano indietro». In effetti, pur dalla sua posizione marginale, il
Somaliland non ha nulla da invidiare all’Etiopia per quanto riguarda le
comunicazioni. Tutt’altro: le telefonate inteazionali dal Somaliland sono le
più economiche del mondo, e il settore delle telecomunicazioni, da cui dipendono
i rapporti con la diaspora, è particolarmente dinamico e innovativo. Ma il tema
del riconoscimento internazionale ricorre nelle conversazioni al mercato del
bestiame Mahmoud Haybe o nei chioschi dove i Somali masticano khat, uno stimolante leggero che arriva ogni mattina dall’Etiopia. Il
desiderio di essere uno stato come gli altri si scontra contro il dogma delle
frontiere coloniali a cui l’Unione Africana è aggrappata, nonostante le
sanguinose eccezioni degli ultimi decenni (da ultimo, il Sud Sudan). Maggiori
sono i progressi della Somalia, minori sono le prospettive che il Somaliland
conquisti un seggio all’Onu. Perfino la Turchia, uno dei maggiori partner del
governo di Hargeisa, è allergica ai separatismi. «Stiamo lavorando a livello
diplomatico per dimostrare che il Somaliland può essere un prezioso partner
internazionale», dice ancora Behi Yonis. «Siamo riusciti a evitare la guerra e
a contenere il terrorismo. Possiamo contribuire al bene della Somalia. Ma il
nostro futuro è l’indipendenza».

Gianluca Iazzolino

Questo servizio è la
prima puntata dell’inchiesta sul mobile money intitolata: «Riuscirà
il denaro del futuro a rendere la povertà un problema del passato?
».

L’inchiesta è finanziata
nell’ambito del programma Innovation Development Reporting dell’European
Joualism Centre
. www.joualismgrants.org.

Inchiesta «mobile
money» – Denaro virtuale / 1

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L’inchiesta
Cos’è il denaro
elettronico, al secolo «mobile money»

Dare un conto in «banca»
a tutti

Servizi finanziari per i più poveri: questa la formula
magica che agenzie inteazionali dello sviluppo ripetono con crescente
frequenza. La visione tecnocratica dell’accesso al credito mutua il linguaggio
dell’industria bancaria e cavalca l’innovazione tecnologica: il telefono cellulare,
il «silver bullet» come dicono, o lo strumento definitivo per veicolare
prodotti finanziari nelle aree più remote dei paesi in via di sviluppo.

Così, il mobile money,
ovvero il denaro mobile, è diventato il fenomeno del momento nella comunità di
esperti dello sviluppo. Punto di convergenza degli interessi di compagnie
telefoniche, organizzazioni inteazionali e Ong, che stanno già cominciando a
usare piattaforme accessibili da telefoni cellulari per pagare stipendi e
muovere fondi.

Al momento 233 servizi di mobile
money
sono disponibili nel mondo, soprattutto in Africa subsahariana e in
Asia meridionale.

M-Pesa, la piattaforma lanciata da
Safaricom in Kenya nel 2008, ha fatto scuola: il successo del servizio, che
conta oggi oltre 23 milioni di utenti, ovvero il 73% della popolazione adulta
kenyana, e muove ogni mese quasi 150 miliardi di scellini kenyani (1,25
miliardi di euro), è stato un’iniezione di fiducia per multinazionali
desiderose di conquistare il cosiddetto «fondo della piramide», ovvero i
consumatori più poveri.

Secondo il Cgap (Consultative groupe to assist the
poor
), un centro di ricerca che promuove l’inclusione finanziaria nel Sud
del mondo, la telefonia mobile è oggi la tecnologia fondamentale per spalancare
le porte delle banche – banche senza muri – ai 2,7 miliardi di persone nel
mondo che non hanno accesso ai servizi finanziari. Così come la telefonia
mobile ha scavalcato la necessità della telefonia fissa, il denaro mobile può
permettere un salto a piè pari delle infrastrutture bancarie tradizionali. Ecco
perché le compagnie telefoniche dubitano che nel Nord del mondo, affollato di
carte di credito, conti online e altri prodotti bancari, il denaro mobile possa
attecchire. Mentre nel Sud la crescente mobilità, sia legale che illegale, fa
della smaterializzazione del contante un vantaggio in termini di sicurezza e
flessibilità. Resta la domanda: di chi è il vero ritorno? E chi sono i nuovi
esclusi?

Abbiamo provato a rispondere a
questi quesiti nel corso di un viaggio che comincia in Somaliland e ci porterà
fino in Nepal, passando da Haiti e Burkina Faso. Dove negli ultimi anni il
denaro mobile ha consentito a centinaia di migliaia di persone di diventare per
la prima volta titolari di un conto bancario, sia pure «nella nuvola» (nel cloud,
ovvero virtuale).

Gianluca
Iazzolino e Marco Bello


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La diffusione del mobile money
in Somaliland
Il denaro virtuale nel
paese inesistente

Abdirizak non si separa mai dal suo telefono cellulare. Lo stringe
in pugno mentre si aggira tra mandrie di cammelli, parlando rapidamente con gli
altri mercanti, finché si ferma e dà la mano a uno di loro. Le loro parole sono
coperte dal rumore di fondo di versi animali e voci umane. I due nascondono la
stretta di mano sotto un panno bianco, e la contrattazione ha inizio. Le cifre
sono espresse in silenzio, sulla punta delle dita. Dita che si toccano e si
stringono: pizzicare l’indice altrui significa rilanciare di mille, afferrare
l’intera mano è una richiesta da 5.000.

Attoo, i curiosi tentano di
prevedere l’andamento della contrattazione mentre l’oggetto dell’interesse, un
esemplare femmina di cammello, rumina beato a due passi. Quando i due
raggiungono un accordo, la stretta di mano è rotta con enfasi. Poche frasi per
definire l’affare, quindi la parola torna alle dita, stavolta sulla tastiera
dei cellulari. Non c’è contante, né documenti da firmare. Abdirizak digita
rapidamente sul suo telefono e, quando il cellulare dell’altro squilla, la
cammella ha un nuovo padrone.

Scene simili si ripetono senza sosta nel mercato di
bestiame Mahamud Haybe, alla periferia della capitale del Somaliland, Hargeisa.
Questo è il cuore economico di un paese inesistente e reale al tempo stesso,
dove flussi di cammelli, bovini e capre uniscono le aree rurali a quelle
urbane, il corno d’Africa alla penisola arabica. Questo è il luogo in cui i
cambiamenti entrano in sintonia con l’anima del Somaliland.

In passato, i pagamenti sarebbero
stati effettuati con una lettera firmata per ritirare il dovuto presso una
delle tante agenzie di rimesse che costellano Hargeisa. Oggi, invece, è bastato
Zaad, una piattaforma di denaro elettronico lanciata nel 2009 da Telesom, il
maggiore operatore di telefonia mobile del paese. Da allora, il servizio si è
diffuso dappertutto, conquistando 380.000 iscritti e 275.000 utenti attivi su
una popolazione di 3,8 milioni di abitanti.

La Gsma, l’associazione che
riunisce gli operatori di telefonia mobile, l’ha definito un «Mobile Money
sprinter
» e l’ha accolto come un motore d’inclusione finanziaria. L’impatto
di Zaad sull’economia del Somaliland balza all’occhio: i numeri di conto
spiccano sui muri, su cartelli appesi in negozi e ristoranti o anche solo su
semplici fogli bianchi in cima alle pile di denaro dei cambiavalute.

In un paese privo di banche commerciali e tagliato fuori dai
circuiti bancari inteazionali, Zaad permette agli utenti, siano commercianti,
studenti o pastori, di conservare i risparmi in un portafogli elettronico ed
effettuare pagamenti a distanza. Le agenzie di rimesse continuano a dominare il
campo delle transazioni inteazionali, ma negli ultimi anni hanno senza dubbio
perso terreno nei confronti di Zaad all’interno del Somaliland. Non è stata
un’impresa facile per Telesom, una compagnia telefonica fondata da Sheik
Ahmed-Nour Mohamed Jimale nel 2002 e oggi divisa tra una miriade di azionisti.

Creato sul modello di Safaricom
M-Pesa in Kenya, il più celebre e studiato sistema di denaro elettronico al
mondo, Zaad è stato adattato a un contesto che non ha eguali. Anche se la
moneta locale è lo scellino del Somaliland, il sistema opera con dollari
americani, la valuta che olia il commercio locale e dà la misura della bilancia
commerciale in profondo rosso del paese.

