Terra di pescatori e migranti (3)

1. Padre Gliozzo: un dialogo su emarginati e
chiesa

Giù le mani da San Berillo
2. 
L’angelo dei rifugiati
Incontriamo Abba Mussie Zerai, eritreo,
arrivato in Italia nel 1992 come richiedente asilo, ora sacerdote in Svizzera,
e candidato al Nobel per la pace 2015 per la sua opera di denuncia delle
condizioni dei migranti africani.

Padre Gliozzo: un dialogo su emarginati e
chiesa

Giù le mani da San Berillo

Un quartiere di Catania oggetto di politiche
di risanamento fin dagli anni Venti del Novecento. Un «porto di mare» che da
decenni accoglie l’umanità più emarginata, dalle prostitute alle trans, dai
tossicodipendenti ai migranti, raccontato da chi lo vive, e da chi, come padre
Giuseppe Gliozzo, parroco del Crocifisso della Buona Morte dal ‘72, lì spende
la sua vita per gli altri.


Oggetto
di scellerati piani di sventramento e risanamento dal «degrado», lo storico
quartiere di San Berillo, a Catania, è invece uno straordinario esempio di come
la convivenza con l’altro non solo è possibile, ma è già una realtà. Come
testimonia padre Giuseppe Gliozzo, parroco della chiesa del Crocifisso della
Buona Morte.

Una volta conosciuto l’esito della domanda di asilo, gli
immigrati sono invitati a lasciare i centri d’accoglienza, perdendo i benefici
che il sistema di protezione dovrebbe aver garantito loro almeno per tutto il
periodo di attesa: vitto, alloggio e un pocket money giornaliero. Da
quel momento entrano in un altro limbo, costretti ad aggirarsi come fantasmi
nelle nostre città.

A Catania c’è un luogo dove in tanti hanno trovato
ospitalità, o almeno un rifugio temporaneo, prima di riprendere il viaggio
verso Nord: il quartiere di San Berillo.

Berillo, originario di Antiochia, città dell’allora
provincia romana della Siria, avrebbe portato, secondo la tradizione, il
Cristianesimo in Sicilia, divenendo il primo vescovo della città etnea.

Mentre camminiamo per le vie del quartiere, veniamo
fermati da un uomo distinto che ci avverte, con garbata gentilezza e affabilità
tipicamente siciliane: «Qui ci sono le cocotte». Poi ci prende sotto
braccio, con l’intento di allontanarci da quella zona «poco raccomandabile».
Insiste per offrirci un caffè. Ci sediamo al bar di Piazza Beini, davanti al
Teatro Massimo che è in sciopero: «Un paese senza teatro è un paese morto», c’è
scritto sugli striscioni appesi a un coicione.

Scopriamo così, di fronte a un caffè, la storia del
quartiere più centrale e antico di Catania, oggetto di una serie di piani «sventramento»
e «risanamento» sin dagli anni Venti del secolo scorso, quando la fiorente industria
dello zolfo indirizzava i notabili catanesi verso l’ipotesi della demolizione
radicale: il collegamento del quartiere popolare, caratterizzato da una
urbanizzazione caotica e fittissima, con la stazione e il porto era troppo
angusto per una città che aspirava a diventare la «Milano del Sud». La II
Guerra Mondiale bloccò il progetto, ripreso nel 1957, quando lo sventramento
venne effettivamente realizzato: i 30.000 abitanti furono deportati a San
Leone, che da quel momento diventò San Berillo Nuovo, e del quartiere
originario rimase solo un pezzetto.

In questi vicoli stretti da cui non si vede il mare e
nei quali non entra mai il sole, gli immigrati arrivati di recente, o quelli
storici come i senegalesi e i tunisini, convivono pacificamente con un’altra
umanità emarginata: nel 1958, anno della Legge Merlin, si riversarono infatti a
San Berillo le prostitute di tutta Italia, trasformando la zona in uno dei
quartieri a luci rosse più importanti del Mediterraneo. Solo nel 2000 fu
affrontata la questione: un blitz della polizia «ripulì» la zona, e le case
furono murate. Restarono solo le trans e le prostitute residenti.

Da qualche tempo si parla di un ennesimo piano di «risanamento».


Un emblema della diversità

Entrando nel quartiere, incontriamo Franchina che vive a
San Berillo dai primi anni ’80 – quando il «reato di travestimento» era ancora
punito con il carcere -. È l’intellettuale della zona, forse la persona che più
ha coscienza della vita e del futuro di San Berillo. «Risanare vuol dire
inserire il quartiere alla città, farlo uguale, identico, dargli la stessa
faccia… mentre questo quartiere è stato sempre diverso dagli altri e sarebbe
giusto lasciarlo così com’è: San Berillo è come l’elefante in piazza Duomo, un
emblema di Catania».

In Piazza delle Belle c’è un’edicola dove il Cristo
dipinto sul muro ha sembianze femminili. «Ci sentiamo rifiutati dalla gente, ma
amati da Dio. La gente non immagina che anche noi possiamo pregare. Ogni
mercoledì ci riuniamo a casa mia, per recitare il rosario», conclude Franchina.

La messa della domenica alla parrocchia del Crocifisso della Buona Morte, celebrata da Don Giuseppe Gliozzo, è molto
partecipata dalla comunità locale.

Lungo 50 anni di storia

Nel nostro incontro, padre Gliozzo ripercorre i suoi
cinquant’anni di sacerdozio, di cui più di quaranta passati come parroco a San
Berillo.

I primi anni del suo lungo apostolato li trascorre a
Bronte, suo paese natale, nel seminario minore, dove ricopre il ruolo di
assistente spirituale dell’Azione cattolica. «Feci un’esperienza che non
esisteva: far uscire i ragazzi dal seminario». Nel 1970, passa al seminario
maggiore di Catania dove cerca di applicare quella stessa politica: vuole che i
giovani seminaristi vadano a studiare nei licei, che abbiano la possibilità di
conoscere la vita fuori dal seminario.

L’azione di padre Gliozzo suscita però critiche da parte
delle gerarchie ecclesiastiche locali e non solo. «Aizzarono i ragazzi contro
di me; quando mi incontravano, cambiavano strada. Poi fecero una raccolta firme
e fui costretto a lasciare. Di quel gruppo di 150 seminaristi pochi
intrapresero la strada del sacerdozio, e di quelli che continuarono, molti
l’abbandonarono qualche anno più tardi».


Cosa è successo dopo?

«Nel 1972 mi proposero di prendere in mano la parrocchia
del Crocifisso della Buona Morte, così chiamata perché nella zona sorgeva il
vecchio carcere borbonico, dove i condannati a morte, prima di essere
giustiziati, ricevevano la visita di un cappellano che gli porgeva un
crocifisso affinché, baciandolo, ricevessero l’ultima assoluzione. Lo
sventramento del quartiere di San Berillo si era concluso alcuni anni prima del
mio arrivo, e, quando vi fui mandato, trovai il vuoto, perché i vecchi abitanti
erano stati deportati in altre zone. Corso Sicilia tagliava in due la città e i
borghesi insediatisi nella nuova via signorile non interagivano con la
parrocchia. C’erano solo contrabbandieri di sigarette e prostitute. La chiesa
era in dismissione, trasformata in una specie di bisca dove gli uomini si
riunivano a giocare a carte. Con loro misi su un gruppo di preghiera al sabato
sera: sbadigliavano di continuo e mi chiedevano quanto tempo mancasse alla
fine.

Appena arrivato ridussi le messe da sei a tre, poi ne
lasciai solo una, quella della domenica alle 10 del mattino. Nella cappella
adiacente, dedicata a Sant’Agata martire, si celebra la liturgia con rito
ortodosso: ho voluto fare un passo verso chi ha un altro credo. La numerosa
comunità rumena presente a Catania non aveva ancora un luogo di culto. È venuto
anche il patriarca da Bucarest, ed è rimasto sorpreso da questa accoglienza,
visto che in Romania la chiesa cattolica ha fatto fatica a trovare spazi.

Negli anni ’80 abbiamo iniziato a lavorare con i
tossicodipendenti, e sono arrivato a pensare di aprire una comunità. Ne parlai
anche con Don Ciotti, che mi disse: “O fai il parroco, o dirigi una comunità”.
Ma io volevo restare aperto a tutti, non volevo limitarmi a una tematica
specifica.

Vedi, qui è sempre stato un porto di mare. Le
prostitute, i trans più anziani del quartiere, venivano da me spontaneamente, e
cominciai a lavorare anche con loro. Non conoscevo ancora la realtà della
prostituzione.

Dal 1990 la parrocchia diventa punto di riferimento di
un gruppo di omosessuali credenti, i “fratelli d’Elpìs”.

Adesso alla nostra messa partecipano anche tante persone
di altri quartieri, che non trovano risposte nelle parrocchie di appartenenza».

Cosa
ispirava la vostra azione?

«Lo spirito del Concilio. Quell’idea dell’Eucarestia per
tutti. Prima le prostitute non si avvicinavano per rispetto: non si sentivano
degne, in quanto peccatrici. Invece è proprio questo senso di indegnità che le
avvicina a Dio.

Abbiamo adottato una pastorale essenziale fondata sulla
gratuità dei Sacramenti, sull’accoglienza e l’attenzione riguardo alle persone
e alle situazioni più diverse».

Ha
conosciuto direttamente la realtà dell’immigrazione?

«Tra il 1988 e il 1989, sono arrivati i primi senegalesi.
Qui, nella nostra casa, ne abbiamo ospitati una trentina. Era una prima
“emergenza”. Poi sensibilizzammo gli abitanti perché affittassero le loro case
agli stranieri, in città o in campagna. Realizzammo la prima festa degli
immigrati. Molti di loro sono andati via quasi subito, mentre quattro sono
rimasti con noi per un po’. Poi abbiamo inserito anche loro al Nord: uno lavora
in un caseificio in Emilia Romagna e mi manda sempre il parmigiano. Ogni tanto
mi scrive: “Prego per te ogni giorno, per quello che hai fatto per me”. Sposato
con un’italiana, è venuto a trovarmi con i figli.

Una comunità musulmana del Senegal mi ha mandato una
lettera in arabo, per ringraziarmi di aver accolto in quegli anni tanti suoi
membri».

Come
vede questi nuovi arrivi, la situazione dei nuovi migranti?

«È una questione delicata che deve essere gestita dalle
istituzioni. Io sono stanco, non me la sento più di stare in prima linea. A noi
spetta preparare agenti moltiplicatori, sensibilizzare la cittadinanza ad
attivarsi, come facemmo quando arrivarono i senegalesi».

Ha
mai pensato di mettere per iscritto la sua esperienza, per farla conoscere di
più?

«No, Gesù non scriveva. Mi piace raccontare e ascoltare
storie. Spesso mi invitano a parlare sul tema delle tossicodipendenze o
dell’omosessualità come esperto. Ma io non ho competenze specifiche. Tutto
quello che so lo devo all’incontro, all’ascolto. Per me non c’è il
“tossicodipendente”, l’“immigrato”, c’è Francesco e c’è Tarik».

Come
immagina la Chiesa del futuro?

«Come una comunità dove la figura del sacerdote non sarà
più necessaria. Una comunità auto-gestita, che si riunisce per leggere e
ascoltare la parola, come accadeva prima della Chiesa-istituzione. Non siamo più
una minoranza, ma occorre una “maggioranza qualificata”. C’è qualcuno che
ancora resiste. I cambiamenti nella Chiesa oggi sono possibili grazie al lavoro
che noi abbiamo iniziato. Siamo andati avanti come esploratori in
perlustrazione, in avanscoperta, siamo stati un’avanguardia che ha aperto e
illuminato il percorso che ora sta emergendo. Non a caso il Papa si è scagliato
contro la politica dei seminari attuali che formano “piccoli mostri”1.
Abbiamo lavorato in silenzio e poi ci siamo messi a guardare, in attesa di
quello che sta succedendo oggi, perché doveva succedere».

Accolti anche senza essere stati invitati

Non ha fatto carriera, padre Gliozzo. Non gli piace
apparire o fare proclami, e non ama le etichette. Anche quella di «prete di
frontiera» lo lascia perplesso.

Preferisce continuare a fare il suo lavoro nell’ombra,
mischiandosi tra la gente, soprattutto tra i poveri, gli afflitti e i
diseredati.

Prima di salutarci, ci mostra le fotografie che
tappezzano le pareti del parlatorio: sono le tappe più significative del suo
lungo sacerdozio, è un viaggio nel tempo, uno scorcio di storia d’Italia,
attraverso i suoi segmenti più emarginati. Fino a quelle più recenti, scattate
nella sua casa di campagna a Bronte, dove c’è pure Franchina, e dove si è
accolti anche senza essere stati invitati.

Note alle pagine 48-51:

1  Cfr.
La civiltà Cattolica, 3/1/2014. Svegliate il mondo. Colloquio di Papa Francesco
con i Superiori generali.

 


L’angelo dei rifugiati

Incontriamo Abba Mussie Zerai, eritreo,
arrivato in Italia nel 1992 come richiedente asilo, ora sacerdote in Svizzera,
e candidato al Nobel per la pace 2015 per la sua opera di denuncia delle
condizioni dei migranti africani.

A bba Mussie Zerai, noto anche come «angelo dei
rifugiati», è stato candidato al Nobel per la pace 2015. Eritreo di nascita, è
arrivato in Italia come richiedente asilo nel 1992. Nel nostro paese ha
frequentato l’università e, nel 2010, è stato ordinato sacerdote. Da anni
denuncia le condizioni disumane che i richiedenti asilo affrontano sul loro
cammino. In particolare dei profughi provenienti dal Coo d’Africa. È grazie
alle sue denunce (e a quelle della suora comboniana Azezet Kidane) che l’azione
dei trafficanti di uomini nel Sinai è divenuta di dominio pubblico e, in parte,
è stata affrontata dall’Egitto. Più volte sentito dall’Alto Commissariato
dell’Onu per i rifugiati, nel 2012 è stato ricevuto dall’allora Segretario di
Stato Usa, Hillary Clinton. Oggi vive in Svizzera dove segue le 14 comunità
eritree sparse nei vari cantoni.

Abba Mussie Zerai da dove provengono i
migranti che dalla Libia cercano di partire verso l’Europa?

«Arrivano dall’Africa orientale (Eritrea, Etiopia,
Somalia, Sudan) e dall’Africa occidentale (Mali, Niger, Nigeria, Ghana, Costa
d’Avorio). I primi passano dal Sudan, i secondi dal Niger».

Una volta entrati in Libia dove si spostano?

«Solitamente convergono verso Tripoli per poi tentare di
imbarcarsi verso Lampedusa. Ma non è così scontato che arrivino a Tripoli.
Alcuni gruppi finiscono in Cirenaica (la regione al confine con l’Egitto).
Difficile dire come arrivino laggiù. Di solito però le guide, per evitare i
posti di blocco organizzati dalle milizie, fanno fare giri molto lunghi ai
gruppi di migranti. Alla fine però vengono presi lo stesso dai miliziani».

Chi gestisce il traffico
dell’immigrazione?

«I trafficanti di uomini portano i migranti dal Sudan o
dal Niger in Libia. Qui entrano in contatto con i libici. I libici, uomini
legati alle milizie, prendono i migranti mettendoli in centri di detenzione e
si fanno pagare un migliaio di dollari a persona per rilasciarli. Una volta
rilasciati i migranti possono continuare il viaggio. Ma se sul loro cammino
trovano altre milizie che li imprigionano, sono costretti a pagare di nuovo».

Quanto costa un
viaggio dall’Eritrea a Lampedusa?

«Costa in media 6-7mila dollari. È una cifra consistente
che si può permettere solo chi ha parenti all’estero disposti a pagare per lui.
Chi non ha parenti all’estero si ferma in tappe intermedie (in Sudan e in
Libia) per lavorare e raccogliere il denaro necessario ad affrontare la tappa
successiva. Per chi ha i soldi, il viaggio può durare anche solo un mese. Chi
non ne ha ci può impiegare cinque o sei anni».

In quali condizioni
vengono tenuti i migranti in Libia?

«I migranti vengono stipati in capannoni industriali,
senza luce, acqua corrente, servizi igienici e, soprattutto, senza la
possibilità di uscire. Dopo pochi giorni le persone sono costrette a vivere tra
i loro escrementi, con un caldo insopportabile e senza potersi lavare. I
miliziani poi sono persone crudeli. Per spaventare i migranti sparano in aria,
li percuotono. Le donne sono vittime di violenze sessuali».

La situazione attuale
è peggiore di quella dei tempi di Gheddafi…

«In passato le violenze erano le stesse. L’unico
vantaggio rispetto a oggi era il fatto che esisteva un’autorità costituita e
centri di detenzione statali. Quindi era possibile, in casi particolari,
inviare i commissari dell’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni unite per i
rifugiati) a fare ispezioni. Oggi invece le milizie sono moltissime e chi vuole
aiutare i migranti non hai mai un punto di riferimento. Anche l’attraversata
del mare è durissima. Ai tempi di Gheddafi, i profughi sceglievano di partire
quando volevano e solitamente lo facevano nella stagione migliore. Adesso le
milizie li costringono a partire quando vogliono loro: anche con il mare
tempestoso e in condizioni climatiche terribili. Da qui gli affondamenti e i
molti morti».

