Senza dono, che Natale è?

Una conversazione col teologo Roberto Repole


Il rito dei doni a Natale è una furba trovata del
capitalismo consumista, oppure, al contrario, una spina nel fianco del
materialismo?

Dopo il lungo mese di Novembre, quello
in cui le giornate si accorciano drasticamente e inizia a fare freddo, in cui
si sente una certa malinconia, ecco finalmente Dicembre, il mese del Natale.

Si
accendono le luci colorate per le strade, in casa si crea spazio per il presepe
e l’albero, quotidianamente i bimbi aprono le finestrelle del calendario
dell’Avvento dietro cui si nascondono dei poco sobri cioccolatini. Chi ha una
vita spirituale si confronta con la realtà dell’incarnazione di Dio, con le
figure di Maria, Giuseppe, Gesù bambino, Elisabetta, e così via. E si pensa ai
regali.

Spesso,
proprio riguardo ai regali, capita di sentire una lotta interiore: la spinta
spontanea al dono si scontra con la sensazione di essere usati dal mercato, di
renderci complici della riduzione del Natale, delle nostre relazioni, del mondo
intero a una corsa consumistica.

Ci è
così tornato alla mente un piccolo libro dal titolo Dono, che parla
proprio di questo dilemma, e abbiamo conversato con il suo autore: don Roberto
Repole, classe 1967, sacerdote della diocesi di Torino che insegna alla Facoltà
teologica dell’Italia settentrionale e che, dal 2011, è presidente
dell’Associazione teologica italiana.

Cominciando da Babbo
Natale

Il
primo capitolo del libro di Repole si apre proprio con il racconto dell’attesa
di una bimba per il suo regalo di Natale, e pone subito al lettore una domanda
piuttosto provocatoria: il rito dei doni a Natale è una furba trovata del
capitalismo consumista, oppure è, al contrario, una spina nel fianco del
materialismo? Per arrivare alla conclusione che il dono (quello vero) è una
spina nel fianco del materialismo consumista, il testo compie un percorso che
inizia da un’interpretazione molto bella, a nostro modo di vedere, della figura
di Babbo Natale. «Nell’era del capitalismo e del consumismo – ci dice don
Repole -, anche una tradizione come quella del regalo natalizio rischia di
essere assorbita dai dinamismi consumistici. Ciò non toglie però che l’atto di
scambiarsi doni a Natale riveli la nostra resistenza umana proprio ai
meccanismi del consumismo, perché dice che gli uomini non sono soltanto
mercato. Ad esempio la figura di Babbo Natale, individuo che porta regali
venendo da un luogo sconosciuto, rappresenta simbolicamente il fatto che la
vita stessa ci è stata data da qualcuno, e arriva da lontano». Babbo Natale è
un uomo anziano. Sembra più un nonno che un babbo. Don Roberto suggerisce che
anche questo è un simbolo, quello del legame tra le generazioni: «Ciò di cui
viviamo è frutto non soltanto di chi ci ha immediatamente preceduti, ma ci è
donato da tutta l’umanità vissuta prima di noi. Cosa su cui non riflettiamo mai
a sufficienza, soprattutto perché la logica capitalistica ci spinge a pensare
che siamo noi gli unici protagonisti e artefici di noi stessi». Babbo Natale
esprime una comunione più profonda di quella che i nostri occhi carnali possono
vedere: «Siamo in comunione con tutte le generazioni che ci hanno preceduto,
non fosse altro che per il fatto che loro hanno permesso a noi di vivere la
nostra vita così come la viviamo. La consapevolezza del legame tra le
generazioni andrebbe recuperata, perché in questo momento storico corriamo il
rischio di mettere una generazione contro l’altra invece di sottolineare il
debito che ciascuna ha nei confronti della precedente e la responsabilità nei
confronti della successiva».

Il pranzo di Natale

Anche
l’invito al pranzo di Natale o alla cena della vigilia, come la figura di Babbo
Natale, ha un suo senso profondo che oltrepassa quello della gioia dello stare
assieme: invitare qualcuno a un pasto singnifica donargli qualcosa di nostro
allo scopo di nutrirlo, donare la vita. «Dal punto di vista del cristianesimo è
fonte di grande riflessione il fatto che Gesù ci abbia consegnato la certezza
della sua presenza proprio dentro un pasto. Il pasto ha per gli uomini qualcosa
di altamente simbolico. Il bisogno di nutrirci non è soltanto a un livello
biologico. Con il pasto esprimiamo la consapevolezza fondamentale che non ci
diamo la vita da soli, e che abbiamo bisogno di prenderla da fuori. E il fatto
stesso di mangiare insieme dice che noi umani riceviamo e nello stesso tempo
offriamo la vita agli altri. L’invito al pasto, soprattutto in contesti di
grande povertà, significa “io, per una volta, mi prendo cura della tua vita”».