Lanciato inizialmente tra
imprenditori e commercianti, Zaad non ha spese aggiunte. «All’inizio, la gente
era piuttosto diffidente a caricare denaro nel sistema» ricorda Abdikarim
Mohamed Eid, il direttore generale di Telesom. «Dovevamo conquistare la loro
fiducia. Così siamo riusciti a convincere i datori di lavoro a pagare gli
stipendi attraverso Zaad e abbiamo plasmato un ecosistema. Sapevamo che se
tutti avessero accettato Zaad, l’uso sarebbe schizzato alle stelle». Entro un
anno, così è stato. Nel 2010, il tasso di iscritti si è impennato. In quanto
principale operatore mobile del paese, Telesom ha fatto leva su un effetto
network: i pagamenti si possono effettuare solo tra sim Telesom, una strategia
che ha aumentato il divario con gli altri concorrenti nello stesso campo. Anche
senza applicare tariffe di servizio, Telesom è riuscita ugualmente a fare
affari d’oro fidelizzando i clienti.

Nel 2011 ha lanciato Salaam Bank, una banca
islamica i cui servizi sono accessibili dalla piattaforma Zaad, servizi che
includono non solo conti correnti, ma anche piccoli prestiti. Il fenomeno Zaad
ha cominciato ad attirare l’attenzione degli attori dello sviluppo
internazionale, evocando la morte del contante.

Basta una passeggiata nel cuore di
Hargeisa per rendersi conto che non è proprio così. Montagne di cartamoneta
aspettano di essere tramutate in dollari o smaterializzate in sms. «Zaad ha
cambiato il nostro lavoro», dice Abdullahi, un cambiavaluta. «Trasformiamo
denaro di carta in denaro elettronico, così chiunque può viaggiare tranquillo
con la sua scorta di dollari».

Il problema è che quelli che
possono riempirsi il portafogli elettronico di denaro Zaad sono quelli che già
vengono pagati in dollari, ovvero dipendenti del settore privato, espatriati e
destinari di rimesse. «Noi dipendenti pubblici siamo pagati in scellini»,
confida Wali Dauud Egal, funzionario al ministero delle finanze. «Accelerando
la dollarizzazione dell’economia, Zaad non fa che gonfiare i prezzi e questo ha
delle ricadute su di noi in particolare».

Il governatore della Banca centrale
del Somaliland, Abdi Diriir Abdi esprime la stessa preoccupazione, venata di
toni nazionalisti: «Telesom è al di là della nostra portata; non sappiamo
quanti soldi incassano e, di conseguenza, come regolarci con le tasse. Inoltre,
Zaad provoca inflazione e offende la dignità della nostra moneta. In Kenya o
Tanzania, le compagnie di telefonia mobile usano la valuta locale. Perché qui
no?».

A dire la verità, non esistono
studi che leghino Zaad all’inflazione. Ma è un dato di fatto che Zaad sia
esplosa in un vuoto di regole. Quando Abdikarim Mohamed Eid discusse per la
prima volta l’idea di denaro mobile con il precedente governatore centrale,
l’accordo fu di sviluppare un regolamento strada facendo. Zaad applicò delle policies
in linea con le norme inteazionali anti riciclaggio, ma, con il nuovo
governatore, la discussione si arenò. Lo strapotere di Zaad non sfugge agli
abitanti del Somaliland i quali, pur facendone largo uso, ammettono che il
controllo di Telesom sull’economia nazionale potrebbe essere negativo nel lungo
termine.

Eppure, mentre la Banca centrale è incapace di imporre
l’uso degli scellini, gran parte dei somali continua a preferire i dollari per
mettersi al riparo dall’inflazione. Inoltre, lo scontro tra Telesom e la Banca
centrale riflette le contraddizioni di un sistema in cui non esiste un confine
netto tra politici e uomini d’affari. Adesso, la linea sfumata è anche tra
operatori telefonici e istituzioni finanziarie. Il vero avversario di Telesom è
infatti Dahabshiil, pronto a entrare nel campo del denaro mobile con la
piattaforma E-Dahab. Allo stesso tempo, Zaad si prepara a varcare i confini del
paese e, dopo aver stretto un accordo con Tawakal e WorldRemit, due agenzie di
rimesse inteazionali, anuncia una rivoluzione nel settore delle transazioni
inteazionali. Mentre la competizione imperversa, la mancanza di regole sta
mettendo a nudo l’incapacità dello stato di guadagnare da questo lucrativo giro
d’affari, o anche solo di monitorarlo. Il che potrebbe rivelarsi un boomerang,
proprio per l’accesso ai servizi finanziari.

Tradendo l’aspirazione al
riconoscimento internazionale, molti commercianti dicono che la vera inclusione
finanziaria si realizzerà solo quando il paese sarà integrato nei circuiti
bancari globali. Ma per Safyia, una consulente all’Inteational Labour
Organization
(Ilo) che forma donne imprenditrici, il problema è soprattutto
quello delle donne nelle aree rurali, dove l’economia è di sussistenza: «Non
hanno garanzie per chiedere prestiti, nè in contanti nè in formato elettronico
– dice -. E spesso non possono neppure aprire un conto Zaad perché non hanno
una carta d’indentità. L’inclusione finanziaria dovrebbe andare di pari passo
con l’inclusione politica». 

Gianluca
Iazzolino e Marco Bello

(Fine prima
puntata – continua) 

Marco Bello e Gianluca Iazzolino




El Salvador 5: Dai massacri alla domanda di giustiziaPer non essere più «terra bruciata»

Piccole pratiche di giustizia riparativa.



Abbracciare chi ha sofferto, costruendo uno spazio in
cui il suo grido di giustizia possa finalmente esprimersi e trovare ascolto.
Narrare e fare memoria del passato, traendone un monito per il futuro. Chiamare
lo stato a rispondere per le sue azioni e omissioni. Sono alcuni degli intenti
del Tribunal inteacional para la
aplicación de la justicia restaurativa
, iniziativa privata che intende
restituire una risposta di giustizia alle vittime dei gravi crimini compiuti
nei decenni passati in El Salvador.

«Il
mio nome è José Coelio Chicas, quando si verificò il massacro (il caso
conosciuto come Massacro del Junquillo, avvenuto il 14 marzo 1981 nell’omonimo caserío
– borgo – del municipio di Cacaopera, nel dipartimento di Morazán, ndr)
avevo 27 anni, ora ne ho 58». Stringendo il cappello tra le mani e con la voce
che sussulta, don Coelio racconta la storia di sua madre, di sua moglie, dei
loro quattro bambini – l’ultimo dei quali nato 22 giorni prima -, dei suoi
fratelli con le loro mogli e i loro figli, spazzati via uno a uno dalla
violenza cieca del battaglione Atlacatl, per il folle progetto politico che
pretendeva di eliminare la guerriglia circondandola di «terra bruciata», ossia
sterminando i villaggi contadini in cui i guerriglieri potevano, potenzialmente,
trovare sostegno.

Mentre don Coelio con dolcezza chiama per nome i suoi
bambini, racconta della fuga, degli spari, del maiale che divorava i resti dei
più piccoli e del volo degli avvoltorni sulla sua casa bruciata, l’uditorio lo
ascolta in silenzio, quasi in apnea, e sostiene la sua voce spezzata con la sua
presenza attenta e discreta.

La povertà e il dolore hanno fatto invecchiare
precocemente quest’uomo mite che, tra le lacrime, ringrazia Dio e i presenti
per l’opportunità di parlare. Poi rivolge un pensiero allo stato: «Mi hanno
raccontato che a San Salvador c’è un monumento a Roberto D’Aubuisson. Lo chiamo
con nome e cognome e con la certezza che fu un assassino. È un abuso per me e
per tutta questa gente sopravvissuta. È anche un abuso, io credo, che la terza
brigata del dipartimento di San Miguel sia stata intitolata al colonnello
Domingo Monterrosa: questo vuole dire che nel paese in cui siamo nati noi non
valiamo nulla…».

La denuncia del signor Coelio risuona molte volte nel
corso delle sessioni del Tribunale: le celebrazioni istituzionali dei militari
che furono responsabili dei crimini commessi in El Salvador non possono non
ferire profondamente le vittime. La rimozione di tutte le onorificenze
conferite ai victimarios è una delle forme di riparazione invocate,
insieme alle indagini e ai processi che dovrebbero affermare pubblicamente la
verità su quanto accadde in quegli anni bui, alla ricerca delle persone
scomparse, alle esumazioni, alla nobilitazione pubblica delle vittime, alla
trasmissione della memoria storica alle nuove generazioni, all’indennizzo
economico e all’assistenza sanitaria e psicologica. Il diritto internazionale,
facendo riferimento a queste richieste, che accomunano tutte le vittime di
gravi violazioni, parla di «riparazione integrale» (che si compone di
ristabilimento, risarcimento, riabilitazione, soddisfazione, garanzie di non
ripetizione).

Alcune vittime, con grande coraggio, chiedono di più.
Don Coelio pronuncia parole audaci e sofferte che suonano come un messaggio di
pace: «Come sopravvissuto domando allo stato che indaghi e faccia giustizia.
Alle persone che commisero questo chiedo che, per favore, vengano davanti a noi
e ci chiedano disculpa, dicano chi impartì loro gli ordini. Io
desidererei che il sig. Medina Garay [che ordinò di massacrare gli abitanti del
Junquillo] venisse a questo tribunale e ci dicesse: “Ho commesso un grande
errore e oggi vi chiedo perdono”. Io sono disposto a perdonare questa gente,
però devo vederla!».