Enrico Casale
 

Per seguire Abba Zerai:
http://habeshia.blogspot.it/ voce della Agenzia Habeshia per la Cooperazione
allo Sviluppo (Ahcs) da lui fondata.
Abba Zerai era stato intervistato da MC per il dossier «2014:
Fuga dall’Eritrea», marzo 2014

 

Silvia Zaccaria e Enrico Casale




Cari Missionari

IL SEGNO DEI CRISTIANI

Egregio Padre,
sovente mi chiedo perché il segno dei cristiani debba ricordare la croce e non
la risurrezione, visto che, come dice Paolo di Tarso, «se Cristo non è
risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra
fede» (1Cor 15,14); non solo, ma la risurrezione include in ogni caso anche la
morte. Dopo due millenni di cristianesimo possibile che non si sia affrontato
l’argomento, al di là delle speculazioni sui primi cristiani? Da un po’ di
tempo quando entro in chiesa mi segno dicendo: «Nel nome del Padre che ha
risuscitato il Figlio per mezzo dello Spirito Santo. Amen». Gradirei un suo
parere in proposito. Grazie.

Vincenzo
Palumbo
Moncalieri (TO)

Caro
Vincenzo,
trovo molto interessante la sua domanda. Credo che la risposta non stia tanto
nella modifica delle parole quanto nella comprensione dei significati nascosti
in quell’umile segno cui siamo così abituati. Due i livelli da considerare: le
parole e il segno.

Le parole.
L’espressione si trova in Mt 28,19: «Battezzandoli nel nome del Padre del
Figlio e dello Spirito Santo». È messa in bocca a Gesù stesso e riflette
certamente il modo di battezzare della comunità cristiana primitiva. Le parole «nel
nome» indicano un rapporto personale, una relazione con qualcuno vivo. Nella
Bibbia il nome è la persona. E certo ricorda la scena di Mosè che chiede a Dio
il suo nome (Es 3,13-14). Conoscere il nome di qualcuno o dare il nome è molto
più della banalizzazione burocratica a cui siamo abituati oggi, quando il nome
diventa una cifra in un computer. È invece entrare in un rapporto personale di
amicizia e di famigliarità. In questo caso è entrare nella comunità trinitaria,
Padre, Figlio e Spirito. Pronunciare quindi queste parole ha una doppia
valenza: è un atto di fede nel Dio Uno e Trino, ma è anche riconoscere con
meraviglia e timore che Dio mi ama e mi accoglie, mi rende parte del calore
della sua famiglia.

Il segno.
Ricorda la croce di Cristo: palo del patibolo, albero della vita, trono della
gloria dal quale Gesù attrae tutti a sé, scala che congiunge cielo e terra,
fontana e sorgente del fiume di acqua viva che rigenera l’umanità nuova,
torchio del vino nuovo. Le citazioni bibliche e patristiche in proposito sono
innumerevoli. Basti ricordare come Giovanni racconta la crocifissione (cfr. Gv
12,32; 3,14; 8,28; 19,16-37). Nella comprensione della fede, la croce non è mai
solo morte, ma è il segno rivelatore del trionfo dell’amore di Dio che nel dono
totale di sé vince una volta per tutte la morte e il peccato. In più questo
segno è carico di altri significati:
– toccandoci la testa, il petto e le braccia ricordiamo l’espressione «amare
Dio (e il prossimo) con tutto il cuore, con tutta la mente e tutte le forze»
(Dt 6,4-5; Mc 12,29-31) e rinnoviamo quindi il nostro impegno di coinvolgere la
totalità della nostra persona – pensieri, affetti e opere (e cose possedute) –
per «fare bene il bene» (Allamano), affinché «vedendo le vostre opere belle
rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16);


il braccio verticale della croce ci ricorda che nel Crocefisso è ristabilito il
legame, la comunicazione tra cielo e terra, già spezzato col peccato presso il
primo albero (Gn 3,1-6); la croce ci rimette in comunione con Dio;

– il braccio orizzontale ci richiama alla
comunione con gli altri, l’abbraccio di Gesù per tutta l’umanità e per ciascuno
di noi; la croce ci permette di costruire relazioni nuove con tutti gli uomini;

– è
anche scudo di protezione contro la tentazione, contro il male;

– è
segno di speranza perché proclama la vittoria della vita sulla morte, della
luce sulle tenebre, dell’amore sull’odio, della gratuità sull’utilitarismo e il
calcolo.

MC, troppo polemica?

Rev. padre,
da tempo mi porto nel cuore una obiezione che trattenevo per timidezza. Preciso
che nel 1973 fui in contatto con voi per verificare se la vita missionaria
fosse adatta per me […] e così conobbi alcuni dei vostri missionari come p.
Mura Salvatore e p. Vincenzo Pellegrino. La vostra rivista, mi perdoni, è
troppo polemica (virtù che ascrivo ai torinesi e a pochi altri in Italia) in
religione, in politica, in tutto. Si narra che Madre Teresa di Calcutta
dicesse: «Chiedo di lavorare in carità, non guardo i governi». Conosco anche
altre comunità missionarie e nessuno parla di politica. Accetto volentieri una
sua, ma la penso così da decenni.

Lorenzo B.
email, 19/01/2014

Caro
amico,
anzitutto grazie di averci scritto. «La virtù della polemica è da ascriversi ai
torinesi», scrive lei. Vorrebbe proprio dire che in redazione ci siamo
inculturati bene, perché di torinesi veri e propri qui non ce ne sono: tutti
acquisiti! Facezie a parte, mi preme precisare che i missionari della
Consolata, nella loro storia, non hanno mai fatto delle scelte di campo in base
all’approvazione o disapprovazione di un governo o un regime. Hanno sempre
scelto in obbedienza a direttive specifiche di Propaganda Fide o secondo
una lettura dei bisogni oggettivi di un paese alla luce del Vangelo. Con una
scelta preferenziale: i posti più difficili, più poveri, più impegnativi. Basti
pensare all’impegno nel Nord del Congo. Con questo non legittimano situazioni
politiche discutibili, piuttosto vivono il principio che il missionario non è
un agente politico ma un servo del Vangelo.

Il
che non significa che un missionario non faccia politica, perché con le sue
scelte in favore dei poveri, degli esclusi, dei popoli minoritari e delle
periferie, di fatto fa politica. E diventa una spina nel fianco di poteri
ingiusti, illiberali e diseguali, ma anche di quei poteri che in nome della
democrazia in realtà sfruttano e schiavizzano intere popolazioni. Volente o
nolente il missionario fa politica anche quando semplicemente propone la pace
invece della guerra, il perdono invece della vendetta, la gratuità invece del
profitto, il rispetto della diversità invece dell’omologazione, la difesa della
vita per quello che è invece che per quello che rende, la giustizia invece dei
privilegi.

Come
rivista cerchiamo di essere prudenti per non danneggiare chi vive sul terreno e
potrebbe pagare per nostre espressioni troppo esplicite. Preferiamo far parlare
la Chiesa locale, evitando nostre opinioni personali e usando invece documenti
o interviste di religiosi e vescovi dei diversi paesi di cui scriviamo.

Troppo polemici? Non è
nostra intenzione. Cerchiamo il più possibile di offrire un’informazione onesta
e documentata. Riteniamo però alienante parlare di poveri senza affrontare le
cause della povertà, di orfani senza approfondire il perché del loro abbandono,
di malati senza capire perché non hanno cure, di guerre e violenze senza
analizzae le cause immediate e remote. Ci sembra un nostro dovere, scrivendo
su una rivista mensile, fornire un’informazione approfondita e non edulcorata
sulla realtà del mondo.

I non cristiani si salvano?

Mia nipote mi ha posto alcune domande partendo dal fatto
che ha un ragazzo albanese di famiglia musulmana.

La prima domanda è: chi è nato in una nazione non
cristiana e pertanto assume per default la religione del posto,
qualunque essa sia, sarà convinto della sua verità e del suo Dio. Se Dio si
presenta loro in punto di morte e loro non possono accettarlo avendone sempre
avuto un altro, sono tutti destinati all’Infeo? O in un altro caso,
ammettendo che alcuni di loro decidano di accettarlo e questo sia sufficiente
per la salvezza, perché mai noi dovremmo fare tanta fatica per tutta una vita
se poi basta sinceramente pentirsi alla fine?

La seconda domanda è: come sai che qualsiasi libro che
sia stato scritto in materia, Bibbia inclusa, non contenga in parte o in
totalità delle cose non vere visto che non esiste possibilità di verifica?

Figlia della luce
20/12/2013

Cara
lettrice,
noi (cristiani) crediamo che Dio è uno solo: ieri, oggi e sempre, anche quando è
conosciuto sotto nomi differenti. E questo Dio «vuole che tutti gli uomini
siano salvi e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,3-4). E gli uomini
sono fatti per conoscere e amare Dio perché portiamo il suo imprint:
sono fatti a sua immagine e somiglianza. Da sempre nella storia dell’umanità la
fede nell’esistenza di Dio è una dimensione fondamentale di ogni cultura. È
solo negli ultimissimi secoli, e nella nostra cultura occidentale che degli
uomini si sono ufficialmente dichiarati agnostici o atei e sostengono che Dio
non esista e sia solo un’invenzione.

Attraverso
i secoli e i continenti, popoli diversi hanno imparato a conoscere Dio a
tentoni (At 17,24-28) e ciascuno l’ha chiamato secondo la propria lingua,
celebrato con i propri riti e capito secondo la propria teologia. Dalla
comprensione di Dio e dall’esperienza quotidiana, ogni popolo si è dato regole
di vita in base alle quali una persona è considerata giusta, buona e
rispettabile. Parafrasando le parole di s. Paolo nel testo sopra citato,
possiamo dire che seguendo il meglio delle proprie tradizioni umane e religiose
ogni uomo ha potuto realizzare la sua vocazione fondamentale: quella di essere
immagine («stirpe») di Dio (cfr. Gn 1,26).

È
vero che nella storia della Chiesa questa visione è stata spesso dimenticata ed
è prevalsa l’idea che tutti i non battezzati fossero destinati alla dannazione
eterna, con conseguenze anche gravi, come il battesimo forzato dei popoli
latino-americani. Ma il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha avuto il merito di
purificare la Chiesa da queste visioni non evangeliche della storia della
salvezza. Basti per questo la costituzione Gaudium et Spes: n.16, sulla
coscienza retta; n.17 sulla libertà; n.58, su Vangelo e culture; oppure Lumen
Gentium
: n.16 sui non cristiani; o la brevissima dichiarazione Nostra
Aetate
firmata da Paolo VI.

Così,
circa la prima domanda, questo è ciò
che si pensa oggi nella Chiesa. Ogni uomo ha una capacità naturale di
relazionarsi con Dio, perché creato da Dio. Ognuno è chiamato a vivere una vita
retta in base alla sua cultura e alla sua coscienza; su questo sarà valutato
e  non su quello che non conosce. Gesù è
morto e risorto per salvare tutti gli uomini di ogni epoca e di ogni angolo del
mondo, non solo chi espressamente lo riconosce e aderisce a lui liberamente e
coscientemente con un atto di fede e col battesimo. La «condanna» è per chi
coscientemente non vive secondo gli standard migliori della sua cultura. Non si
tratta quindi di una decisione all’ultimo minuto per il Dio dei cristiani, ma
di un modo continuo di essere persona degna, onorata e giusta, secondo una
coscienza retta. Ciascuno è chiamato a rispondere per quello che sa, non quello
che ignora senza colpa. Questo vale per il non-cristiano quanto per il
cristiano. Non c’è illuminazione dell’ultimo minuto.

La
seconda domanda: «Chi ci assicura che la Bibbia non contenga
sbagli?».
Nessuno. La Bibbia contiene sbagli scientifici, geografici e storici
perché non è né un libro di storia né di geografia né di scienze. Scritta
nell’arco di oltre 1000 anni, la biblioteca della Bibbia è condizionata dalle
conoscenze degli uomini contemporanei a ciascuno dei suoi libri. Anche dal
punto di vista religioso la Bibbia contiene una progressione tra le idee ed le
esperienze raccontate nei suoi libri più antichi e quelle contenute nei libri
conclusivi come quelli del Nuovo Testamento. Questo perché  non è un unico libro «di religione» scritto
da un solo autore che ne ha poi revisionato attentamente ogni parte per una
perfetta armonizzazione di tutto e l’eliminazione delle contraddizioni o degli
elementi sfavorevoli. La Bibbia riflette il cammino di fede di un popolo che a
fatica è cresciuto nella sua comprensione delle cose di Dio e si racconta,
offrendo ai lettori una testimonianza del proprio cammino spesso faticoso. Fino
alla testimonianza di Gesù Cristo, figlio dell’uomo e figlio di Dio.
Testimonianza ancora una volta affidata alla fragilità di altri uomini.

Come possiamo
verificare allora che la Bibbia dice parole vere su Dio? Prima che un libro di
idee e di dogmi, la Bibbia è un libro di persone che hanno creduto e offrono
liberamente la loro testimonianza su quello che hanno visto, toccato, udito,
incontrato e amato (cfr. 1 Gv 1,1-4), su quello che ha dato senso alla loro
vita. La verità si scopre solo accettando di entrare in relazione con dei
testimoni e attraverso loro con Colui che loro hanno conosciuto e amato.

 

Non sono d’accordo

Carissimo direttore.
Sono un fedelissimo della vostra rivista missionaria e apprezzo sempre leggere
gli articoli sui/dei missionari della Consolata […]. Vorrei farle notare, per
la mia esperienza di missionarietà acquisita sul campo a fianco di padre Noè
(Cereda) nell’isola dei lemuri (Madagascar), che non sono per niente d’accordo
sull’introduzione del suo editoriale «Santa audacia» (gen. 2014) quando
confonde il potere temporale della Chiesa con la vera storia della nostra
cristianità , «con la nostra fede che ha perso sapore per non essere più in
grado di creare Chiese di bellezze straordinaria» … (sic!).

Personalmente credo che Papa Francesco nel suo dire si
riferisca ad altre giornie, ad altre bellezze e ad altra audacia. è un richiamo a essere meno succubi
alle realtà dorate di questo millennio. È il denaro, la ricchezza e la fame di
vanagloria che la nostra società ci presenta come l‘inizio di una felicità
eterna. Riuscire a non farci trascinare nel «così fan tutti» e superare le
barriere di chi sposa il faceto e le tendenze dell’egoismo più sfrenato è
sicuramente l’audacia che ci chiede Papa Francesco. Una frase che ha detto ai
cristiani è sulla bocca di tutti: «I fondatori della chiesa Cattolica non
avevano il libretto degli assegni».

Nel mio piccolo ritengo, senza supponenza, che ne passa
di acqua nella storia fra scelte condivise e oppressioni tipiche del medioevo
verso i più deboli, depredati dai pochi ricchi che avevano anche i privilegi
dello ius primae noctis.

In terra di missione è la fede della gente che fa la
differenza, e non certamente le chiese gotiche che da ai nuovi cristiani la
gioia di amare, la bellezza della loro anima e l’audacia di professarsi
cristiani e distinguersi nel sacrificio verso i propri fratelli a scapito della
loro vita. Da noi è l’egoismo che impera nella società, è l’indifferenza di
tanti nuclei famigliari che davanti a tanti fratelli meno fortunati si chiudono
in «chi se ne frega». L’importante è che a noi non
manchi nulla. Non si può certo fare di ogni erba un fascio dimenticando che per
chi vuol essere «credente» la carità è la massima espressione del cristianesimo
sia nelle parrocchie che nelle missioni sparse in tutto il mondo, una carità
che parte dal cuore e irradia l’universo di gioia, di bellezza e di audacia
senza se e senza ma come tantissime persone impegnate in associazioni che
sacrificano per un messaggio solidale la loro vita per i propri fratelli.

Per chiudere l’argomento credo che le chiese debbano
essere dignitose in ogni parte del mondo, con un imperativo: «Non essere
bellissime scatole, ma senza fedeli». Vuote.

Giovanni
Besana
Missaglia (Lc), 30/01/2014

Caro
Sig. Giovanni,
grazie del suo interessante commento. Mi permetto solo di precisare che la mia
frase è leggermente diversa da come lei l’ha riportata. Scrivevo: «Basti
pensare a molte delle chiese costruite alla fine del secolo scorso, spesso
livellate da un’architettura populista incolore che non ha più neppure l’eco
della giorniosa bellezza e dello slancio audace delle chiese gotiche. Specchio di
una fede che ha perso il sapore, che non osa più». Con quello non intendevo
certo esaltare il potere temporale della Chiesa, ma mi riferivo a un periodo
della nostra storia, il Medioevo, su cui abbiamo delle opinioni diverse. Le
chiese gotiche non sono frutto di un periodo cupo e triste della nostra storia
ma espressione di un mondo pieno di luce, colore, slancio e speranza. Le
comunità cittadine che costruirono tali cattedrali vivevano tempi d’intensa
vitalità economica e culturale e di relativa pace, nei quali, accanto a mura e
castelli, era anche possibile costruire, con il lavoro di tutti, la casa della
comunità, in cui celebrare le feste, dare rifugio ai pellegrini e viandanti,
trovare asilo in tempi di calamità e di abusi da parte dei poteri politici.