Il dono contraffatto

Ma,
domandiamo a don Roberto, la realtà del dono è sempre positiva? Pensiamo ad
esempio ai regalini dei pacchetti di merendine, per nulla disinteressati, alle
donazioni che i paesi ricchi fanno ai paesi poveri potenziando un circolo
vizioso di dipendenza dei secondi dai primi, a un certo atteggiamento di «dispensare
carità» che, con il donare ai poveri, certifica e rafforza la loro condizione
di emarginazione invece di includerli. «Il dono può essere contraffatto nel
momento in cui non si riflette a sufficienza su quello che c’è in gioco in
esso. Ad esempio il dono diventa negativo quando è sempre e soltanto
unidirezionale. In un caso del genere si crea una strutturale disuguaglianza
tra gli uomini. Qualcuno dona e qualcuno riceve senza possibilità di scambiare
i ruoli. Nel dono autentico invece, nel momento in cui doniamo riceviamo.
Quando faccio un dono a qualcuno, come minimo ricevo da lui la possibilità di
fargli un dono. Sono attivo, ma nello stesso tempo anche passivo: tutti siamo
insieme donatori e donatari».

Il mercato è una
grande cosa

Don
Roberto con la sua voce cordiale pronuncia le parole «dono autentico», ma a noi
viene da chiederci se il dono vero sia possibile, soprattutto in un mondo che
sembra sempre più ridotto a mercato, in cui la logica del mercato, dello
scambio, sembra un destino a cui non possiamo sottrarci. Viviamo in un tempo in
cui la speranza fatica a sopravvivere. «Il mercato è una grande cosa, ma è una
realtà dentro un’altra realtà ben più grande che è la società umana. La crisi
economica in cui oggi viviamo è solo una parte di una crisi più ampia: il
concepire la società come fosse nient’altro che un mercato. In tutti i settori,
l’educazione, la scuola, la salute, gli affetti, noi rischiamo di pensare
secondo la logica del mercato, cioè secondo una logica del pareggio: io dò
qualcosa per ricevere in contraccambio qualche cosa di uguale e contrario.
Quando riduciamo la società a questo, perdiamo qualcosa di fondamentale della
nostra umanità. Mi pare che oggi abbiamo ridotto la società alla logica del
pareggio, e reagiamo alla crisi prodotta da essa con la stessa logica. Incapaci
di vedere che noi siamo ben altro».

Sembra
quasi che la mancanza di speranza nella nostra epoca derivi in qualche modo
dall’idea che il mercato sia una specie di destino inesorabile, contro cui non
si può fare nulla. «È così! La speranza fiorisce laddove c’è l’imprevedibile. E
il dono, la gratuità, è sempre qualcosa di imprevedibile perché non lo possiamo
produrre noi, viene dalla generosità altrui, gratuita. La speranza secondo me
invece muore laddove abbiamo ridotto la società soltanto a ciò che possiamo
prevedere e governare».

La «banalità» del
dono

Dalla
conversazione con don Roberto sembra emergere che il dono sia una realtà meno
banale di quanto sembri a prima vista. Ad esempio, nel suo libro dice che,
mentre il mercato ha una logica dello scambio proporzionato tra dare e avere,
il dono invece ha una logica dello scambio sproporzionato. Mentre il mercato
elimina il rischio, la gratuità, la relazione, la libertà, la responsabilità;
il dono li prevede tutti. «Il dono funziona secondo una logica della
sproporzione. Quando io ricevo un dono, viene a crearsi un disequilibrio tra me
e il donatore, tant’è che mi viene spontaneo dire “grazie, non dovevi, non era
il caso”. Queste parole servono a dire che tra me e il donatore si è creato un
disequilibrio che a sua volta esprime qualcosa di fondamentale, cioè l’assoluta
libertà di chi fa il dono e la sua imprevedibile generosità. Lo squilibrio però
non viene mantenuto perennemente. Io infatti posso contraccambiare, sempre
secondo la logica del dono: non sarà qualcosa di dovuto, sarà qualcosa di
libero e gratuito. All’affermazione della mia persona che c’è stata da parte di
chi mi ha fatto il dono, rispondo con l’affermazione della persona dell’altro
contraccambiando il dono». Si tratta di uno scambio, ma di uno scambio
totalmente differente da quello economico. Perché legato alla gratuità, alla
libertà, alla fiducia.

«Nella
sproporzione, nella disuguaglianza che si crea donando, si afferma un interesse
fondamentale: l’interesse alla persona dell’altro. Per questo mi sembra che una
società umana sia radicata fondamentalmente, come dicono molti acuti sociologi,
proprio in questa dimensione del dono».