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Tribunal para la justicia restaurativa


Liberare le ferite dal silenzio

Il Tribunal inteacional para la aplicación de la
justicia restaurativa
è un’iniziativa dell’Istituto per i diritti umani
dell’Università Centroamericana «José Simeón Cañas» (Idhuca) e dei comitati
delle vittime del conflitto armato. La sua prima edizione, nel 2009, si svolse
nella cappella «Gesù Cristo Liberatore» dell’Università, dove riposano i resti
mortali dei sei gesuiti, «martiri per la giustizia», trucidati vent’anni prima.
Negli anni successivi, il Tribunal (che è giunto alla sua sesta
edizione) è stato celebrato in differenti località del paese, in prossimità di
luoghi che sono stati scenario di gravissime violazioni dei diritti umani nel
corso del conflitto.

Il termine «tribunale» è utilizzato in senso lato: si
tratta, infatti, di un organismo privo di qualunque riconoscimento legale,
istituito come tentativo dell’Idhuca (con l’appoggio di persone ed enti
stranieri) di iniziare a rispondere all’esigenza di giustizia delle vittime e
della società salvadoregna che è stata fino a questo momento frustrata dallo
stato. Il riferimento alla «giustizia riparativa» segnala che si tratta di una
modalità «non formale» di giustizia, che pone al centro le vittime e non
appiattisce la risposta al loro grido sulla punizione dei colpevoli (Si veda
il dossier di MC dicembre 2013 sul tema della Giustizia riparativa
).

Le vittime, affiancate dai loro familiari, dai comitati e
dalle comunità cui appartengono, sono protagoniste di questa peculiare
iniziativa. Vi sono inoltre alcuni giuristi, docenti universitari, persone
competenti e sensibili provenienti da diversi paesi, che ricoprono il ruolo di «giudici».
Ultimi, ma non meno importanti, gli avvocati e il personale dell’Idhuca,
inclusi i volontari e gli studenti che prestano il loro servizio sociale.

Ogni edizione di questa toccante esperienza prevede tre
giornate di testimonianze, che si concludono con la presentazione delle
richieste che le vittime, per mezzo del Tribunal, rivolgono allo stato e
che possono, anche in questo caso, essere riassunte con le seguenti parole:
verità, giustizia, riconoscimento, riparazione.

Vi è uno spazio anche per gli avvocati dell’Idhuca,
rappresentanti delle vittime, che, attraverso petizioni molto puntuali,
richiamano lo stato all’assunzione delle sue responsabilità e all’adempimento
degli obblighi derivanti dal diritto nazionale e internazionale.

Questa iniziativa si propone di contribuire a «sanare le
ferite» delle vittime e della collettività, attraverso la centralità data alla
narrazione di storie a lungo incarcerate nel loro intimo. L’ascolto attento e
rispettoso dell’uditorio permette a chi, liberamente, ha scelto di prendere la
parola, di sentirsi creduto e «riconosciuto» nella propria dignità e nel proprio
dolore. Il racconto in «prima persona» permette di intrecciare la memoria
personale con la storia del paese, tessendo i fili della memoria storica,
sapienza tanto cara a coloro che qualcuno ha tentato di annullare e far
scomparire.

Inoltre, il Tribunal de justicia restaurativa
intende avvalersi della sua autorità morale per affermare la responsabilità
degli autori dei crimini e dello stato ed emettere un forte richiamo nei loro
confronti. La censura nei confronti dello stato non si limita al fatto che esso
non abbia rispettato e garantito i diritti dei suoi cittadini nel momento in
cui avvennero le violazioni, ma si estende alla mancanza della volontà politica
di investigare e chiamare i colpevoli a rispondere.

Infine, il carattere pubblico di questa iniziativa (è
trasmessa dalla radio dell’università, attraverso Inteet, ed è seguita dalla
stampa nazionale) intende favorire la conoscenza e la solidarietà dell’intera
popolazione nei confronti delle vittime e propiziare il consenso verso misure a
loro favore e contro l’impunità.

A.Z.

El Salvador in cifre

Superficie: 21mila kmq. Capitale:
San Salvador.

Abitanti: 6,2milioni (2012), di cui 86.3% meticci, 12,7% bianchi,
1% indigeni (2007). Urbanizzazione: 64%.

Aspettativa di vita: 74 anni. Mortalità infantile: 1,8%. Adulti alfabetizzati: 84,5%.

Religione: Cattolici romani 57,1%, Protestanti 21,2%, Testimoni di
Geova 1,9%, Mormoni 0,7%, altre religioni 2,3%, non religiosi 16,8% (stime del
2003).

Presidente: Salvador Sanchez Cerén.
Valuta: Dollaro statunitense.
 
Bibliografia

• D. Pompejano, Storia dell’America Latina, Bruno Mondadori,
Milano 2012;
• A. Palini, Oscar Romero: «Ho udito il grido del mio popolo»,
prefazione di M. Chierici, AVE, Roma 2010;
• E. Maspoli, Ignacio Ellacuría e i martiri di San Salvador,
prefazione di J. Sobrino, Paoline, Milano 2009;
• ONU, De la locura a la
esperanza: la guerra de los doce años en El Salvador: informe de la Comisión de
la Verdad para El Salvador
, UN Doc. S/25500, San Salvador – Nueva York,
1992-1993 (disponibile in Inteet);
• G. Guzmán Orellana, I. Mendia Azkue, Mujeres con memoria. Activistas
del movimiento de derechos humanos en El Salvador
, Bilbao 2013 (disp. in
Inteet);
• Manlio Argueta, Un giorno nella vita, EMI, Bologna 1992
(romanzo).
• Asociación Pro-Búsqueda de niños y niñas desaparecidos, La Paz
en construcción: un estudio sobre la problemática de la niñez desaparecida por
el conflicto armado en El Salvador
, Asociación Pro-Búsqueda / Save the
Children Suecia, San Salvador 2003;
• Enciclopedia Treccani, Dizionario di storia (2011), voce «El Salvador»;

• Ó. Martínez Peñate (cornord.), El Salvador: historia general,
Nuevo Enfoque, San Salvador 2008;

 
Nota:

Per rispetto della privacy, alcuni nomi
che compaiono in questo dossier sono di fantasia. 

L’autrice del
dossier:

Annalisa Zamburlini ha effettuato studi
di filosofia e discipline umanistiche. È dottoranda di ricerca in Sociologia e
metodologia della ricerca sociale presso l’Università Cattolica di Milano.
Questo dossier è frutto delle ricerche condotte per la tesi di dottorato,
incentrata sui processi e le problematiche delle fasi di transizione post
conflitto e sulla domanda di giustizia delle vittime, con speciale attenzione
al caso salvadoregno. Ha trascorso nel paese centroamericano due periodi di
ricerca, nel 2012 e nel 2014, durante i quali ha potuto collaborare con
l’Idhuca (Instituto de Derechos Humanos de la Universidad Centroamericana
José Simeón Cañas
) di San Salvador.

Coordinamento
editoriale:

Luca Lorusso, redazione MC.

Tags:
El Salvador; guerra; violenze; desaparecidos;
giustizia; ingiustizia; verità; riparazione; memoria; diritti umani;
guerriglia; paramilitari; squadroni della morte; Oscar Romero; Arena; Fmln;
Funes; Salvador Sanchez Cerén; Gesuiti; Universidad Centramericana; madri;
golpe; reencuentro; giustizia riparativa; justicia restaurativa; Massacro del
Junquillo; Massacro di Cayetana; Comadres; Frente Farabundo Martí;
Pro-Búsqueda; Centro Madeleine Lagadec; Tribunal inteacional para la
aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




El Salvador 4: Dai massacri alla domanda di giustizia Quasi rinascere

Rintracciare bimbi scomparsi nel conflitto dopo 30
anni
Sottratti con la forza dai militari alle loro
famiglie, smarriti dai genitori nel corso delle fughe, sopravvissuti alle
carneficine, affidati dalle madri alla cura di terze persone nel tentativo di
salvae la vita, utilizzati come copertura dalla guerriglia, cresciuti in
orfanotrofi, in caserme o avviati all’adozione internazionale da funzionari
corrotti, furono centinaia i bambini salvadoregni di cui si persero le tracce
negli anni della guerra. L’Asociación Pro-Búsqueda, fondata da un sacerdote
gesuita nel 1994, aiuta i genitori nella loro ricerca dei figli desaparecidos.

