Acqua, nuove battaglie

Dai forum dei movimenti per l’acqua ai forum per i beni
comuni.
Dopo i risultati del referendum del 2011 sull’acqua come
diritto umano, i movimenti si organizzano ed estendono la battaglia ad altri
beni comuni e alla democrazia. Il rifiuto della mercificazione della vita, il
recupero della responsabilità delle autorità pubbliche, la domanda di nuovi
spazi di partecipazione politica. Lavorando sul locale senza perdere la visione
globale.

Giugno 2011: gli Italiani si pronunciano contro la privatizzazione dei
servizi idrici, rivitalizzando, con sorpresa di molti, il referendum come
strumento di partecipazione politica. A quasi tre anni di distanza da quel
voto, a che punto siamo? La battaglia referendaria sull’acqua appare da diversi
punti di vista una vittoria mutilata.

Senza dubbio il referendum ha contribuito a rappresentare
e affermare il vasto consenso popolare esistente in merito al fatto che l’acqua
deve essere considerata un diritto umano e bene comune, legittimando
giuridicamente e politicamente la gestione pubblica dei servici idrici. A
questi principi si richiamano ormai, almeno a parole, anche quei politici e
rappresentanti delle istituzioni che in passato guardavano con favore a un
ruolo più incisivo del mercato nella gestione dei servizi idrici. In virtù del
risultato referendario, l’acqua in molti casi è rimasta fuori dai processi di
privatizzazione e di cessione di quote delle società pubbliche di gestione dei
servizi locali, come i rifiuti e i trasporti. Anche se non sono mancati
tentativi da parte del governo Berlusconi e poi di quello Monti di ribaltare il
risultato referendario, introducendo alcune disposizioni che di fatto
riproponevano le norme abrogate dal referendum.

Stop ai privati

Dal punto di vista tecnico e giuridico, il primo dei due quesiti
referendari ha eliminato l’obbligo per gli enti locali, introdotto nel 2008 dal
cosiddetto Decreto Ronchi, di mettere a gara la gestione dei servizi idrici
entro la fine del 2011 per affidarla a società pubbliche, private o miste. La
normativa ora in vigore è quella europea, che prevede anche la gestione «in
house
», ovvero da parte di Spa a intero capitale pubblico, la formula al
momento più diffusa in Italia, che il Decreto Ronchi intendeva invece superare.

Dal punto di vista politico, tuttavia, per il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, l’indicazione emersa dal referendum è quella dell’affermazione
di una gestione squisitamente pubblica dei servizi idrici, che dovrebbe passare
per il superamento della forma dell’Spa, anche se interamente pubblica, in
quanto governata comunque dal diritto privato e orientata alle logiche del
profitto e della massimizzazione degli utili. Questa convinzione ha ispirato
diversi percorsi di ripubblicizzazione dei servizi idrici, promossi dal
movimento e da alcuni rappresentanti degli enti locali in diverse città
italiane. Il caso più conosciuto è quello di Napoli, dove il sindaco Luigi de
Magistris, all’indomani del referendum, ha nominato Alberto Lucarelli e Ugo
Mattei – giuristi estensori dei quesiti referendari – rispettivamente Assessore
ai Beni Comuni e Vice presidente di Arin Spa, la società di gestione del
servizio idrico napoletano. Il loro lavoro ha portato alla trasformazione di
Arin in azienda speciale di diritto pubblico, Abc Napoli (Acqua Bene Comune).
Nell’ottica di una gestione più partecipata e democratica, che superi i vizi
delle precedenti esperienze di gestione pubblica, la nuova azienda prevede
anche un’assemblea di indirizzo in cui siedono rappresentanti dei lavoratori,
degli utenti e dei movimenti ambientalisti.

A Reggio Emilia, è stato invece istituito un forum provinciale cui
partecipano i rappresentanti delle istituzioni locali e dei movimenti, con il
mandato di ridefinire l’assetto della gestione dei servizi idrici alla luce del
risultato referendario.

Questo percorso ha portato alla revoca a fine 2012 della
concessione della gestione del servizio idrico a Iren, società multi-utilities
che opera nella gestione di acqua, energia e rifiuti in Piemonte, Liguria ed
Emilia. Il nodo da sciogliere resta quello della natura del nuovo soggetto che
gestirà il servizio idrico: azienda speciale sul modello di Napoli, come
chiedono i movimenti, o Spa «in house», come preferiscono gli
amministratori locali, preoccupati di non appesantire troppo i bilanci dei loro
comuni accollandosi anche le spese del servizio idrico. Percorsi analoghi sono
stati attivati in tutta Italia – Torino, Palermo, Imperia, Savona, Varese, Forlì,
Piacenza – attraverso raccolte firme e proposte di delibere di iniziativa
popolare per la ripubblicizzazione del servizio idrico, presentate nei consigli
comunali e provinciali.

Profitti sull’acqua

Il secondo quesito referendario, in nome del principio «fuori i
profitti dall’acqua!» ha invece sancito l’eliminazione della quota di
remunerazione del capitale investito, fissata per legge ad un tasso del 7%, dal
calcolo della tariffa del servizio idrico. All’indomani del referendum,
tuttavia, le Autorità d’ambito territoriale ottimale (Aato, le istituzioni che
governano il servizio idrico integrato) non hanno adeguato le tariffe al
risultato referendario, preoccupate dalla necessità di continuare a pagare gli
interessi dei capitali presi a prestito per realizzare gli investimenti nel
settore idrico. Nel 2012 il governo Monti ha affidato all’Authority per
l’Energia elettrica e il Gas (Aeeg) le funzioni di regolazione e di controllo
dei servizi idrici, con il mandato di definire il nuovo metodo tariffario.

Il Forum dei movimenti per l’acqua ha espresso un giudizio
negativo sulle proposte dell’Aeeg, accusandola di far rientrare dalla finestra
nel nuovo calcolo della tariffa i profitti per i gestori, sotto la
denominazione «costo della risorsa finanziaria». Insieme a Federconsumatori, il
Forum ha promosso diversi ricorsi presso il giudice di pace e i Tar (in
Lombardia, Toscana, Emilia Romagna), per ribadire l’illegittimità delle scelte
delle Aato e dell’Aeeg. Il Forum ha anche lanciato una «Campagna di Obbedienza
Civile», che invita i cittadini a farsi interpreti in prima persona della
traduzione pratica del secondo quesito referendario, attraverso un’autoriduzione
della bolletta pari alla componente relativa alla remunerazione del capitale
investito.

«Democrazia dei beni comuni»

Nella visione del Forum dei movimenti per l’acqua, le azioni per
la piena realizzazione dei risultati referendari hanno finito per assumere il
significato politico più ampio di denuncia della crisi della democrazia
rappresentativa e dei canali tradizionali di partecipazione politica, partiti
in primis, considerati ormai impermeabili alle istanze della società e incapaci
di tradurre in politiche concrete l’espressione della volontà popolare.

In risposta a questa crisi, il riferimento ai
beni comuni orienta anche l’auto rappresentazione del movimento stesso,
suggerendo nuove forme di partecipazione politica attraverso quella che alcuni
militanti come Marco Bersani definiscono «la democrazia dei beni comuni».
L’idea è che un soggetto politico impegnato a battersi per la difesa dei beni
comuni, non può essere ispirato alle logiche verticistiche, elitarie o
addirittura personalistiche che negli ultimi tempi hanno caratterizzato i
partiti politici. Di qui, le caratteristiche organizzative scelte dal Forum dei
movimenti per l’acqua: una base di militanti volontari e non professionisti, il
rifiuto di leadership carismatiche, il ricorso al metodo del consenso
per prendere le decisioni, una struttura orizzontale e decentrata, fondata su
comitati locali gelosi della propria autonomia, per cui anche la semplice
istituzionalizzazione della segreteria operativa del Forum a Roma è stata
interpretata da alcuni come tentativo di centralizzare e mettere il cappello
sulla mobilitazione. In virtù del successo referendario e
della capacità di imporre la formula «acqua bene comune» nel dibattito
pubblico, la mobilitazione per l’acqua pubblica si è così trasformata in
battaglia paradigmatica per i beni comuni e la democrazia, contro la
privatizzazione e la mercificazione della politica e della vita. Ciò sembra
esser confermato dal riferimento sempre più frequente alla categoria dei beni
comuni anche nell’ambito di altri movimenti sociali. L’intento è quello di
sottolineare la loro connessione con i temi dell’acqua o di adottare strategie
e pratiche d’azione analoghe a quelle del Forum, con l’auspicio di replicarne
il successo.

In molti casi, la diffusione della narrazione dei beni comuni e
delle pratiche a essa collegate sviluppate nell’ambito della battaglia per
l’acqua avviene per osmosi, attraverso le esperienze di militanti attivi sia
nel movimento per l’acqua che in altri contesti.

Ad esempio, Domenico Finiguerra, sindaco tra i più attivi nel
movimento per l’acqua, è tra i fondatori del Forum dei movimenti per la terra e
il paesaggio. Luca Martinelli, giornalista di Altreconomia e Marco Bersani di
Attac sono tra gli animatori del Forum per una nuova finanza pubblica e
sociale.

I rappresentanti della Cgil-Funzione pubblica che militano anche
nel movimento per l’acqua, come Corrado Oddi, contribuiscono a introdurre il
vocabolario dei beni comuni nelle attività del sindacato. Giuristi come Ugo
Mattei partecipano alla riflessione su come tradurre l’idea di beni comuni in
pratiche concrete nel contesto delle occupazioni del Teatro Valle a Roma e
della Torre Guelfa a Milano.

Tre istanze

Per quanto eterogenee in termini di soggetti coinvolti, temi,
durata nel tempo ed efficacia, queste battaglie sembrano accomunate da tre
istanze manifestate attraverso il richiamo ai beni comuni. Innanzitutto il
rifiuto della mercificazione della vita, ovvero dell’estensione delle logiche e
degli strumenti del mercato, della concorrenza e della competitività ad ambiti
sempre più estesi della nostra quotidianità.

In secondo luogo la richiesta di una riassunzione di responsabilità
da parte delle autorità pubbliche, che inverta la rotta della privatizzazione o
dell’estealizzazione di competenze le quali vengono invece individuate come
costitutive del bene comune e strategiche per il governo del territorio. Infine
la domanda e la pratica di nuovi e più ampi spazi di partecipazione politica,
attraverso l’adozione di nuove forme di attivismo che contribuiscano a
ridefinire identità e appartenenze.

In questa prospettiva, affinché il movimento per l’acqua continui
a svolgere un’azione pionieristica di elaborazione culturale e politica, due
appaiono come i principali nodi da sciogliere. In primo luogo quello dei rischi
legati alla «giuridizzazione» della battaglia: per influenza dei saperi tecnici
coinvolti nel movimento e per la natura stessa delle questioni di attualità sul
tavolo, l’azione del movimento negli ultimi anni si è tradotta soprattutto in
iniziative e rivendicazioni di natura giuridica, dalle vertenze legali
all’enfasi sulla natura del soggetto gestore: azienda pubblica vs Spa.

Infatti, per loro natura, i beni comuni richiedono la pratica
dell’interdisciplinarietà, che di sicuro potrebbe giovare al movimento
nell’affrontare in maniera più organica le principali questioni legate alla
gestione del ciclo dell’acqua, come ad esempio il dissesto idro-geologico del
territorio italiano.

In secondo luogo, l’enfasi sull’attuazione a livello locale dei
referendum rischia di far trascurare la dimensione internazionale del tema
acqua. Una delle originalità del movimento per l’acqua, nato alla fine degli
anni ‘90 su impulso dei Social forum, del Contratto Mondiale sull’Acqua
proposto dall’economista Riccardo Petrella, e dal lavoro di educazione alla
cittadinanza globale delle Ong di cooperazione internazionale allo sviluppo è
proprio quello di esser riuscito a tenere insieme la dimensione locale del tema
con quella globale. I movimenti europei per l’acqua sono stati i primi a
utilizzare in Europa il nuovo strumento dell’Iniziativa dei cittadini
europei
introdotto dal Trattato di Lisbona, raccogliendo l’anno scorso le
firme per presentare una proposta di legge sul riconoscimento del diritto umano
all’acqua. I seguiti di questa campagna potranno aiutare la riscoperta della
dimensione internazionale del tema, oltre che contribuire a riempire di
contenuti il dibattito su identità, ruolo e prospettive dell’Europa.