Quanto
alle oppressioni verso i deboli da parte di pochi ricchi predatori, credo
proprio che noi oggi abbiamo ben poco da insegnare a riguardo, giacché,
nonostante la crisi economica tocchi tutto il mondo, i ricchi diventano sempre
più ricchi, i poveri impoveriscono sempre di più e la classe media scompare.
Storia di oggi, non del Medioevo. E lo «jus primae noctis» lasciamolo al mondo
delle bufale rinascimentali cui appartiene, come tanti altri luoghi comuni sul
Medioevo come scrive Alessandro Barbero (vedi l’articolo su La Stampa del
28.8.2013, pag. 30-31 e l’intervista su Zenit.org del 16.9.2013). «Tutti quelli
che ne parlano, dalla fine del Medioevo in poi, la associano a un’alterità
barbarica, all’esotismo dei nuovi mondi, o a quell’altro esotismo, di gran
fascino, che è l’esotismo del passato. Ed è il motivo per cui da queste
leggende è così difficile liberarsi. Non importa se da cento anni nessuno
storico serio le ripete più, e se grandi studiosi come Jacques Le Goff hanno
insistito tutta la vita a parlare della luce del Medioevo. Nel nostro
immaginario è troppo forte il piacere di credere che in passato c’è stata
un’epoca tenebrosa, ma che noi ne siamo usciti, e siamo migliori di quelli che
vivevano allora».

La
realtà è che nella storia la costruzione di una cattedrale non ha mai portato
alcuna città alla bancarotta, mentre, ad esempio, certe faraoniche costruzioni
olimpiche hanno invece rovinato delle nazioni.

Rirsponde il Direttore




San Giuseppe Maria Gambaro

Antonio Beardo Gambaro nasce a Galliate il 7 agosto del
1869, quinto figlio di Pacifico e Francesca Bozzola, modesti artigiani tessili.
Fin da adolescente manifesta l’intenzione di mettersi al servizio del prossimo
e del Signore, e così nell’ottobre del 1883 entra nel collegio serafico del
Monte Mesma (Ameno, Novara), retto dall’Ordine dei Frati Minori Francescani.
Nel 1986 inizia il noviziato nella famiglia religiosa che l’ha accolto e gli
vengono dati i nomi di Giuseppe Maria. Dopo aver compiuto gli studi filosofici
e teologici, il 12 marzo 1892 è ordinato sacerdote. Nel 1894 chiede ai
superiori di poter partire missionario in Cina. Nel dicembre del 1895 si
imbarca a Napoli, visita la Terra Santa e, dopo un viaggio di qualche mese, il
7 marzo 1896 sbarca a Shangai, da lì raggiunge Hen-tceu-fu, capitale della
provincia dell’Hu-nan meridionale. I primi tempi li trascorre cercando di
apprendere i rudimenti della lingua cinese, si accultura rapidamente vestendo
abiti locali. Il vescovo dell’Hu-nan Mons. Antonino Fantosati, gli affida
quindi la direzione del seminario minore di Sce-fan-tan e inizia anche un
fecondo lavoro pastorale con la gioventù della zona. Durante la primavera del
1900 accompagna il vescovo in visita ad alcune comunità del Vicariato
Apostolico. Nel mese di luglio, mentre sono in viaggio, li raggiunge la notizia
che la rivolta dei Boxer dilaga nell’Hu-nan. La residenza episcopale e diverse
opere sociali, compreso l’orfanotrofio, sono distrutte dai rivoltosi che
uccidono padre Cesidio Giacomoantonio. Incuranti del pericolo decidono di
tornare indietro, la barca su cui viaggiano è bloccata lungo il percorso. I
frati, fatti scendere a terra, sono percossi e seviziati fino a provocarne la
morte.

Carissimo padre Gambaro, a dire il vero mi metti un po’ in soggezione
in quanto, oltre ad aver coronato con la Palma del Martirio la tua esistenza al
servizio della Chiesa e del popolo cinese, sei originario di Galliate nella cui
Chiesa parrocchiale per diverso tempo sono stato viceparroco e in cui ho sempre
percepito la forza della tua presenza.

Proprio
vero, sono originario di un paese della Bassa novarese, situato sulle sponde
del Ticino, una zona che dal punto di vista agricolo è sempre stata terra di
coltivazione del riso, mentre dal punto di vista industriale per moltissimi
anni è stata un polo tessile di una certa importanza.

Non dirmi che all’origine della tua scelta missionaria per la Cina c’è
il riso, l’alimento naturale dei galliatesi, che sapevi di trovare in
abbondanza nel Celeste Impero.

A dire
il vero la scelta della Cina è stata più legata a una coscienza che si andava
sempre più accentuando nella Chiesa per quella grande e popolosa nazione dove
ancora non era risuonata la buona notizia del Vangelo. Erano i tempi in cui
mons. Guido Conforti, Vescovo di Parma, fondava l’Istituto Missionario dei
Saveriani con il compito principale di evangelizzare la Cina.

Quindi invece di innamorarti dell’Africa o dell’America Latina, sognavi
di metterti al servizio del popolo cinese per far conoscere loro il messaggio
di amore e di misericordia di Gesù.

Proprio
così. Quando discutevo sulle missioni con gli altri frati miei compagni, il mio
pensiero correva sempre verso la Cina piuttosto che verso l’Africa o altre zone
parimenti bisognose dell’annuncio del Vangelo perché pensavo e ripensavo a
quella sterminata popolazione alla quale mancava la conoscenza del messaggio di
salvezza di Gesù Cristo.

Quando sei arrivato in Cina che realtà hai trovato?

Io
arrivai a Shangai nel marzo del 1896. Qualche anno prima il Giappone aveva
invaso la Cina che era sì un grande impero, ma a causa della corruzione
dilagante, di arroganti potentati locali e della debolezza della casa
imperiale, non era più in grado di garantire ordine e tranquillità alla sua
immensa popolazione.

Se capisco bene, l’Impero di Mezzo, come allora era chiamata la Cina,
era in piena decadenza, come l’Impero Ottomano, imperi che proprio per la loro
vastità, dopo aver conosciuto secoli di splendore, cominciavano a
disintegrarsi.

A quei
tempi l’Impero cinese sotto la dinastia Manchù era in piena decadenza e alla
mercé delle potenze coloniali emergenti: inglesi, russi, giapponesi, tedeschi,
facevano a gara per spartirsi miniere e appalti per la costruzione di strade e
ferrovie e per avere concessioni territoriali in cui estendere la loro
influenza. Tutto ciò alimentava nella popolazione un astio crescente nei
confronti di quelle potenze che si traduceva in odio puro e semplice verso
tutti gli stranieri. Del resto le potenze presenti in Cina attuavano una
sistematica violazione delle millenarie tradizioni e regole di comportamento
locali, e gli occidentali, anche se compivano abusi e crimini, non venivano
perseguiti perché godevano di immunità.

L’odio e il risentimento della gente si trasformava in atteggiamenti
ostili nei confronti degli europei?

Diciamo
che con la «Guerra dell’oppio» (due conflitti, svoltisi dal 1839 al 1842 e dal
1856 al 1860) l’imperialismo europeo più bieco era stato impiantato in Cina. Da
allora la situazione era andata peggiorando. Da un atteggiamento di rifiuto si
passò in breve tempo a una violenza contro imprese e aziende estere e i loro
dipendenti, e anche contro missionari e cinesi che si erano convertiti. La
popolazione era visceralmente accomunata da un odio collettivo contro gli
stranieri, percepiti come nemici che volevano stravolgere usi e costumi del
popolo cinese.

È da lì che prese il via la rivolta dei Boxer?

Sì.
Questo termine inglese veniva usato in Cina per indicare uno che combatte a
pugni nudi, perché alcuni rivoltosi avevano una certa pratica di arti marziali,
ma mancavano totalmente di armi. I Boxer raggruppavano contadini senza terra,
artigiani, piccoli funzionari, ecc., essi vedevano con autentico terrore
l’ampliamento della rete ferroviaria, la costruzione di linee telegrafiche e la
comparsa sui grandi fiumi della Cina di navi a vapore. Provenendo da una
famiglia di tessitori guardavo con apprensione il rifiuto che i cinesi avevano
verso i nuovi macchinari per i tessuti: filatorni, telai, ecc., loro pensavano
che tutte queste novità avrebbero tolto posti di lavoro.

Importando queste nuove tecnologie gli europei davano allora
l’impressione di voler impadronirsi della Cina.

Proprio
così. Il problema vero era che questa rivolta dal basso aveva un’ideologia
semplice e terribile allo stesso tempo: tutto ciò che non era cinese era
malefico. Anche la religione cristiana portata dai missionari che venivano
dall’Europa, venne assimilata al rifiuto totale che i cinesi avevano verso ciò
che non apparteneva alla loro cultura.

Quest’odio era solo verso gli europei o era indirizzato anche verso
quei cinesi che si erano convertiti al cristianesimo?

La
gente che aderì al messaggio cristiano pagò un prezzo altissimo, perché se gli
stranieri erano odiati in quanto stranieri, i cinesi che avevano abbracciato il
cristianesimo erano accusati di tradimento dei valori della cultura cinese.
Furono uccisi a migliaia. Man mano che le violenze e gli eccidi di convertiti
aumentavano e i dispacci delle ambasciate ai governi europei s’infittivano,
venne presa la decisione di raggruppare tutte le Legazioni Diplomatiche in un
unico quartiere e di mandare una squadra navale con dei reparti militari per la
difesa degli stranieri.

Questa misura però non ottenne il risultato previsto.

Infatti
il governo cinese già xenofobo di per suo conto, non poteva accettare la
presenza di militari stranieri armati sul proprio territorio; per questo i
crimini dei Boxer vennero tollerati e persino giustificati dalle autorità
cinesi.

Questo naturalmente ebbe un’immediata ripercussione anche nelal vostra
zona.

Certamente,
Nella nostra provincia, dopo che uccisero fra Cesidio Giacomoantonio (4 luglio
1900), iniziarono pestaggi, saccheggi e uccisioni di stranieri, missionari e
cristiani cinesi.

Con conseguenze tragiche per di voi.

Informato
di quello che stava accadendo, mons. Fantosati, il mio vescovo, nonostante
fosse conscio dei pericoli che correva, decise di ritornare nella sua sede
episcopale, io ovviamente lo accompagnai. Alla dogana di Hen-tceu-fu fummo
riconosciuti come stranieri e missionari, fatti scendere dal barcone su cui
viaggiavamo e circondati da una folla assatanata urlante e minacciosa. Fummo
immediatamente investiti da calci e pugni e colpiti con dei bastoni.

Eravate arrivati quindi alla fine della vostra vita missionaria e anche
di quella terrena.

Mentre
ci percuotevano, riuscimmo a pregare e fare il Segno della Croce, quindi ci
abbracciammo mentre i nostri carnefici si accanivano selvaggiamente su di noi.
Al culmine del nostro martirio, alcuni pagani esclamarono: «Questi stranieri
erano veramente giusti!».

Il 7 luglio 1900 i
corpi senza vita di Mons. Antonino Fantosati e di fra Giuseppe Maria Gambaro,
vengono gettati nel fiume Siang, quindi ripescati e bruciati per impedie la
sepoltura. Nel dicembre 1926 si avvia la causa di beatificazione per un gruppo
di 29 cristiani uccisi durante la rivolta dei Boxer. Il 1° ottobre del 2000,
Giovanni Paolo II eleva alla gloria degli altari 120 martiri della Cina di
tutti i tempi, tra loro, Mons. Fantosati, padre Giacomoantonio e padre Giuseppe
Maria Gambaro.

Don Mario Bandera – Direttore Missio
Novara

Mario bandera




«Più stato!», «meno stato!» Fedi e laicità

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 18

Vignette satiriche in
Inghilterra e pillola del giorno dopo negli Usa. Due casi recenti che mettono
al centro il tema della laicità delle istituzioni. Da un lato c’è chi, per
difendere la fede, chiede una maggiore presenza dello stato. Dall’altro c’è
chi, sempre per garantire la libertà di credo, ne chiede una presenza minore. Come
sciogliere un nodo così centrale nella vita delle democrazie costituzionali?

Fino a che punto può spingersi la
libertà di critica e di satira nei confronti della religione? Nella società
secolarizzata esiste infatti anche questo problema che, tra gli altri, riguarda
la laicità dello stato. Lo stato laico non può avere una propria confessione
religiosa, né creare condizioni favorevoli per una a dispetto delle altre. Esso
deve garantire la libertà religiosa e di coscienza a tutti: credenti e non
credenti.

Per assicurare il rispetto di questi
principi ci sono le costituzioni, le leggi e le apposite istituzioni (come, in
Europa, la Cedu, di cui abbiamo scritto nei numeri scorsi). Rimangono tuttavia
aperti diversi problemi, tra i quali quello cui abbiamo accennato all’inizio:
la libertà, in questo caso di coscienza e di espressione, trova un limite nella
libertà degli altri? Se uno non è credente, fino a che punto può criticare la
religione senza offendere la coscienza dei credenti? È una questione emersa in
questi ultimi anni proprio nel campo dell’umorismo e della satira.

I due grandi amici «Jesus and Mo»

Tutti ricordiamo il caso delle
caricature di Maometto pubblicate il 30 settembre 2005 sul quotidiano danese Jyllands-Posten,
considerate blasfeme dai musulmani, che avevano prodotto reazioni molto
violente, morti e feriti.

Un episodio analogo ma, per fortuna,
del tutto pacifico, è accaduto qualche mese fa in Inghilterra. La mattina del 3
ottobre scorso Chris Moos e Abhishek Phadnis, studenti della London School
of Economics
, famosa università privata di Londra, si sono presentati in
aula con una maglietta che riproduceva un’immagine di «Jesus and Mo», un
fumetto umoristico celebre nel paese d’oltremanica. I due giovani, che si
dichiaravano atei, l’hanno indossata per scherzo. Il fumetto rappresenta Gesù e
Maometto come due grandi amici che si parlano dandosi del tu, e prendono in giro
in modo sarcastico il mondo religioso rappresentato da ciascuno dei due. C’è
addirittura un sito internet molto seguito che riporta tutte le vignette via
via prodotte dagli autori (jesusandmo.net *).

Lo scherzo dei due non è stato preso
bene da altri studenti, rappresentanti di associazioni e forze politiche
studentesche, che lo hanno considerato «non politicamente corretto». Hanno
ritenuto, infatti, che la vignetta fosse offensiva per cristiani e musulmani.
Cris Moos e Abhishek Phadnis sono stati quindi costretti a nascondere le loro
magliette sotto una giacca.

Censurare la censura

Il giornalista del quotidiano
londinese The Guardian, che ha raccontato l’episodio, ha criticato
pesantemente il comportamento degli studenti contrari alle magliette,
considerandolo «un altro esempio di repressione nelle nostre università». Egli
infatti lamenta che quanto accaduto nella London School non sia un fatto
isolato e che, quindi, il problema stia diventando preoccupante in Inghilterra.
Le università, sostiene, sono l’ultimo posto dove la censura dovrebbe essere
ammessa. Egli non difende i due studenti per principio, ma perché la vignetta
riprodotta sulle loro magliette non era, a suo avviso, affatto offensiva.
Questo è l’aspetto che suscita la sua preoccupazione. Per il giornalista,
infatti, non è la «provocazione» dei due amici a essere stata sproporzionata,
ma la reazione inaccettabile degli altri giovani.

Usa: assicurazione sanitaria e pillola del giorno dopo

Dall’altra parte dell’oceano, negli
Usa, si manifesta un problema che non riguarda la libertà di espressione e di
satira, ma in modo direttamente più esplicito la libertà religiosa e la laicità
dello stato. In questo caso la domanda potrebbe essere: fino a che punto le
comunità religiose possono ritenere che alcune leggi dello stato non siano
valide al loro interno?

Ne ha parlato il primo novembre
scorso il quotidiano francese Le Monde in un articolo dal titolo
emblematico: Le ambiguità della libertà religiosa americana. Vi si
racconta che il 24 ottobre Richard Mourdock, candidato repubblicano al senato
nell’Indiana, ha affermato che «la vita è un dono di Dio anche quando inizia in
una terribile condizione di violenza». Si riferiva a una questione molto
dibattuta, legata alla riforma sanitaria del presidente Barak Obama.
Quest’ultima infatti prevede l’obbligo per i datori di lavoro di offrire ai
propri dipendenti assicurazioni mediche che coprano anche le spese per la
contraccezione. E le parole di Mourdock erano indirizzate alla cosiddetta «pillola
del giorno dopo», la quale sarebbe compresa nell’assicurazione sanitaria
offerta obbligatoriamente ai propri dipendenti anche dalle università e
istituzioni religiose contrarie all’uso della pillola stessa.