La
scomparsa di minori nel corso di operazioni militari fu denunciata da alcuni
genitori alla Commissione per la verità ma, in quel contesto, non incontrò
attenzione specifica: i bambini furono semplicemente registrati tra i desaparecidos.
Il gesuita Jon Cortina, docente della Uca (Universidad Centroamericana «José
Simeón Cañas»
) e parroco di Guarjila, nel dipartimento di Chalatenango, e
alcune persone che facevano parte della locale commissione per i diritti umani,
presero a cuore la causa delle famiglie che cercavano i loro figli e iniziarono
ad aiutarle a sporre denuncia ai tribunali competenti, a contattare gli
orfanotrofi del paese e a organizzare iniziative pubbliche.

Asociación Pro-Búsqueda

I primi esiti di questo lavoro si
ebbero già all’inizio del 1994, quando cinque dei cinquanta bambini scomparsi
di Guarjila furono rintracciati in un orfanotrofio e ricongiunti alle loro
famiglie. La notizia del reencuentro si diffuse rapidamente nelle
comunità vicine e incoraggiò altri familiari a intraprendere le ricerche.
Davanti alla totale negligenza delle istituzioni statali, padre Cortina e i
familiari decisero di continuare la lotta in modo più formale e sistematico,
costituendo l’Asociación Pro-Búsqueda de niñas y niños desaparecidos durante
el conflicto armado
(Associazione per la ricerca delle bambine e dei
bambini scomparsi durante il conflitto armato). Attualmente ne fanno parte
anche «bambini» ritrovati (che ora sono adulti di 30-35 anni) e altri che
(consapevoli di essere cresciuti con persone diverse dai genitori biologici)
cercano la loro famiglia d’origine. Pro-Búsqueda conta su un’unità
psicosociale che assiste i familiari e i giovani lungo tutto il percorso di
ricerca, li affianca nel delicato momento del rincontro oppure nella sfortunata
necessità di elaborare il lutto, e dispone di una banca di profili genetici
nella quale è stato raccolto, a oggi, il Dna di circa 1200 familiari di minori
scomparsi e di giovani che cercano le loro famiglie naturali.

Scomparsi e ritrovati

Sottratti con la forza dai militari alle loro famiglie,
smarriti dai genitori nel corso delle estenuanti fughe, sopravvissuti alle
carneficine, affidati dalle madri alla cura di terze persone nel tentativo di
salvae la vita, utilizzati come copertura dalle cellule della guerriglia,
cresciuti negli orfanotrofi, nelle caserme, o avviati all’adozione
internazionale da avvocati e funzionari corrotti, furono centinaia i bambini
salvadoregni di cui si persero le tracce negli anni della barbarie.

Fino a ora, Pro-Búsqueda ha registrato 925 casi e
ne ha risolti 389. Di questi, 335 giovani sono stati ritrovati vivi (alcuni in
Italia, presso ignari genitori adottivi) e hanno potuto incontrare le loro famiglie
naturali, mentre in 54 casi le indagini hanno accertato la morte del minore,
consentendo perlomeno ai familiari di uscire dall’estenuante condizione di
ricerca e di sospensione. Nonostante il lavoro febbrile e i buoni risultati, il
numero di casi in attesa di soluzione non diminuisce, ma aumenta nella misura
in cui le informazioni riguardanti la possibilità di cercare i bambini
scomparsi raggiungono i villaggi più remoti.

Finalmente una commissione nazionale

Con l’appoggio di Pro-Búsqueda,
i familiari di alcuni dei bambini scomparsi hanno presentato denuncia alle
autorità nazionali e, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti
alle istituzioni inteazionali. Il caso delle sorelle Serrano Cruz ha portato
alla prima condanna dello stato salvadoregno da parte della Corte
interamericana per i diritti umani. Tra le misure di riparazione materiale e
simbolica prescritte dal Tribunale internazionale vi era la creazione di una
Commissione nazionale di ricerca dei bambini scomparsi. Dopo avere a lungo
tergiversato, il governo di El Salvador ha istituito tale Commissione, tuttora
operante.

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La madre ritrovata

«Bienvenido Manuel de Jesús!». Lo striscione
azzurro sulla porta della stanza annuncia quasi una nuova nascita. Il giovane
entra con passo veloce, accompagnato dai suoi figli, vestiti a festa. Si dirige
verso l’anziana signora in sedia a rotelle e l’abbraccia con delicatezza. Anche
i bambini salutano timidamente quella nonna sconosciuta.

Stiamo assistendo a un reencuentro, il reincontro
con la madre di un ex bambino desaparecido durante la guerra. Manuel
sopravvisse nel 1981 al massacro del suo villaggio. Fu trovato solo e
abbandonato e fu adottato da un’altra famiglia. La madre, da lui creduta morta,
l’ha cercato per trent’anni. Nemmeno una foto le era rimasta del figlio
scomparso. Oggi s’incontrano per la prima volta da allora.

Ad assistere all’incontro, frutto del lavoro della Comisión
Nacional de Búsqueda
, sono presenti anche diversi giornalisti che
interrompono l’emozione del momento con domande e flash, e assaltando i due
prima che possano veramente credere in quello che stanno vivendo.

Pensiamo alla loro storia – che è la storia di centinaia
di famiglie salvadoregne – e vorremmo poterci affacciare, per un momento, nel
cuore di quella madre e di quel figlio. È un momento di risurrezione, di
giustizia, di riparazione, come ci hanno detto sia a Pro-Búsqueda che
alla Comisión Nacional de Búsqueda. Nulla restituirà alla madre tutti i
momenti che non ha potuto vivere accanto a suo figlio; niente potrà risarcire
il figlio per il trauma e l’abbandono subito. Ma questo è certamente il giorno
più atteso, dove il dolore trova finalmente sollievo e la verità e la giustizia
si trasformano in ossigeno di vita.

A.Z.

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aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




El Salvador 3: Dai massacri alla domanda di giustizia «I nostri morti sono esistiti»

1974: il massacro de la Cayetana

Per fare «terra bruciata» attorno alla guerriglia,
l’esercito salvadoregno sterminò interi villaggi. È stato il caso anche de La
Cayetana, piccola comunità rurale che nel 1974 vide il primo massacro di campesinos.
I corpi delle vittime giacciono ancora nella fossa comune in cui furono gettati
dai soldati della Guardia Nacional. A
distanza di 40 anni, i figli, le madri, le mogli, le sorelle dei massacrati
chiedono ancora di potee riesumare i resti per dare loro una sepoltura
dignitosa e per smentire chi persiste nel negare le atrocità del passato.

Il
pick-up corre sulla strada assolata, costeggiata dai banchetti dei
venditori di cocchi e canne da zucchero. La vegetazione è rigogliosa e il cielo
azzurro, profondo. Seduti sul sedile posteriore, sfogliamo i nostri quadei
carichi di appunti. Vorremmo che i nostri occhi potessero conservare tutte le
immagini e i colori, le nostre menti memorizzare ogni volto, le nostre mani
annotare ogni pensiero. Siamo di ritorno da Tecoluca, paesotto circondato da
innumerevoli villaggi, tra i più massacrati durante la guerra civile. Abbiamo
accompagnato Elí e Claudia, del Centro para la promoción de los derechos
humanos Madeleine Lagadec
(Cpdh), a incontrare le vittime della Cayetana,
piccola comunità che, nel 1974, fu teatro del primo massacro di campesinos
compiuto dalla Guardia Nacional, corpo di sicurezza a carattere militare,
anteprima dell’inferno che stava per scatenarsi. Il Cpdh le sta aiutando nel
loro lungo percorso per ottenere l’esumazione dei resti dei loro cari, che
ancora giacciono in una fossa comune non lontana dal villaggio.

Corpi, assassini e dolore

Uno dei primi problemi da risolvere per i congiunti dei
massacrati, oltre a tutti i permessi da ottenere presso le autorità, è
paradossalmente quello di dimostrare che i loro cari sono esistiti. Quasi mai
infatti ci sono atti di nascita o certificati di battesimo. Si tratta di un
procedimento macchinoso e difficile, che re vittimizza i familiari.

Nei giorni che hanno preceduto il nostro viaggio ci
siamo interrogati sul senso di una tale fatica che, a distanza di 40 anni,
potrebbe portare a non trovare nulla o solamente qualche frammento osseo. Ma
ora, ascoltando le storie delle vittime e dei loro cari, vorremmo andare a
scavare assieme a loro.

Vediamo nella concretezza di un luogo, di alcuni
sguardi, di oggetti precisi, quello che i libri dicono a proposito dei crimini
contro l’umanità: annichiliscono, annullano, sfigurano le vittime ai loro
stessi occhi, le privano di un volto e le riducono per sempre al silenzio.

Tutti sanno che quei corpi giacciono lì, eppure per 40
anni è stato negato. Non si potevano nemmeno nominare. E se quei corpi non
esistono, non esistono gli assassini, e non esiste nemmeno la sofferenza dei
familiari, ai quali qualunque diritto è precluso.