Emanuele Fantini
 

Il libro

«Si scrive Acqua…
Attori, pratiche e discorsi nel
movimento italiano per l’acqua bene comune»,

a cura di Chiara Carrozza e Emanuele Fantini.
aAccademia University Press, 2013, pp. 136, Euro12,00.

Senza inseguire leadership carismatiche, ignorato
dall’establishment politico e mediatico, il movimento Acqua bene comune ha
saputo coinvolgere e tenere insieme una coalizione vasta e plurale, riferendosi
a principi morali e diritti fondamentali, adottando un’ottica non solo locale
ma anche globale, e portando avanti una battaglia paradigmatica per la
democrazia e il bene comune. Il libro nasce dalla volontà di riflettere sugli
elementi e le pratiche che hanno reso possibile questa esperienza e sul suo
significato politico più ampio.

Il volume, oltre a essere acquistabile in versione cartacea,
è scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore.
www.aaccademia.it/siscriveacqua.

 

Emanuele Fantini




Tra emigrazione e immigrazione

L’inversione di tendenza. Polonia meta d’immigrazione


Dopo decenni di emigrazione, la Polonia, negli ultimi anni,
registra un crescente numero di immigrati (un totale di mezzo milione a
febbraio 2013, per una popolazione di poco inferiore ai 40 milioni). L’ingresso
nell’Unione europea e la crescita economica stanno attraendo persone, aziende e
investimenti. E il governo cerca di far rientrare i «cervelli in fuga».

La Polonia è stata per lungo tempo un paese di
emigrazione. La Germania ospita la maggior parte degli emigranti polacchi, ed è
seguita dagli Stati Uniti e dall’Italia. Fra i motivi più ricorrenti di
soggiorno all’estero, al primo posto c’è sicuramente il lavoro, in particolare
nell’ambito della collaborazione domestica e famigliare, al secondo e al terzo
posto i ricongiungimenti famigliari e i motivi religiosi. I polacchi in Italia
sono concentrati soprattutto a Roma e nel Lazio.

Da paese di emigrazione…

I
primi polacchi stabilitisi nel nostro paese furono i 100.000 soldati del II
corpo d’armata che decisero di rimanere in Italia alla fine della seconda
guerra mondiale. Nel secondo dopoguerra i flussi possono essere divisi in due
grandi ondate: prima e dopo la caduta del muro di Berlino. Una terza fase è
stata poi inaugurata con l’ingresso della Polonia nell’Unione europea nel 2004.

Prima
della caduta del muro di Berlino, la maggior parte delle emigrazioni era a
carattere politico-ideologico, per fuggire al regime comunista. Spesso l’Italia
era solo una terra di passaggio verso i più ambiti Stati Uniti. Certamente
l’elezione a papa di Karol Wojtyla ha valorizzato l’Italia come sbocco per
l’emigrazione, non solo politica, ma anche religiosa. Inoltre nei primi anni
Ottanta la Polonia fu colpita da una profonda crisi economica, nel paese venne
promulgata la legge marziale e il sindacato Solidaosc fu messo al bando.
Questo favorì una nuova predisposizione positiva e sentimenti di accoglienza
nei confronti dei migranti polacchi da parte dei paesi non appartenenti al
blocco comunista. In quel periodo migrarono soprattutto intellettuali, docenti
universitari, medici e ingegneri. Secondo dati ufficiali di fonte polacca
riportati da uno studio del 2006, Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da
migranti a comunitari
, di Caritas Italiana, nel corso degli anni 1981-1989
il 3,7% del totale degli emigranti polacchi definitivi e il 5,7% di quelli
temporanei scelsero l’Italia come paese di arrivo.

La
caduta del muro di Berlino ha dato il via alla seconda fase dell’emigrazione
polacca in generale, e dei flussi verso l’Italia in particolare: questi flussi
non erano più motivati da ragioni politiche bensì economiche. Aprendosi
all’economia di mercato la Polonia aveva, infatti, assistito a un aumento del
costo della vita e contemporaneamente della disoccupazione. Motivi che hanno
portato, non solo in Polonia, ma anche negli altri paesi del blocco ex
comunista, a un esodo di massa, di persone tra l’altro con livelli d’istruzione
molto diversi tra loro e molto spesso notevolmente più bassi di quelli dei
precedenti emigranti. Nel 2006, nonostante l’ingresso nell’Unione Europea, il
paese aveva ancora seri problemi occupazionali, con un tasso di disoccupazione
del 17,7%, ritrovandosi inoltre al 24° posto fra tutti i membri dell’Ue a 25
per Pil procapite.

L’ingresso
della Polonia nell’Unione europea ha portato sia a un perdurare delle
migrazioni per lavoro, facilitate appunto dalla libera circolazione dentro
l’area Schengen, sia a una massiccia emigrazione o, per meglio dire,
circolazione di giovani desiderosi di studiare all’estero, di realizzare
esperienze di studio e lavoro non per forza per rimanere stabilmente in Italia,
ma neanche per far ritorno stabilmente in Polonia: quello che negativamente
viene definito «fuga dei cervelli» ma che può anche essere valutato
positivamente come lo sviluppo di un flusso di giovani, realmente europei,
cosmopoliti, tesi verso orizzonti più ampi.

…a paese d’immigrazione?

Da
quando la Polonia è entrata nell’Unione europea nel 2004, però, anche
l’immigrazione e le richieste di cittadinanza da parte di stranieri sono
aumentate, non solo per ragioni di convenienza, ma anche perché il paese è
apparso, soprattutto nel corso degli ultimi anni, sempre più dinamico e in
rapido sviluppo. Da questo punto di vista, la situazione polacca ha molti
tratti di somiglianza con quella italiana di fine anni Settanta poiché, pur
perdurando una forte emigrazione, i flussi in entrata cominciano a diventare
sempre più significativi. Dopo la seconda guerra mondiale e fino all’ingresso
del paese nell’Unione europea, infatti, i flussi di ingresso sono rimasti molto
bassi, in media tra i 1.500 e i 3.000 ingressi annuali. Con la caduta del muro
di Berlino le cose hanno cominciato a cambiare facendo registrare nel 1989
l’arrivo di 4.124 immigrati, mentre nel 2001 il loro numero era quasi
raddoppiato, raggiungendo le 7.740 persone (Caritas Migrantes 2006). A febbraio
2013 il numero degli immigrati, provenienti prevalentemente da alcuni paesi ex
sovietici, tra i quali Ucraina, Russia, Georgia e Bielorussia, aveva ormai
raggiunto e superato il mezzo milione. Se è vero, inoltre, che in molti casi si
tratta di migrazioni di ritorno, è anche vero che l’immigrazione in Polonia si
può collocare nella tendenza globale dei nuovi flussi migratori, anche in
seguito alla crisi economica che ha colpito alcuni paesi europei, tra cui
l’Italia, a partire dal 2008.

L’immigrazione
rimane comunque ancora a bassi livelli in Polonia, nonostante il numero di
persone in arrivo sia in rapida crescita, anche perché la forte emigrazione di
polacchi ha portato ora alla mancanza e dunque alla richiesta di forza lavoro,
specialmente in alcuni settori come quello della cura e dell’assistenza agli
anziani. Come in molti altri paesi membri dell’Unione europea, la società
infatti sta invecchiando, e anche in Polonia serve qualcuno che si prenda cura
degli anziani. In un’intervista alla rivista europea online Cafè Babel,
realizzata nel 2012, Piotr Bystrianin della Fundacja Ocalenie
(Fondazione Salvezza), che si occupa di aiutare gli immigrati nei corsi di
lingua polacca e nella ricerca di lavoro, sostiene comunque che ci sia ancora
molto da fare prima di trasformare la Polonia nella «meta favorita» dei
migranti, perché la situazione nelle campagne è molto diversa da quella nella
capitale.

Lezioni da imparare

Essere
un paese di nuova immigrazione può rappresentare per la Polonia un vantaggio se
sarà in grado di apprendere dalle esperienze degli altri paesi già mete
storiche di immigrati.

Questo
è stato uno degli obiettivi della conferenza internazionale «Children
migrants and third culture kids. Roots and routes
» che si è svolta a
Cracovia, presso la Jagiellonian University, lo scorso giugno. Il focus della
conferenza in particolare era l’impatto delle migrazioni sui bambini, sia su
coloro che rimangono nei paesi di origine e sono costretti a separarsi da uno o
da entrambi i genitori, sia su coloro che seguono i genitori nel percorso
migratorio o, ancora, nel ritorno in patria dopo un periodo passato all’estero.

La
conferenza, coinvolgendo professionisti e ricercatori di paesi europei di più
antica immigrazione, è stata l’occasione per condividere esperienze e
riflessioni riguardanti le conseguenze delle migrazioni sui bambini e le
strategie migliori, le cosiddette best practices, per l’apprendimento (o
il riapprendimento) della lingua, l’inserimento nel contesto della società di
accoglienza, il mantenimento della propria cultura e della propria religione.
La conferenza è stata anche l’occasione, soprattutto per i politici, i
ricercatori e gli operatori delle associazioni che in Polonia si occupano di
migrazione e intercultura, di beneficiare della riflessione su punti di forza e
di debolezza delle esperienze già realizzate altrove. In particolare
l’esperienza italiana, per il comune background religioso e tratti
simili della storia migratoria, ha portato a interessanti riflessioni e
costruttivi confronti.

Persone, merci, capitali

Con
l’ingresso nell’Unione europea, oltre ai singoli migranti, anche molte aziende
hanno cominciato a installarsi in Polonia, tant’è vero che Varsavia è stata
considerata la seconda città, dopo Londra, più attrattiva per le imprese, come
riportato da un altro recente articolo di Cafè Babel. Insieme a
immigrati e aziende, sono arrivati massicci investimenti che hanno comportato,
per lo meno nelle grandi città, aumento dei salari, miglioramenti nello
standard di vita e crescita del ceto medio. Grande impulso allo sviluppo del
paese inoltre è stato dato con gli europei di calcio ospitati dalla Polonia
(insieme all’Ucraina) nel 2012, per i quali (o grazie ai quali) sono state
costruite diverse infrastrutture: una linea metropolitana, strade, hotel e uno
stadio. Oltre ai vantaggi economici, i campionati europei di calcio hanno
portato anche un vento di ottimismo e modeizzazione, sostenuto comunque dai
bilanci positivi degli ultimi anni. L’economia polacca sembra infatti l’unica a
ottenere risultati positivi in questo periodo di crisi finanziaria europea: nel
2010 il Pil della Polonia è cresciuto del 3,8%. Più velocemente che in
Germania.

Il rientro dei cervelli?

I
polacchi nel mondo hanno massicciamente contribuito allo sviluppo del paese e
al benessere delle famiglie rimaste in patria attraverso l’invio di rimesse,
che ogni anno ammontano a circa 900 milioni di dollari. Alcune ricerche hanno
anche evidenziato la tendenza crescente dei migranti Polacchi a rimpatriare per
investire in loco i risparmi accumulati all’estero. Oltre che dai rientri
spontanei dei migranti polacchi, la riduzione della cosiddetta «fuga dei
cervelli» è accompagnata anche dal governo che sta, da parte sua, tentando di
riportare a casa i propri giovani. Con il sostegno dei fondi stanziati
dall’Unione europea, infatti, la Polonia sta sostenendo iniziative per
agevolare i giovani ricercatori nell’avviare una carriera in patria. Un esempio
è il programma Homing Plus della Fondazione di Ricerca Polacca (Fnp). Il
problema di programmi come questo è però che esso risulta essere molto limitato
e può coinvolgere solo un piccolo numero di ricercatori, dato che le borse di
studio a disposizione sono ogni anno solo 15. Un altro interessante progetto,
attivato nel 2007, è il sito powroty.gov.pl che vede più di 10.000
accessi settimanali. Il sito offre diversi servizi tra cui numerose
informazioni per coloro che vogliono rientrare in patria.