E se il cuore di
tutto fosse dono?

Siamo
partiti da Babbo Natale e siamo arrivati a dire che l’umanità è fondata sul
dono. Se una riflessione di questo tipo viene proposta da un teologo è
probabile che in qualche modo c’entri anche Dio nella questione. Lo chiediamo a
don Repole, ricordando che uno degli ultimi capitoli del suo libro si intitola «E
se il cuore di tutto fosse dono?», cioè, se all’origine di tutto, quindi anche
dell’uomo, ci fosse il dono?

«C’è
tutta una tradizione che ci dice che a Natale è Gesù bambino a portare i doni.
Non è un caso che proprio nel giorno di Natale, nella tradizione cristiana,
abbiamo instaurato la prassi rituale del dono: in qualche modo è Gesù Cristo
stesso, in quanto figlio di Dio fatto uomo, a parlare del dono che Dio ha fatto
di se stesso all’umanità. Gesù, dono di Dio, è il fondamento dell’esistenza
stessa del mondo e dell’umanità. Noi siamo purtroppo abituati in modo
catechistico a pensare che dapprima c’è l’uomo, poi il suo peccato, poi di
conseguenza arriva Gesù che ci salva dal peccato. Questo è vero, ma va inserito
in un orizzonte ancora più grande: Dio crea il mondo pensando già a Gesù, ed è
quando decide di farsi dono, di donare se stesso nel suo figlio all’umanità,
che Dio crea l’umanità e il mondo. Dunque per certi aspetti la prima parola del
cristianesimo è proprio “dono”, cioè “grazia”. La grazia è talmente rivelativa
della vita di Dio che in quella grazia, in quel dono, cioè in Gesù, noi
conosciamo che il dono fa parte della vita stessa di Dio. Ed è per questo che
noi siamo impastati di dono. Ed è per questo che, pur in un orizzonte come
quello del mondo contemporaneo in cui un’ipertrofia dell’economicismo e del
mercato sembrerebbe farci smarrire ogni sentirnero di speranza, noi cristiani
possiamo continuare a essere fiduciosi. L’umanità continua a essere altro, e
prima o poi l’inquietudine verso un mondo che ci soffoca in cui tutto è ridotto
a mercato, porterà, porta già ora, a una reazione positiva che fa emergere il
meglio di noi».

Vivere con speranza
in un mondo che l’ha smarrita

In
una società che sembra aver smarrito completamente la speranza, la realtà del
dono può aiutarci a rintracciarla.

«Io
penso che sia una fonte di speranza vedere che, nonostante tutto, anche in
questo nostro mondo, tantissima gente dona. Basta guardare alle cose più
semplici che magari non siamo più abituati a vedere: ci sono ancora persone che
generano figli e donano la vita. Ci sono dei nonni che si prendono cura dei
nipoti. C’è molto volontariato. La nostra società si regge ancora in piedi,
nelle cose grandi come in quelle piccole, grazie al fatto che tantissime
persone donano tempo, energie, denaro. Scendendo in profondità, io credo che
possiamo nutrire speranza nella misura in cui sentiamo una resistenza dentro di
noi rispetto al mondo che si trasforma in mercato. Il fatto che ci siano delle
persone, e sono sempre di più, che sentono soffocante questo mondo è un segno
di speranza, perché significa che stiamo reagendo con i nostri anticorpi, cioè
con la capacità e il desiderio di dono che contraddistinguono la nostra umanità».

A Natale doniamo la
vita

Alla
fine della nostra chiacchierata, alla luce di tutte le considerazioni fatte,
chiediamo a don Repole di darci un consiglio per vivere al meglio la realtà del
dono nel Natale che si avvicina. «I regali di Natale possono avere una
consistenza enorme dal punto di vista umano e spirituale nella misura in cui
sappiamo accogliere il dono guardando negli occhi chi ce lo fa. Vivere il
regalo ricevuto come un segno della presenza di qualcuno che ci sta dando
qualcosa di sé, e il regalo donato da noi come la promessa di volerci essere e
donare per l’altro. I regali di Natale possono essere segnati dalla logica del
peggior consumismo se ci soffermiamo a guardare solo cosa riceviamo o cosa
doniamo, concentrando la nostra attenzione sulle cose in sé e sul loro valore
economico, oppure possono diventare tutt’altro: quando guardiamo negli occhi
chi ci dà un dono e valorizziamo la cosa più importante, cioè non il dono in sé,
ma il fatto che lui/lei si stia consegnando a noi, così come quando, qualunque
cosa noi impacchettiamo per qualcun altro, facendo un dono consegniamo la
nostra vita».

Luca Lorusso

Luca Lorusso

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