Può essere certamente, come sostiene
l’autrice dell’articolo, che ci si trovi di fronte a una forzatura polemica che
trasferisce sul piano della libertà religiosa un problema, in realtà, politico.
La riforma sanitaria ha infatti scatenato negli Usa forti contrapposizioni tra
repubblicani e democratici, facendo muovere numerose associazioni, consistenti
forze economiche e sociali, e istituzioni religiose. Resta il fatto che negli
Stati Uniti, dall’11 settembre 2001 in poi, nella «destra religiosa» si sono
rafforzate le paure nei confronti di una perdita dell’«identità cristiana»
americana, minacciata, da una parte, dagli islamici e, dall’altra, dalla
secolarizzazione. Questi pericoli, da quando siede alla Casa Bianca, vengono
ricondotti al presidente Obama e alle sue politiche.

Fuori dalla vita pubblica

Nel numero di marzo 2012 del mensile
conservatore First Things era stata pubblicata una dichiarazione
congiunta di esponenti religiosi protestanti e cattolici in cui si afferma che «i
difensori dei diritti dell’uomo, ivi compresi i governanti, hanno cominciato a
definire la libertà religiosa in un modo sempre più riduttivo, riconducendola a
una semplice libertà di culto». La religione biblica, invece, secondo la
dichiarazione, ha un carattere essenzialmente pubblico e non può essere ridotta
a un fatto privato. «Non è affatto esagerato» prosegue il documento «vedere in
questi sviluppi un movimento che cerca di spingere la fede religiosa, e
soprattutto le convinzioni religiose e morali cristiane ortodosse, fuori dalla
vita pubblica». Dentro questo quadro espresso sul periodico conservatore, il
fatto che lo stato renda obbligatoria, anche da parte delle istituzioni
religiose, l’offerta gratuita di contraccezione, diventa un attentato alla
costituzione e ai diritti che essa riconosce. In particolare alla libertà
religiosa, dato che tali imposizioni entrano nel campo della liceità della
contraccezione rispetto alla quale cattolici e protestanti, pur non
condividendo la stessa valutazione generale, concordano quando ci sia da
ritenere abortivo, e quindi moralmente inaccettabile, il ricorso alla «pillola
del giorno dopo».

Ingerenze confessionali, ingerenze laiche

Cosa lega tra loro il dibattito
statunitense appena riferito e l’episodio della London School of Economics?

Apparentemente nulla. In realtà
entrambi riguardano la concezione di laicità dello stato e la libertà di
espressione. Nel caso londinese viene stigmatizzata una ingerenza «confessionale»
nella libertà di espressione personale. Nel secondo una ingerenza «laica» dello
stato nella libertà di adesione alle convinzioni religiose di alcune
istituzioni private. In tutti e due i casi è in gioco anche un altro aspetto:
quello del cosiddetto «spazio pubblico».

In esso si devono poter manifestare
liberamente le proprie convinzioni. Nessuno, ovviamente, mette in discussione
la libertà di farlo in privato. Ciò che costituisce problema è, invece, la
dimensione pubblica della propria fede religiosa o della propria valutazione,
anche critica, della fede stessa.

Non c’è dubbio, inoltre, che la fede
biblica abbia un carattere pubblico, come sostiene la dichiarazione pubblicata
dal First Things. Lo stesso vale anche, e forse ancora di più, per
l’islam. Ma tale «carattere pubblico» della fede può spingere una religione a
pretendere che la propria concezione morale entri tout court nello «spazio
pubblico» rappresentato dalle norme dello stato?

Probabilmente no. Si violerebbe,
altrimenti, la sua laicità. Ma si violerebbe la laicità dello stato anche se,
al contrario, lo «spazio pubblico» diventasse un luogo in cui la «religione non
c’è», uno spazio religiosamente vuoto (cosa che occorrerebbe verificare se
possibile, oltreché giusta), o un luogo in cui fosse possibile realizzare un’«etica
irreligiosa»: sia sotto forma di satira irrispettosa, sia sotto forma di norme
contrarie alle convinzioni religiose.

Laicità piegata ai propri fini

Non si tratta di un nodo semplice da
sciogliere.

Ci sono casi in cui le norme
contrarie alle convinzioni religiose vengono considerate legittime anche dalla «destra
religiosa», quando queste concordano con i suoi obiettivi.

Per rimanere negli Usa, dove i
problemi si presentano spesso in modo più evidente e, a volte, anche più acuto
che in Europa, dal 2010 alcuni stati come il Tennessee, la Louisiana, l’Arizona
– ma in molti altri si sta procedendo nella stessa direzione -, hanno
introdotto norme che pongono restrizioni significative alla libertà religiosa
delle comunità musulmane ed ebraiche. In queste comunità infatti operano «tribunali»
che applicano ai propri fedeli le leggi religiose, la sharia islamica e
la halakhah ebraica. Quando tali «tribunali» non garantiscono gli stessi
diritti previsti dalla Costituzione, le parti interessate possono ricorrere a
un tribunale laico. Perché in questi casi è considerata legittima l’«ingerenza»
dello stato e la restrizione della libertà religiosa?

La bussola dei diritti costituzionali

La risposta è chiara: la restrizione
del diritto alla libertà religiosa è possibile quando questa eviti la
violazione di altri diritti costituzionali.

Sono le norme costituzionali, dunque
– naturalmente delle costituzioni democratiche che riconoscono e proteggono
tutti i diritti civili e di libertà -, che debbono prevalere, perché
garantiscono a tutti i cittadini pari diritti e pari libertà. Questo deve
valere anche quando si invoca uno «spazio pubblico» in cui esprimere la propria
fede religiosa. Tale spazio dev’essere regolato dalle norme costituzionali che
valgono per tutti. È questo, propriamente, che caratterizza lo stato laico e
non confessionale.

E dell’obiezione di coscienza

Se dalle istituzioni
e dalle comunità si passa a considerare la persona, per difenderla
dall’ingerenza dello stato nelle sue convinzioni religiose e nella sua
coscienza, rimane fondamentale il diritto all’obiezione di coscienza. Ha
costituito un grande progresso civile il suo ingresso da qualche decennio tra
le leggi degli stati. Uno stato laico deve sempre prevederla quando sono in
gioco norme che possono contrastare le convinzioni morali e religiose di una
persona.

In Italia non è
stato facile raggiungere questo risultato. Molti hanno pagato prezzi elevati
perché tale diritto fosse riconosciuto. Ricordiamo il caso degli obiettori di
coscienza al servizio militare, esploso negli anni ‘70, costretti in carcere
perché non volevano indossare la divisa. La loro scelta ha reso possibile la
legalizzazione di quella forma di obiezione di coscienza. In seguito, come
noto, in Italia ne sono state riconosciute altre: ad esempio l’obiezione dei
medici alla legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza.

Per quanto
riguarda la riforma di Obama, alla fine di giugno 2012, la Corte suprema
americana l’ha dichiarata costituzionale, in particolare dove prevede l’obbligo
per tutti i cittadini di dotarsi di un’assicurazione sanitaria. Rimane però
aperta la questione che contrappone il presidente e le istituzioni religiose.
Obama ha fatto un passo indietro, cercando un accordo: «Le organizzazioni
religiose non dovranno pagare per questi servizi o provvedervi direttamente»,
ha affermato ancora nel febbraio del 2012, precisando che le istituzioni
affiliate a organizzazioni religiose non avrebbero più avuto l’obbligo di
coprire la spesa sanitaria dei dipendenti per gli anticoncezionali. Questo non
ha impedito che le arcidiocesi di New York e Washington, insieme a una
quarantina di altre istituzioni e gruppi cattolici, avviassero alcuni mesi dopo
una causa contro la riforma, sostenendo che «i progressi nella modifica della
norma non erano stati incoraggianti».

Paolo Bertezzolo

* Per correttezza abbiamo
riportato questo sito, ma se la sua qualità è rappresentata da alcune delle
vignette che abbiamo visto, non vale davvero il nostro tempo; è più frutto di
goliardia e d’ignoranza in malafede che d’intelligenza; il fatto che se la
prenda sia con Islam e Cristianesimo non contribuisce certo a renderlo almeno
dignitoso, ndr.

Paolo Bertezzolo




Torino, gli strumenti per non avere paura

Reportage periferie /
1

Erano gli anni
Sessanta quando cartelli affissi sulle porte degli edifici del capoluogo
piemontese avvertivano: «Non si affitta a meridionali». Nel 2014 sono ancora
tanti i torinesi che ricordano quegli anni e citano quelle scritte quasi a
sottintendere che la città ha già affrontato massicci flussi migratori e ha
saputo reagire, accogliere e integrare. Oggi basta salire su un tram come il 16
o spingersi nel quartiere Barriera di Milano per toccare con mano una città che
resta fedele alla sua lunga tradizione di accoglienza e, pur nelle difficoltà e
nelle contraddizioni, continua a cambiare volto.

Nell’inverno 2014 gli enti locali torinesi hanno siglato diversi accordi
il cui tema di fondo era la relazione con le comunità di migranti. Solo per
citare alcuni esempi, sono dello scorso febbraio l’adesione della Provincia di
Torino al protocollo d’intesa sulla prevenzione e il contrasto della tratta degli
esseri umani, e la formalizzazione della collaborazione fra la polizia
municipale e la comunità marocchina per la prevenzione dell’abbandono
scolastico, per la mediazione nei casi di conflitti tra i giovani immigrati e
per l’assistenza alle vittime di violenza domestica.

I temi relativi ai migranti hanno certamente un peso
notevole nel dibattito e nell’agenda politica della città che, sia attraverso
le istituzioni pubbliche sia con l’apporto del cosiddetto «privato sociale», si
attiva per cercare soluzioni ai problemi legati all’accoglienza e
all’integrazione delle comunità straniere. Non mancano ovviamente le polemiche
e le accuse a enti pubblici e associazioni di dare precedenza ai bisogni degli
stranieri rispetto a quelli dei torinesi. Ma in una città dove sono già
presenti le seconde generazioni, dove la crisi economica si fa sentire con tale
forza da spingere talvolta gli immigrati stessi ad abbandonare l’Italia per
rientrare nei paesi d’origine o per spostarsi in altre nazioni europee, dove le
scuole sono da anni laboratori di interculturalità, la rassicurante divisione
noi/loro è un semplicismo che fatica ogni giorno di più a descrivere la realtà.

Il lavoro dell’Upm

L’ufficio per la pastorale migranti (Upm) della diocesi
di Torino è un punto di riferimento fondamentale per le comunità straniere.
Offre numerosi servizi fra i quali lo sportello per il lavoro, le consulenze
legali, l’insegnamento dell’italiano e molti altri. Sergio Durando, direttore
dell’Upm, traccia una sintesi della situazione: «Metà dei 385 mila immigrati
del Piemonte vivono a Torino: sono 200 mila nella provincia di cui 150 mila nel
territorio comunale». Secondo il XXIII Rapporto immigrazione 2013 (vedi
articolo pag. 28) di Caritas e Migrantes, nella regione la comunità più nutrita
è quella rumena, con 137 mila presenze, seguita dalle comunità marocchina,
albanese, cinese e peruviana. Un punto di partenza per provare a mettere ordine
nel complesso insieme di fenomeni legato ai migranti, suggerisce Sergio, può
essere il tema del lavoro: il Piemonte è la regione con il più alto tasso di
disoccupazione al Nord (9,8% nel 2013); l’agricoltura dà ancora lavoro ma
ovviamente non nel contesto urbano del capoluogo piemontese, dove i settori
colpiti dalla crisi sono l’edilizia, in cui tendono a concentrarsi i lavoratori
di origine rumena, l’industria e il settore manifatturiero, nei quali le
comunità di migranti maggiormente rappresentate sono quella marocchina e quella
albanese. «Il problema occupazionale», continua Durando, «si traduce facilmente
in un problema abitativo sia per i cittadini di origine italiana che per gli
stranieri, e per i migranti la marginalità economica diventa anche giuridica,
con la perdita dei permessi di soggiorno: nel 2012 i permessi persi sono stati
maggiori dei permessi di ingresso».

Categorie speciali: rifugiati
e titolari di protezione internazionale

All’interno della comunità dei migranti ci sono poi
delle categorie speciali: i rifugiati e i titolari di protezione
internazionale. Per quanto riguarda i rifugiati, il ministero dell’interno
guidato da Angelino Alfano, nel 2013, aveva aumentato da tremila a diciottomila
il numero dei richiedenti asilo che potevano essere accolti. Ma i tempi di
accoglienza, l’arretrato, l’accumulo di richieste e la difficoltà di reale
inserimento lavorativo rendono di fatto molto difficile approfittare
dell’aumento effettuato. «A Torino le strutture occupate da rifugiati, profughi
e titolari di protezione internazionale, sono sette più una casa di religiosi»,
interviene don Claudio Curcetti, sacerdote assegnato dalla diocesi all’Upm, «e
la situazione più esplosiva è forse quella del ex Moi, il villaggio olimpico
costruito nel 2006 e attualmente occupato da circa quattrocento persone» (vedi MC
8-9/2013, pp. 59-63
). Si tratta di uomini, donne e bambini giunti in Italia
a causa della cosiddetta emergenza Nord Africa, cioè l’arrivo in massa di
migranti in fuga dai paesi del Maghreb interessati dalla guerra, a partire da
quella libica.

L’accoglienza dei rifugiati su tutto il territorio nazionale
è costata mediamente ventitremila euro a persona per circa ventimila persone,
ma gli interventi sono stati disorganizzati e approssimativi: i fondi – a
partire dal rimborso di 40 euro al giorno per rifugiato – hanno raggiunto solo
in minima parte i beneficiari, che si sono spesso trovati abbandonati, relegati
a spazi abitativi degradati e privati di un piano di rientro alla fine
dell’emergenza.

«Uno dei problemi è che le politiche nazionali in
materia di migranti sono più preoccupate della sicurezza che dell’accoglienza», continua don Claudio, «ma questo
genera enormi storture che oltretutto aumentano la tensione e l’insicurezza».
Per non parlare di costi: un «centro di identificazione e espulsione» (Cie)
costa circa 45 euro al giorno per singolo individuo trattenuto; un rimpatrio
arriva a seimila euro. Le periferie e il degrado, conclude Curcetti, sono in
fondo il fallimento di una società la cui amministrazione e la cui urbanistica
non sono state in grado di distribuire il disagio in modo da «diluirlo» nel
tessuto urbano, ma lo hanno concentrato e, in questo modo, amplificato. «Se in
un condominio o in un quartiere ci sono settanta famiglie in condizioni
economiche dignitose e trenta disagiate, le prime possono più facilmente
cercare di andare incontro ai bisogni delle seconde e aiutarle a uscire dal
disagio. Ma se le proporzioni sono invertite, come si può pensare che un trenta
per cento di persone si faccia carico dei bisogni del settanta per cento? È
ovviamente impossibile».

I Rom

La corrispondenza fra periferia e disagio si è andata
allentando negli ultimi decenni, ma resta attuale nel caso dei Rom. Dagli anni
Settanta a oggi la provenienza delle popolazioni rom presenti a Torino è
cambiata, ma le aree in cui risiedono sono rimaste le stesse: baraccopoli ai
margini della città. Gli insediamenti abusivi di Lungo Stura Lazio hanno visto,
a partire dai primi mesi del 2014, un processo di graduale sgombero nell’ambito
di un progetto che mira a coinvolgere le famiglie stesse nello smantellamento
delle baracche attraverso l’autodemolizione. Del programma fanno poi parte la
sottoscrizione da parte dei Rom di un patto di emersione, l’accettazione delle
regole di convivenza e legalità, la compartecipazione alle spese e
l’inserimento in complessi di social housing, cioè soluzioni pensate per
le categorie che, prevalentemente per motivi economici, non sono in grado di
rispondere da sole ai propri bisogni abitativi.

L’intervento di Lungo Stura Lazio, oltre ad aver
provocato le ire degli esponenti della Lega («ai Rom le case popolari, ai
torinesi la mini-imu», ha commentato un esponente torinese), suscita qualche
apprensione anche fra gli addetti ai lavori. Finora lo sgombero di un campo,
avverte uno di loro che preferisce restare anonimo, ha spesso innescato un
processo simile alla mitosi cellulare, ha portato cioè alla formazione di più
campi sparsi. Inoltre occorrerebbe sfatare alcuni miti: ad esempio il fatto che
i Rom vivono nei campi per una questione culturale quando in realtà sono i
primi a non volerli; oppure il pregiudizio per cui l’avversione al lavoro è un
tratto caratteristico dei Rom quando invece ci sono, ad esempio, casi di
ragazze assunte come badanti o colf, le quali, fra l’altro, si guardano bene
dal rivelare che vivono in un campo. In questi casi, l’inserimento lavorativo è
avvenuto al prezzo del rinnegamento della propria origine.