Religiosità in emigrazione

La
migrazione polacca così come l’intero paese sono caratterizzati da una profonda
religiosità, a forte impronta nazionalista. Forse anche questo determina la
scelta di Roma, tra le città italiane, come meta privilegiata. La maggior parte
degli immigrati polacchi in Italia dichiara infatti di coltivare e mantenere
rapporti con una struttura religiosa in Italia (Caritas Migrantes 2006). Per
gli immigrati polacchi i luoghi di culto non sono solo importanti per le
attività liturgiche e spirituali, ma diventano anche importanti centri di
ritrovo e di trasmissione ai figli della cultura di origine, ovvero punti di
riferimento non solo religioso, ma anche (e soprattutto) identitario.

Viviana Premazzi

Viviana Premazzi




L’Africa verso il futuro

OLTRE GLI STEREOTIPI


Quando si parla di Africa, si fa subito un diretto
riferimento al problema endemico della fame, al dramma della povertà, alle epidemie
infettive, al diffondersi dell’Aids, alle guerre etniche locali. Ma il grande
pubblico forse non è a conoscenza del fatto che il continente nero è in grado
di esprimere concretamente notevoli potenzialità di sviluppo sul piano
economico, finanziario, industriale e sociale. Rapporti redatti da organismi
come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale mettono in luce come
l’Africa riservi al mondo delle sorprese per il futuro, quando si rivelerà un
continente in grado di competere con l’Occidente e le altre potenze economiche
del pianeta.

(Nairobi, Kenya, piazza della Holy Family Basilica)

La Cina e le banche

Il primo paese a rendersi conto delle potenzialità
insite nel continente africano, intraprendendo di conseguenza un accelerato
programma di sfruttamento, è stata la Cina. Immediatamente seguita dalle
multinazionali occidentali nei settori agroalimentare e delle
telecomunicazioni. Anche le banche e le agenzie petrolifere, insieme alle
imprese edili e delle infrastrutture, hanno fiutato il business e si
sono adoperate alacremente per agire in territorio africano. Fra le prime
banche a investire in Africa si menziona in particolare la russa Renaissance
Capital
. Essa ha aperto a partire dal 2005 sette ultramodei uffici in ben
sette capitali: Johannesburg, Lagos, Lusaka, Lubumbashi, Nairobi, Accra,
Harare. L’ente finanziario russo ha investito in questa gigantesca operazione
più di un miliardo di dollari, dando lavoro a 180 persone.

Un progresso economico senza precedenti

I
rapporti delle banche e degli istituti di ricerca confermano dunque che
l’Africa è il continente in cui l’economia globale attualmente in crisi può
rivitalizzarsi. Il Fondo monetario internazionale, per esempio, ha dichiarato
che l’area subsahariana vedrà crescere il Pil fino a quasi il 7%, la Nigeria
diventerà la locomotiva dell’Africa e i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e
Sudafrica) investiranno sempre di più nel continente nero. Secondo un’indagine
eseguita dalla Banca mondiale (Africa’s Pulse), che ha analizzato lo
stato dell’economia della regione a Sud del Sahara, in questa zona si realizzerà
presto un progresso economico senza precedenti. Inoltre, sempre secondo le
stime del Fondo monetario internazionale, nell’arco di tempo che va dal 2013 al
2016 l’Africa potrà accogliere il 30% degli investimenti mondiali.

Le previsioni della Banca mondiale

Le
analisi effettuate dalla Banca mondiale confermerebbero che a medio termine le
prospettive di crescita in alcune aree dell’Africa rimarranno salde e saranno
rinvigorite e sostenute da un’economia mondiale in graduale miglioramento.
Secondo altri rapporti inteazionali, nel 2012 circa un quarto dei paesi
africani è cresciuto del 7%, mentre stati come Sierra Leone, Niger, Costa
d’Avorio, Burkina Faso, Ruanda, Liberia ed Etiopia hanno evidenziato un
fenomeno impressionante: la più rapida crescita al mondo. Le previsioni in
materia d’investimenti fanno pensare che, con i prezzi delle materie prime
costantemente elevati, gli utili e gli incrementi in infrastrutture regionali
risulteranno maggiori con relativa crescita del commercio e del business.
Quest’ipotesi di crescita è perlomeno verosimile, tanto più se si pensa che da
un punto di vista energetico l’Africa possiede il 10% delle riserve mondiali di
petrolio e l’8% di quelle di gas. La Banca mondiale, inoltre, in base alle
indagini effettuate in loco, ritiene che ad attestare un futuro positivo di
crescita per le economie africane ci siano i seguenti fattori: la ricchezza
mineraria e la crescita del consumo interno, senza contare l’aumento degli
investimenti privati. In effetti, le recenti scoperte di petrolio, gas
naturale, rame e altri minerali strategici, l’apertura e l’espansione di nuove
miniere in Mozambico, Niger, Sierra Leone e Zambia, laddove sono accompagnate
da una efficace governance politica ed economica, stanno favorendo una solida
crescita economica in tutto il continente. È opinione ancora della Banca
mondiale che, date le notevoli quantità di nuove entrate derivanti dai minerali
che si configureranno in tutta la regione, i paesi africani ricchi di risorse
dovranno investire con attenzione e con scrupolosità questi guadagni per
migliorare le condizioni sanitarie, l’istruzione e l’occupazione, ottimizzando
così le prospettive di sviluppo anche per le popolazioni locali. Inoltre,
sempre secondo stime della stessa Banca la popolazione giovanile dell’Africa
risulterà essere la più grande forza lavoro al mondo, sorpassando la Cina entro
il 2030 e l’India entro il 2040.

Telefonia mobile ed esportazioni

Un
progresso sostanziale si registra anche nel campo della telefonia mobile:
essendo assente la telefonia fissa, sarà possibile il boom dell’Information
and Communication Technology
. La telefonia mobile al momento serve 700
milioni di utenti su una popolazione che supera il miliardo di persone. In
questo settore specifico delle telecomunicazioni, l’Africa risulta il secondo
mercato in più rapida espansione al mondo (il primo è l’Asia). Altre notizie
incoraggianti provengono dal ramo delle esportazioni verso l’Africa. Nei primi
mesi del 2013 si è visto crescere in modo forte l’esportazione verso i mercati
subsahariani di macchine e attrezzature per costruzioni. Infatti, mentre nel
2012 essa rappresentava il 6% del mercato mondiale di quel settore, ora invece
rappresenta il 26%, e sono più che raddoppiate le macchine esportate in
Sudafrica (110%).

Questo
dato positivo, va bilanciato con quello negativo circa le macchine e
attrezzature per il movimento a terra (-22%) e quelle stradali (-4,9%) – che può
significare meno strade -; mentre la crescita delle esportazioni mondiali verso
l’Africa di gru a torre e di macchine perforatrici, rispettivamente del 18,2% e
del 7,6%, può indicare un aumento delle attività estrattive e minerarie con il
risvolto positivo delle maggiori entrate economiche e quello negativo del loro
impatto sull’ambiente.

Le contraddizioni dell’economia

Nonostante
queste notizie molto confortanti e incoraggianti che auspicano la ripresa
economica dell’Africa, non si nasconde che nelle pieghe dello sviluppo
economico e finanziario si insinuano le identiche contraddizioni che
caratterizzano il capitalismo finanziario occidentale, in quanto all’aumento
del Pil corrisponde quasi sempre una ingiusta distribuzione delle risorse. È il
motivo per cui i vescovi africani nel messaggio conclusivo della riunione del
cornordinamento Giustizia e pace del Secam (Simposio delle Conferenze
Episcopali di Africa e Madagascar), svoltosi a Bujumbura, in Burundi, nel
novembre 2013, hanno lanciato il grido «No alla miseria». Nel testo i vescovi
elencano chiaramente le cause della miseria in Africa e Madagascar, esprimendo
un «netto rifiuto dello sfruttamento dei più poveri e dei più deboli, della
riduzione in schiavitù, del traffico dei nostri bambini e dei loro organi».
Denunciano inoltre «l’insicurezza crescente in alcuni paesi e regioni del
continente», ricordando «le violenze e le vessazioni criminali in Centrafrica,
i conflitti ricorrenti nella Repubblica Democratica del Congo, il fanatismo e
l’estremismo religioso in Nigeria, Mali, Egitto, Somalia, Kenya e Tanzania».
L’obiettivo è dunque quello di porre fine allo «sfruttamento ingiusto delle
nostre risorse naturali, con l’industria mineraria che provoca conflitti
violenti e criminali». L’auspicio, invece, è che «gli Stati africani abbiano il
coraggio di scrivere e votare delle leggi che proteggano le rispettive risorse
naturali», in modo da realizzare un «buon governo», che escluda «tutte le forme
di corruzione e cattiva gestione».

Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi




Speriamo non arrestino il batterista

Diario di un anno nella pastorale migranti


Da qualche tempo i missionari della Consolata in Corea del
Sud sono impegnati nella pastorale migranti. Un breve affresco di vita
comunitaria e missionaria ci restituisce gli entusiasmi, le difficoltà,
l’umanità delle relazioni, le fragilità dei progetti di vita dei migranti.

_________________________________________________________________________________________

Alla fine di gennaio 2013 mi
sono ritrovato catapultato nella comunità di Tong du cheon a Nord Ovest di
Seoul, vicino alla Corea del Nord. Luogo in cui sono concentrate molte piccole
fabbriche che possono sopravvivere solo con manodopera straniera.

Un
mondo nuovo per me, quello della pastorale dei migranti. L’impressione che ho
avuto del nostro lavorare in questo ambito la esprimerei con la parola «rete» (network).
Tutto quello che facciamo infatti non sarebbe possibile senza una grande rete
di solidarietà e di volontari che moltiplica i nostri pochi pani e pesci in
questo paese tutt’altro che amichevole coi migranti.

Un
po’ di tempo dopo, partecipando all’incontro nazionale della pastorale dei
migranti, sono rimasto sorpreso dal grande numero di coreani coinvolti.
Considerando che i 200 presenti all’incontro erano solo i delegati,
rappresentanti di altre migliaia che in tutta la nazione aiutano i lavoratori
immigrati, e che questo paese per motivi storici e sociologici non è molto
amichevole verso gli stranieri, mi sono sentito come dentro un miracolo
culturale che comincia dalla Chiesa cattolica.

Accogliere

Ogni
tanto, per qualche caso speciale, ci viene richiesto di accogliere un migrante
in difficoltà, di solito per motivi di salute.

Quest’anno
abbiamo ospitato per un paio di mesi, nella nostra comunità, Andi, un cubano
che aspettava di tornare al suo paese. La moglie coreana l’aveva portato qui,
in Corea del Sud, ma poi si era stufata di lui e l’aveva mandato via da casa.
Mentre aspettava i documenti del divorzio, Andi non aveva un posto in cui stare
e non mangiava regolarmente. Allora lo invitavamo a mangiare con noi, e tra le
pastasciutte e i risotti siamo riusciti a fargli mettere su qualche chilo per
renderlo presentabile a sua madre, quando l’avesse riabbracciato. Preparavo
sempre cibo per una persona in più, e lui con innocenza infantile ogni volta mi
chiedeva: «Posso finire tutto?».

Dal Kenya per i peruviani in Corea

Ad
aprile anche padre Clement Gacoka del Kenya è stato destinato a questa comunità.
Lui per il momento continua a studiare coreano e ad aiutare nella pastorale dei
peruviani a Yokkok. Ci aiuta a mantenere la casa come uno specchio, e adesso
stiamo cercando una parrocchia dove possa fare un tempo di immersione totale nella
lingua locale.