Se tutto andrà bene, ci vorrà almeno un anno, forse due,
per ottenere le autorizzazioni necessarie e procedere all’esumazione. Quel
giorno, la psicologa del Cpdh sarà a fianco a Silvia che, bambina, vide
seppellire lì i corpi martoriati del padre e del fratello, consolerà Marta, che
spera di ritrovare i resti del marito, morto tra le sue braccia dopo l’attacco
dei militari. Tutta la comunità si stringerà intorno a loro, adoerà con fiori
e canti la veglia funebre, affiderà i martiri al Dio della vita. Poi
costruiranno un piccolo memoriale, sul quale incideranno i loro nomi, affinché
nessuno possa nuovamente negare. E quel giorno non saranno solo i morti ad
avere finalmente pace.

_________________________________________

Centro per i diritti umani Madeleine Lagadec


Contro violenza e impunità

Il Centro para la promoción de los derechos
humanos Madeleine Lagadec
nacque nell’aprile 1992, ossia all’indomani della
firma degli Accordi di pace. Le fondatrici lo dedicarono alla memoria di una
giovane infermiera francese, stuprata, torturata e uccisa dall’esercito
salvadoregno nell’89, nell’ospedale mobile in cui prestava servizio. Anche
all’origine di questa organizzazione vi fu la domanda di giustizia delle
vittime. Il Centro Madeleine Lagadec si dedicò, infatti, a raccogliere le
testimonianze dei sopravvissuti in zone rurali particolarmente colpite,
giungendo a documentare più di duecento omicidi individuali e trentacinque
massacri e a mettere i risultati del suo lavoro a disposizione della
Commissione per la verità dell’Onu. La disillusione – suscitata dal perdurare
della situazione di violenza, impunità e illegalità – spinse il Centro Lagadec
a proseguire il suo impegno. In venti anni di attività, ha formato più di mille
promotori e promotrici comunitari dei diritti umani, ha esumato e restituito
alle famiglie i resti di 650 vittime (alcune delle quali erano annoverate tra i
desaparecidos), ha organizzato 32 comitati per i diritti umani, e
numerosi comitati di familiari delle vittime, ha reso possibile la costruzione
di monumenti, la celebrazione di commemorazioni, e ha offerto un aiuto legale e
psicosociale alle famiglie delle vittime.

A.Z.

Tags:
El Salvador; guerra; violenze; desaparecidos;
giustizia; ingiustizia; verità; riparazione; memoria; diritti umani;
guerriglia; paramilitari; squadroni della morte; Oscar Romero; Arena; Fmln;
Funes; Salvador Sanchez Cerén; Gesuiti; Universidad Centramericana; madri;
golpe; reencuentro; giustizia riparativa; justicia restaurativa; Massacro del
Junquillo; Massacro di Cayetana; Comadres; Frente Farabundo Martí;
Pro-Búsqueda; Centro Madeleine Lagadec; Tribunal inteacional para la
aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




El Salvador 2: Dai massacri alla domanda di giustiziaNé verità, né giustizia


Le Madri dei Desaparecidos.
Dalla penosa, e spesso infruttuosa, ricerca dei loro
figli in caserme, ospedali e cimiteri, alla ricerca della verità e di una
giustizia che, dopo più di venti anni di pace, tardano ad arrivare. Anche il
primo governo dell’Fmln (il Fronte Farabundo Martí per liberazione nazionale,
partito nato dalla guerriglia), subentrato nel 2009 a un ventennio di governi
del partito di destra Arena, ha deluso le speranze delle anziane madri.

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Veniamo accolti da una ventina di donne, con la pelle scura segnata dal tempo e dal dolore, lo sguardo profondo e fiero. Chi vive alle nostre latitudini forse non si è mai chiesto come trascorrano la festa della mamma le madri dei desaparecidos latinoamericani.

Un figlio desaparecido non si dimentica

«Me llamo Cunegonda e sono madre di sette figli: tre sono stati uccisi, uno è desaparecido, uno morto di malattia da bambino, e due figlie sono vive. Il mio figlio scomparso si chiamava Manuel, aveva 21 anni. Era segretario dell’Upt (Unione degli abitanti dei tuguri) e scomparve il 3 giugno 1980, mentre andava a una riunione presso l’Università. Voleva lottare per noi poveri, perché ci trattassero come persone degne di rispetto. Era leader, riuniva gli altri nella nostra casetta, discutevano di quello che noi poveri potevamo fare per farci ascoltare». Cunegonda prende fiato e prosegue. Un fiume di dolore in piena, con voce acuta e dolce. «Mio figlio mi manca. Da quella mattina dell’80 non l’ho più visto. Ogni volta che comparivano cadaveri, io andavo a vederli. L’ho cercato per caserme, ospedali, ovunque, ma non mi sono mai imbattuta nella sua sorte. Un figlio desaparecido non si dimentica un solo istante».

L’assordante rumore del traffico della capitale e la stretta parlata contadina di Cunegonda ci rendono difficile capire. Lei abbassa gli occhi e si sistema i vecchi occhiali: «Se volete, vi racconto un pezzetto della mia storia. Mi vennero a prelevare a casa il 9 marzo del ’77, rimasi in prigione fino al 26 agosto. Durante tutto quel tempo la mia bambina più grande e mio marito si presero cura dei piccoli. In carcere si soffre molto, è terribile stare lì…».

«Perché la arrestarono?», domandiamo.

«Venne la polizia, cercava i miei figli maggiori. Loro non erano in casa, erano a un funerale. Così portarono via me. Al commissariato mi picchiarono ripetutamente. Ancora oggi soffro di fortissimi dolori alla testa e alla schiena per quei colpi. Mi rilasciarono grazie a mons. Romero, che chiese la mia liberazione durante le omelie della domenica, e alla tenacia dei suoi giovani collaboratori. In seguito a questi fatti, non potemmo più vivere nella nostra casa. Dopo la sparizione di Manuel, i miei altri due figli maschi e Isabel, di 16 anni, se fueron a la montaña (si unirono alla guerriglia). Tutti e tre morirono combattendo. Nemmeno loro ho potuto seppellire, però per lo meno non li hanno catturati a casa…».

Alla ricerca di verità e giustizia

Sono trascorsi più di vent’anni dagli accordi di pace. L’attività di Comadres, Codefam e Comafac si è trasformata: l’affannosa ricerca degli scomparsi nelle prigioni e nei cimiteri clandestini ha lasciato il posto a un’altrettanto ardua ricerca di verità e giustizia.

Nessun processo è stato celebrato, nessun archivio è stato aperto. La politica ha imposto il perdono y olvido (oblio). E così le madri sopravvissute, sempre più cariche di anni e di dolore, hanno abbracciato la loro nuova missione. «Ogni anno presentiamo una richiesta all’Assemblea legislativa», ci racconta una madre. «Non ci hanno mai fatto entrare nel palazzo, restiamo fuori nel cortile. Una volta è uscito un impiegato, ha preso il documento che avevamo preparato e l’ha stracciato di fronte a noi. Il governo di Funes (in carica dal 2009 al 2014 dopo quasi due decenni di governi del partito di destra Arena, e sostituito da poche settimane dal governo Cerén della sua stessa parte politica, l’Fmln, ndr) ha fatto qualcosa, ma è troppo poco».

A un certo punto le madri si siedono in cerchio. La stanza è affollata e noi prendiamo posto in un angolo: anche se le nostre ospiti sono accoglienti, ci sentiamo un po’ intrusi.

Al termine della riunione si alzano una a una, lentamente. Ciascuna pronuncia il nome di una compagna scomparsa e le parole «¡creo en tus luchas y seguimos de pié!» (credo nelle tue lotte e proseguiamo in piedi!), poi prende una rosa e la dona a un’altra madre, abbracciandola e sussurrandole un pensiero. Infine, una madre dona una rosa anche a noi.


________________________________________

Comadres e gli altri


Tra commissariati, ospedali e obitori

Comadres (Comitato delle madri e dei familiari dei
prigionieri, degli scomparsi e degli uccisi Mons. Romero), Codefam (Comitato
dei familiari delle vittime delle gravi violazioni dei diritti umani Marianella
García Villas) e Comafac (Comitato delle madri e dei familiari cristiani dei
detenuti, scomparsi e assassinati Padre Octavio Ortiz – Sorella Silvia Arriola)
sorsero negli anni della violenza di stato e della guerra civile. Il più
antico, Comadres, ebbe origine dalle madri degli studenti prelevati a forza
dall’esercito mentre manifestavano pacificamente per le strade della capitale.