Molto difficoltoso appare infine ridare vigore al patto
scolastico in base al quale i Rom si erano impegnati a mandare i loro figli a
scuola: molti Rom sembrano pensare che dopo quarant’anni di presenza in Italia,
e nonostante la scolarizzazione dei bambini, per loro nulla è cambiato, perché
continuare a impegnarsi?

Imparare per non
avere paura

Se si guarda al settore dell’istruzione, la situazione
appare non meno articolata. In una scuola come la Gabelli di Barriera di
Milano, sempre a Torino, gli alunni con genitori di origine straniera sono il
settanta per cento e salgono al novanta per cento nelle prime classi. Siamo in
un borgo storico caratterizzato dalle cosiddette case di ringhiera, dove gli
affitti sono meno cari e per questo attirano famiglie a basso reddito, come
spesso sono quelle dei migranti. Lavorare in scuole come la Gabelli o la vicina
Pestalozzi richiede competenze specifiche e una professionalità avanzata che
permettano di gestire situazioni complesse come i casi delle iscrizioni ad anno
iniziato, di livelli diversi di conoscenza della lingua italiana e di
situazioni familiari molto difficili. A volte i bambini mostrano chiaramente di
non voler rientrare a casa dopo la scuola, segno questo della presenza di un
ambiente familiare teso, o spiegano di non aver fatto i compiti perché non sono
riusciti a leggere e scrivere a lume di candela, oppure ancora perché nel lungo
e freddo inverno torinese il problema principale della sera è quello di trovare
un modo di scaldarsi sotto le coperte in assenza di riscaldamento. I doveri
scolastici passano così in secondo piano anche a causa dei tagli delle utenze
elettrice, spesso abusive, che rendono ostile perfino l’ambiente domestico.

Ma i lati positivi dell’interculturalità in scuole come
queste non mancano: innanzitutto, i figli di stranieri hanno spesso sviluppato
un grado di autonomia e maturità maggiore e si rivelano più rispettosi delle
regole e più attentamente monitorati dai genitori che non i bambini italiani, i
quali vivono in quelle stesse aree degradate perché spesso appartengono a
famiglie disagiate e problematiche. I pochi italiani che decidono liberamente
di portare i figli in queste scuole, inoltre, lo fanno per una precisa volontà
di preparare i loro bambini a vivere nella Torino che verrà e sono generalmente
entusiasti dell’esperienza che i ragazzi, e loro stessi – spesso attivamente
impegnati nei consigli d’istituto – stanno vivendo.

Per quanto riguarda il doposcuola, molto attiva è
l’Associazione animazione interculturale (Asai), già protagonista fin dagli
anni Novanta dei primi e fruttuosi esperimenti di interculturalità a San
Salvario. Nella sede di via Gené, a Porta Palazzo, il «Cantiere S.O.S.» (Scuola
oltre la Scuola) offre, grazie ai suoi operatori e ai volontari, un servizio di
doposcuola ad almeno un centinaio di bambini delle elementari e medie, corsi di
italiano per minori e adulti e laboratori artistici. Un progetto in corso, spiegano
Fabrizio e Roberto, due degli educatori, è quello di giustizia riparativa (sul
tema, dossier MC 12/2013) che nasce da una collaborazione fra Asai,
Polizia municipale e Tribunale dei minori. «Nei casi di bullismo e reati minori»,
spiega Fabrizio, «la collaborazione consente l’inserimento dei ragazzi in un
percorso di servizio di riparazione alla comunità, mentre la Polizia municipale si occupa
della mediazione con la vittima». «Quello che si cerca di fare qui, attraverso
il progetto di giustizia riparativa come in tutte le altre attività con i
ragazzi» gli fa eco Roberto, «è di dare loro più strumenti per avere meno paura
di ciò che vivono giorno per giorno. Abbiamo visto miglioramenti oggettivi in
diversi casi di adolescenti problematici: se si liberano della paura cominciano
piano piano a liberarsi anche della rabbia».

Il lavoro con gli adolescenti si estende poi a quello
con la comunità. Riccardo, anche lui educatore Asai, racconta delle esperienze
di coinvolgimento dei cittadini in quartieri come San Salvario ma non solo.
L’obiettivo è creare una rete sul territorio che metta insieme le famiglie, i
commercianti, chiunque voglia spendersi per il quartiere, conoscere altre
persone e vivere una realtà più integrata. Riccardo cornordina un collettivo
interculturale di giovani musicisti che si chiama Barriera Republic: «Anche
un quartiere non facile come questo», spiega Riccardo, «è capace di generare
senso di appartenenza. Ci sono ragazzi con grandi capacità come musicisti,
videomaker, attori… Bisogna solo incanalare queste loro abilità in modo che
creino condivisione, confronto, inclusione».

Quanto agli immigrati adulti, è a loro che si rivolge
l’offerta formativa (che comprende anche corsi di italiano) del «Centro
territoriale permanente» per l’istruzione e la formazione in età adulta di
Porta Palazzo (Ctp Parini). «Stiamo sperimentando una vera e propria emergenza
alfabetizzazione che, combinata con leggi complesse e con l’aumento della
burocratizzazione, genera sempre maggior esclusione per tutti coloro, e sono davvero
tanti, che non sanno leggere e scrivere, non sono in grado di compilare moduli
o di acquisire informazioni», avverte Rocco, uno degli operatori del centro. Il
Ctp Parini ha circa duemila utenti di cui un migliaio sono frequentanti. A un
analfabeta occorrono tre o quattro anni per arrivare al livello di
alfabetizzazione A1 del quadro europeo (livello base). Molti, dopo aver
raggiunto quel livello si rendono conto di quanto importante sia lo strumento
che prima non possedevano e decidono di continuare a frequentare.

Chiara Giovetti

I missionari della
Consolata e i migranti

Dal 2013
il lavoro dei missionari della Consolata con migranti di Torino si è
intensificato: padre Antonio Rovelli, responsabile della cooperazione di Mco,
fa ora parte del team di cornordinamento dell’Upm, e padre Godfrey Msumange,
coadiuvato dai viceparroci padre Nicholas Muthoka e padre Francesco Discepoli,
è parroco di Maria Speranza Nostra, una vasta parrocchia nel cuore di Barriera
di Milano a Torino.
I missionari vi hanno iniziato il loro servizio il 20 ottobre del 2013,
giornata missionaria mondiale, e hanno cominciato ad ascoltare, osservare,
visitare le famiglie e programmare. «È un quartiere molto vario», spiega padre
Nicholas, «che ha accolto immigrati del Sud Italia e del Veneto in passato e
che ora ha visto l’arrivo di rumeni, albanesi, nigeriani, polacchi, eritrei,
marocchini, tunisini e diversi latinoamericani». «Per il momento» aggiunge
padre Godfrey «stiamo attivando, o prevediamo di attivare, servizi come lo
sportello lavoro, la distribuzione di cibo e il centro d’ascolto, oltre
all’oratorio che adesso è dedicato all’aggregazione. Ma vorremmo sviluppare
anche attività di doposcuola, corsi e laboratori».

Altra
realtà è quella di San Gioacchino a Porta Palazzo, una parrocchia con sacerdoti
nigeriani, in cui padre José Jesus Ossa Tamayo, missionario della Consolata
colombiano, segue la comunità dei latinos, i migranti provenienti
dall’America Latina. «I latinos sono ventimila in Piemonte, seimila
nella sola Torino», spiega padre Jesus, «e per guadagnarsi da vivere lavorano
spesso come badanti o facendo le pulizie. Hanno una grande fame di Dio e, al di
là della messa, si rivolgono al parroco come a un punto di riferimento per
tante cose: farsi accompagnare a un colloquio di lavoro, chiedere consigli sui
problemi di coppia». A volte le situazioni familiari e le condizioni abitative
sono molto difficili: padre Jesus racconta dell’esperienza di un’anziana che è
stata portata in Italia dai figli perché non restasse sola in patria, ma ha
problemi di mobilità che le impediscono di fare le scale e la costringono in
casa dove «piange, piange e piange, tutto il giorno. Con persone come lei»,
conclude padre Jesus «il ruolo di noi missionari è la presenza: andare e
“piangere” con lei. Ultimamente i parrocchiani si sono offerti di far costruire
un bell’altare: per loro è molto importante, è un segno di appartenenza. Lo
faremo, certo, ma ho detto loro che il primo altare a cui devono pensare è la
vecchietta che piange, o il fratello che non lavora e non ha di che nutrirsi».

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Missione difficile, Presidente

Il paese tra
corruzione e deficit

Joyce Banda è la seconda
presidente donna dell’Africa. Già militante nella società civile, è chiamata a
guidare il suo paese fuori dal guado di corruzione e crisi economica. Scoppia
però l’ennesimo scandalo e tutto l’esecutivo viene licenziato. Intanto si
avvicinano le elezioni generali di maggio.

Da subito è indicata come la figura più adatta a
riformare la disastrata economia nazionale e far fronte alla corruzione
endemica nel suo paese quando, ad aprile 2012, diventa presidente del Malawi
Joyce Banda, la seconda donna a raggiungere la massima carica di uno stato in
Africa dopo Ellen Johnson Sirleaf in Liberia.

Il
Malawi è un paese senza sbocchi sul mare, chiuso tra Tanzania, Mozambico e
Zambia, in cui più della metà della popolazione vive al di sotto della soglia
di povertà e che, in base alle statistiche delle Nazioni Unite, risulta il
settimo più povero al mondo. Il 10% dell’intera popolazione nazionale è affetto
dall’Aids ma gli ospedali sono costretti a chiudere perché non hanno i soldi
per acquistare le medicine più banali come gli antibiotici.

Dopo
il decesso improvviso del suo predecessore Bingu wa Mutharika, Joyce Banda
diventa presidente ad interim con il benestare
della comunità internazionale che la vede in grado di lottare contro un sistema
in cui la corruzione è una pratica all’ordine del giorno a tutti i livelli
dell’amministrazione pubblica e l’economia dipende dagli aiuti economici
estei.

Da attivista a
presidente

Il
cammino di Joyce Banda per arrivare alla guida di questo paese dell’Africa
australe è legato soprattutto alla coincidenza di essere stata chiamata nel
2009 da Mutharika a ricoprire la carica di sua vicepresidente, dopo tre anni al
dicastero degli Affari esteri di Lilongwe, più che altro nel ruolo di una
figura di rappresentanza da mostrare sulla scena politica internazionale.

La morte di Mutharika, dopo otto anni di governo, e la
capacità di Joyce Banda di mostrarsi intenzionata a proseguire il mandato
istituzionale, hanno contribuito a fare di lei quel volto di cui necessitava il
paese per continuare ad avere il sostegno internazionale.

In politica dal 1999, Joyce Banda è stata ministro per la
Parità di genere nel secondo governo democraticamente eletto del Malawi,
guidato fino al 2004 dall’allora presidente Bakili Muluzi, dopo una carriera
passata in diverse organizzazioni della società civile impegnate per
l’emancipazione della donna. La sua storia e le sue prime dichiarazioni da
presidente, come quelle relative a un maggiore impegno nel raggiungimento degli
Obiettivi di sviluppo del Millennio in favore di una maggiore legittimazione
del ruolo delle donne e dell’istruzione universale, ottengono subito il plauso
del presidente statunitense Barack Obama e dell’allora Segretario di Stato
Hillary Clinton.

Tra le sue prime azioni una volta salita al potere dopo
la morte del suo predecessore, i media enfatizzano subito la vendita dell’aereo
presidenziale e il dimezzamento del suo stipendio come esempi lampanti del suo
impegno a ridurre le spese della classe politica.

Corruzione in agguato

Nonostante
ciò, alcuni scandali recenti legati ancora una volta alla corruzione cominciano
a offuscare la sua immagine, coinvolgendo anche diversi ministri e alti
funzionari governativi. Alcuni di questi sono ora sotto processo proprio a
ridosso delle elezioni generali che si terranno il prossimo 20 maggio, le
quinte organizzate in Malawi dopo la svolta democratica del 1999.

Tutto
è cominciato lo scorso settembre con il fermo, durante un controllo della
polizia stradale di un impiegato ministeriale, il cui stipendio si aggira
intorno ai 100 dollari al mese. Nel bagagliaio della sua auto sono state
rinvenute valigie piene di banconote per un totale di 25.000 dollari. Pochi
giorni dopo, il direttore del bilancio presso il ministero delle Finanze ha
subito un’aggressione e rimanendo gravemente ferito da diversi colpi di
pistola: i giornali locali hanno sostenuto che era sul punto di recarsi dalla
polizia per denunciare una serie di frodi e pratiche di corruzione che
avrebbero sottratto almeno 80 milioni di dollari alle casse dello stato,
coinvolgendo direttamente una settantina tra funzionari, uomini politici e
imprenditori.

La
presidente Banda ha agito con prontezza sospendendo immediatamente tutta la
squadra di governo, chiedendo a ciascuno che dimostrasse la propria estraneità
ai fatti e licenziando in tronco il ministro della Giustizia e quello delle
Finanze, che oggi risultano peraltro essere tra i più invischiati nelle
pratiche di malgoverno e nel tentato omicidio del dirigente ministeriale.

Uno
scandalo di tale portata non poteva non riflettersi su colei che solo due anni
prima era stata salutata come salvatrice della patria. Il «Cashgate»,
questo è il nome che i giornali locali hanno dato allo scandalo di corruzione e
al processo in corso, è infatti solo la punta di un iceberg. Secondo gli
investigatori del governo, negli otto anni di presidenza di Bingu wa Mutharika
la cifra finita indebitamente nelle tasche di politici, imprenditori e
funzionari corrotti sarebbe di gran lunga superiore ai 500 milioni di dollari.
La quasi totalità dei quali proveniente dai fondi concessi da donatori
inteazionali quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la
Banca africana di sviluppo, l’Unione europea e la Gran Bretagna, che
garantiscono ogni anno più del 40% delle necessità del bilancio statale del
Malawi e che, dopo la scoperta dello scandalo, hanno deciso di sospendere i
pagamenti.

Banda sotto accusa

Come
fosse un pendolo in oscillazione da un estremo all’altro, Joyce Banda che solo
all’inizio del 2013 era stata definita dalla rivista statunitense Forbes la
donna più potente dell’Africa si è trovata, alla fine dello stesso anno,
costretta a rispondere alla comunità internazionale e ai suoi stessi
concittadini del fallimento della sua azione di governo. Le accuse più aspre
provengono dalle organizzazioni per i diritti civili del Malawi. In
un’audizione fatta di fronte al parlamento di Lilongwe, il presidente della
Commissione Giustizia e Pace della Chiesa cattolica, Peter Chinoko, ha definito
la presidente: «II più grande ladro del mondo», sostenendo che lei fosse «parte
integrante e fondamentale» del Cashgate e
che la genesi dello scandalo fosse da rintracciare nel tentativo della Banda e
dei suoi sostenitori di raccogliere fondi in vista delle prossime elezioni.

Il
rapporto più duro sulle dimensioni della corruzione in Malawi è probabilmente
uno studio intitolato «Licenza di rubare» e pubblicato lo scorso novembre da
Allan Ntata, un avvocato di Lilongwe che ora vive in Gran Bretagna, ex
consulente giuridico della presidenza della Repubblica del Malawi. In 67 pagine
l’avvocato elenca laconicamente decine di episodi di corruzione, molti dei
quali avvenuti durante il periodo della sua consulenza, e ricostruisce lo
schema tipico delle frodi.

In
sostanza, i funzionari utilizzavano un computer collegato al sistema centrale
dell’amministrazione pubblica per trasferire i fondi a società di comodo per
servizi mai resi, preoccupandosi poi di cancellare tutti i dati relativi alle
società stesse di modo che fosse impossibile risalire a esse. Un procedimento
tutto sommato semplice, che induce Ntata alla seguente considerazione: «La
corruzione è una pratica endemica perpetrata dal potere esecutivo, che si
occupava deliberatamente di come coprire lo schema utilizzato per sottrarre il
denaro».

Taglio dei fondi

Numerosi
sono però i commenti che vedono la sospensione del sostegno finanziario
internazionale al Malawi come una decisione affrettata, sostenendo come il
problema centrale sia sistemico e che il compito di riformare l’economia
nazionale e combattere la corruzione che Joyce Banda aveva assunto non sia
un’azione che si possa portare a termine dall’oggi al domani.

Lo
scrittore somalo Hassan Abukar sul portale d’informazione African
Arguments, curato dalla prestigiosa Royal
African Society, e l’economista sudafricano Greg Mills sul
quotidiano di Johannesburg Business Day
sono, per esempio, solo due tra le tante autorevoli voci che in Africa hanno
cercato di inquadrare la figura di Joyce Banda all’interno di una visione più
ampia della storia del suo paese per comprenderne meglio il ruolo a pochi mesi
dal voto con il quale i cittadini del Malawi dovranno eleggere il loro futuro
presidente, rinnovare i 194 parlamentari all’Assemblea nazionale e, per la
prima volta dopo 14 anni, anche i rappresentanti presso i consigli
amministrativi locali.