Padre
Tamrat Defar, un etiope che è qui da sei anni, con pazienza e costanza è
riuscito a radunare un gruppo di Filippini e Nigeriani (ma anche americani e
coppie di nazionalità mista) per una messa domenicale in lingua inglese. Adesso
abbiamo un numero costante di una quarantina di fedeli regolari, ma la quantità
sembra crescere e calcoliamo che siano più di 100 quelli che hanno partecipato
alle nostre celebrazioni una o più volte. Tutto questo grazie anche al parroco
di Tong du cheon che ci presta i locali e ci dà un appoggio incondizionato.

Non di sole telenovelas
(coreane)

Assieme
ai migranti e al centro della parrocchia di Nog Yang che cornordina la nostra
zona pastorale organizziamo anche giornate di ricreazione. Quest’anno con due
autobus siamo andati a visitare un’isola fluviale, famosa per delle telenovelas
coreane girate in loco. Ci sono posti come: il ponte su cui i protagonisti si
sono dati il primo bacio e la panchina su cui lui ha detto a lei che l’amava.
Le nostre giovani filippine, tutte entusiaste, non facevano più di 100 metri
senza scattare una foto.

Verso
la fine dell’estate siamo anche andati in piscina, in più di 200 persone dai
vari centri della zona. Mentre a ottobre abbiamo organizzato il grande bazar al
centro di Nog Yang con vendita di vestiti usati e di cibi tradizionali dei vari
gruppi etnici. Nigeriani, Filippini, Vietnamiti, Cambogiani, Thailandesi erano
i gruppi più consistenti. I Cambogiani e Thailandesi, benché non siano
cristiani, sono assidui frequentatori del centro e ricevono aiuto grazie ad
alcune donne di quelle nazioni che parlano un po’ di coreano.

Qui
al centro chiunque può trovare aiuto medico, grazie a una specie di
assicurazione a cui tutti contribuiscono, ma anche grazie ad aiuti generosi in
occasione di grosse operazioni chirurgiche. C’è anche un aiuto legale e la
possibilità di trovare rifugio in casi di violenza familiare.

Una pastorale fluttuante

La
nostra è una pastorale, per così dire, «fluttuante». Siamo venuti in questa
zona per assistere la comunità peruviana, che però ormai è quasi sparita. Al
contrario invece la comunità di lingua inglese sta crescendo. A volte i nostri
fedeli preferiscono andare in altri centri dove si radunano i loro amici, così
il loro numero in quei casi diminuisce improvvisamente.

In più
ogni tanto gli agenti dell’immigrazione fanno un raid a caccia di
immigrati illegali e qualcuno dei nostri fedeli viene rispedito in patria. In
questo modo cinque mesi fa abbiamo perso il chitarrista della messa, Danny, un
caro amico che con la moglie aveva animato la messa della comunità filippina
per quasi 20 anni. Il nuovo direttore del coro è molto bravo, ma anche lui
illegale, come l’80% di tutti gli altri. Speriamo che non ce lo arrestino.

«Senza di voi sarebbe dura»

Un giorno, in un incontro, una signora filippina con le
lacrime agli occhi ci diceva: «Grazie, senza l’aiuto che i coreani e voi ci
date, per noi la vita sarebbe veramente troppo dura!».

A volte non ci rendiamo conto dell’impatto delle nostre
azioni e sembra sempre troppo piccolo quello che facciamo. Padre Tamrat va a
tradurre all’ospedale o al centro legale. Un prete locale si preoccupa di avere
i fondi per le emergenze ospedaliere o perché tutti possano mangiare quando andiamo
in piscina. Noi mettiamo in contatto questo e quello con una certa signora che
aiuta gli immigrati per i documenti. La donna delle pulizie della nostra
parrocchia fa sempre trovare il caffè pronto per tutti. Una suora tiene la mano
a una mamma etiope all’ospedale: alcune cose non si possono comunicare a
parole, ma quella mamma ci ha fatto capire che si è sentita tanto aiutata e
compresa.

Noi
siamo piccoli, ma questa rete d’amore che si è creata fa meraviglie!
Abbiamo
anche altri sogni, ma ve li faremo sapere l’anno prossimo.
Per
ora ci limitiamo al coro della messa, per cui abbiamo comprato una batteria
elettronica… sperando che non ci arrestino il batterista!

Gian Paolo Lamberto


          Per andare avanti un’altra settimana                    

Ormai ogni diocesi ha il suo incaricato della pastorale
migranti e c’è una rete di centri di ascolto, con molti volontari anche non
cristiani, nei quali i migranti vanno a cercare aiuto per salari non pagati,
problemi medici e legali, scuole di lingua e cultura. Spesso cercano solo un
posto in cui trovarsi insieme tra loro, mangiare i loro cibi tradizionali e
sentire il calore della patria lontana. Tutti mandano soldi alla famiglia, per
costruire una casa, mandare i figli a scuola o semplicemente mantenerla. Vivono
in condizioni a volte disumane (ci sono casi di stranieri che vivono in
containers, gelidi d’inverno e torridi d’estate) e fanno gl’infami lavori delle
3 D, dirty, difficult and dangerous, ossia sporchi, difficili e pericolosi, che
ormai i coreani non vogliono più fare.

Qui la messa non è solo un motivo di aggregazione, ma un
vero momento di speranza, dove si ricaricano le forze nel Signore per andare
avanti un’altra settimana. La nostra messa è alle tre del pomeriggio perché
molti dei nostri fedeli lavorano di notte e noi cerchiamo di adeguarci ai loro
bisogni. A me piace guardare i loro volti quando cantiamo il Padre nostro: si
vede proprio la partecipazione del cuore. E sapete cosa è simpatico: alcuni dei
nostri leaders più fedeli sono ex seminaristi!

Nel nuovo panorama sociale da un po’ di anni c’è il fenomeno
delle famiglie multi culturali. Si parla di 260mila famiglie composte da un
marito coreano, solitamente proveniente dalla campagna, o da un povero, o
handicappato della città, e da una moglie proveniente da paesi come Cambogia,
Vietnam, Mongolia, Filippine, Cina, che vuole sfuggire la povertà o
semplicemente non ha altri mezzi al di là di questo per aiutare la famiglia.
Per questo motivo oltre ai centri di ascolto ci sono case rifugio per donne in
difficoltà, vittime di violenza domestica: poiché una gran parte di queste
unioni sono problematiche. Uno dei grandi problemi è l’integrazione nella
società dei bambini di queste famiglie miste. Siccome dalle madri non possono
imparare bene il coreano, e siccome sono diversi di aspetto dai coetanei,
trovano difficoltà a integrarsi nella scuola con gli altri bambini perché
questi li ostracizzano. Anche in tali casi le religiose intervengono con una
rete di piccoli doposcuola per i bambini e di centri di assistenza per le
mamme. Bisogna dire che anche il governo è cosciente della situazione e sta
facendo il possibile con campagne di sensibilizzazione perché i figli di coppie
miste siano accettati come coreani al 100 per 100. Fino a 20 anni fa il
ritornello era: «Noi coreani siamo una razza pura». Ma da 20 anni la natalità è
crollata a livelli più bassi di quelli italiani e ci si prepara a un grande
invecchiamento e diminuzione della popolazione.

Gian Paolo Lamberto
 

Gian Paolo Lamberto




Eritrea 4: Gentili, discreti, educati, disponibili

Asmara: il ricordo di un’italiana.


Un viaggio nel tempo. Una città pulita e
pacifica. Persone oneste, lavoratori. Ma tante storie di sofferenza, di cui
poche a lieto fine. Sono questi i ricordi di una funzionaria delle Nazioni
Unite che ha vissuto e lavorato nel paese per alcuni anni.

Ho
avuto il privilegio di vivere e lavorare in Eritrea dal 2000 al 2004. Arrivai
subito dopo la tregua e la firma degli accordi di pace tra Eritrea ed Etiopia,
a seguito del precedente lungo conflitto per l’indipendenza. Fu un’esperienza
umana e professionale travolgente.

Si respirava e viveva un’atmosfera
unica, con grandi aspettative che rimasero poi purtroppo disattese.

Ricordo ancora, come fosse adesso,
il mio arrivo all’aeroporto di Asmara, i profumi e sentori di quei primi
giorni. L’effervescenza e le nuove iniziative.

L’Eritrea: una giovane nazione
abbastanza atipica rispetto al contesto africano. Asmara: una capitale unica in
Africa, dove puoi tranquillamente camminare per strada, anche di notte, senza
essere infastidito da mendicanti in ogni dove. Molto diverso quindi da quanto
accade dalle nazioni confinanti. Una povertà esistente ma vissuta con molta
dignità e riservatezza.

Asmara: una città dotata di un clima fantastico di
eterna primavera, di una salubrità eccezionale, a meno che si soffra di altitudine
trovandosi a oltre 2000 metri sul livello del mare, e di un’architettura unica.
Senza poi dimenticare gli asmarini: sempre gentili, discreti, educati e
disponibili.

Viaggio nel tempo

La mia prima impressione fu quella di avere fatto un
viaggio nel tempo. Un’incredibile somiglianza con una tipica cittadina
dell’Italia meridionale fotografata a metà degli anni ’60. Vecchie auto e
autocarri Fiat ancora in circolazione, tranquilla atmosfera lavorativa,
impressionante architettura coloniale e post coloniale di evidente stampo
italiano, cucina italiana, parole italiane nel gergo comune. Tutto eredità
della nostra presenza coloniale, certamente da valutare con tutti i pro e
contro. Presenza iniziata durante il periodo coloniale nel 1890, e terminata
nel 1941 con l’arrivo degli inglesi, ma poi protrattasi con le migliaia di
italiani (o meglio «talian», parola tigrina per indicare gli stranieri
in genere) che decisero di rimanere in Eritrea (e analogamente in Etiopia e in
Somalia) sino al 1974. Poche decine, e non con poco coraggio, rimasero dopo
l’ascesa del dittatore etiopico Menghistu che poi requisì le loro attività
industriali e commerciali messe in piedi con tanta fatica e sacrifici. Ho
conosciuto gli ultimi «coloniali» italiani, alcuni dei quali nati e vissuti ad
Asmara. Figli di vecchi imprenditori, oggi morti, che costruirono grandi
fortune. Veri pionieri in un contesto operativo molto difficile.

Gente onesta e lavoratrice

Durante la mia esperienza professionale, ho avuto modo
di affrontare diverse situazioni, di operare con diverse istituzioni, reclutare
e collaborare con personale locale a vari livelli. Mi sono confrontata anche
con difficili situazioni professionali e umanamente coinvolgenti, soprattutto
quando si trattava di famiglie geograficamente separate a causa del lungo
conflitto, famigliari deceduti o detenuti o dispersi durante la guerra.

Il recente episodio di Lampedusa ha attirato
l’attenzione internazionale sui profughi eritrei, ma già nei primi anni 2000
erano numerosi i ragazzi e le ragazze che per evitare il servizio militare
lasciavano clandestinamente il paese. Ne ho conosciuti parecchi. Uno di questi
era un mio collaboratore che, in occasione di una missione di lavoro in
prossimità dell’Etiopia, ne approfittò per dileguarsi oltre il confine. Ora
vive in Germania, dove con l’aiuto di una Ong è riuscito a frequentare
l’università e a ricostruirsi un futuro professionale. Quanto coraggio, ma
anche quanta fortuna. Non tutti sono stati similmente premiati dalla loro
audacia.

Confermo con piacere che mantengo, ancora a distanza di
anni, numerosi contatti con eritrei ai quali sono legata non solo da un
rapporto di amicizia, ma soprattutto di reciproca fiducia e solidarietà.

Forti legami sociali

La cosa che più mi colpì ai tempi e continua a stupirmi è
l’incredibile solidarietà tra gli eritrei espatriati e i residenti che
sopravvivono grazie agli aiuti inviati dai primi. La diaspora eritrea (che
conta più di un milione di persone) è rappresentata da forti e solide comunità
all’estero, che ho avuto modo di conoscere e apprezzare. Queste comunità
mantengono strettissimi rapporti col paese d’origine e, per fare una
similitudine, hanno una grande affinità e somiglianza con le analoghe comunità
di italiani all’estero.