Era il 1975 e, nonostante la feroce repressione, la
guerra sembrava ancora una catastrofe evitabile. Queste donne s’incontrarono
nelle estenuanti ricerche presso i commissariati, gli ospedali e gli obitori e,
superando il clima di generale diffidenza e sospetto, iniziarono a riconoscersi
e ad appoggiarsi l’una all’altra. L’idea del comitato venne al neoeletto
arcivescovo Romero che, dopo aver invitato le madri dei giovani desaparecidos
a trascorrere con lui la vigilia del Natale 1977, suggerì loro di unire gli
sforzi e le voci, affinché fossero più forti. Nemmeno la violenza e la morte
avrebbero più fermato queste modee Antigone. Vestite di nero, un fazzoletto
bianco sul capo, denunciavano al Salvador e al mondo lo strazio del loro paese,
cercavano gli scomparsi, visitavano i prigionieri e percorrevano le strade
all’alba, con il triste compito di fotografare di nascosto i cadaveri che ogni
notte venivano abbandonati, per evitare ad altre madri il penoso, pericoloso e
inutile pellegrinaggio per ospedali e prigioni.

Il numero delle madri cresceva man mano che il paese
sprofondava nella violenza. Comadres e i due comitati che sorsero
successivamente, insieme alle altre organizzazioni sociali, organizzarono
manifestazioni, scioperi della fame, occupazioni di chiese e ambasciate. La
risposta del regime fu sproporzionata: le madri e i loro familiari furono
vittime di sequestri, uccisioni, stupri e torture. Le sedi dei comitati subirono
attentati dinamitardi e saccheggi. Il maggiore D’Aubuisson dichiarò
pubblicamente di voler sgozzare las madres una a una.

A.Z.

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El Salvador; guerra; violenze; desaparecidos;
giustizia; ingiustizia; verità; riparazione; memoria; diritti umani;
guerriglia; paramilitari; squadroni della morte; Oscar Romero; Arena; Fmln;
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Junquillo; Massacro di Cayetana; Comadres; Frente Farabundo Martí;
Pro-Búsqueda; Centro Madeleine Lagadec; Tribunal inteacional para la
aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




El Salvador 1: Dai massacri alla domanda di giustizia.

Un grido stanco, ma tenace.
Contro l’oblio.

Introduzione: Contro l’oblio.
Camminando per El Salvador
con l’orecchio attento, abbiamo incontrato un grido, sempre più stanco e
flebile, ma tenace. Esso nasce dal decennio di guerra intea degli anni
Ottanta, e dalle violenze e ingiustizie che lo hanno preceduto e seguito.
Chiede verità, giustizia, riconoscimento, riparazione. Proviene dalle anziane
madri degli scomparsi, dai figli dei massacrati, dai sopravvissuti alle torture,
dai bambini sottratti alle famiglie e dai genitori che li cercano, da coloro
che hanno fatto dei diritti umani la loro battaglia di vita. Costoro sono l’umanità sofferente, l’effetto collaterale
che, in ogni parte del mondo, segue sempre un periodo di barbarie.

Vi
sono molti modi per visitare un paese: scoprie le ricchezze artistiche,
godere delle spiagge e della natura, seguire un percorso enogastronomico. Noi
abbiamo deciso di attraversare El Salvador dedicando il nostro sguardo e il
nostro ascolto alla domanda di giustizia che si eleva dalla sua terra.

All’indomani del conflitto, che insanguinò il paese per
tutti gli anni Ottanta, El Salvador scelse la via dell’amnistia, che escluse la
possibilità di celebrare processi e depotenziò radicalmente il lavoro svolto
dalla Commissione per la verità istituita nel 1992. Alla base di questa
strategia, adottata da molti paesi latinoamericani nello stesso periodo, vi era
l’interesse dei vertici politici e militari e di alcuni leader guerriglieri ad
autotutelarsi. Negli anni successivi, la politica del «voltar pagina» prese le
forme del silenzio sul passato, del negazionismo, dell’ostacolare qualsiasi
richiesta delle vittime.

A fronte dell’inerzia (quando non dell’ostilità) dello
stato, il movimento per i diritti umani, che aveva raggiunto l’apice negli anni
della guerra, fece del contrasto all’impunità e della difesa dei diritti delle
vittime una delle sue nuove ragioni d’essere.

Con pochi mezzi e molto coraggio, alle organizzazioni
storiche (i comitati delle Madri, l’Ufficio di tutela legale
dell’Arcivescovado, la Comisión de Derechos Humanos, l’Istituto per i
diritti umani dell’Universidad Centroamericana) se ne affiancarono
alcune nuove, tra cui il Centro Madeleine Lagadec e l’Associazione
Pro-Búsqueda
. Si tratta di piccole organizzazioni che, con modalità diverse
(l’appoggio psicologico ai familiari durante le esumazioni dei caduti, la
rappresentanza giuridica davanti alle istituzioni nazionali e inteazionali,
la ricerca dei bambini scomparsi…), si adoperano per rispondere alle necessità
delle vittime.


_______________________________________________________

El Salvador: cronistoria:
El pulgarcito
de America

La scrittrice cilena, nobel per la letteratura nel 1945, Gabriela Mistral
lo battezzò el pulgarcito (pollicino) de America. Con 6 milioni
di abitanti e una superficie di 21mila kmq (di poco inferiore a quella
dell’Emilia Romagna, ndr), è il paese più piccolo e densamente popolato
dell’America Centrale. Situato lungo el cinturón de fuego (un «anello»
che borda i margini dell’Oceano Pacifico di attive zone di subduzione – zone di
frizione tra due zolle tettoniche in cui sono frequnti eventi vulcanici e
sismici, ndr), il 90% del suo territorio è formato da materiale
vulcanico, e sei dei suoi ventitre vulcani presentano qualche forma di attività.

San Salvador, la capitale, sorge
alle pendici di un vulcano nella valle cosiddetta «della amache». L’ultimo
devastante terremoto risale al 2001, ma i temblores (tremori della
terra) sono all’ordine del giorno.

El Salvador appare come un paese
dove la natura è matrigna, ma anche madre benigna che impressiona per la
biodiversità della flora e della fauna tropicale, la rigogliosità della
vegetazione, i colori degli uccelli, e l’abbondanza della frutta.

1524 / La
Colonizzazione

All’arrivo dei coloni spagnoli,
nel XVI secolo, la regione dell’odierno El Salvador era abitata dai Pipil,
etnia di origine nahua, e da alcune enclavi minori, di ascendenza maya. I conquistadores,
dopo aver sbaragliato la resistenza autoctona nel giro di quattro anni di guerre
sanguinose (1524-28), s’impadronirono delle terre e fecero della
manodopera indigena la loro principale fonte di arricchimento. Il duro lavoro
nelle piantagioni, le malattie e la diffusione del meticciato eliminarono
progressivamente i tentativi di rivolta. Dopo i conquistadores, anche i misioneros
(missionari appartenenti a diversi ordini religiosi) approdarono in El Salvador
e si dedicarono alla cura pastorale dei coloni e dei creoli e alla conversione
al cattolicesimo degli indios e dei meticci.

1821 / L’indipendenza

El Salvador rimase dipendente
dall’Audiencia del Guatemala, appartenente al vicereame della Nuova Spagna fino
al 1821, quando per l’insofferenza verso le vessazioni economiche della
Casa reale spagnola dichiarò la propria indipendenza partecipando alla
federazione delle Province unite dell’America centrale (1823-39).

Nel 1841, dopo lo
scioglimento della federazione, fu proclamata la repubblica.

A partire dall’indipendenza il
paese fu guidato alternativamente dai conservatori e dai liberali, entrambi
espressione dell’élite creola.

Una ristretta oligarchia
borghese (le cosiddette 14 famiglie), dedita alla produzione di caffè per
l’esportazione, attraverso la corruzione di governatori e alcaldi, le
compravendite legittime e alcune leggi che proibivano il possesso comune della
terra (emanate tra il 1879 e il 1882), si impadronì di gran parte delle
terre coltivabili, trasformando gli indigeni e i contadini meticci in
braccianti sottopagati.

Nel 1913, grazie a brogli elettorali, la dinastia Melendez Quiñónez
salì al potere, avviando il primo, lungo, periodo di dittatura sofferto dal
paese. La politica di repressione della classe lavoratrice favorì la nascita
delle prime organizzazioni sociali e sindacali e gettò il seme per la grande
insurrezione del 1932.

1932 / La Matanza

Nel 1931 un colpo di stato portò al potere il generale
Maximiliano Heández Martínez. La grande depressione economica mondiale non
risparmiò El Salvador, la cui economia dipendeva dalle esportazioni. La
drammatica situazione sociale nelle campagne, dove il 91% dei lavoratori
agricoli non possedeva terra da coltivare per il fabbisogno familiare, e la
cancellazione delle elezioni municipali che il governo golpista aveva inizialmente autorizzato, furono tra i
fattori scatenanti degli scioperi del 1931 e dell’insurrezione dell’anno
seguente.