Mezzo
secolo dopo l’indipendenza ottenuta il 6 luglio 1964, il reddito pro capite in
Malawi è oggi pari a poco più di 230 euro all’anno – superiore solo a quello di
Burundi e Repubblica democratica del Congo – con un’economia prevalentemente
basata sull’agricoltura, in cui è impiegato oltre il 90% dell’intera forza
lavoro. Su una popolazione che supera di poco i 16 milioni di abitanti, sono
ancora più di otto persone su dieci coloro che vivono nelle zone rurali del
paese. Tuttavia proprio l’agricoltura, che è fortemente dipendente dai sussidi
concessi all’uso di fertilizzanti, contribuisce solo per circa un terzo alla
formazione della ricchezza nazionale, ed è subordinata al prezzo sui mercati
inteazionali del tabacco, il quale rappresenta più della metà delle
esportazioni del paese.

Economia in
difficoltà

Il
Malawi è un importatore netto, dai prodotti alimentari a quelli petroliferi.
Infatti nel 2012 la sua bilancia commerciale ha registrato un saldo negativo di
poco inferiore al miliardo di dollari. La fine nel 1994 del regime di Hastings
Banda (nessuna parentela con l’attuale presidente), che aveva governato il
paese dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, e il passaggio a un regime
democratico non si sono tradotti automaticamente in quei cambiamenti che gli
abitanti del Malawi si aspettavano.

«La
transizione alla democrazia fu gestita male – ha scritto Greg Mills – il minore
controllo di polizia sull’opposizione e l’aumento delle libertà civili non vide
un corrispondente miglioramento della capacità politica delle istituzioni,
mentre sul versante economico le poche industrie esistenti dovettero soccombere
in seguito alle liberalizzazioni e al diminuito protezionismo. Aumentavano le
aspettative dei cittadini, allo stesso tempo cresceva anche il numero
complessivo dell’intera popolazione e i partiti politici si trovavano nella
necessità sempre più incombente di trovare fondi per mantenere la loro base di
sostenitori».

È in
un sistema come questo che si manifesta la corruzione: un’economia politica
fatta di intermediari che pretendono la loro parte sulle importazioni, sui
contratti governativi, sulle aste del tabacco. La presidente Banda si è
ripromessa di portare avanti un programma ambizioso di riforme: in primo luogo
delle stesse istituzioni dello stato che nessun leader del Malawi prima di lei
si era sognato di realizzare, diminuendo la dipendenza finanziaria dall’estero
e interrompendo quel circolo vizioso di contratti governativi, mazzette,
importazioni gonfiate, manovre politiche e interessi economici. Ma per
riuscirvi dovrebbe essere rieletta il prossimo 20 maggio. Joyce Banda sembrava
essere cosciente della sfida quando, in un incontro lo scorso dicembre, poco
prima della fine dell’anno, con un gruppo di giornalisti stranieri, dichiarava:
«Non è soltanto una questione di corruzione – riferendosi in particolare alla
questione della chiusura degli ospedali – ma è qualcosa che riguarda più da
vicino noi in quanto cittadini del Malawi e le priorità che vogliamo darci».

Nei
primi 50 anni dopo l’indipendenza, il Malawi è diventato ancora più dipendente
dall’estero in termini economici.

Michele Vollaro


Contenzioso con la
Tanzania per le prospezioni petrolifere

Il lago che dà vita,
e non solo

Per decenni ha interessato direttamente solo i
pescatori del Malawi e della Tanzania, che del lago Niassa o Malawi si
contendevano le risorse ittiche. Ma da quando nel 2011 il governo di Lilongwe
ha assegnato una licenza per l’esplorazione petrolifera dei suoi fondali, la
questione ha assunto un’altra ampiezza. Il lago è infatti al centro di una
disputa sempre più accesa tra i due paesi, che ne sono bagnati insieme al
vicino Mozambico, sulla posizione precisa della linea di confine reciproca.
Subito dopo la concessione della licenza esplorativa alla britannica Surestream
Petroleum
e le proteste della Tanzania, infatti, si sono svolti una serie
di incontri bilaterali per rivedere i fatti associati alla disputa e
individuare una soluzione che fosse accettabile per entrambe le parti. Ma i
colloqui si sono risolti in un nulla di fatto e a gennaio 2013 i due governi si
sono dovuti rivolgere al Forum degli ex
capi di stato e di governo della Comunità di sviluppo dell’Africa australe

(Sadc). Anche questo tentativo di mediazione sembra però essere arrivato a uno
stallo e non è ancora chiaro se la questione sarà affrontata direttamente al
prossimo vertice della Sadc dagli attuali capi di governo oppure riferita alla
Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite.

È evidente però che il Malawi non è in alcun
modo intenzionato a lasciarsi scappare la possibilità di trarre beneficio
economico dalla presenza di greggio nel sottosuolo e perciò lo scorso gennaio
ha reso noto di aver rinnovato le autorizzazioni ambientali alla Surestream
per portare avanti le operazioni esplorative, mentre negli stessi giorni la
società britannica ha dichiarato di stare effettuando dei sondaggi sismici e
geologici nelle acque del lago già dallo scorso novembre. Il Malawi rivendica
infatti come proprie tutte le acque del lago, sulla base di un accordo del 1890
tra le allora potenze coloniali di Gran Bretagna e Germania. La Tanzania si
appella invece alla pratica consuetudinaria che in diritto internazionale
utilizza la linea media delle acque intee per stabilire i confini tra due
paesi, oltre a richiamarsi a presunte evidenze storiche successive alla
sconfitta della Germania durante la seconda guerra mondiale e le perdite delle
sue colonie in Africa.

Michele
Vollaro

Michele Vollaro




Tra bellezza e problemi 

Prime impressioni
dopo anni di assenza.

Dopo sette anni di
assenza, a gennaio sono tornato brevemente in Ecuador. Mi è sembrato di essere
arrivato in un paese che non conoscevo, ben lontano dai ricordi che portavo
dentro di me. Con la gente invece è stato diverso. Mi sono incontrato con
persone che giorniosamente mi hanno scoperto ancora presente nella memoria e nel
cuore. Alla contentezza di ritrovarci si aggiungeva la pressione del richiamo
che mi animava «a tornare a casa», a stare con la gente che mi voleva bene.

Indigeni: una grande
storia, ma forestieri in casa propria

Sono tornato a rivedere le comunità indigene in cui avevo
prestato il mio servizio missionario fino al 2005 (da là ero poi andato per due
anni a Guayaquil, sulla costa, prima di rientrare in Italia). È stato un colpo
duro per me vedere che si sono svuotate e che gli anziani sembrano soltanto
guardiani di ricordi. A Naubug ai miei tempi c’erano 2500 persone. Ne sono
rimaste 500. A Guantul il numero arrivava a 1500, adesso è 300. Ogni comunità
aveva la sua scuola, che avevamo voluto come luogo di incontro tra maestri,
alunni, genitori e dirigenti, con l’obiettivo di riflettere sul vissuto per
trovare insieme modi nuovi per mantenere la propria cultura e affrontare, senza
evasioni e fughe e senza perdere la propria identità, il futuro. Mi ha dato una
grande pena vedere come sono state modificate. Sono pochissime le scuole con più
di 30 alunni. Licto contava 28 comunità e Flores 26, con un uguale numero dei
centri educativi. Ho avuto la sensazione che sia stata attuata una
cancellazione sistematica riducendo le comunità a luoghi disabitati, come dopo
una guerra.

Rivoluzione

La parola chiave del cambiamento è «rivoluzione». È
scritta sui tanti cartelli che abbondano lungo le strade. Questi gli slogan più
comuni:

• Siamo la generazione rivoluzionaria.
• È la rivoluzione della speranza.
• Rivoluzione è libertà.
• Rivoluzione è patria.
• Rivoluzione è educazione gratuita.
• Rivoluzione è salute gratuita.

Queste frasi tapezzano ogni cosa. Si vedono edifici
rimessi a nuovo con un cartellone in evidenza che recita: «La rivoluzione
cittadina ha finanziato questa opera».

Neanche le chiese sono risparmiate. Anche i lavori per
dare un aspetto nuovo alla chiesa di Licto mettono in risalto l’aiuto della
rivoluzione cittadina.

Anche le strade sono state rimesse a nuovo, belle larghe
e asfaltate. Frequenti cartelloni ricordano che «Abbiamo strade di prima qualità.
Abbiamo ponti che ci uniscono».

La parola «rivoluzione» è definita come la «promozione
della vera libertà». «La rivoluzione promuove case degne e educazione gratuita.
Le vie della rivoluzione portano a opere integrali, complete».

Slogan e cartelloni

I cartelloni sono davvero promotori di vita nuova e bella
e incoraggiano anche a essere vigilanti per il bene comune. «Se i bambini sono
ben nutriti, anche i loro sogni lo sono». «Se dai soldi per la strada, aiuti
soltanto ad aumentare l’accattonaggio». «Lo sviluppo equo è vera libertà».

Uno mostra un bimbo: «Il mio futuro è nelle tue mani,
paga le tasse».

Frequenti sono i quelli che invitano a responsabilizzarsi
per sradicare atteggiamenti socialmente pericolosi sulla strada:

• A chi non rispetta il ciclista togli la macchina.
• Ferma chi non usa il casco di sicurezza.

• Se vedi che l’autista ha bevuto, requisisci la
macchina.

• Se vedi uno che guida e usa il cellulare, fermalo.

• Se vedi che carica gente per la strada, non lasciarlo
proseguire.

Si insiste molto sulla parola patria: «Patria è il meglio
che c’è nel mio paese. Siamo la generazione che ricuperò la patria». Poi,
immancabile, lo slogan ufficiale: «Patria, andiamo avanti».

Cosa è diventato
l’Ecuador?

I governanti dicono di volere l’Ecuador come una patria
con piena libertà. Due parole che diventano sinonimi inscindibili per far
credere a persone e comunità che la libertà della patria si raggiunge solo col
progresso gestito da governanti garanti del potere sovrano (del popolo,
ovviamente). Tale progresso, sostengono, si raggiunge con organizzazione e
centralizzazione. Solo così, tutti insieme, si può costruire un paese bello,
moderno e davvero presentabile alla ribalta nazionale e internazionale, che
abbia infrastrutture atte a incrementare il turismo e gli scambi commerciali a
livello mondiale. Allora la loro retorica arriva ad affermare che è
indispensabile una classe dirigente stabile e capace, in grado di attuare e
mantenere i traguardi previsti per il bene di tutti, disposta anche a
modificare la costituzione per permettere al suo presidente di essere rieletto
per la terza volta e vicina a paesi come Cuba, Venezuela, Bolivia e Argentina,
paesi che cercano di affrancarsi dal dominio nordamericano.

A dispetto di questi limiti politici, in realtà l’Ecuador
è un paese meraviglioso.

Conseguenze
drammatiche

Mons. Leonidas Proaño, un grande vescovo dell’Ecuador,
diceva di aver creduto nell’uomo e nella comunità. La persona indigena è
essenzialmente ubicata nella comunità, che vive unita e compatta in un
territorio ben definito dove la terra ha confini e limiti che non possono
essere modificati da invasioni.

Il progetto di efficienza e centralizzazione propugnato
dal governo ha inciso drammaticamente nel vissuto degli indigeni. Anzitutto è
stata travolta la comunità educativa. Sono scomparse le scuole comunitarie per
creare nuove scuole centralizzate, complete dall’asilo all’università. È la «scuola
del millennio» che tutti devono frequentare in un luogo centrale. Gli indigeni
hanno allora dovuto abbandonare le loro case per permettere ai figli di andare
a scuola. Così le città di Riobamba e Quito si sono riempite di indigeni che
cercano di sopravvivere aprendo una miriade di piccoli negozi.

Incontro
indimenticabile

Mi ha fatto impressione l’accoglienza della gente. Dopo
nove anni di assenza mi riconoscevano ancora. La commozione era visibile e
piena di tenerezza. Come quando tornai a casa e non trovi niente delle cose che
avevi lasciato, ma ci sono le persone che ti vogliono bene. E ti ricordano che
la missione non è la costruzione, ma la gente con cui hai camminato, diventata
capace di vivere bene nonostante i guai e i cambiamenti. È questo che da
speranza: crollano i monumenti ma le persone ci sono e hanno voglia di vivere
la propria vita nonostante le macerie e oltre le macerie.

Sono andato in Ecuador come addormentato nei ricordi di
tanti anni e di tante opere; intorpidito da una abitudine missionaria che aveva
dato senso e significato a un certo percorso, perché la credibilità
tradizionale del missionario doveva avere la sua visibilità
nelle opere.

Un cartello mi ha commosso: «Mi sono svegliato e ho
voglia di sognare l’incredibile».

Giuseppe Ramponi

Giuseppe Ramponi




Nel cuore dell’Africa 

Doruma: non solo Mission


Piccolo villaggio
vicino a un confine triplo nel centro dell’Africa. Isolato dal mondo per le
pessime strade. In una zona di incursioni da parte di milizie e popoli in
transito. Prossimo a campi di sfollati nei quali manca tutto. E reso famoso (o
quasi) dal reality show «Mission». Racconto
di un missionario originario di Doruma, tornato a casa per delle brevi vacanze.

Se si guarda la cartina del continente africano e
si cerca un ipotetico baricentro, si cade su un confine triplo, a Sud Ovest
della Repubblica Centrafricana (Rca), Nord della Repubblica Democratica del
Congo (Rdc) e Sud del Sud Sudan.

Proprio
qui, un puntino segnato sulla carta porta a fianco il nome di «Doruma». Ci
troviamo nella provincia Orientale del Congo, distretto Haut-Uélé (Alto Uélé) a
una decina di chilometri dal confine con il Sud Sudan e circa cinquanta, in
linea d’aria, con la Rca.

L’omonima
parrocchia si estende su una superficie di 14.046 chilometri quadrati
(superficie di una media regione italiana, ndr) e
conta 55.713 abitanti. Il clima è tropicale. Doruma fu la prima parrocchia dei
missionari della Consolata in questa zona nel Nord Est della Rdc. I primi ad
arrivarci furono i domenicani nel 1917 mentre la presenza dei missionari della
Consolata risale al 1973. Nel 2001 la parrocchia divenne diocesana.

La
stragrande maggioranza della popolazione è dedita a un’agricoltura di
sussistenza e all’allevamento di animali di piccola taglia (galline, capre).
Nella zona non esistono industrie. Più del 50% è analfabeta. La gente, così
come gli impiegati statali, si alimenta di ciò che coltiva. Le magre entrate
provengono dalla vendita dei prodotti agricoli nei mercati locali e sono
destinate all’acquisto di beni di prima necessità e per la scolarizzazione dei
bambini.

Da
anni il villaggio è isolato a causa dell’avanzato stato di degrado delle strade
e dell’insicurezza provocata dagli scontri armati. Gli scambi commerciali sono
quindi molto difficili. Solo nei momenti di tregua, in bicicletta o in moto, si
percorrono 500 – 700 km per l’approvvigionamento di petrolio (per le lampade),
sale, sapone, vestiti e altri manufatti. Ci sono scambi commerciali regolari
con le città sudsudanesi di Ezo, Yambio, e ugandesi Ariwara, Arua. Fino a
spingersi a Kampala, capitale dell’Uganda. Il Sud Sudan è diventato il luogo più
vicino per questi rifoimenti.

I cristiani a Doruma

La
parrocchia di Doruma appartiene alla diocesi di Dungu-Doruma ed è gestita da
due sacerdoti diocesani locali, appoggiati dalle suore agostiniane, anche loro
congolesi, impegnate nel campo della pastorale, della salute, dell’educazione e
promozione sociale. Oltre il 90% della popolazione è costituita da cristiani
cattolici. Sono inoltre presenti anche altre confessioni cristiane, in
particolare le Eglises du réveil
(chiese del risveglio) d’ispirazione evangelica.

La pratica della vita cristiana non è così diversa da
altre parrocchie della diocesi. È diffusa, anche da parte dei cristiani, la
pratica di ricorrere a elementi di religioni tradizionali, quali feticci e
stregoneria. La pastorale è organizzata e animata, secondo le indicazioni
diocesane, dalle varie commissioni parrocchiali e dai gruppi apostolici che
annunciano e insegnano la parola di Dio ai fedeli. Ogni giorno è prevista la
celebrazione delle messe anche se l’affluenza infrasettimanale è molto bassa.
La partecipazione è invece massiva in occasione delle grandi feste.

L’edificio
della chiesa è quasi centenario: risale al 1920. Il suo stato fatiscente non
passa inosservato e il pericolo che crolli sulla testa dei fedeli è reale. Da
tempo, a livello parrocchiale, è stata lanciata l’iniziativa di una raccolta
fondi per costruire una nuova chiesa e ciascuno dà il suo piccolo contributo.
Ma data la situazione in cui versa il paese e la povertà economica della gente
diventa molto difficile riuscire nell’impresa.