In Eritrea nei mesi di luglio e agosto si raccolgono e
consumano i fichi d’india che si chiamano in tigrino beles. Ed è proprio
con questo appellativo curioso e «stagionale» che sono soprannominati gli
espatriati che rientrano brevemente in vacanza ad Asmara.

Mi ha sempre sorpreso la serietà, onestà, compostezza e
riservatezza del popolo eritreo. Non ho mai sentito uno dei miei collaboratori
lamentarsi o rifiutare un incarico in qualsiasi condizione di lavoro, incluse
quelle spesso proibitive e disagiate lontano dalla ridente e ospitale capitale.

Il coraggio non manca ai giovani eritrei, ma il clima di
terrore artificialmente creato dai primi anni 2000 ha schiacciato e condannato
quasi un’intera generazione.

Un contesto multietnico unico quello eritreo:
linguistico, tribale e religioso. Qui hanno sempre convissuto pacificamente
cristiani (prevalentemente di rito copto) e musulmani. I matrimoni
interreligiosi non sono frequenti ma esistono e sono ben tollerati. Non si
conoscono e non sono concepibili guerre di religione. Un grande esempio di
civilizzazione e tolleranza a livello mondiale.

Barbara Mina
 

CONSIGLI BIBLIOGRAFICI

• Mirjiam van Reisen, Meron Estefanos, Conny Rijken, Human trafficking in the Sinai: refugees
between life and death
, Wolf Legal Publishers, 2012.

• Mirjiam van Reisen, Meron Estefanos, Conny Rijken, The human trafficking cycle: Sinai and
beyond
, Wolf Legal Publishers, 2014.

• Sheila B. Keetharuth,
Report of Special Rapporteur on the situation for human rights in Eritrea
,
Onu, General Assembly, marzo 2013.

• Inteational Crisis Group, Eritrea: scenarios for future transitions, Africa Report n. 200,
marzo 2013.

• Matteo Guglielmo, Il
Coo d’Africa. Eritrea, Etiopia, Somalia
, Il Mulino, 2013.

• Il giornale «Avvenire» segue da tempo la tratta dei profughi
nel Sinai.

• Lettera pastorale dei Vescovi Eritrei, Dov’è tuo fratello?, Pasqua 2014

Ringraziamenti

Un ringraziamento per la disponibilità a don Mussie Zerai,
Meron Estefanos, Marilena Terzuolo, Francesca Giaccone e Barbara Mina.

Per le foto: un grazie speciale a Mattia Gisola e Francesca
Giaccone, Angela Lano e Cosimo Caridi.

Gli autori

• Enrico Casale – Gioalista professionista, africanista ed
esperto dell’area del Coo d’Africa.

• Barbara Mina – Funzionaria delle Nazioni Unite, ha
lavorato in diveri paesi africani.

• Marco Bello – 
Redattore MC, cornordinamento editoriale del dossier.

 

Barbara Mina




Eritrea 3: Inferno Sinai

Storie sconvolgenti di migrazione e
mercanti di carne umana.
In questa storia la realtà supera la
fantasia più perversa di un film dell’orrore. Donne, uomini, bambine, bambini
sono rapiti, venduti, torturati. Molti muoiono. Nel silenzio internazionale.
Eppure i dati ci sono, le testimonianze pure. Qualche associazione combatte per
salvae alcuni. E far conoscere le loro storie.

<!-- /* Font Definitions */ @font-face {Cambria Math"; panose-1:2 4 5 3 5 4 6 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536870145 1107305727 0 0 415 0;} @font-face { mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:3 0 0 0 1 0;} @font-face { panose-1:2 0 5 3 4 0 0 2 0 4; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:131 0 0 0 9 0;} /* Style Definitions */ p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-unhide:no; mso-style-qformat:yes; mso-style-parent:""; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:6.0pt; mso-fareast-Times New Roman"; mso-bidi- color:black;} .MsoChpDefault {mso-style-type:export-only; mso-default-props:yes; font-size:10.0pt; mso-ansi-font-size:10.0pt; mso-bidi-font-size:10.0pt;} .MsoPapDefault {mso-style-type:export-only;} @page WordSection1 {size:612.0pt 792.0pt; margin:70.85pt 2.0cm 2.0cm 2.0cm; mso-header-margin:36.0pt; mso-footer-margin:36.0pt; mso-paper-source:0;} div.WordSection1 {page:WordSection1;} --

Il naufragio dei migranti a Lampedusa, il 3 ottobre 2013, con i suoi 396 morti, ha commosso l’Italia. Molti di loro erano eritrei. Ma per quasi tutti quello era solo l’ultimo passaggio di un viaggio terribile iniziato nel loro paese. Un percorso che ha avuto una tappa dolorosa nei «campi di tortura» del Sinai. Dai quali molti altri non sono usciti vivi.

Piccolo migrante

«Ho 11 anni e vivo al Cairo. Non sono egiziano. Non ho né papà né mamma qui. Vivo con mio fratello di 8 anni e le mie sorelle di 13 e 15 anni. Eravamo insieme nel campo di tortura. Ah sì, c’è anche il mio fratello maggiore con noi. Nel mio paese devi fare l’ultimo anno di scuola al servizio militare. Se non vai ti vengono a prendere. Ma i miei genitori avevano sentito brutte cose sul servizio. Così mio padre decise di portarci via, in un luogo sicuro.

Lasciammo mia madre e partimmo nascosti dietro a un pick up. Arrivammo in un altro paese. Non capivo la lingua, ma c’erano molte persone del mio paese. Mio padre andò in una grande città. Ci avrebbe aiutati da laggiù. Quando fummo soli nel campo vennero alcuni uomini e ci obbligarono a partire con loro. Eravamo di nuovo su un’auto e fu un viaggio molto lungo. Il mio fratello maggiore ci disse di stare nella macchina, così non ci avrebbero uccisi. Lui sarebbe scappato per cercare aiuto. Penso che sarebbe stato meglio se fossimo scappati tutti. Nel luogo in cui arrivammo ci picchiarono e ci fecero molto male. Eravamo tutti doloranti. Fecero delle cose con le mie sorelle, ma non posso parlare di questo. Alla fine non potevo neppure piangere, ero troppo stanco.

Poi, un giorno, ci dissero di andare. Mio fratello ci aspettava al Cairo. Si era procurato molto denaro.

Qui adesso abbiamo diversi problemi. Non abbiamo un buon posto dove stare e la gente è sempre arrabbiata con noi. Vengono e prendono le nostre cose.

Abbiamo parlato con mio padre al telefono e ci ha detto di essere coraggiosi. Gli ho chiesto perché non può venire. Mi ha detto che ci vuole tempo per i documenti.  Non capisco, voglio vederlo.

Ho parlato anche con mia madre. Ringraziava Dio che mi stava parlando. Non so perché fosse così contenta. Voglio andare a casa».

Nella rete dei mercanti di uomini

Eritrea. Paese definito «Una grande prigione a cielo aperto», dalla quale tutti cercano di scappare. E sono infatti in maggioranza eritrei coloro che, lasciato il paese a rischio della vita, finiscono nella rete dei trafficanti di esseri umani, venendo venduti da un gruppo all’altro fino ad arrivare nel Sinai. Qui si trovano i «campi di tortura» vergogna dell’umanità.

Quella riportata sopra è solo una delle terribili testimonianze raccolte nel rapporto The human trafficking Cycle: Sinai and Beyond realizzato da due ricercatrici olandesi e da una giornalista eritrea (vedi box). Il rapporto  descrive i meccanismi del traffico, le persone implicate, i luoghi, i numeri. Il 3 dicembre scorso è finito sul tavolo di Cecilia Malmström, commissario europeo per gli Affari interni, e una settimana dopo è stato presentato alla Camera dei deputati a Roma.

I numeri del business dei mercanti di uomini sono impensabili. Il rapporto calcola in 25-30.000 le persone trafficate dal 2009 a oggi, con un «giro d’affari», perché di affari si tratta, dovuto ai riscatti, di oltre 622 milioni di dollari. Ma circa il 25% di chi è finito nei campi di tortura del Sinai non ce l’ha fatta, e sarebbero 5-10.000 persone uccise o morte di torture e maltrattamenti nel periodo considerato. La lista di torture inflitte secondo le testimonianze è agghiacciante. «La mercificazione dell’essere umano, dell’ostaggio, si ottiene anche con atti di violenza che lo “spogliano delle sue qualità umane”» scrivono le ricercatrici.

Un passo indietro

«Negli ultimi 13 anni in Eritrea non è cambiato nulla. È un paese completamente militarizzato che non dà spazio, soprattutto ai giovani che possono sognare un futuro diverso da quello che il regime ha prospettato per loro, ovvero la vita militare fino a 50 anni. L’assenza totale di una prospettiva diversa, di una possibilità di realizzare i propri sogni, come poter continuare gli studi o lavorare dove si desidera, è inaccettabile. In aggiunta c’è totale assenza di qualsiasi libertà, di qualsiasi diritto. I giovani non vogliono essere trattati da schiavi di fatto, perché il servizio militare è diventato una schiavitù legalizzata. Ecco perché fuggono, vogliono avere un futuro diverso, senza rischiare la vita ogni giorno per qualcosa in cui non credono più». Chi parla è don Mussie Zerai, responsabile della pastorale degli immigrati eritrei ed etiopi in Svizzera e fondatore della Ong Agenzia Habeshia (vedi box). Don Zerai, che vive tra Roma e la Svizzera, è diventato un riferimento per i migranti eritrei, che gli telefonano dalle situazioni più difficili.

L’inizio della «via del Sinai»

«I primi a contattarci sono state persone respinte dall’Italia verso la Libia. Era il 2009, l’epoca dei respingimenti. Quei migranti avevano cercato un altro percorso, volevano passare da Israele, e sono stati i primi a essere sequestrati nel Sinai. Erano un’ottantina. Quando, sotto tortura, hanno detto loro di chiamare i famigliari per il riscatto, hanno chiamato me, perché eravamo in contatto quando erano in Libia. Così abbiamo scoperto un traffico immane: in quel periodo c’erano più di 1.500 ostaggi in quella zona». I prigionieri sono incatenati nei sotterranei di ville e case delle città del Nord del Sinai, Al Arish, Al Rafah e altre. Qui avvengono violenze, stupri di gruppo e torture. Queste prigioni sono spesso costruite con i soldi del traffico.

«Abbiamo cercato di aiutare le famiglie di quei sequestrati, per salvare soprattutto donne e ragazzine incinte, o che rischiavano di essere vendute nei paesi arabi e finire nel giro della prostituzione o usate come schiave. Abbiamo raccolto fondi ma le richieste sono presto aumentate da 8.000 a 40-50.000 dollari a persona (da 6.000 a 40.000 euro, ndr). Abbiamo aiutato una quarantina di persone a salvarsi.  Ci ha dato una mano anche un beduino contrario al traffico, che di notte faceva fuggire gli ostaggi e noi pagavamo loro il trasporto».

Ma come inizia il terribile viaggio del migrante eritreo? «È una catena che parte dall’Eritrea, al confine con il Sudan, nella regione di Kassala: il primo sequestro avviene lì. Se paghi immediatamente e sei fortunato, ti rilasciano e puoi continuare verso Khartum, se invece non puoi pagare, ma talvolta anche se paghi, ti vendono ad altri gruppi, così il viaggio prosegue verso l’Egitto» continua don Zerai.

Molti rapimenti avvengono nei tre campi profughi di Shagarab, nella provincia di Kassala. L’Unhcr ha registrato 114.500 rifugiati eritrei in Sudan. Senza contare quelli non registrati. Per arrivare lì i migranti hanno già dovuto pagare 2-3.000 dollari ai «contrabbandieri» di esseri umani per farsi portare fuori dall’Eritrea. Altri vengono rapiti nei campi profughi in Etiopia, dove sono presenti oltre 70.000 eritrei.