Quanto avvenne nel 1932 è sovente considerato la «shoa salvadoregna», ed è
indicato con l’espressione la Matanza (il massacro). Nella capitale le rivolte
erano guidate dal Partito comunista di Farabundo Martí, mentre nelle campagne
furono i contadini a sollevarsi. Il regime rispose con inaudita violenza: tra
gennaio e febbraio furono sterminate circa 30mila persone. Autrici dei massacri
furono le forze militari regolari e le formazioni di civili paramilitari,
antesignane degli squadroni della morte che sarebbero poi stati protagonisti
delle violenze degli anni ’70 e ’80.

1932-1977 / Fermenti sociali e repressione

Durante gli anni della sua
dittatura, Martínez si schierò con le potenze dell’Asse prima e con gli Usa
poi. Fu sostituito dal generale S. Castañeda (1945-48) e dai colonnelli Oscar Osorio (1950-56) e J. M. Lemus (1956-60).

Sul fronte interno, una volta
tramontati gli iniziali tentativi riformisti, questi governi optarono per il
soffocamento di qualunque forma di opposizione. Sul piano internazionale, si
posero nella scia degli Usa.

Alcuni ufficiali riformatori
presero il potere per pochi mesi tra la fine del 1960 e l’inizio del 1961, quando furono sostituiti da una giunta militare
conservatrice, al potere con i colonnelli A. Rivera (1962-67) e F. Sánchez (1967-72). L’azione di questi governi non incise
sulla situazione di grave ingiustizia sociale, data dalla concentrazione della
ricchezza, e in particolare della terra, in poche mani. Grazie ai consueti
brogli elettorali il Pcn (Partido de conciliación nacional), espressione
della destra anticomunista e militarista dei colonnelli, vinse le elezioni
presidenziali del 1972 e del 1977. Nel corso degli anni Sessanta, nell’intera America Latina i fermenti libertari e sociali si erano
fusi con le istanze provenienti dal Concilio Vaticano II e dalla
conferenza dei vescovi latinoamericani di Medellín, che mettevano il «popolo»
al centro della Chiesa e richiamavano i cristiani all’impegno per la giustizia
sociale.

L’ondata di rinnovamento trovò
in El Salvador un terreno fertile. Il clero più favorevole alle decisioni di
Medellín s’impegnò nella difesa e nella «coscientizzazione» del popolo oppresso,
anche a costo di una profonda divisione intea alla Chiesa.

Nacquero le Comunità
ecclesiali di base
(piccoli gruppi di fedeli che si riunivano per la
lettura comunitaria della Bibbia, considerata uno strumento di comprensione
della realtà e una guida per l’impegno sociale), cui presto si affiancarono
numerose altre organizzazioni sindacali e politiche, d’ispirazione
cristiana, comunista o rivoluzionaria.

La crescente partecipazione
sociale del popolo scatenò una sempre più spietata repressione, che a sua volta
indusse alcune organizzazioni popolari a far nascere veri e propri movimenti
politici d’ispirazione marxista leninista, rivoluzionaria o insurrezionalista,
esplicitamente orientati alla lotta. Questi, allo scoppiare della guerra nel 1980, confluirono nel Frente Farabundo Martí para la
Liberación Nacional
(Fmln).

1976-1980 / Rutilio Grande e monsignor Oscar
Romero

Nel 1976 mons. Chávez y González, arcivescovo della capitale,
rassegnò le dimissioni. Alla sua successione non fu nominato il suo ausiliare,
mons. Rivera Damas, ritenuto troppo critico verso il governo, bensì mons. Oscar
Aulfo Romero y Galdamez. Romero era un uomo spirituale, dedito allo studio,
estraneo alla politica e non in contrasto con l’oligarchia e il governo.

Nel febbraio del 1977 la polizia rispose con il fuoco alle proteste contro i
brogli elettorali. Il 12 marzo dello stesso anno, padre Rutilio Grande
fu ucciso in un’imboscata, insieme a due contadini. Nella missione di Rutilio,
la lettura assidua della Bibbia e l’aiuto reciproco avevano portato i campesinos
a prendere consapevolezza dell’inconciliabilità dell’universale pateità di
Dio e della fratellanza tra gli uomini con la situazione di disuguaglianza e
oppressione in cui vivevano. La scoperta dei propri diritti li aveva portati a
protestare per le frodi sul salario e a organizzare il primo sciopero. Rutilio,
per rimanere fedele alla sua linea di adesione univoca e incondizionata al
Vangelo, aveva difeso il diritto dei fedeli a organizzarsi politicamente, rimanendo
estraneo ai raggruppamenti e alle iniziative politiche.

Padre Grande e il neoeletto
arcivescovo di San Salvador erano intimi amici. La morte del gesuita scosse
profondamente mons. Romero e lo spinse a interrogarsi sulla sua missione in
quel preciso momento storico. Egli si sentì chiamato a diventare voce e difesa
del popolo oppresso, a costo dello scontro frontale con il presidente, il
governo e l’oligarchia. Ciò creò una forte unità tra lui e il clero diocesano
che inizialmente non ne aveva apprezzata la nomina.

Romero non giustificò mai alcuna
forma di violenza, nemmeno quella rivoluzionaria, poiché violava la sacralità
della vita umana, rendeva impossibile il dialogo e alimentava la spirale di
vedetta. Non poteva però tacere il fatto che fosse la violenza strutturale e
istituzionalizzata a suscitare quella dei movimenti popolari. L’Arcivescovo non
rifiutò mai il dialogo con gli uni o con gli altri, ascoltando e proponendo la
via cristiana della conversione e della nonviolenza.

Nel 1979, nel vicino Nicaragua la lotta di liberazione dei
sandinisti sconfisse il dittatore Somoza: ciò fece apparire ancora più
insostenibile la dittatura militare salvadoregna, che venne rovesciata con un
golpe quasi incruento. Una giunta rivoluzionaria, composta di esponenti
riformisti dell’esercito e della società civile resistette due mesi e mezzo.
Seguì una seconda giunta rivoluzionaria, ma lo scenario non cambiò: in
città le manifestazioni erano represse nel sangue, nelle campagne l’esercito
e gli squadroni della morte seminavano il terrore tra i contadini. La
guerriglia
, dal canto suo, rispondeva a questa situazione con sequestri e
omicidi di politici e di membri dell’oligarchia, attacchi contro le forze di
sicurezza, occupazioni di edifici, scatenando terribili rappresaglie che
colpivano la popolazione civile.

L’arcivescovo Romero prese
un’iniziativa senza precedenti: scrisse al presidente degli Stati Uniti, Jimmy
Carter, per chiedere di non inviare più aiuti militari a El Salvador, poiché
questi sarebbero stati utilizzati per la repressione del popolo. La sua
richiesta rimase inascoltata. Un mese più tardi, il 24 marzo 1980, dopo aver ricevuto numerose minacce di
morte dagli ambienti di destra e, in seguito all’appoggio alla prima giunta
rivoluzionaria, anche da quelli di sinistra, l’Arcivescovo Romero fu ucciso
mentre celebrava la Messa nella cappella dell’Ospedale presso cui risiedeva, a
San Salvador.

Le indagini sull’omicidio, a
causa di interruzioni, depistaggi, furti di documenti, uccisioni dei testimoni,
non hanno portato alla celebrazione di un processo. Le investigazioni compiute
da istituzioni nazionali e inteazionali concordano nell’indicare Roberto
D’Aubuisson
, fondatore degli squadroni della morte e del partito di destra
Arena, quale organizzatore dell’attentato, su probabile incarico d’importanti
proprietari terrieri ed esponenti dell’oligarchia.

Il 30 marzo si svolsero i
funerali. Tra le 50 e le 100mila persone affollarono la cattedrale e la piazza
antistante. Non è chiaro se furono i militari o i guerriglieri ad aprire il
fuoco per primi, fatto sta che le esequie interrotte dell’arcivescovo martire,
e i morti calpestati dalla folla terrorizzata segnarono l’inizio di una lunga e
sanguinosa guerra civile.

1980-1992 / La
Guerra Civile

Il 1980 inaugurò l’epoca dei massacri, perpetrati dalle forze
della controinsurgencia ai danni della popolazione rurale per annientare
ogni residua volontà di ribellione e fare «terra bruciata» intorno alla
guerriglia. Il governo, che riceveva grandi quantità di aiuti economici e militari
dagli Usa, su pressione di questi intraprese alcune riforme (a partire da
quella agraria) e avviò il processo di transizione verso un governo civile:
il leader della Democrazia Cristiana (Pdc) José Napoleón Duarte assunse
l’incarico di presidente provvisorio nel dicembre 1980 e nel marzo successivo fu istituita l’Assemblea costituente, nella
quale i partiti di destra (Pcn e Arena) avevano la maggioranza. Nel 1983 venne varata la nuova Costituzione, nel marzo 1984 si svolsero le presidenziali e l’anno successivo le
legislative. Nonostante la vittoria in entrambi gli appuntamenti elettorali, il
Pdc di Duarte non riuscì a percorrere la via delle riforme e della
pacificazione nazionale, non potendo controllare le forze armate e i legami di
queste con gli squadroni della morte. Le elezioni legislative del 1988 videro l’affermazione di Arena (Alianza
republicana nacionalista
), che aveva iniziato la sua scalata politica nel
1984. Nell’89 il leader arenero Alfredo
Cristiani divenne presidente, inaugurando un ventennio di governi del suo
partito.