Ribelli, assalitori e
profughi

Dal mese di settembre del 2008 tutta l’area del Nord Est
della Rdc è zona di incursioni dei ribelli fanatici ugandesi della Lord Resistance Army, (Lra,
si veda MC giugno 2012, ndr).
Il territorio di Doruma ne è particolarmente toccato.

L’area
è anche soggetta alle invasioni di mbororo,
pastori nomadi provenienti da Camerun, Rca e altri paesi in continuo movimento
e ricerca di pascoli. Le tensioni tra mbororo e
comunità locali sono frequenti perché gli allevatori occupano i campi degli
agricoltori congolesi per dare pascolo alle mandrie. Il governo ha smesso di
ricacciarli oltre confine e permette loro di installarsi in territorio
congolese. Così anche nella periferia di Doruma vive una loro comunità.

Ma il
vero flagello sono stati i sedicenti «ribelli» dell’Lra, ogni passaggio dei
quali ha lasciato dietro di sé desolazione, morti violente, distruzione di
scuole e strutture medico sanitarie, saccheggio di coltivazioni, mercati,
cappelle, strutture parrocchiali. La gente è stata costretta a spostarsi in
massa. Le donne, senza distinzione d’età, sono state violentate. Gruppi di
persone sono stati sequestrati e obbligati a trasportare il bottino rubato. I
giovani sono stati costretti ad arruolarsi al servizio di questi gruppi armati.

È difficile
porre rimedio a questa situazione che porta al tragico smarrimento della
popolazione.

Negli
ultimi mesi – un ultimo attacco si è verificato lo scorso dicembre – nella
regione è subentrata una calma relativa che ha permesso ad alcune organizzazioni
inteazionali di intervenire in diverse forme a favore degli sfollati e dei
rimpatriati della zona (Unhcr, l’organizzazione delle Nazioni Unite per i
rifugiati e alcune Ong inteazionali e italiane).


Le cappelle

Prima
dell’arrivo dell’Lra, la parrocchia era suddivisa in sei settori nei quali
erano presenti più di 60 cappelle. L’arrivo dei ribelli ha spinto la
popolazione a concentrarsi nei centri più grandi per difendersi, e alcune
cappelle sono state abbandonate dai cattolici. Una volta tornata la calma,
alcuni fedeli sono rientrati nelle loro comunità di origine. Attualmente nei
sei settori della parrocchia hanno ripreso vita 42 cappelle.

Ma
per poter visitare e animare con regolarità queste cappelle i sacerdoti
incontrano enormi difficoltà, non disponendo di grandi mezzi di trasporto per
raggiungerle. L’unico mezzo della parrocchia è una motocicletta vecchia e
malandata, e far fronte ai suoi continui guasti diventa una spesa proibitiva.

Gli sfollati di
Doruma

Fin
dal dicembre del 2008, a causa delle cruente incursioni di elementi della Lra,
un movimento massiccio della popolazione aveva cambiato l’ubicazione dei
villaggi in tutta la zona. Nel territorio circostante si sono creati almeno
nove centri di raccolta per gli sfollati, sei nel villaggio di Doruma (chiamati
Combattant, Bitabi, Banga, Nambili, Zigbi, Manvugo, Diangele), poi a 20 km i
siti di Gangala, Masombo (60 km a Nord ) e un sito a Naparka (60 km a Ovest).
In tutti i centri gli sfollati convivono con le popolazioni del posto. Dal 2009
al 2011, gli sfollati hanno ricevuto aiuti d’emergenza in termini di cibo,
ripari temporanei e cure mediche gratuite da varie organizzazioni
inteazionali. In questo momento invece gli sfollati interni e i rimpatriati
sono abbandonati a se stessi, senza alcun soccorso. Sul posto operano ancora
alcune Ong inteazionali, che intervengono su problematiche specifiche. Come
Medici Senza Frontiere, incaricata della lotta contro la tripanosomiasi
africana e Intersos (sostenuta dalla Conferenza Episcopale Italiana) impegnata
nella costruzione o il ripristino di alcune scuole elementari (a Masombo,
Diabakpa e Gangala).

Intersos
segue e assiste pure 400 bambini vulnerabili di nove scuole primarie,
distribuendo materiali scolastici e uniformi, pagando tasse scolastiche, creando
club per bambini in ogni scuola, provvedendo alla realizzazione di latrine e
pozzi d’acqua potabile per tre scuole elementari. Intersos offre anche un
appoggio psicosociale alle vittime di violenze sessuali, promuovendo piccoli
progetti per attività generatrici di reddito per il reinserimento socio
economico delle famiglie fatte oggetto di aggressioni e saccheggi.

Anche
le Nazioni Unite sono presenti con l’Unhcr, che ha l’incarico di monitorare il
territorio e la situazione in termini di sicurezza delle popolazioni e dei loro
spostamenti, individuare le emergenze umanitarie ed elaborare programmi di
sensibilizzazione e di accompagnamento su temi particolari quali le violenze
sessuali e i diritti umani.

Acqua, igiene e
salute

Sfollati
e rimpatriati vivono in condizioni molto difficili.

Nelle
strutture sanitarie (dispensari e centri di salute) mancano spazi per
accogliere i pazienti. La stessa sala ospita i neonati e gli ammalati colpiti
da diverse patologie. È il caso dei dispensari di Manyugo, Bakudangba, Gangala,
Masombo, Naparka, Nambili e Diebio. Tutte queste strutture sono a disposizione
degli sfollati e dei rimpatriati, anche se tutte mancano le sale parto e le
latrine.

I
villaggi di accoglienza degli sfollati non hanno pozzi e le fonti di acqua non
potabile si trovano nella boscaglia a un paio di chilometri dai centri abitati.
Quest’acqua però è la causa principale di molte malattie.

Sfollati
e rimpatriati non hanno accesso alle cure mediche per mancanza di mezzi
finanziari capaci di coprire i costi elevati delle medicine o dei ricoveri.
Questo obbliga la gente a ricorrere alle cure tradizionali. Alla lunga, le
malattie si aggravano e diventano un rischio per le comunità. Nella zona di
Doruma molti muoiono perché non sono curati. Anche i centri sanitari e i
dispensari mancano di una scorta di farmaci efficaci e adeguati per coprire il
fabbisogno della popolazione.

Aids, fame e case

L’Aids
è molto diffuso nella zona di Doruma. Ma per curarsi occorre andare
all’ospedale di Ezo in Sud Sudan (a 95 km) dove esiste un centro per la
prevenzione e il trattamento della malattia o in alternativa a Dungu in Rdc (a
210 km). Recarsi a Ezo significa sobbarcarsi anche le spese relative al visto
di entrata e di uscita. Alcuni ammalati di Aids hanno potuto trovare ospitalità
presso villaggi e famiglie sudsudanesi e usufruire di cure mediche gratuite.

L’assistenza psicosociale realizzata nel villaggio di
Doruma da organismi inteazionali dovrebbe includere un’attenzione
specifica agli ammalati di Aids con del personale specializzato, perché in
diversi casi si riscontra una forte aggressività.

Diversi
edifici scolastici usati per i bambini degli sfollati e dei rimpatriati sono
fatiscenti e pericolanti: è il caso delle scuole primarie di Ndolomo e Gurba.
Anche il liceo di Ndolomo è cadente. A Gangala e a Naparka le aule scolastiche
sono insufficienti per accogliere tutti i bambini delle elementari. Inoltre le
foiture scolastiche di base e i materiali didattici sono inesistenti. Un
altro grosso problema per i profughi è mangiare. Nei villaggi della zona manca
il cibo necessario e soprattutto i bambini patiscono la fame. La maggioranza
degli adulti coltiva dei piccoli orti nella boscaglia, lontano dai centri
abitati per il timore di nuovi attacchi.

Gran
parte degli sfollati trascorre la notte in cattive condizioni, riparandosi
dagli agenti atmosferici con materiali di scarto.

Il
problema è quello di aggiungere in sicurezza le zone più lontane della
boscaglia e reperire tronchi e rami necessari per realizzare capanne solide e
capaci di proteggere tutta la famiglia.

Inoltre,
gli sfollati sono stati costretti a spostarsi molte volte per sfuggire agli
attacchi violenti degli aggressori, perdendo di volta in  volta i raccolti, i propri beni e persino il
necessario per cucinare.

L’Italia e Mission

Nel
luglio 2013 la Rai ha realizzato a Doruma alcune riprese per il controverso reality
show
Mission, che poi è andato in onda nel gennaio di quest’anno. Ma
la gente del villaggio e le autorità non sono state interpellate, in
particolare oggi si lamentano di non aver visto le immagini prima che fossero
utilizzate nel programma e mandate in onda (e neppure dopo peraltro).

 

Dopo quattro anni di assenza ho trovato la situazione
socio-economica ancora difficile, nonostante un generale miglioramento della
sicurezza. Grazie allo stato di pace, anche se precaria, la popolazione può
lavorare nei campi e riesce a sopravvivere. Un grosso problema sono le strade
di accesso, completamente dissestate per cui la zona rimane isolata. Sulle
infrastrutture il governo dovrebbe prendersi le sue responsabilità.
Per
la gente di Doruma, nonostante i drammatici e disumani avvenimenti del recente
passato, il fatto di essere ancora vivi, di poter coltivare la terra o di
partire alla caccia, e soprattutto di rientrare e ritrovarsi in famiglia dopo i
lunghi spostamenti del giorno, sono giornie che aiutano a superare la paura di
nuovi attacchi e i traumi lasciati dalle vessazioni subite. Nei discorsi degli
abitanti di Doruma c’è la speranza che finiranno le incursioni e che si potrà
lavorare tranquilli, assicurare un’educazione ai figli e la salute per tutti,
mangiare in santa pace il frutto del proprio sudore.

David Moke*
 

*Padre
David Bambilikpinga-Moke è missionario della Consolata originario di Doruma,
svolge il suo servizio a Roraima in Brasile ed è tornato per le vacanze al suo
villaggio tra dicembre 2013 e gennaio 2014

David Moke




Silenzio su Ilham Tohti 

La lotta della
minoranza uigura.

Uiguro di famiglia musulmana,
professore universitario e blogger molto critico verso Pechino, Ilham Tohti è
imprigionato con l’accusa di «separatismo». Il suo caso dimostra (una volta di
più) che la Cina non si è ancora dotata di un sistema efficace per gestire il
dissenso. L’Occidente tuttavia non può dirsi esente da colpe, non avendo a sua
volta capito come trattare con il gigante asiatico.

Il 15 gennaio scorso una ventina di poliziotti fa
irruzione nel piccolo appartamento in cui Ilham Tohti, professore di economia
all’Università Minzu, vive con la moglie e due
figli piccoli, poco fuori dal campus universitario. Tohti viene prelevato e
scortato verso una destinazione ignota. Moglie, figli e anziana madre non hanno
più notizie. Dall’abitazione vengono portati via pc, cellulari, agende e 38
sacchi di appunti, tesi di laurea, compiti degli studenti e quant’altro. Sei
tra gli studenti a lui più vicini vengono portati in questura per essere
interrogati. Un documento rilasciato dal Dipartimento di pubblica sicurezza
della municipalità di Urumqi, che descrive il professore come una figura
pubblica che approfitta della sua posizione accademica per avvicinare studenti
e conoscenti a istanze separatiste e sovversive, è l’unica comunicazione
ufficiale sul caso. Tohti, che – in uno scritto del 2011 – aveva dichiarato di
aver dedicato la sua vita (e sacrificato quella della sua famiglia) alla lotta
per la libertà religiosa, la tutela della cultura, della lingua e del popolo
uiguro, è noto in Cina e all’estero per i suoi scritti e le sue attività di
sensibilizzazione sul Xinjiang. La notizia del suo arresto rimbalza da un sito
all’altro, si cominciano a raccogliere firme per la sua liberazione immediata.
Circola una petizione che, alla data del 18 febbraio, nonostante la
problematicità del caso, era già stata firmata da quasi 2.000 persone, cinesi e
straniere1.

Gli scontri del 2009

Il 5
luglio 2009, durante gli scontri scoppiati nel corso di una grande
manifestazione a Urumqi, la capitale del Xinjiang, quasi 200 persone rimangono
uccise, moltissime ferite. Le vittime sono per la maggior parte cinesi di etnia
han colpiti a morte da gruppi di uiguri. Altre manifestazioni e scontri
scuotono in quei giorni la regione, la attraversano da Nord a Sud e infiammano
Kashgar, zona di confine tra le più problematiche del Xinjiang. La regione
viene isolata, chiusa a giornalisti e stranieri, internet e telefonate
inteazionali vengono immediatamente bloccati. Comincia un passaparola
frenetico, un proliferare di voci sulle possibili cause di quello che viene
considerato il sommovimento potenzialmente più destabilizzante per la
Repubblica popolare dopo il 1989. Nur Bekri, presidente della regione autonoma,
appare sulla Cctv (China Central Television) facendosi portatore della
linea ufficiale: la causa delle rivolte va cercata all’estero, nelle attività
separatiste e terroriste del gruppo di Rebiya Kadeer (leggere MC, gennaio
2010, ndr
), e in quelle sovversive di alcune figure che operano entro i
confini cinesi, tra cui Ilham Tohti. Il suo blog Uighurbiz viene identificato
come una delle principali piattaforme online responsabili di aver istigato e
aiutato a organizzare la rivolta. Il sito viene chiuso, Nur Bekri e Wang Lequan
– l’allora segretario del partito del Xinjiang (che verrà sostituito un anno
dopo da Zhang Chunxian) – puntano il dito contro Ilham Tohti che, prima viene
arrestato, poi rilasciato ma confinato nei 50 metri quadrati del suo
appartamento nel campus universitario con la moglie e i due figli piccoli.

Nonostante
il supporto e l’affetto di studenti e amici, dal 2009 in poi l’esistenza di
Tohti si trasforma in un vero e proprio «calvario» fatto di visite e
interrogatori della polizia nei momenti più inaspettati, problemi per i
familiari a Pechino e in Xinjiang, beni e proprietà congelate (e lo stipendio
da professore che arriva solo saltuariamente), telefonate, email e lezioni
controllate e registrate. Più le maglie del controllo si stringono intorno a
lui, più le sue lezioni diventano popolari: aule in cui più di 200 studenti,
per la maggior parte uiguri provenienti da tutta la città, lo aspettano ogni
venerdì pomeriggio. Il tono delle sue analisi e dei suoi messaggi diventa
sempre più critico e tagliente. Il suo atteggiamento di sfida alle autorità non
passa però inosservato: il corso viene interrotto nel settembre 2011, «perché
non si raggiunge il numero di studenti necessari».

Un progressivo deterioramento

Infaticabile,
nonostante una forte depressione, i ripetuti ed estenuanti interrogatori, e una
serie di difficoltà per lui e la sua famiglia, Tohti continua a lottare, a fare
rete con amici e intellettuali a lui vicini e a sensibilizzare la comunità
internazionale attraverso le interviste che appaiono sui maggiori media (New
York Times, The Guardian, Wall Street Joual
). Ha in testa un progetto:
istituire un’università online dove raccogliere tutte quelle informazioni,
opere, materiale relativi al Xinjiang fino a quel momento sparsi nella rete. Il
governo cinese sostiene che Tohti si adopera per coinvolgere sempre più uiguri
a portare avanti azioni violente contro Pechino. Il suo carattere combattivo,
ma sempre più provato da anni di arresti domiciliari e di malattia, lo portano
a commentare le ormai frequenti esplosioni di violenza nel Xinjang con toni a
tratti discutibili, a volte acclamando l’attacco terrorista, altre
semplicemente individuando le politiche di Pechino e del governo regionale come
prime responsabili dell’escalation. Più i toni si surriscaldano, più
Tohti viene controllato, minacciato e intimidito.

Ormai
non c’è più spazio per le analisi lucide e attente sui cambiamenti sociali in
Xinjiang, sulle trasformazioni del mercato del lavoro e sulla transizione da
una società tradizionale a una modea, sulla situazione dei giovani in
Xinjiang e sulle aspirazioni delle comunità uigure, che erano state una sua
peculiarità. Quello che rimane è un uomo sempre più arrabbiato, rancoroso, e,
forse, sempre più solo.

Nel
febbraio 2013 viene prelevato all’aeroporto di Pechino, mentre – con la figlia
Jewher Ilham (nata da un precedente matrimonio) – è in procinto di imbarcarsi
per gli Stati Uniti per un incarico temporaneo presso l’Indiana University a
Bloomington. Jewher parte, lui viene messo ad arresti domiciliari ancora più
severi. Nonostante questo, continuano ad apparire interviste sui media
stranieri. Al telefono Tohti critica il governo, commenta l’attentato
dell’ottobre 2013 (vedere MC, gennaio-febbraio 2014) a Piazza Tiananmen
sostenendo che non ne è provata la matrice uigura e, allo stesso tempo, che non
si possano escludere in futuro «metodi estremi» utilizzati da gruppi di uiguri
per «proteggere i propri diritti».