Ma il rapporto delle ricercatrici racconta anche di sequestri avvenuti  in territorio eritreo, nelle città di confine, come Teseney e Golij, e addirittura in capitale, ad Asmara. Spesso i sequestri di giovani avvengono negli stessi campi militari eritrei e sono auto ufficiali a portarli oltre confine. Nell’ottobre 2013 si sono verificati 211 rapimenti di minori nel campo militare Sawa, per ognuno dei quali è stato richiesto un riscatto di 10.000 dollari. Racconta don Zerai: «Stando alle testimonianze di molti ragazzi ci sono militari eritrei coinvolti negli attraversamenti dei confini: basta pagare e vieni accompagnato con auto di stato fino alla frontiera, in alcuni casi addirittura in territorio sudanese. C’è un business, e qualcuno dei pezzi grossi militari ci sta guadagnando. Questa migrazione, inoltre, viene usata come valvola di sfogo dal regime: tenere tutti i giovani in casa senza cambiamento e prospettive si rischierebbero delle rivolte, come le primavere arabe in Nord Africa».

Esseri umani contro esseri umani

Elementi dell’Unità di controllo dei confini (Border surveillance unit, Bsu) sono coinvolti nel «contrabbando» di persone. I rapporti di monitoraggio delle Nazioni Unite citano il coinvolgimento del governo eritreo e di alti ufficiali nel traffico. In particolare il generale Teklai Kifle (detto Manjus), comandante della Bsu, e il colonnello Fitsum Yishak sono stati identificati dalle Nazioni Unite come i vertici del traffico in Eritrea.

In Sudan i trafficanti sono elementi delle tribù Rashaida e Hidarib, spesso accompagnati da loschi individui eritrei. Queste tribù sono imparentate a livello linguistico ed etnico con i beduini del Sinai ed è con loro che è nata l’intesa per il traffico. I Rashaida rapiscono i migranti eritrei in Sudan (anche dentro i campi profughi gestiti dall’Unhcr) e li trasportano in Egitto dove li vendono ad altri gruppi che li portano nelle prigioni clandestine (i campi di tortura) nel Sinai. Qui i beduini applicano le torture più atroci e obbligano i prigionieri a chiamare parenti e amici per chiedere di mandare i soldi del riscatto. I trasferimenti avvengono tramite Money Transfer verso intermediari in paesi terzi (ad esempio Arabia Saudita) senza alcuna tracciabilità. Nonostante il pagamento talvolta i prigionieri non vengono liberati, ma venduti ad altri trafficanti. Gli ostaggi liberati cercano di andare verso la Libia e poi tentano di attraversare il Mediterraneo con i barconi. Come molti dei morti del 3 ottobre. Altri ancora vanno verso l’Etiopia. In alcuni casi il riscatto viene pagato dai parenti direttamente in Eritrea, e questo fa pensare a coperture altolocate, in un paese dove nulla si muove senza che i servizi segreti lo sappiano.

Negli ultimi mesi del 2013 l’Egitto ha bombardato la zona dei campi di tortura per questioni di sicurezza con Israele. Questo ha fatto sì che alcuni trafficanti li spostassero altrove: «Le nuove “prigioni” sono a Sud dell’Egitto, nel triangolo Libia, Egitto, Sudan ma anche verso il Ciad. I testimoni ci dicono che sono passati di lì, da quell’inferno. Tenuti in container roventi dove venivano torturati per richiedere il riscatto con il solito sistema. Se non paghi ti vendono verso il Ciad. A novembre un somalo è stato arrestato a Lampedusa perché riconosciuto dagli eritrei come collaboratore dei trafficanti che li tenevano prigionieri. Lui li picchiava e abusava delle donne. E questo avveniva al confine Libia-Ciad. Adesso hanno vari punti di prigionia, anche verso il Niger. In Sinai i campi di tortura continuano a funzionare, ma non più come prima». «Sono circa 400 gli eritrei tenuti in ostaggio, oggi in Sinai. Alcuni sono incatenati nelle cantine delle case dei beduini, altri in case e altri ancora in tende nel deserto, ma è difficile localizzarli con esattezza. I metodi di tortura sono sempre gli stessi». Chi parla è Meron Estefanos, giovane giornalista eritrea che ha curato il rapporto citato insieme alle due ricercatrici olandesi.

Perché eritrei?

Il traffico pare molto più redditizio con gli eritrei che con etiopi, somali, sudanesi. Si stima che il 95% degli ostaggi in Sinai siano eritrei. Questo è dovuto a diversi fattori. Intanto la fuga di massa dal paese. Sono circa 5.000 gli eritrei che lasciano il paese ogni mese (4.000 per Unhcr). In secondo luogo i legami famigliari e sociali in Eritrea sono molto forti e la famiglia rimasta in patria mobilita interi villaggi per racimolare i soldi del riscatto. Vengono poi presi di mira figli e parenti di eritrei della diaspora, per la maggiore
disponibilità economica. Molte vittime del traffico sono minori, si contano anche bambini e bambine
piccoli e molti adolescenti in fuga dal servizio militare eritreo. Le ragazzine subiscono i traumi maggiori e spesso restano incinte.

La lotta al traffico di esseri umani non sembra essere prioritaria per i paesi di transito. «Non si può fare affidamento sui governi di Sudan ed Egitto, perché il
sistema è totalmente corrotto». Nel 2010 e 2011 l’Ong di don Zerai raccoglieva indicazioni precise sulle localizzazioni delle prigioni clandestine e le segnalavano alla polizia egiziana: «I militari sapevano dove stavano le prigioni clandestine ma non intervenivano, erano spesso a libro paga dei trafficanti. Inoltre questi ultimi sono molto armati, ed è successo che assaltassero le stazioni di polizia per prendere gli eritrei, profughi arrestati dai militari egiziani mentre cercavano di attraversare illegalmente la frontiera con Israele».

«Gli interessi militari egiziani in Sinai - continua Meron Estefanos - riguardano solo la caccia agli islamisti. Molte case prigioni sono state distrutte e 150 eritrei liberati. Purtroppo gli stessi sono stati poi arrestati dalla polizia egiziana. Il Sudan sta facendo molte promesse di lotta al traffico, ma esso è invece in forte aumento nel paese».

Deboli le voci di Ue e Italia

L’Unione europea e l’Italia non sembrano intervenire. Continua don Zerai: «È dal 2010 che bussiamo alla porta della Ue. All’inizio fecero una risoluzione affinché le autorità egiziane intervenissero contro questi campi di tortura nel loro territorio, ma l’Egitto negava l’esistenza del problema, anzi ci accusava di denigrare l’immagine del paese. Poi ha riconosciuto i fatti, quando Cnn e Bbc hanno documentato corpi martoriati e ferite dei sopravvissuti del Sinai, ma non ha fatto niente. Non vediamo i risultati delle pressioni diplomatiche della Ue. Anche in Italia è lo stesso: ci hanno promesso una commissione d’inchiesta sull’Eritrea. Ma, finora, è una delusione». Rincara Meron: «Non abbiamo avuto reazioni né dalla Ue né dall’Italia. L’unica notizia positiva è che la Svezia, a fine dicembre, ha dato asilo a 54 donne e un bimbo vittime del traffico in Sinai».

L’Italia è uno dei paesi che continua a mantenere contatti con il regime Afewerki. Denuncia ancora don Zerai: «Ue e Usa chiedono all’Italia di non rompere le relazioni, per essere un canale di contatto. Ma secondo quello che ci dicono alla Faesina (ministero degli Esteri italiano, ndr) il rapporto è piuttosto conflittuale. Poi ci sono degli affari loschi tra i due paesi. L’ultimo rapporto dell’inviato speciale dell’Onu accusa l’Italia di aver violato l’embargo sulle armi. Ci sono state vendite strane da parte di aziende e personaggi italiani all’Eritrea. Inoltre, i pezzi grossi del regime sono di casa in Italia quando invece non dovrebbero ricevere i visti. Questo rapporto non è ancora approvato, perché uno dei paesi che ha messo il veto è l’Italia».

Marco Bello

 
       La testimone                               
Interviste che lasciano il segno

«Quello che è duro in questo lavoro è parlare con gli ostaggi, l’attaccamento con loro. Diventano parte della mia famiglia. Sono molto colpita quando qualcuno con cui ho parlato muore. O quando magari sono io che devo comunicarlo alla famiglia. Una donna alla quale mi ero legata morì, e questo mi toccò moltissimo. Piango sempre quando sento il suo nome. Lei era stata rapita con suo figlio ed è stato difficile per me accettare la sua morte. Adesso sto cercando di adottare il suo bimbo. In questo senso la parte più dura del lavoro sono le loro storie. Continuerò a monitorare il traffico finché non finirà».

Meron Estefanos

Meron Estefanos è una giovane giornalista eritrea che vive in Svezia. Attivista dei diritti umani, fin dall’inizio ha lavorato sul traffico di esseri umani in Sinai. È coautrice di Human trafficking in the Sinai: refugees between life and death, e di The human trafficking cycle: Sinai and beyond, insieme a Mirjiam van Reisen e Conny Rijken (entrambe docenti alla Tilburg University, Paesi Bassi) e di numerosi articoli. Meron è cofondatrice della Inteational Commission on Eritrean Refugees in Stoccolma e nel 2011 ha ricevuto il Dawit Isaac Award.

       L’Ong Agenzia Habeshia                     


Una goccia di solidarietà

L’associazione fondata da don Mussie Zerai si chiama Agenzia
Habeshia. È costituita da eritrei e italiani. Oltre alla missione di informare,
fare conoscere le traversie dei migranti eritrei e la situazione dei diritti in
patria, l’associazione è diventata riferimento per rifugiati e richiedenti
asilo.

Dopo aver aiutato a salvarsi diversi migranti finiti nella
rete dei trafficanti del Sinai, oggi concentra le sue attività in progetti di
educazione. Offre borse di studio a giovani eritrei, in particolare donne, nei
campi profughi dell’Etiopia. Lo scopo è permettere loro di studiare per cercare
di costruirsi un futuro.

Don Zerai: «È un tentativo di frenare i giovani che spesso
fanno scelte dettate dalla disperazione. Vivere nei campi profughi vuol dire
stare fermi, senza speranze per il futuro. Più della metà dei morti del 3
ottobre sono partiti dai campi profughi degli eritrei in Etiopia. I giovani
dicono: “Sappiamo che c’è il rischio, ma tra morire lentamente qui e morire
tentando la sorte preferisco questa seconda opzione”».

Facendo visita ai campi don Zerai nota diverse tombe. Gli
dicono che sono ragazze morte di parto all’interno del campo, perché, oltre a
subire le violenze, poi non hanno nemmeno strutture sanitarie a disposizione:
«In un campo di 14.000 persone c’è una sola ambulanza. Perché non formare
infermiere e ostetriche che poi possano tornare nei campi a lavorare? Abbiamo
scelto donne che hanno subito violenze sessuali e abbiamo proposto loro di
studiare tre o quattro anni. Occorrono circa 3.000 euro all’anno per far
studiare una ragazza. «Siamo una goccia» conclude il sacerdote.

Ma.Bel.

Marco Bello




Eritrea 2: Regime succhia soldi e… 12 ceste di speranza

La tassa sulla diaspora


Si chiama
«diaspora tax». È il controverso tributo che il governo eritreo impone agli
emigrati sui redditi che producono all’estero (e che si aggiunge alle imposte
dovute agli stati che li ospitano).

Questa imposta è stata introdotta nel 1995 con la legge
n. 67 (Diaspora Income Tax Proclamation), ma in realtà ha una storia che
affonda le radici nella lotta per l’indipendenza contro l’Etiopia. Per
sostenere i guerriglieri contro l’esercito etiope, i movimenti indipendentisti
chiedono un sostegno economico agli emigrati. Gli espatriati rispondono con
entusiasmo. Ai ribelli arrivano così flussi importanti di denaro. Nel 1993,
raggiunta l’indipendenza, l’Eritrea è un paese distrutto che va ricostruito
dalle fondamenta. Asmara fa un nuovo appello agli emigranti affinché donino il
2% dei loro redditi. Ancora una volta la risposta è generosa.

Nel 1999 però scoppia una nuova guerra contro l’Etiopia.
Di fronte all’emergenza, Asmara chiede alla diaspora, oltre al 2%, una una
tantum
di un milione di lire italiane e un versamento mensile di 50 mila
lire. Il peso di questi contributi inizia a diventare elevato e negli emigrati
sorgono i primi dubbi sull’opportunità di pagare. Il sistema politico si sta
infatti trasformando in una dittatura e nasce il sospetto che i fondi servano
al rafforzamento del regime. Anche perché Asmara non rende conto di come
vengano utilizzati i soldi.

 

Gruppi di
eritrei iniziano così a chiedere di ridurre i contributi. Il regime non cede.
Gli eritrei che non pagano si vedono negata la possibilità di rinnovare i
documenti, compiere atti giuridici in patria (acquistare e vendere immobili,
partecipare alla successione testamentaria, ecc.), inviare aiuti ai familiari,
rientrare nel loro paese. Chi non ha redditi o lavora «in nero» deve dimostrare
la sua condizione con documenti dello stato ospitante o attraverso la
testimonianza di persone di fiducia di ambasciate o consolati.

Per Asmara l’imposta è una fonte di valuta estera che
fluisce nelle sue casse in contanti. Questo flusso di denaro insospettisce
l’Onu. Tanto che, con la risoluzione n. 1907/2009, il Consiglio di sicurezza
indica l’imposta come possibile fonte di finanziamento ai fondamentalisti
islamici somali. Sull’onda di questa risoluzione, Canada, Svezia, Svizzera e
Germania avviano indagini. Anche in Italia qualcosa si muove. Il 4 giugno 2013
l’associazione Eritrean Youth Solidarity for National Salvation invia
una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e il 26 luglio
l’onorevole Lia Quartapelle Procopio (Pd) presenta un’interpellanza al
ministero dell’Economia e delle Finanze per chiedere come l’Italia possa
intervenire per bloccare la riscossione. Ma per il momento nessuna iniziativa è
stata ancora assunta.

E.C.

       Storia di un’associazione di cattolici ed
evangelici uniti per l’Eritrea              

12 ceste di speranza ecumenica

L’associazione
Dodiciceste nasce nel 2004 dalla volontà comune di evangelici e cattolici, da
un pastore valdese, Bruno Giaccone, e un sacerdote cattolico, don Gianni Pavin
che ogni anno riunivano i loro fedeli per la preghiera ecumenica. Marilena
Terzuolo, tessitrice, moglie del pastore, ci racconta la genesi: «Un giorno
un’associazione di Padova mi cerca: volevano aiuto per un progetto di tessitura
in Eritrea. Io andai con loro un mese a insegnare alle donne eritree. Ma al
ritorno mi dissi: “facciamo qualcosa, diamo continuità. Fondiamo
un’associazione con i nostri amici cattolici”. E loro si dichiararono subito
disponibili».

L’associazione parte con due motivazioni: portare avanti
un cammino ecumenico e creare lavoro per persone che ne hanno bisogno. «Dodiciceste
è un’associazione ecumenica nata proprio per essere segno di comunione tra
cristiani di confessioni diverse che si riconoscono fratelli tra di loro nel
momento in cui c’è bisogno di mettere insieme quel poco che ognuno ha portato
con sé per condividerlo, dopo aver ascoltato gli insegnamenti del maestro di
Nazaret». Da qui il nome: dalle dodici ceste di avanzi della moltiplicazione
dei pani e dei pesci.

In un villaggio chiamato Segheneiti esisteva già una
scuola di tessitura gestita dalle suore cappuccine.

«Il primo obiettivo era creare dei piccoli gruppi di
lavoro – racconta Marilena -. Tra le donne che terminavano la scuola di
tessitura, a quelle che lo desideravano, l’associazione procurava un locale
dove lavorare pagando l’affitto per un anno, l’acquisto dei telai e un po’ di
materia prima e l’accompagnamento tecnico per i primi mesi».

Un’intuizione
socio-economica vincente: in Eritrea, dopo la lunga guerra con l’Etiopia,
mancavano i Netzelà, il vestito tradizionale indossato da tutte le donne
eritree. Questi erano infatti prodotti solo in Etiopia. Ma era difficile
iniziare un’attività, a causa della mancanza di fondi e di competenze.

Con 5.000 euro si riusciva ad avviare un gruppo di cinque
donne alla produzione di Netzelà, foendo i telai necessari.

«Tutti i gruppi che abbiamo aiutato a partire continuano
a lavorare. Tutto quello che producono lo vendono subito sul mercato locale.
Viene lavorato cotone coltivato nel paese nei telai costruiti localmente» dice
con orgoglio Marilena. «Lavorano senza padroni, senza inquinare l’aria e
l’acqua, senza bisogno di energie che non siano le loro braccia e la loro
intelligenza, senza sfruttamento da parte di nessuno. Ora queste donne possono
procurare un onesto e dignitoso futuro alle loro famiglie numerose».

Sono i gruppi stessi che dopo un anno di affitto
sovvenzionato dicono: «Ce la facciamo da sole, andate ad aiutare altre donne».
E questo è un risultato strabiliante. I gruppi si moltiplicano. A Segheneiti
diventano un centinaio le donne coinvolte.

Le suore
foiscono un valido appoggio logistico e culturale, aiutano Dodiciceste nella
gestione pratica e finanziaria quotidiana. L’associazione le appoggia pagando i
salari delle formatrici delle loro scuole di tessitura.

L’accompagnamento oltre che tecnico è anche
organizzativo. Ad esempio in ogni gruppo si mette in piedi un fondo di
solidarietà, che può servire in caso di necessità a una delle donne.

«Essendo un’associazione ecumenica siamo andati a vedere
cosa facevano gli evangelici in Eritrea. Ad Asmara avevano anche loro una
scuola di tessitura che ospitava ragazze prese dalla strada. Lì il contesto è
molto diverso. Ma non avevano quasi nulla». Dodiciceste fa quindi partire un
progetto anche ad Asmara insieme alla Chiesa evangelica. «Poi ci hanno detto
che a Keren esisteva l’unica scuola di sordi di tutto il paese, gestita dalla
Chiesa evangelica. Anche lì c’era un tentativo corsi di tessitura».

A Keren le suore cappuccine stavano aprendo in quel
momento una nuova casa, e gli evangelici avevano scarsità di insegnanti di
tessitura. «La superiora ha subito detto “possono venire da noi a imparare”. Si
sono impegnate a dare priorità agli insegnanti della scuola evangelica, i quali
in questo modo non si devono spostare in altri villaggi». La collaborazione tra
le due chiese diventa realtà.

«Anche
quando abbiamo lavorato con gli evangelici le suore sono sempre state con noi,
e ci sono stati dei momenti belli e significativi anche dal punto di vista
spirituale, con le preghiere in comune. I pastori della Chiesa evangelica e le
suore non si conoscevano neppure prima e la nostra associazione li ha portati a
collaborare».

Dodiciceste finanzia i progetti grazie ad alcune
fondazioni italiane, all’8×1000 della Chiesa valdese e a donazioni private. I
soci sono una trentina tra cattolici ed evangelici e vivono sparpagliati tra
Asti e Acqui Terme (Al). Continua Marilena: «Poi abbiamo lavorato qualche anno
in Mozambico con un frate cappuccino, appoggiando una falegnameria di base a
Quelimane». Un’esperienza che si è chiusa ma ha dato i suoi frutti perché la
falegnameria funziona e fornisce pure banchi alle scuole. In Eritrea
Dodiciceste lavora con altre due scuole di suore cappuccine nei villaggi di Adi
Quala e Eden: «Diamo un sostegno alla scuola di tessitura, pagando lo stipendio
delle insegnanti o comprando dei materiali».

Marilena
ricorda l’importanza della presenza: «Per la gente con cui realizziamo i
progetti è importante che andiamo in Eritrea. Ci chiedono sempre di andare
lavorare con loro. È una questione di esserci, di contatto, di amicizia. Oltre
che una trasmissione di competenze dal punto di vista tecnico». Ma diventa
sempre più difficile ottenere il visto per viaggiare nel paese africano: «Tempo
fa andavamo anche tre volte all’anno, poi sono passati tre anni prima che
riuscissimo a tornare nel 2013». Mentre è quasi impossibile mandare eritrei a
studiare all’estero, sia per la difficoltà di avere il permesso, e soprattutto
per il timore che non toerebbero più in patria.

La riconoscenza della gente è grande: «Nel luglio scorso
alla riunione a Segheneiti con il vescovo e gli amministratori dell’ospedale ci
hanno detto “ci siete solo voi come associazione che ci sostenete”. Qualche
anno fa c’è stata una carestia, allora abbiamo raccolto fondi per dare da
mangiare ai bambini dell’asilo delle suore, ma anche della scuola pubblica. Così
poi hanno fatto la festa dei bambini, l’8 dicembre, tutti insieme».
L’associazione ha un principio: lavorare con tutti, chiese, pubblico, privato.

Oltre al valore sociale ed economico delle attività di
Dodiciceste, è importante anche il risvolto culturale. Ricorda Marilena: «Se
fossero scomparsi i Netzelà sarebbe finita una tradizione, un modo di
essere, di esistere, che apparteneva proprio a loro e a tutte le donne che le
avevano precedute».

Marco Bello

Marco Bello




Eritrea 1: Dal paese senza diritti ai campi di tortura

2014: fuga dall’Eritrea





Prigione a cielo aperto

Venti
anni fa l’Eritrea diventa il cinquantatreesimo stato dell’Africa. Dopo una
lunga guerra d’indipendenza dall’Etiopia. Le speranze sono tante. C’è il
fermento di una nascita, un popolo che anela un futuro di libertà e
autodeterminazione. Ma ben presto il regime dell’ex guerrigliero Isaias
Afewerki diventa il più duro e repressivo del continente. Ogni libertà è
negata. Anche quella fisica. Solo una ristrettissima élite politica e militare
può fare tutto ciò che vuole. E controlla il paese. Così i giovani iniziano a
fuggire, e padri e madri vogliono portare i propri bambini lontano dalla «prigione
a cielo aperto».

Ma il diavolo è anche oltre confine. Nasce e fiorisce un
lucrosissimo commercio di «carne umana». Bambine, bambini, donne, uomini in
fuga dal regime sono rapiti, poi venduti e rivenduti. Fino ad arrivare nei «campi
di tortura» nel Sinai, e altrove. Qui subiscono trattamenti «disumanizzanti».
Perché tutto questo? Per soldi. Un giro d’affari di 622 milioni di euro dal
2009 a oggi. Nel silenzio quasi assoluto dei mezzi di informazione e dei
governi del mondo. Non fa audience, non fa spettacolo. Neppure quando i
sopravvissuti al traffico muoiono a un passo dalla terra promessa: l’Europa.

Marco Bello


     Perché oggi si fugge dall’Eritrea               


Giovane paese senza diritti

Nel 1993 l’Eritrea festeggia l’indipendenza dall’Etiopia. Ma
il suo regime si trasforma nella più feroce dittatura del continente. Un’intera
generazione è piegata e senza speranze. Meglio tentare la fuga, anche se ad
alto rischio.

«La
dittatura ci toglie anche l’aria», è questa la frase che si sente ripetere più
spesso dai ragazzi eritrei che arrivano sulle nostre coste. E niente come
questa espressione racconta meglio l’Eritrea, un paese tenuto in ostaggio da un
presidente-padrone, Isaias Afewerki, che l’ha trasformato in una sorta di
carcere a cielo aperto. 

I prodromi

Colonia italiana dal 1899 al 1941 (ma il primo
insediamento italiano ad Assab risale al 1869), diventa quindi protettorato
britannico e poi regione federata all’Etiopia, alla quale viene annessa nel 1962.
Già nel 1961 però il Fronte di liberazione eritreo (Elf) rivendica
l’indipendenza e dà il via alla guerra di liberazione che durerà fino al 1991.
Negli anni Sessanta il movimento indipendentista si spacca e un gruppo di suoi
membri dà vita al Fronte popolare di liberazione eritreo (Eplf), di impronta
socialista. In pochi anni l’Eplf acquisisce forza (anche grazie all’aiuto dei
paesi socialisti) e, nel 1982, affronta e sconfigge sul campo l’Elf.

Nel 1991, il regime etiope di Menghistu cade e Meles
Zenawi, divenuto presidente dell’Etiopia, dà l’assenso a un referendum per
l’autodeterminazione dell’Eritrea. Nella consultazione gli eritrei votano per
il di- stacco dall’Etiopia. Così, il 24 maggio 1993 il paese diventa
indipendente. È in questi anni che Isaias Afeworki, il capo carismatico
dell’Eplf, emerge come leader indiscusso. Sono in molti a pensare che sia
l’uomo adatto per aprire una stagione di democrazia e prosperità per il piccolo
paese sul Mar Rosso. In realtà, Isaias è un capo guerrigliero poco incline ai
metodi democratici che ha gestito con pugno di ferro l’Eplf: nessuna pietà per
i nemici, intransigente con gli oppositori interni. Quando diventa capo dello
Stato non cambia atteggiamento. 

Verso la dittatura

Nei primi anni dopo l’indipendenza, l’Eplf si trasforma
in Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (Pfdj) e, tra il 1994 e il
1997, dà vita a piccole riforme. Il governo promette anche di promulgare una
Costituzione democratica e multipartitica.

Nel 1997 il testo della carta è
pronto, però non entra in vigore e non vengono neppure indette elezioni.
Isaias, si autonomina capo dello stato e comandante supremo delle forze armate,
centralizza i processi decisionali. Il Pfdj diventa l’unico partito ammesso, i
suoi membri devono assicurare fedeltà assoluta al presidente il quale, a sua
volta, utilizza gli iscritti al partito per controllare ogni snodo vitale dello
stato. Anche il sistema giudiziario viene smantellato. I giudici non sono
indipendenti e decidono non in base ai codici (che esistono), ma in base ai
decreti presidenziali. Nel 1996 nasce la Corte speciale, un tribunale composto
da militari che giudicano in udienze segrete e con criteri «politici» chiunque
osi criticare
il regime.

Tutte le forme di dissenso vengono duramente represse.
Il caso più eclatante (e conosciuto) è l’arresto avvenuto il 18 settembre 2001
di un gruppo di ministri e funzionari, rei di aver chiesto l’applicazione della
Costituzione e delle libertà politiche e civili. Tra essi eroi della guerra di
liberazione dell’Etiopia, amici e compagni di Isaias, come Petros Solomon (capo
dell’intelligence, poi ministro degli Esteri e, infine, ministro delle Risorse
marittime), Hailè Woldensaye (ministro degli Esteri), Mohamud Ahmed Sharifo
(ministro dell’Inteo), Ogbe Abraha (Capo di stato maggiore). Di loro non si
saprà più nulla.

Secondo Amnesty Inteational, il governo del
presidente Isaias Afewerki ricorre «sistematicamente ad arresti e detenzioni
arbitrarie per reprimere tutta l’opposizione, mettere a tacere i dissidenti, e
punire chiunque si rifiuti di accettare il sistema repressivo. Migliaia di
prigionieri politici e di coscienza sono scomparsi mentre erano detenuti in
segreto e in isolamento, senza accusa né processo e senza avere contatti con il
mondo esterno. Tra i detenuti ci sono oppositori e critici – reali o sospetti –
del governo, politici, giornalisti, membri di gruppi religiosi registrati e
non, persone che cercavano di sfuggire o disertare il servizio nazionale
obbligatorio a tempo indeterminato o di scappare dal paese». 

Chiese e giornalisti

Nella classifica sulla libertà di stampa stilata ogni
anno dall’organizzazione Reporter senza Frontiere, l’Eritrea è
all’ultimo posto. Nel paese non esistono media indipendenti. Televisione e
giornali sono di proprietà dello stato e anche i servers che permettono
il collegamento all’Inteet sono rigidamente controllati dall’autorità
statale.

Il regime non si accanisce solo contro oppositori e
giornalisti. Come molte dittature, non tollera un ruolo attivo delle fedi. A partire
dai copti ortodossi, la Chiesa maggioritaria. Nei primi anni dall’indipendenza,
ai copti viene garantita una certa autonomia di azione, ma quando abuna
Antonio, un prelato critico nei confronti della deriva dittatoriale, viene
nominato Patriarca, il regime reagisce. Dopo varie intimidazioni, nel 2005 abuna
Antonio viene deposto, arrestato e sostituito con abuna Dioscoro. Anche
l’Islam, pur essendo una delle confessioni ammesse dallo stato (oltre alla
Chiesa copta, a quelle cattolica e luterana), sta conoscendo continue
persecuzioni. Il regime si accanisce in particolare contro i musulmani
wahabiti, sospettati di avere contatti con le formazioni fondamentaliste e
dell’opposizione eritrea all’estero. La Chiesa cattolica, che nel paese conta
quattro diocesi, non è indenne dalla repressione. Il governo non vede di buon
occhio un’organizzazione religiosa che opera nel settore sociale e tenta, in
tutti i modi, di limitae i campi di azione. I missionari sono stati espulsi e
il clero eritreo rimasto, oltre a dover adempiere agli obblighi di leva,
subisce controlli e vessazioni continue. Le confessioni più perseguitate sono
però quelle non riconosciute: testimoni di Geova, pentecostali, ecc. Secondo Amnesty
attualmente sarebbero detenuti 1.750 musulmani e cristiani di Chiese non
riconosciute senza alcuna accusa.

Un paese in grigioverde

Solo le forze armate, come osserva il rapporto di Inteational
Crisis Group
dal titolo Eritrea: Scenarios for Future Transition
(2013), mantengono un certo grado di autonomia, poiché Isaias fa peo sui
militari per gestire la nazione: il paese infatti è diviso in cinque regioni,
ciascuna retta da un generale con pieni poteri sul territorio di competenza che
risponde solo al presidente. Per assicurarsi la fedeltà dei militari, Isaias
garantisce loro privilegi economici e materiali e tollera alti livelli di
corruzione. Anche se è proprio in seno all’esercito che è nato il misterioso
tentativo di golpe del 21 gennaio 2013 culminato con l’occupazione del
ministero dell’Informazione e poi subito rientrato.

Da anni Isaias continua a giustificare il mancato
passaggio a un sistema democratico con il permanere dello stato di guerra. Il
dittatore si è infatti circondato di nemici. Nel 1999, a soli cinque anni
dall’indipendenza, è scoppiata una nuova guerra contro l’Etiopia per dispute di
confine che ha fatto decine di migliaia di morti. Ufficialmente le ostilità
sono cessate nel 2000, ma i due paesi vivono una situazione di tensione
latente. Negli anni successivi l’Eritrea ha poi avuto scontri con il Sudan,
accusato di sostenere le milizie islamiche eritree, e con Gibuti, per questioni
di confine.

Per sostenere questo interventismo, Isaias ha dato vita
a un servizio militare a tempo indeterminato. Ragazzi e ragazze vengono
arruolati a 17 anni e non conoscono la data del loro congedo. La leva permette
di controllare le nuove generazioni e di fornire manodopera gratuita nella
costruzione delle infrastrutture pubbliche. Le testimonianze dei giovani
denunciano una disciplina dura, vessazioni da parte degli ufficiali e,
soprattutto, l’impossibilità di continuare gli studi.

Questo sistema di arruolamento sta drenando le migliori
risorse del paese che si sta gradualmente impoverendo. Oggi più del 50% della
popolazione vive al di sotto del livello di povertà. Di fronte a un regime così
duro e intransigente, molti eritrei fuggono. Oggi la diaspora conta circa un
milione e mezzo di persone, quasi un quarto dell’intera popolazione eritrea.
Una cifra enorme se pensiamo che «solo» un sesto dei somali si sono rifugiati
all’estero, nonostante la Somalia sia un paese che vive da più di vent’anni una
terribile guerra civile.

Enrico Casale

Enrico Casali, Marco Bello




Acqua, Pane & Olio

Quaresima. Con marzo entriamo ancora una volta in un tempo
speciale di grazia che ci offre l’opportunità di riflettere, approfondire e
cambiare in meglio la nostra vita di fede. è
un pellegrinaggio di quaranta giorni per il quale non sono necessarie molte
cose. Anzi, più il bagaglio è ridotto ai minimi termini, più il viaggio è
spedito. Cosa mettere allora nello zaino per questi quaranta giorni? Mi
permetto di suggerire tre cose: acqua, olio e pane.

Acqua. Nasciamo nell’acqua,
viviamo d’acqua, siamo fatti d’acqua. Il vino è giornioso, il vino fa festa, ma
senza vino si vive, senz’acqua no. Allora in questo tempo via il vino, le
bibite, gli aperitivi, i succhi e tutte quelle altre cose inventate per far
bene prima di tutto a chi le produce. Toiamo all’acqua, alle «chiare,
fresche, dolci acque», alla «sor’Acqua, la quale è multo utile et humile et
pretiosa et casta». No, non l’acqua della pubblicità. Piuttosto quella del
digiuno, della sobrietà ed essenzialità. Viviamo giorni in cui molti digiunano
non per scelta ma per necessità. Quello non è digiuno, è povertà. Occorre fare
del digiuno una scelta, non un’imposizione. Una scelta di libertà dal
consumismo, dallo spreco, dall’accumulo di cose inutili. Un impegno di
giustizia: sprecare, usare male dei beni di questo mondo, accumulare più del
necessario, vivere sopra le proprie possibilità, è un grande atto di
ingiustizia verso i poveri, gli sfrutatti e gli schiavizzati del mondo.

Pane. Quante volte ho desiderato il nostro buon pane quando ero in Kenya:
profumato, saporito, nutriente. Non c’è biscotto o torta che tenga di fronte al
buon pane fresco di foo. Ma non è questo il pane da mettere nel nostro zaino
per il viaggio quaresimale. è piuttosto
il pane della Parola e dell’Eucarestia, il pane della preghiera come incontro
giornioso col Padre. Il pane che ci rende commensali di Dio e ci fa riconosecre
la presenza di Gesù in mezzo a noi, il vero pane spezzato che nutre la nostra
vita. Mangiare la Parola: dare tempo all’ascolto, alla meditazione, al
silenzio.
Siamo circondati di parole, fino alla nausea: voci, rumori, musica, sussurri e
provocazioni, immagini e suoni, una cacofonia incessante. Non hai né spazio né
tempo per pensare, capire, interiorizzare. Un bombardamento. Per questo diventa
essenziale lo slow-food servito nella preghiera, nel silenzio,
nell’adorazione, nella celebrazione dell’Eucarestia. Occorre sbocconcellare il
Pane della Vita per non correre il rischio di essere come i discepoli che sulla
barca nella tempesta «non avevano ancora capito il fatto dei pani» (Mc 6,52;
8,17-18).

Olio. Di oliva naturalmente. Quello biblico, quello che anche Gesù
conosceva e usava. L’olio dà sapore al cibo, bellezza alle donne e forza agli
atleti. L’olio è consacrazione per i preti, segno dello Spirito per i
battezzati e balsamo per le piaghe dei feriti. Si consuma nelle lampade per
dare luce nella notte e cacciare oscurità e paure. L’olio è segno della carità
e dell’amore vigilante. Carità che è condivisione ed elemosina (cioè «atto di pietas»,
amore concreto per l’altro fondato sull’imitazione e restituzione dell’amore di
Dio), gratuità e dono, accoglienza e perdono, impegno e giustizia. E tanto di
più, perché la misura dell’amore si trova solo in Dio.

Non c’è niente di nuovo in quanto vi ho scritto.
La liturgia ci ricorda questa trilogia (preghiera, elemosina e digiuno) fin dal
primo giorno di Quaresima con la lettura di Matteo 6. A tutti un buon cammino
quaresimale. Viaggiamo leggeri, portiamo l’essenziale.

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin-top:0cm; mso-para-margin-right:0cm; mso-para-margin-bottom:10.0pt; mso-para-margin-left:0cm; line-height:115%; mso-pagination:widow-orphan; font-size:11.0pt; mso-ascii- mso-ascii-theme- mso-hansi- mso-hansi-theme-}

Gigi Anataloni