Nonostante fosse al potere
l’estrema destra di Arena, nel 1990
alcune concause (tra cui il crollo del Muro di Berlino e l’allentarsi della
Guerra Fredda) resero possibile la negoziazione di una soluzione alla guerra,
che aveva ormai assunto un profilo di bassa intensità, anche a causa del
violento terremoto che, nel 1986, aveva seminato morte e
distruzione nel paese già martoriato. Le lunghe trattative tra il governo e
l’Fmln
, mediate dal Segretario generale dell’Onu, portarono alla stesura di
un’agenda di riforme (militare, economica e sociale) e culminarono con gli accordi
di pace firmati a Città di Messico il
16 gennaio 1992. Dopo 12 anni di guerra civile si
contarono circa 75mila
morti, 8mila desaparecidos e un milione di profughi.

1989 / Strage all’Universidad
Centroamericana

Nel 1989, mentre era in corso una forte offensiva della
guerriglia sulla capitale, un battaglione speciale dell’esercito penetrò nel
campus dell’Universidad Centroamericana «José Simeón Cañas» (Uca) e
massacrò il rettore, il padre Ignacio Ellacuría, altri cinque gesuiti che
componevano la direzione dell’ateneo, la loro collaboratrice e la figlia di
questa.

I gesuiti della Uca facevano
parte del settore più progressista della Chiesa. Attraverso l’Uca intendevano
educare i giovani, in particolare i figli delle classi dominanti, alla
responsabilità verso la realtà sociale ed economica del paese. Erano abituati
alle campagne denigratorie condotte contro di loro da esponenti del governo,
dell’esercito e della Chiesa stessa, alle minacce e agli attentati ai danni
dell’Università.

1993 / La commissione per la verità e la legge d’amnistia

Come previsto dagli accordi, fu
istituita una Commissione per la Verità, sotto l’egida delle Nazioni Unite, con
il compito di fare luce sulle violenze perpetrate da entrambi gli schieramenti
in lotta.

La reazione del Goveo di
fronte al dossier elaborato dalla Commissione fu critica e sprezzante. Il presidente
in carica, Alfredo Cristiani, affermò che il report non rispondeva al desiderio
della maggioranza dei salvadoregni, i quali volevano perdonare e dimenticare un
passato tanto doloroso. Cinque giorni più tardi, il 20 marzo 1993, l’Assemblea legislativa emanò una
legge di amnistia generale, che concesse l’impunità a tutti coloro che
avevano commesso delitti relazionati al conflitto armato. Tale legge, tuttora
vigente, permette ai responsabili dei crimini di vivere indisturbati, in alcuni
casi occupando posizioni di prestigio nella vita politica ed economica del
paese e costituisce il principale ostacolo alla ricerca di verità e giustizia
portata avanti dalle vittime del conflitto e dai loro familiari.

1992-2009 / Il post guerra e la destra di Arena

Le due decadi successive al
conflitto videro, sul fronte politico, la supremazia di Arena con i suoi
presidenti Cristiani (1989-94), A. Calderón Sol (1994-99), F. Flores (1999-2004) e E. A. Saca (2004-2009), che puntarono tutto sullo sviluppo
del capitalismo, rifiutandosi di affrontare le cause che avevano portato
alla guerra intea.

Dalla fine della guerra poi, il
problema dell’alto livello di criminalità crebbe sempre più: dal 1994 al
2012 le fonti ufficiali hanno registrato 73.608 omicidi (la guerra civile ne
causò circa 75mila). Le violente bande giovanili, chiamate pandillas
callejeras
o maras, pur non essendo le sole responsabili di tanta
violenza, sono tutt’oggi la principale fonte di allarme sociale.

2009-2014 / l’Fmln al potere: promesse da mantenere

Nel 2009, l’Fmln (trasformatosi in partito con gli accordi di
pace), vinse per la prima volta le elezioni dopo alcuni tui elettorali in cui
aveva guadagnato consensi, al contrario di Arena che ne aveva persi. Mauricio
Funes divenne presidente della Repubblica con promesse e aspettative di
progressi sul fronte della giustizia sociale e dello sviluppo che furono poi
onorate solo in misura moderata.

Lo scorso mese di marzo 2014, dopo una campagna elettorale dominata
dal tema della sicurezza, l’Fmln – con il candidato Salvador Sanchez Cerén, ex
leader guerrigliero – ha vinto nuovamente le elezioni, con un vantaggio di soli
6mila voti su Arena.

A.Z.

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El Salvador; guerra; violenze; desaparecidos;
giustizia; ingiustizia; verità; riparazione; memoria; diritti umani;
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golpe; reencuentro; giustizia riparativa; justicia restaurativa; Massacro del
Junquillo; Massacro di Cayetana; Comadres; Frente Farabundo Martí;
Pro-Búsqueda; Centro Madeleine Lagadec; Tribunal inteacional para la
aplicación de la justicia restaurativa

Annalisa Zamburlini




Africa, terra di martiri

’8 ottobre 1964, cinquanta anni fa, papa Paolo VI dichiarava santi
i 22 martiri d’Uganda, uccisi tra il 1885 e il 1887 per ordine di re Mwanga II,
e scriveva: «Questi Martiri Africani aggiungono all’albo dei vittoriosi, qual è
il Martirologio, una pagina tragica e magnifica, veramente degna di aggiungersi
a quelle meravigliose dell’Africa antica, che noi modei, uomini di poca fede,
pensavamo non potessero avere degno seguito mai più. […] Questi Martiri
Africani aprono una nuova epoca; oh! non vogliamo pensare di persecuzioni e di
contrasti religiosi, ma di rigenerazione cristiana e civile. L’Africa, bagnata
dal sangue di questi Martiri, primi dell’èra nuova (oh, Dio voglia che siano
gli ultimi, tanto il loro olocausto è grande e prezioso!), risorge libera e
redenta».

Erano gli anni Sessanta, tempi di grande ottimismo. L’Africa si era
appena affacciata all’indipendenza. E quel «Dio voglia che siano gli ultimi» esprimeva
una grande speranza di pace, dialogo, tolleranza e libertà, non solo per i
cristiani, ma per ogni uomo.

Cinquant’anni dopo, quel grido, rimasto purtroppo inascoltato, risuona
ancora con forza. L’Africa di oggi è terra di martiri. Dall’Egitto alla Libia,
dalla Somalia al Centrafrica, dalla Nigeria al Kenya, dal Sudan alla Sierra
Leone, dal Rwanda alla Rd Congo (e l’elenco non è completo), migliaia di
cristiani testimoniano, a prezzo della vita, la loro fede nel Dio
misericordioso e Padre di tutti, rivelato dall’incarnazione, passione, morte e
risurrezione di Gesù, il Cristo. Ogni tanto qualche nome attira l’attenzione
dei media, come quello di Meriam, la madre sudanese che speriamo libera nel
momento in cui voi leggete queste righe, o quelli dei due missionari rapiti e
liberati in Cameroon. La maggior parte, centinaia (forse addirittura migliaia)
di cristiani spariscono nell’anonimato dei massacri di massa o
dell’indifferenza generalizzata.

Per anni l’Africa è stata timida a
parlare dei suoi martiri. Chi ha mai sentito parlare dei 149 «martiri di
Mombasa», uccisi nel 1631? Chi ha mai considerato come martiri gli innumerevoli
cristiani uccisi nei secoli in Egitto o quelli rapiti, venduti e schiavizzati
in Etiopia? E le vittime dei Simba (1964) in Congo? I 70 martiri Kikuyu uccisi
dai Mau Mau tra il 1951 e il 1954? E i martiri di Guiua in Mozambico (uccisi
tra il 1975 e il 1992)? E oggi? Ogni giorno sentiamo di violenze sui cristiani.
Il martirologio della grande Chiesa d’Africa continua ad arricchirsi di
splendide stelle. «Il sangue dei martiri è seme di Cristiani», diceva
Tertulliano (Cartagine, 155 ca. – 230). Paolo VI si augurava un’Africa risorta,
libera e redenta. Un auspicio che si scontra ancora oggi con una dura realtà di
violenza, sfruttamento, ingiustizie e guerre. Che il sangue di tanti uomini e
donne pacifici, nonviolenti, inermi e innamorati di Dio, sia davvero fecondo di
pace, giustizia e armonia per tutta l’Africa.

P.S. Mentre pubblichiamo sul web questa pagina, Meriam è stata liberata dalla prigione in cui era, ma si trova ancora confinata nell’ambasciata americana di Khartoum.

Gigi Anataloni