Tutto
si ferma il 15 gennaio. Il professore viene scortato fuori dal suo appartamento
del campus dell’Università Minzu. Il luogo dove è detenuto è ancora
sconosciuto, le accuse che gli si muovono consistono in «separatismo» e «istigazione
alla violenza». Un coro di voci si alza in sua difesa: la blogger tibetana
Woeser, Wang Lixiong, giornalisti, avvocati e intellettuali cinesi e stranieri,
e tanti altri. Ma la figura di Tohti rimane controversa: i toni estremi e quasi
forzati delle dichiarazioni degli ultimi tempi non hanno prodotto il consenso
sperato. I suoi paragoni con altre situazioni, per esempio con quella dei
ceceni, erano spesso fuori luogo, e portavano alla luce una psiche provata.

Il caso Tohti rimane aperto. Si tende a spiegare il suo
arresto con campagne anticorruzione che coinvolgono alti funzionari in
Xinjiang, e che avrebbero come obiettivo ultimo i fedelissimi di Zhou Yongkang,
con il tentativo di altri funzionari di spostare l’attenzione o di un ennesimo
giro di vite sulle voci critiche in Cina da parte della nuova amministrazione
Xi, e con molto altro. Quello che resta da vedere è se la società civile
cinese, la comunità internazionale e il governo del Stati Uniti siano pronti a
sostenere una persona che, prima di essere un dissidente, è un uomo provato.

Pechino e la
«gestione del dissenso»

A
questo punto può essere utile comprendere la tragedia umana del prof. Tohti
alla luce del sistema politico cinese. Tutto ciò di cui è accusato è vero:
istigazione al terrorismo (durante le lezioni dichiarava apertamente, di fronte
a un gruppetto di poliziotti seduti tra gli studenti, che gli uiguri dovrebbero
ispirarsi ai ceceni); collegamenti con governi esteri (è appoggiato, e forse
anche finanziato, dal Consiglio di stato americano); incitazione alla violenza
(nelle sue interviste ha spesso sostenuto che l’unico modo per difendere i
diritti degli uiguri è la violenza). Nello stesso tempo, il modo in cui il suo
caso è stato trattato, almeno dal 2009, ha solo contribuito a peggiorare la
situazione. Lo stato mentale di Ilham si è compromesso, poiché viveva in un
piccolo appartamento senza poter più veramente lavorare, e per i continui
interrogatori e le intimidazioni. Se da un lato, quindi, la sua vicenda
personale può suscitare sentimenti di compassione e rispetto, dall’altro non si
può dire che il governo cinese, dal suo punto di vista, sbagli in toto. Del
resto, se in Italia una figura pubblica incoraggiasse a utilizzare metodi
terroristici, per realizzare – ad esempio – la separazione del Nord dal Sud,
sicuramente non passerebbe inosservata.

Il
governo cinese è attaccato da molti fronti: uno di questi è costituito dagli
oppositori interni. Esso non riesce a gestire il dissenso, perché in Cina manca
completamente un meccanismo che faccia da «regolatore» nei casi in cui gli
interessi del governo divergano da quelli di parti della popolazione, se si
esclude quello che si basa sull’intimidazione e la minaccia. Ci sarebbe bisogno
di maggiore democrazia, cioè di un coinvolgimento
delle voci dissidenti in una piattaforma di dialogo, che toerebbe molto utile
per evitare un’escalation dei problemi.

Nel frattempo, il 26 febbraio, si è appreso2 che a Ilham Tohti,
in carcere a Urumqi, è stata ufficializzata l’accusa di separatismo. Rischia
l’ergastolo o addirittura la pena di morte.

Alessandra Cappelletti*
Note
1 – NIl link della petizione: https://docs.google.com/spreadsheet/pub?key=0AsKDF8_HXe4IdGowdmRKcXAyd0REa2QxSFBtRjhlX1E&output=html.

2
– Cfr. la Bbc: www.bbc.com/news/world-asia-china-26333583.
* Già collaboratrice di MC, Alessandra Cappelletti è esperta
di questioni identitarie e minoranze etniche. Sinologa, ha un dottorato di
ricerca in studi sulla Cina contemporanea alla «University of China» e
all’Università degli studi di Napoli «L’Orientale». È editor di un nuovo sito
dedicato a Pechino: www.cinaforum.net.

Un ritratto di Ilham
Tohti:
Professore e
attivista

Nato e cresciuto in una famiglia benestante di mercanti di Artush,
villaggio del Xinjiang ai confini col Kyrgyzstan, nelle sue conversazioni con
gli amici Tohti ricorda spesso il padre, musulmano praticante, in partenza con
lunghe carovane di cammelli per oltrepassare i valichi montuosi alla volta di
Osh, centro commerciale kyrgyzo, e Samarcanda, in Uzbekistan. Una famiglia
allargata, un padre con mogli in diversi luoghi dell’Asia Centrale, commerci e
interessi nell’area, e una considerevole quantità di beni espropriati durante
la Rivoluzione culturale. Cresciuto dalla madre in un ambiente molto religioso,
negli anni ‘80 è un brillante studente di lingue all’Università Minzu, nel
nuovo clima di dialogo e apertura promosso dall’amministrazione di Hu Yaobang.
Tohti dimostra una notevole propensione agli studi, è sufficientemente
eclettico da cominciare un percorso interdisciplinare a cavallo tra l’economia
e la sociologia – con un occhio sempre attento a quello che succede nella sua
regione d’origine, che lo porterà a occupare velocemente una cattedra presso il
Dipartimento di economia dell’Università Minzu. Gli anni ‘90 e la prima metà
del 2000 rappresentano un periodo di formazione politica, un lavoro condiviso
con intellettuali cinesi e stranieri con formazioni e posizioni diverse,
attraverso lunghe discussioni sulle trasformazioni della società, dibattiti, e
un rapporto molto stretto con il gruppo di studenti che più lo segue. Tohti
comincia così a spostarsi dagli studi accademici all’attività politica: membro
del Pcc, è l’unico intellettuale uiguro che va oltre i confini dell’etnia,
confrontandosi e interagendo soprattutto con cinesi han, giornalisti,
intellettuali, artisti. Il suo lavoro diventa un’attività di sensibilizzazione
rispetto alle diseguaglianze economiche e sociali in Xinjiang, portato avanti
con studenti, amici, conoscenti e colleghi. Personalità carismatica e generosa,
gode di molto rispetto tra studenti e amici han, e non esita a parlare e
rilasciare interviste ai giornalisti stranieri.

Alessandra
Cappelletti


Pechino: L’Università
Minzu

Una casa per le minoranze
etniche

L’Università delle Minoranze etniche di Pechino, chiamata Università
Minzu (in seguito a una delibera degli organi accademici volta a evitare che il
termine minzu 民族,
«gruppo etnico», venisse tradotto con il politicamente connotato «nazionalità»),
è nuovamente sotto i riflettori. Istituzione accademica prestigiosa che
raccoglie la créme dei giovani appartenenti alle 55 minoranze etniche cinesi,
formandoli, insieme a una parte di studenti han, secondo una rigorosa
educazione di partito per prepararli a occupare posti più o meno rilevanti
nell’amministrazione pubblica e nel governo, il campus del quartiere di Haidian
ospita tibetani, uiguri, mongoli, hui, kazaki, kyrgyzi, e membri di quasi tutte
le altre minoranze. Inoltre è l’unica, a Pechino, a disporre di numerose mense
per gli studenti musulmani. Almeno due le occasioni recenti in cui questa
università ha fatto notizia in Occidente: le manifestazioni degli studenti
tibetani (marzo 2008 e ottobre 2010), e l’arresto di Ilham Tohti nel luglio del
2009. Docente di dinamiche economiche nelle aree abitate da minoranze,
all’epoca Tohti fu rilasciato grazie alla sua notorietà tra intellettuali e
studiosi cinesi e stranieri, e, soprattutto, grazie all’intercessione
dell’amministrazione Obama.

Ale.Cap.

Alessandra Cappelletti




Pillole «Allamano» 3: una religione che rende felici qui  

3. Amate una
religione che vi offre le promesse di un’altra vita e vi rende più felici sulla
terra.

Se una pillola non
aiuta a star bene, perché prenderla? Questo semplice e lapalissiano principio
vale anche per le pillole dell’Allamano: prima di somministrarle bisogna essere
perlomeno convinti del loro effetto benefico. La bontà di un prodotto va
certificata con tanto di risultati.

La pillola di questo
mese parla di felicità, il fine ultimo del cammino esistenziale di ognuno.
Tutti gli uomini desiderano la felicità e si sforzano di raggiungerla, anche se
molte volte danno all’oggetto della loro ricerca un nome diverso. Esiste
davvero una pillola che aiuti a essere felici, visto e considerato che molte
persone non si possono, oggi, dichiarare certamente tali?

Colui
che crede dovrebbe avere una risposta pronta da offrire, una soluzione in grado
di soddisfarlo nel suo percorso di ricerca e pronta per essere condivisa con
tutti: il cammino di fede fa dire al credente che la meta agognata non può
essere altri che Dio, che è lui la vera felicità. Il desiderio di Dio, per il
cristiano, è scolpito a chiare lettere nel cuore dell’uomo, e Dio, da par suo,
non smette un secondo di attirare a sé la sua creatura, proprio perché la vuole
felice.

Chiaramente ci si trova di fronte a una difficoltà: se
Dio è la felicità e il suo profondo desiderio è che tutti gli uomini siano
felici, perché, di fatto, la cosa non si verifica? In effetti, il cristiano è
convinto che non sia sufficiente il puro e semplice sforzo dell’uomo per raggiungere
Dio-felicità: la felicità è grazia, dono. Tuttavia, per ricevere tale regalo,
l’uomo deve collaborare attraverso delle scelte che gli permettano di aprirsi
alla grazia, dono gratuito di Dio. L’azione umana non è l’unica né la
principale causa del conseguimento della felicità, ma è tuttavia indispensabile
proprio perché il dono di Dio possa essere liberamente accolto. Questa, in
poche parole, è la teoria; in pratica le cose non sono così semplici. Oggi, in
effetti, il mondo Occidentale è abbastanza scettico rispetto a quanto passa la
Chiesa in materia. In uno dei suoi ultimi saggi, il filosofo Umberto Galimberti
analizza il fenomeno della «perdita del sacro» che colpisce la cristianità in
generale, rendendo il cristianesimo, agli occhi di coloro ai quali si rivolge,
una religione dal cielo «vuoto», che rivela il nulla. La de-sacralizzazione del
mondo ha fatto perdere all’uomo la fiducia nella possibilità di un Dio
trascendente, totalmente altro. Se Dio è felicità, secondo Galimberti, da
questa felicità il mondo si è separato, ne ha decretato la morte, l’ha rescissa
dalla propria storia.

Dire che la felicità risiede in Dio a un interlocutore
che da Dio si è separato potrebbe significare iniziare un dialogo tra sordi che
non porta a nulla. Eppure, se ci pensiamo con attenzione, molte delle catechesi
e delle omelie che ascoltiamo, o dei contenuti religiosi che portiamo nelle
nostre discussioni di tutti i giorni sono impostati su questo postulato, calato
dall’alto come una verità che è inoppugnabile per chi crede, ma che lascia
invece le altre persone scettiche o, nella maggior parte dei casi,
completamente indifferenti.

La pillola dell’Allamano di questo mese, ci aiuta ad
affrontare il tema da un altro punto di partenza, sicuramente più evangelico,
con un approccio pedagogico «dal basso», che tiene conto delle persone e non
solamente delle nostre convinzioni personali. Curiosamente, la formulazione non
è propriamente «farina del suo sacco», ma ha bensì un’origine addirittura
papale.

La frase contenuta nella pillola di oggi, è stata
scritta da Giuseppe Allamano in una lettera indirizzata ai missionari del
Kenya, datata 2 ottobre 1910. In quella lettera l’Allamano ricordava che se
desideravano conseguire frutti dovevano far sì che il loro lavoro fosse:
perseverante, concorde e illuminato. I primi due aggettivi non necessitano qui
di grande approfondimento, mentre è proprio a proposito dell’ultima
caratteristica che il fondatore ci offre la sua pillola.

L’accento è posto sul metodo missionario: l’Allamano
vuole che esso parta da un contatto ravvicinato con la gente, con i suoi
bisogni e i suoi problemi. Tale metodo aveva avuto la necessaria consacrazione
con il Decreto di approvazione da parte di Propaganda Fide e con le
parole benedicenti di papa Pio X, riportate dall’Allamano nella lettera citata.
Con le sue parole, lodando e approvando il metodo missionario dell’Istituto, il
pontefice esprimeva il seguente concetto: «Bisogna degli indigeni fae tanti
uomini laboriosi per poterli fare cristiani: mostrare loro i benefici della
civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione che oltre le
promesse d’altra vita, li rende più felici su questa terra». Più felici su
questa terra: prima di fare il cristiano occorre fare l’uomo, un uomo «laborioso»,
capace di apprezzare i «benefici della civiltà» ed essere quindi anche attratto
all’amore della fede.

Un
approccio di questo tipo impegna oggi il cristiano a due livelli. Il primo è
quello della
testimonianza. I cristiani sono chiamati a essere
testimoni della loro fede come possibilità per vivere una vita felice. Come
scrive Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, nel suo saggio Le vie
della Felicità. Gesù e le beatitudini
(Rizzoli, Milano 2010): «Noi
cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma
risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti
della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di
beatitudine, di felicità. Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia
oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come
persone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano
fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e
oppressivo, non a quello dolce e leggero di Gesù Cristo (cfr. Mt 11,30)?».

Chi vive nel concreto la logica delle beatitudini assume
in sé uno stile di vita, copiato sulla matrice dello stile di vita incarnato da
Cristo. Siamo, certamente, al limite del paradosso cristiano. La sequela di
Cristo è esigente, significa passare per la porta stretta e abbracciare la
croce che può assumere nel concreto diversi aspetti: servizio, sofferenza,
impegno radicale e senza compromessi, persino martirio. Ciononostante, le
beatitudini, la Magna Charta del cristiano, sono, in sé, una vera e
propria chiamata alla felicità.

In una società come la nostra dove l’indifferenza e il
relativismo esprimono una chiara mancanza di senso nei percorsi esistenziali
delle persone, le beatitudini sono un aiuto a vivere con consapevolezza la
propria vita, nella ricerca di un perché capace di illuminare di senso il
nostro agire, vivere e morire, e, una volta realizzato, portare quindi alla
felicità.

Il secondo livello consiste invece nello sforzo di agevolare coloro che incontrano più difficoltà
a essere felici. È il livello della consolazione, del mettersi cioè a
fianco e camminare con coloro che sempre rimangono ai margini, attardati a
causa del peso di esistenze faticose. Come fare a pronunciare la parole felicità
di fronte a qualcuno che vive una «vita di scarto» o si sente in cuor suo di
sprecare la propria esistenza? Eppure sono proprio queste le persone che
esigono un inizio di felicità già su questa terra. Lo esige il senso di
giustizia che sta alla base di una vita serena, pacifica e, di conseguenza,
felice. Il povero che non riesce a uscire dal ciclo di miseria in cui è
entrato, il malato che si scontra con l’impossibilità di curare la sua infermità
o di lenire la sofferenza, l’afflitto che non riesce a sciogliere il nodo che
gli attanaglia il cuore, non possono accontentarsi, loro e gli altri come loro,
di ripetersi «piove sempre sul bagnato».

La Scrittura ci dice che piove sui giusti e sugli
ingiusti e nel rispetto di questa verità non può mancare l’impegno del
cristiano a trovare il modo di far sentire felice, già in questo mondo, le
persone che soffrono.

La
pillola non può essere un palliativo. Il Vangelo non serve come placebo. Papa
Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato è stato molto in sintonia con
questo approccio e ha pubblicato la sua prima Esortazione apostolica
intitolandola «Il Vangelo della gioia». Il cristiano deve essere un uomo
giornioso, felice della sua scelta, della sua vocazione e del sì detto senza
ripensamenti al Signore. Tale gioia, sperimentata in questa vita e testimoniata
nel quotidiano, diventerà motivo di speranza e gioia per gli altri, aprendo
finestre nelle chiuse camere di dolore e dando scampoli di vita felice a chi
invece aveva ormai perso la speranza di ritrovare una ragione per andare avanti.

Altre vie non sono possibili se vogliamo che la felicità
fragile ed episodica che possiamo sperimentare in questa vita porti alla
felicità solida e duratura promessaci da Dio come premio per il «sì» da noi
dato al suo programma di salvezza. Per esempio, l’illusione occidentale di
essere felici grazie al benessere, alla possibilità di pagare occasionali
momenti di beatitudine sta venendo meno giorno dopo giorno. La crisi che
l’Europa (e non solo) sta attraversando mette a dura prova la pretesa di poter
eternamente difendere a costo zero l’agio e il benessere costruiti in questi
anni.

Il consiglio spirituale che l’Allamano ci propone per
questo mese ci invita invece a scoprire, con le persone che incontriamo, che la
felicità si costruisce insieme, giorno dopo giorno, nella buona e nella cattiva
sorte, facendo uscire dalla nebbia un raggio di sole alla volta, fino a
ottenere la previsione di una giornata finalmente serena.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli