Frutta, Verdura e Solidarietà: Nuove povertà e volontariato 

Anche a Torino si fruga nei cassonetti. Per mangiare, per
cercare qualcosa da rivendere. Come in tutta Italia, le famiglie che non
arrivano a fine mese sono sempre di più. In assenza di politiche pubbliche
tocca alle associazioni di solidarietà e volontariato intervenire per cercare
di alleviare la povertà. A questo scopo, nel 2011, è nata l’associazione «Terza Settimana»,
in cui oggi operano – tra gli altri – 120 ragazze e ragazzi delle scuole
superiori. Lo scorso anno questi volontari hanno consegnato a centinaia di
famiglie qualcosa come 70 mila chilogrammi di frutta e verdura. Una bella
lezione per tutti.

Torino, la città che nel 2006 ha
ospitato le Olimpiadi invernali, vive oggi una profonda crisi condividendo la
situazione di molti altri grandi centri urbani italiani. Abbiamo cominciato ad assistere a episodi a cui non eravamo
preparati, come il rovistamento nei cassonetti per cercare qualche prodotto
commestibile o qualche «rifiuto» da rivendere o riciclare. D’altra parte, i
negozianti testimoniano che, prima del 20 del mese, le persone in difficoltà
economica cominciano a cercare prodotti in superofferta o le sottomarche. In
alcuni casi, quando i commercianti lo permettono, si acquista facendo debiti
anche per acquistare il pane.

Da alcuni anni i media hanno iniziato a commentare una nuova realtà
sociale: le difficoltà di un numero crescente di famiglie italiane a
raggiungere la fine del mese perché i soldi finiscono prima. Di povertà eravamo
abituati a parlare, ma non dell’indigenza di chi ha un reddito, la vera novità
di questi ultimi anni.

FAMIGLIE SENZA CIBO (A CASA NOSTRA)

Nel 2011, durante un incontro sulle nuove
povertà, con alcuni colleghi insegnanti di religione delle scuole superiori di
Torino abbiamo commentato con preoccupazione i dati sul fenomeno rilevati nel
nostro paese. A quel punto abbiamo deciso che dovevamo fare qualcosa. Abbiamo
così iniziato un dialogo con alcuni importanti centri torinesi che si occupano
di assistenza e sostegno dei più deboli: il centro «Due Tuniche» della Caritas
diocesana e l’«Ufficio Pio» della Compagnia di San Paolo. L’incontro ha
confermato i dati rivelando che molte persone si rivolgono ai centri di
assistenza anche per chiedere un aiuto in cibo. È emerso così come siano ormai
migliaia le famiglie che ricevono generi alimentari da parrocchie, enti,
associazioni di volontariato. Per soddisfare le richieste delle famiglie prese
in carico, i vari centri pagano le spese alimentari presso alcuni punti
commerciali. Dato che tra i prodotti più carenti spiccavano quelli freschi come
la frutta e la verdura, attorno a questi generi alimentari abbiamo avviato
l’attività dell’associazione «Terza Settimana».

L’«EMPORIO SOLIDALE»: GRATUITÀ E VOLONTARIATO

«Emporio Solidale» è il nome del primo progetto della notstra
associazione. Nasce a fine 2011 grazie alla Compagnia di San Paolo. Esso si
ispira alla legge n. 155, entrata in vigore nel luglio 2003, che disciplina la «Distribuzione
dei prodotti alimentari a fini di solidarietà sociale». L’iniziativa prevede la
distribuzione gratuita agli indigenti di prodotti alimentari ortofrutticoli.

La frutta e la verdura vengono foite gratuitamente, ogni
settimana, da un importante partner privato, specializzato nell’ortofrutta: la «Ortobra
srl». Con due furgoni ci rechiamo ai mercati generali per caricare patate,
carote, insalate, carciofi, pomodori, broccoli, cime di rapa, kiwi, meloni,
banane e quant’altro a seconda della stagione. I prodotti vengono quindi
scaricati nella sede dell’associazione dove i volontari provvedono a preparare
le cassette, riempiendole a seconda della consistenza numerica della famiglia
aiutata. Infine, le cassette di frutta e verdura vengono portate da altri
volontari al domicilio dei beneficiari. Nel 2012 i nostri volontari hanno
effettuato circa 6.020 consegne, per un quantitativo di circa 70.000 kg di
ortofrutta, a 450 nuclei familiari per un totale di circa 1.660 persone tra cui
più di 400 sono bambini di età inferiore ai 10 anni.

Le persone in stato di temporanea difficoltà
(chi ha perso il lavoro o coloro che sono stati colpiti da un evento spiazzante
come la malattia, la separazione,…) possono accedere alla spesa gratuita di
ortofrutta rivolgendosi direttamente ai centri (Caritas, Ufficio Pio della
Compagnia di san Paolo, Centri di ascolto parrocchiali…) che, attraverso una
piattaforma web, ci comunicano le informazioni necessarie.

Tutto avviene senza uso di denaro e senza commercializzazione dei
prodotti. I costi per lo svolgimento dell’attività sono sostenuti dagli enti
segnalanti. A ciascuna delle persone beneficiarie si assegna una particolare
card elettronica – foita gratuitamente dalla «Qui Foundation» – con la quale
si garantisce la tracciabilità del prodotto dalla nostra sede al beneficiario.

Con l’Emporio Solidale l’associazione Terza Settimana sperimenta
un percorso in cui privati e imprese affrontano insieme problematiche sociali.
E ciò nella convinzione che soltanto una responsabilità sociale condivisa a
ogni livello della società può elaborare risposte efficaci alla crisi, aprendo
nuove prospettive di collaborazione. In questo senso la crisi che stiamo
attraversando può essere vista come un’opportunità.

IL «SOCIAL MARKET»

La legge finanziaria del 2008 (all’art.1 c. 266-268) riconosce ai
cittadini la possibilità di creare dei «gruppi di acquisto solidali». Si tratta
di soggetti associativi senza scopo di lucro costituiti al fine di svolgere
attività di acquisto collettivo di beni e distribuzione dei medesimi – senza
applicazione di alcun ricarico -, esclusivamente agli aderenti, con finalità
etiche, di solidarietà sociale e di sostenibilità ambientale, in diretta
attuazione degli scopi istituzionali e con esclusione di attività di
somministrazione e di vendita.

Partendo da questa base normativa, nell’ambito
degli interventi messi in atto per arginare la povertà, a inizio 2013 abbiamo
aggiunto all’«Emporio Solidale» il progetto di un «Social Market», un gruppo di
acquisto collettivo denominato Rap, «Rete di acquisto partecipato».

Il Social Market è un esempio di quella che tecnicamente
viene chiamata Big society, che tradotto in slogan diventa «meno Stato, più
società» ovvero «fare di più con meno risorse e rendere i cittadini più
corresponsabili». Un supermercato solidale «fatto dalla gente per la gente».

La Rete di acquisto partecipato compera i prodotti attraverso
Terza Settimana presso le piattaforme da cui si rifoiscono i supermercati o,
quando possibile, direttamente dai produttori.

In questo modo abbiamo valutato che si può già ottenere un risparmio
medio complessivo del 20-30% rispetto ai prodotti venduti presso i supermercati
(dato ricavato dalla media dei prezzi di un paniere fisso confrontato con i
rivenditori più economici presenti sul mercato).

La filosofia del progetto dedica anche particolare
attenzione all’elaborazione di una forma di reciprocità proposta ai beneficiari
che, se lo vorranno, potranno «restituire» in termini di ore-volontariato da
effettuare nel supermarket o all’Emporio Solidale con un impegno di 4 ore al
mese. Naturalmente l’applicazione di questo principio avverrà qualora
disponibilità e condizioni dei beneficiari lo permettano.

Con il Social Market continua l’impegno di Terza Settimana per
camminare accanto alle persone che si trovano in difficoltà, sostenendole nella
loro situazione di riduzione del reddito con proposte che permettano loro di
non sentirsi escluse, anche se colpite dalla «trasformazione economica».
Insomma, il salto tra un reddito pieno e una sua diminuzione non deve essere
motivo di emarginazione sociale e disperazione.

LA CARICA DEI VOLONTARI

Il lavoro dell’associazione è reso possibile grazie a un folto
gruppo di volontari che fanno funzionare i due centri di Borgo San Paolo: 40
adulti e 120 ragazzi e ragazze delle scuole medie superiori nel 2012 hanno
svolto 4.800 ore di volontariato.

L’iniziativa ha raccolto intorno a sé un significativo numero di
persone che si sono presentate per offrire il proprio contributo.

Siamo poi rimasti favorevolmente stupiti dalla risposta ricevuta
dagli studenti delle scuole medie superiori. Tanti ragazzi e ragazze si
alternano – sono una ventina a settimana – per dare braccia e gambe al cuore:
preparano, caricano e scaricano, consegnano le derrate alimentari. Tutto con la
semplicità e l’allegria che li contraddistingue. Constatano direttamente i
frutti del proprio operato e questo li rende ancora più motivati.

Racconta Carlotta: «Quando prepariamo le cassette di frutta e
verdura per le famiglie, controlliamo quello che arriva selezionando un
prodotto da distribuire che sia il più possibile integro. Lo scarto che prima
gettavamo nei cassonetti della differenziata adesso lo appoggiamo all’esterno
del negozio e mi stringe il cuore quando si forma un silenzioso e costante
avvicinamento di persone che raccolgono quello che noi scartiamo».

Ed Eduardo: «Un venerdì pomeriggio ci fermiamo da una famiglia per
la consueta foitura di frutta e verdura. Una signora sola con quattri figli.
La signora ha cercato di mostrarsi non bisognosa di aiuti dicendo che se
avevamo qualcun altro a cui dare quei prodotti avremmo potuto farlo. La figlia
più grande da dietro le spalle della madre ci implorava a segni di non
ascoltarla perché ne avevano invece un’estrema necessità. Ho capito come sia
difficile accettare questa nuova condizione».

Tra gli studenti alcuni arrivano a causa di un provvedimento di
sospensione dalla scuola per motivi disciplinari. Arrivano spesso «imbronciati»,
forse per timore di vedersi giudicati, ma quando si accorgono di essere
considerati esattamente come ogni altro volontario sparisce la diffidenza e
inizia per loro la giornata di riscatto. Scoprendo qualcosa che non si
aspettavano.

Bruno
Ferragatta
docente di religione
presso il Liceo scienze umane Regina Margherita, a Torino. Nel 2011 è stato tra
i fondatori dell’associazione «Terza Settimana».

 
I dati del fenomeno

LA POVERTÀ
ARRIVA SENZA BUSSARE

In Italia, la povertà si sta
diffondendo a macchia d’olio. Pare incredibile, ma oggi milioni di persone
chiedono un pacco alimentare o un pasto gratuito.

Negli ultimi 3 anni, in tutti
i paesi ricchi le persone che non hanno disponibilità di cibo sufficiente per
alimentarsi correttamente sono aumentate del 7 per cento. Gli italiani poveri
che hanno chiesto un pacco alimentare o un pasto gratuito ai canali no profit
hanno toccato quota 3,3 milioni. È quanto emerge dai dati Agea, presentati in
occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione (16 ottobre), che
evidenziano una situazione allarmante anche sul territorio nazionale dove gli
effetti della crescente disoccupazione e delle difficoltà economiche si sta
facendo sentire anche a tavola.

La spesa alimentare è
diventata il problema principale che quotidianamente debbono affrontare le
famiglie povere in Italia. La stragrande maggioranza dei poveri (circa il 69
per cento) ha infatti modificato la quantità e/o qualità dei prodotti
alimentari acquistati.

Anche l’Istat, nel suo ultimo
rapporto sulla povertà in Italia, rafforza questo allarme parlando di 8 milioni
di poveri. Nel 2011 (ultimo anno con statistiche ufficiali), l’11,1% delle
famiglie è stato relativamente povero e il 5,2% lo è stato in termini assoluti.
La soglia di povertà relativa per una famiglia di due componenti è pari a
1.011,03 euro. La povertà colpisce quasi un quarto delle famiglie al Sud con un
tasso di povertà relativa pari al 23,3% di cui l’8% è povero tra i poveri.

La sostanziale stabilità della
povertà relativa rispetto al 2010 deriva dalla compensazione del peggioramento
della povertà per le famiglie in cui non vi sono redditi da lavoro o vi sono
operai – spiega l’Istat – con la diminuzione della povertà tra le famiglie di
dirigenti o impiegati.

In particolare, l’incidenza
della povertà relativa aumenta dal 40,2% al 50,7% per le famiglie senza
occupati né ritirati dal lavoro e dall’8,3% al 9,6% per le famiglie con tutti i
componenti ritirati dal lavoro, essenzialmente anziani soli e in coppia. Tra
quest’ultime aumenta anche l’incidenza di povertà assoluta (dal 4,5% al 5,5%).

Decine di migliaia di utenti
ogni anno popolano i servizi pubblici e privati per chiedere un aiuto
economico. Purtroppo dal 2008 il trend di crescita ha registrato un incremento
del 25% annuo.

Continua a crescere la quota
di famiglie che «si sentono indifese nel far fronte a spese impreviste» (dal
32,0% del 2008 al 33,4% nel 2009), con tassi di crescita omogenei, anche se su
grandezze differenziate sul territorio nazionale.

Sintomo di un permanente e
accentuato senso di vulnerabilità e di fragilità della propria posizione
sociale. Crescono anche – concentrate al Nord e al Centro – le famiglie rimaste
indietro con il pagamento dei debiti diversi dal mutuo (dal 10,5% al 13,6%) e
le famiglie del Centro e soprattutto del Nord (dove si registra in assoluto la
crescita più forte di questo tipo di disagio, dal 4,4% al 5,3%) che dichiarano
di non avere avuto sufficienti «soldi per acquistare cibo», sintomo
estremamente preoccupante dell’irrompere della crisi, nei suoi aspetti più
severi come l’impatto sul regime alimentare, in aree tradizionalmente «forti»
dal punto di vista economico. Al Sud d’Italia l’impatto della crisi è stato
meno evidentemente percepibile e anzi, grazie al raffreddamento dei prezzi,
l’incidenza presenta una flessione. Non va però dimenticato che, nelle regioni
meridionali, questo tipo di disagio ha assunto da tempo carattere endemico.

Bruno Ferragatta
 
Entrarenel Social Market

Le persone che vogliono far
parte del Rap nel «Social Market» debbono avere alcuni requisiti di fondo:

• assenza di reddito o
drastica diminuzione di reddito o reddito incapiente;
• essere segnalati da un Ente
convenzionato.

L’Ente inviante durante l’operazione
di filtro dovrà stabilire quale può essere la quota di partecipazione del
beneficiario.

 
Associazione «Terza Settimana»

Anno fondazione: 31 marzo
2011.
Sedi: due, in Borgo San Paolo,
a Torino.
Telefono: 011.7650229.
Sito web: www.terzasettimana.org.
Soci: Giovanni Biano
(presidente), Mario Panza (responsabile cornordinamento giovani), Gian Mario
Ruggeri, Meck N’Dongala (riferimento organizzativo progetto Rap); Bruno
Ferragatta.
Partners principali: Ortobra
srl, Compagnia di San Paolo, Qui Foundation, Azienda territoriale casa di
Torino.
Collaborazioni: associazione «Amici
Missioni Consolata» (ogni mese effettua una raccolta alimentare che va a
incrementare le disponibilità; la prof. Silvia Perotti, ex presidente
dell’associazione, partecipa anche in veste di volontaria); Scuola media Meucci
di Torino; Istituto superiore Norberto Bobbio di Carignano; Forum del
Volontariato (garante con le scuole per gli aspetti assicurativi riservati agli
studenti); Sportello Scuola Volontariato; Idea Solidale; Cooperativa Di
Vittorio.

Bruno Ferragatta




Celle senza finestre

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 09
Il tema della libertà religiosa è al centro delle preoccupazioni
della Chiesa. Lo ha ribadito mons. Mamberti, segretario vaticano per i Rapporti
con gli Stati, alla XXII Sessione del Consiglio dei Diritti dell’Uomo delle
Nazioni Unite. E intanto in diverse zone del mondo le violazioni di questo
diritto fondamentale proseguono con medesima se non aumentata forza, come
testimoniano le situazioni di alcuni paesi asiatici tra cui India, Pakistan,
Vietnam e Cina.



La situazione della libertà religiosa nel mondo è un fenomeno da
monitorare costantemente. Il quadro descritto dagli ultimi rapporti delle
organizzazioni che si dedicano allo studio delle violazioni delle libertà dei
credenti in tutto il pianeta è a tratti sconfortante, anche se non mancano
segnali di speranza.

È passato inosservato, in questo tempo eccezionale di cambiamenti
pontifici, un intervento della diplomazia della Santa Sede in seno alle Nazioni
Unite. «La Santa Sede continuerà a dare il suo contributo ai dibattiti in sede
internazionale, per proporre una riflessione essenzialmente etica ai processi
decisionali, e per aiutare a tutelare la dignità della persona umana». È quanto
affermato a Ginevra da monsignor Dominique Mamberti, segretario vaticano per i
Rapporti con gli Stati, alla XXII Sessione del Consiglio dei Diritti dell’Uomo
delle Nazioni Unite. Mamberti ha citato le parole della Caritas in veritate
(n. 43) di Benedetto XVI riguardo ai diritti individuali: «Si è spesso notata
una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla
trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di
acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe
regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli»,
e ha esortato gli Stati a lavorare insieme, in uno spirito di dialogo e
apertura, per adottare le risoluzioni in modo consensuale, auspicando che «l’imposizione
di nuovi diritti e principi [venga] rimpiazzata dal rispetto e dal
rafforzamento di quelli già approvati». Tra le preoccupazioni della Santa Sede
al primo posto si colloca il destino delle minoranze religiose e in generale la
libertà di credo. «Il diritto internazionale – ha detto Mamberti – è piuttosto
sostanzioso a questo riguardo. Allora perché continua a essere uno dei diritti
più frequentemente e più diffusamente negati, limitati nel mondo?». Tra le
cause delle violazioni Mamberti elenca «una legislazione statale carente, la
mancanza di volontà politica, il pregiudizio culturale, l’odio e l’intolleranza»,
e infine sostiene che la chiave fondamentale per promuovere la libertà di
religione è riconoscerla come radicata nella dimensione trascendente della
dignità umana: la libertà di religione promuove l’idea di una libertà che non
si riduce all’esclusiva dimensione politica o civile, ma si pone al di là di
essa, in quanto mette un limite allo stesso stato e costituisce una protezione
della coscienza dell’individuo dal potere statale. «Quando uno stato la tutela
in modo adeguato, la libertà di religione diventa una delle fonti della sua
legittimità, e un indicatore primario di democrazia».

Pakistan: leggi blasfeme

Pakistan, India e Cina, ma anche paesi meno rappresentati sui
media inteazionali come Birmania, Myanmar, Vietnam e Cambogia, presentano
limitazioni molto pesanti alla libertà di religione.

Alessandro Speciale di vaticaninsider.lastampa.it ci
informa che «in India, continuano a crescere le leggi anticonversione, con una
lunghissima lista di attacchi alle minoranze, spesso perpetrati da gruppi
appartenenti al movimento nazionalista indù del Sangh Parivar», mentre
leggendo il rapporto 2012 di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) constata che «per
il Pakistan, il 2011 è stato un “anno terribile”, cominciato con l’omicidio a
gennaio del governatore del Punjab, Salman Taseer, proseguito il 2 marzo con
l’uccisione del ministro federale per le Minoranze, il cattolico Shahbaz
Bhatti, e passato per l’incriminazione di 160 persone in base alla famigerata
legge antiblasfemia, con casi antichi come quello di Asia Bibi […], e nuovi
come quello di Rimsha Masih che sono saliti tristemente all’onore delle
cronache mondiali».

«Prega il Signore e scrivi al presidente del Pakistan per
chiedergli che mi faccia ritornare dai miei familiari»: Asia Bibi, detenuta da
oltre mille giorni nel carcere pakistano di Sheikhupura perché cristiana, ha
scritto una lunga lettera dalla sua cella «senza finestre». Pubblicata
integralmente da «Avvenire» nel dicembre scorso, essa ha dato il via a una
campagna di raccolta firme per chiedere al presidente del Pakistan, Asif Ali
Zardari, la liberazione della donna. «Un appello – ci informa Ilaria Sesana di “Avvenire”
– cui, in queste settimane, hanno aderito più di 30mila persone. Un risultato
straordinario – prosegue Ilaria Sesana -, che ha visto coinvolti uomini e donne
di ogni età e di ogni ceto sociale. Dal Nord al Sud dell’Italia (e persino
dall’estero) sono arrivati migliaia e migliaia di messaggi per chiedere al
presidente Zardari di intervenire in favore di Asia Bibi […]. Intere famiglie
si sono mobilitate per questa iniziativa, con raccolte di firme tra amici,
familiari, nelle scuole e sul luogo di lavoro. Un grande contributo è stato
dato da decine di parroci che, oltre a impegnarsi nella raccolta di firme al
termine delle funzioni religiose, hanno portato avanti un’attenta opera di
sensibilizzazione tra i fedeli».

VIETNAM: CONTRO LE «CHIESE IN CASA»

Raccogliendo testimonianze tra la folla di piazza San Pietro il
giorno prima delle dimissioni di papa Ratzinger Asianews ha riportato le
parole di alcuni sacerdoti asiatici, tra cui quelle di p. Giuseppe, originario
di Hue, nel Vietnam centrale: «”La Chiesa del Vietnam ha bisogno di
testimonianze di vita e di fede” e Benedetto XVI è stato “un modello
e una guida” in una nazione governata da un “regime comunista che
ancora oggi limita la libertà religiosa”. È questo il primo pensiero di un
sacerdote vietnamita, confuso fra la folla che gremisce piazza San Pietro in
attesa di salutare per l’ultima volta il suo “amato Papa” che da
domani lascerà il soglio pontificio. […] “Nella nostra società –
aggiunge il sacerdote – la fede non è ancora così radicata e sviluppata, per
questo è importante promuoverla e diffonderla con l’opera di annuncio”. Il
sacerdote ricorda inoltre il notevole contributo fornito dal papa per la
ripresa dei rapporti diplomatici fra Santa Sede e Hanoi, ma resta ancora molto
da fare e “guardiamo al futuro speranzosi, mettendoci nelle mani di
Dio”».

Da un focus di Porte Aperte sul paese indocinese apprendiamo che «dal
gennaio 2013 il Vietnam ha aggiornato la propria legislazione in materia di
libertà religiosa attraverso il Decreto sulla Religione ND-92 lanciando un
messaggio molto chiaro: lo Stato ha intenzione di controllare da vicino la
diffusione della religione, in particolare del cristianesimo. Questo decreto di
fatto completa quello emesso nel 2005 e – sostiene Porte Aperte – […] se
applicato interamente […] potrebbe criminalizzare il movimento di comunità
cristiane familiari (o chiese in casa, house church), una rete di chiese
che esiste da oltre 25 anni. Anche se venisse applicato irregolarmente comunque
potrebbe rappresentare una minaccia per l’esistenza di questa importante rete
di cristiani vietnamiti». Inoltre «il decreto giustifica la pesante burocrazia
relativa alle pratiche religiose, che di fatto dimostra di considerare la
religione come una minaccia alla sicurezza nazionale e culturale».

Cina: il bastone e la carota

«ChinaAid, una grande organizzazione statunitense di
sostegno ai cristiani perseguitati – ci informa Marco Tosatti di vaticaninsider.lastampa.it
-, ha reso noto [di recente] il suo rapporto annuale sulla situazione della
libertà religiosa nelle terre governate da Pechino. E la conclusione è che la
situazione si sta deteriorando per il settimo anno di seguito. Il rapporto [sul
2012] si basa su 132 casi di persecuzione, cha hanno coinvolto 4.919 persone.
Il numero degli individui giudicati in tribunale è cresciuto del 125 per cento,
rispetto all’anno precedente; e il “tasso” di persecuzione, secondo quanto
sostengono a ChinaAid è cresciuto del 41.9 per cento se paragonato al
2011. Come è ormai triste tradizione, sono soprattutto le “chiese domestiche”,
meno controllabili, a essere nel mirino delle autorità cinesi. Ma c’è anche un
fattore congiunturale, che ha reso più dura la situazione, e cioè una volontà
precisa da parte del governo e del Partito».

«ChinaAid – prosegue Marco Tosatti – prende in esame sei
elementi: il totale delle cifre sulla persecuzione, il numero delle persone
colpite, il numero degli arrestati, il numero dei condannati, il numero dei
casi di violazioni dei diritti e il numero delle vittime di questi abusi.
Rispetto al 2011, il totale delle cifre relative alle sei categorie è cresciuto
del 13.1 per cento. E se si considerano i sette anni precedenti, si osserva che
il trend di peggioramento persiste, sulla base di un incremento annuale del
24.5 per cento per tutte e sei le categorie considerate. Secondo gli analisti
di ChinaAid, la persecuzione del 2012 non è stata solo una prosecuzione
della pratica, presente nel 2008 e nel 2009 di “prendere a bersaglio le chiese
domestiche e i loro leaders nelle aree urbane”, o di quella del 2010 di “attaccare
i gruppi di legali difensori dei diritti umani cristiani, e di usare
maltrattamenti, tortura e tattiche mafiose”, e neanche della strategia del 2011
di aumentare di intensità gli attacchi contro i cristiani e le chiese
domestiche che hanno un impatto sulla società. C’è stato un cambiamento di
strategia, e la sua ragione può essere trovata in un documento emanato dai
Ministeri della Sicurezza Pubblica e degli Affari Civili, che affrontava il
tema del completo sradicamento delle Chiese domestiche. Il documento, curato
dall’amministrazione statale per gli Affari Religiosi, indica grosso modo tre
fasi dell’operazione. La prima, dal gennaio al giugno del 2012, prevedeva
intense, complete e segrete indagini sulle chiese domestiche, in tutto il
paese, e la creazione di archivi su di esse. La seconda fase dovrebbe durare
dai due ai tre anni, e basarsi sull’eliminazione graduale delle Chiese
domestiche che sono state schedate, per giungere, in un periodo decennale, alla
completa cancellazione del fenomeno. E in effetti a questo scopo sono stati
usati vari sistemi di bastone e carota; chiusura delle chiese, invio nei campi
di lavoro dei leaders, e nello stesso tempo tentativo di convincerli a
entrare nel sistema di chiese controllato dallo Stato e dal Partito».

«Il rapporto – conclude Tosatti – si chiude però su toni
lievemente ottimistici. Il 18mo Congresso nazionale avrebbe chiuso un’epoca di
ideologia di estrema sinistra. “ChinaAid è prudentemente ottimista,
scrive il Rapporto, perché a dispetto della crescente persecuzione e dei
cambiamenti politici del 2012, la Chiesa rimane ferma, e fiorente come i cedri
del Libano e gli alberi piantati vicini alle correnti, che al tempo stabilito
danno frutti abbondanti”».

Non a caso uno degli ultimi appelli di Benedetto XVI prima della
sua rinuncia è stato in favore della Chiesa cattolica in Cina: «Raccomando alle
preghiere vostre e dei cattolici di tutto il mondo la Chiesa in Cina, che come
sapete, sta vivendo momenti particolarmente difficili».

Luca Rolandi
Gioalista di Vatican Insider

Luca Rolandi




Nella rete col Vangelo

XLVII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali
I nuovi media e i social networks modificano la vita quotidiana
dei singoli e del mondo intero, spesso entusiasmando, spesso intimorendo. Come
ogni realtà «rivoluzionaria» essi presentano molti rischi e grandi opportunità.
Soprattutto su queste ultime si sofferma il messaggio del papa per la giornata
mondiale delle comunicazioni sociali 2013 partendo da una considerazione
fondamentale: «Le reti sociali sono […] alimentate da aspirazioni radicate
nel cuore dell’uomo».

Se mai ci fosse qualche dubbio sull’importanza crescente che i
cosiddetti «nuovi media» hanno nella nostra vita, basterebbero due fatti per
eliminarlo. La sera dell’elezione del nuovo papa Francesco, il cardinale
protodiacono fa precedere la benedizione urbis et orbis dalla formula
con la quale è concessa l’indulgenza plenaria dicendo: «A quanti ricevono la
sua benedizione a mezzo della radio, della televisione e delle nuove tecnologie
di comunicazione…». Il secondo fatto, tratto da quella stessa sera, è piazza
San Pietro che diventa una distesa di punti luminosi per le fotografie scattate
a milioni con macchine digitali, tablet e smartphone: una scena
impensabile otto anni fa, all’elezione di papa Benedetto XVI. Otto anni
soltanto, che sembrano secoli.

Se la tecnologia avanza a passi da gigante, da sempre la Chiesa è
attenta alle sue ricadute sulla comunicazione, perché il Vangelo va comunicato
a uomini di ogni epoca e cultura.

Benedetto XVI e internet

Lo stesso Benedetto XVI, nel messaggio intitolato «Reti sociali:
porte di verità e di fede; nuovi spazi di evangelizzazione», reso noto lo
scorso 24 gennaio per la 47ª Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali, in
programma il 12 maggio, si soffermava sullo «sviluppo delle reti sociali
digitali che stanno contribuendo a far emergere una nuova “agorà”, una piazza
pubblica e aperta in cui le persone condividono idee, informazioni, opinioni, e
dove, inoltre, possono prendere vita nuove relazioni e forme di comunità». E
osservava: «Lo sviluppo delle reti sociali richiede impegno: le persone sono coinvolte
nel costruire relazioni e trovare amicizia, nel cercare risposte alle loro
domande, nel divertirsi, ma anche nell’essere stimolati intellettualmente e nel
condividere competenze e conoscenze. I network diventano così, sempre di più,
parte del tessuto stesso della società in quanto uniscono le persone sulla base
di questi bisogni fondamentali. Le reti sociali sono dunque alimentate da
aspirazioni radicate nel cuore dell’uomo».

L’ambiente digitale è ormai «parte della realtà quotidiana di
molte persone, specialmente dei più giovani. I network sociali sono il
frutto dell’interazione umana, ma essi, a loro volta, danno forme nuove alle
dinamiche della comunicazione che crea rapporti: una comprensione attenta di
questo ambiente è dunque il prerequisito per una significativa presenza
all’interno di esso. La capacità di utilizzare i nuovi linguaggi è richiesta
non tanto per essere al passo coi tempi, ma proprio per permettere all’infinita
ricchezza del Vangelo di trovare forme di espressione che siano in grado di
raggiungere le menti e i cuori di tutti. […] Una comunicazione efficace, come
le parabole di Gesù, richiede il coinvolgimento dell’immaginazione e della
sensibilità affettiva di coloro che vogliamo invitare a un incontro col mistero
dell’amore di Dio». Per questo, papa Ratzinger concludeva: «Quando siamo
presenti agli altri […] siamo chiamati a far conoscere l’amore di Dio sino
agli estremi confini della terra», anche e sempre di più, quindi, nel mondo di
Inteet.

Un nuovo assetto di uomo

Non a caso, lo scorso gennaio, mons. Cesare Nosiglia, Arcivescovo
di Torino, incontrando i giornalisti in occasione della festa di San Francesco
di Sales, loro patrono, ha ricordato che «anche i media entrano ormai
prepotentemente nella questione antropologica e dunque in quel nuovo assetto di
uomo che si sta delineando mediante la scienza e la cultura».

Chiunque accede ai social networks può aumentare le sue
conoscenze e migliorare la sua posizione all’interno di un gruppo (ci asteniamo
dal considerare qui la possibilità che qualcuno si presenti non per quello che è,
ma secondo quello che vorrebbe essere). Così, da un lato, queste tecnologie
rivoluzionano la comunicazione e la vita in tutti i settori, rendendo
possibili, ad esempio, lo scambio di informazioni e cultura, l’acquisto di
beni, o addirittura interventi chirurgici a migliaia di km di distanza. Ai
giovani, in particolare, i nuovi media consentono di «frequentare» corsi di
lingue, di fotografia e altro, di condividere gratuitamente la loro passione e
le loro competenze con altri «utenti», di scoprire (in mezzo a tanta «spazzatura»)
nuovi talenti musicali, artistici, culturali… Al punto che, soprattutto per
loro, i social networks sono non uno strumento, ma un’estensione delle
loro relazioni, «territori» sempre presenti, quasi una quarta dimensione della
vita. Dall’altro lato, questi media fanno nascere problemi sociali in milioni
di persone, ancora una volta soprattutto giovani, perché ne modificano la vita
e quindi la personalità. In un numero crescente di ragazzi la «dipendenza» dai social
networks
è paragonabile a quella creata dalla droga: quando non possono
collegarsi alla «rete», hanno «crisi di astinenza». I giovani (e non solo) si
imbevono, credono a quanto conoscono sui social networks, e le fonti non
sempre sono nitide. Occorre così aiutarli a disceere e abituarli a relazioni
personali reali: qualcuno fa persino l’amore in webcam.

Nello stesso tempo, la diffusione di commenti, notizie e
fotografie personali, talora all’insaputa del diretto interessato, porta anche
a epiloghi drammatici. Paradigmatico della fragilità e del cinismo spietato che
talvolta caratterizzano il vivere di tanti giovani è stato, alcuni mesi fa, il
caso di Amanda Todd, un’adolescente di Vancouver, Canada: un amico più grande di
lei la convince a inviargli una sua foto a seno nudo. Lei, all’epoca dodicenne,
non sa opporsi. Salvo accorgersi, tempo dopo, che la sua foto osé è diventata
di dominio pubblico: agli immancabili insulti si aggiungono perfidi consigli.
Alla fine lei, quindicenne, dà addio alla sua esistenza. La sua morte crea
un’ondata di moralismo ipocrita: si accusano la famiglia, la scuola, i
compagni, ma alla fine tutti ne escono (auto)giustificati.

Più chat meno
sentimento

Già nel «lontano» 1995, lo psicologo americano Daniel Goleman
parlava di «analfabetismo emotivo», intendendo con questa espressione da un
lato la mancanza di consapevolezza delle proprie emozioni e dei comportamenti a
esse associati, dall’altro l’incapacità a relazionarsi con le emozioni altrui e
con i relativi comportamenti, non riconosciuti e compresi. L’uso crescente dei
nuovi media favorisce la diffusione di relazioni mediate, e quindi la difficoltà
a riconoscere e capire le emozioni proprie e dell’altro. In ogni caso, «svelarsi»
in un social network non può appagare il desiderio di una relazione
personale «reale». Lo conferma Chiara Micheletti, psicologa e psicoterapeuta
del Centro di Sessuologia medica dell’Ospedale San Raffaele-Resnati di Milano: «Il
rapporto prolungato con lo schermo e la tastiera, le risposte telegrafiche,
superficiali, spesso schematiche e prive di contenuti, sono di ostacolo alla
riflessione e all’espressione delle proprie emozioni. La fretta della
comunicazione via chat toglie tempo al sentimento. È la solitudine,
l’insicurezza, la paura che inducono i ragazzi a preferire questo genere di
comunicazione “virtuale”. “Socializzare” via chat è molto più asettico e
meno impegnativo che incontrare [fisicamente] una persona, guardarla negli
occhi, relazionarsi con lei. E poi si può tranquillamente “bleffare” sulla
propria identità, inventarsi uno status sociale, far credere di essere diversi
da ciò che si è, per sentirsi grandi, affermati e gratificati».

L’americano Andy Braner, esperto di adolescenti, ritiene che
nonostante Facebook, Twitter, ecc., sostengano di rendere le
persone più unite, «se si chiede a un ragazzo chi veramente potrà essere vicino
a lui nei momenti difficili della sua vita, faticherà a dire il nome di
qualcuno».

Vita accessibile e
archiviabile

Come ha scritto Chiara Giaccardi su «Avvenire» (6.2.2013), «certamente
i giovani hanno poca consapevolezza degli effetti di ciò che scrivono, postano,
pubblicano in rete e di come queste informazioni siano accessibili,
archiviabili, conservabili e utilizzabili a scopi diversi. Aumentare il grado
di consapevolezza è opportuno e doveroso. Ma i rischi più gravi non sono tanto
quelli più comunemente paventati (l’abboccamento a scopo sessuale da parte di
singoli malintenzionati), quanto la raccolta di dati che possono essere
aggregati, rielaborati e venduti per la produzione di comunicazioni
pubblicitarie mirate e subdole o per forme di controllo sociale o censura
politica. La rete è un gigantesco sistema di produzione di dati, a cui ciascuno
di noi collabora spontaneamente, e quello dei “Big data” è uno dei temi più
caldi, e più interessanti per il business e la politica del futuro. Il
lupo cattivo è tanto più pericoloso perché indossa giacca e cravatta, e non è
interessato alla singola Cappuccetto Rosso».

Rischi, ma anche opportunità

Se i social networks presentano rischi per i giovani e per
gli adulti meno esperti, non bisogna demonizzarli. Un esempio. Padre Antonio
Spadaro, direttore de «La Civiltà Cattolica», studioso ed esperto della
comunicazione digitale, ha osservato che «le parole, i gesti e il magistero di
Ratzinger sono stati presenti nella vita dei fedeli in parte anche perché sono
stati condivisi – e non solo trasmessi – attraverso i media digitali. La sua
figura era già argomento della discussione sociale nei media digitali.
L’apertura di un suo profilo su Twitter ha poi dato forma a una sua
presenza diretta nella conversazione». E mons. Paul Tighe, segretario del
Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, ha osservato che «i nuovi
mezzi ci consentono di mantenere rapporti che, in altri tempi, non sarebbe
stato possibile mantenere. E questa è una benedizione. Ci permettono anche di
essere molto più informati sulle cose che accadono nel mondo, e questa è una
potenzialità importante. Nel suo messaggio per la Giornata mondiale delle
comunicazioni di quest’anno, papa Ratzinger ha parlato in termini molto
positivi della potenzialità dei mezzi per creare comunità e per aiutare i
giovani a mantenere e sviluppare amicizie. Mi sembra importante non dimenticare
questo aspetto, che è facile dare per scontato… Ma il papa ha anche detto loro
quanto sia importante non trascurare i loro valori personali, tra cui la fede.
Ha detto che questi mezzi possono essere usati per condividere la fede e altro,
sempre rapportandosi con rispetto alle persone con cui si sta dialogando».

Livio Demarie
Sacerdote salesiano, direttore dell’ufficio
per le comunicazioni sociali della diocesi di Torino.
 
CYBERTEOLOGIA
 

La
«Cyberteologia» è «l’intelligenza della fede al tempo della rete», il tentativo
di capire non tanto come usare bene la rete – anche col fine
dell’evangelizzazione -, quanto come vivere bene il nostro tempo impregnato
della «vita digitale».

È
un libro positivo quello di Antonio Spadaro, gesuita che, tra le altre cose, è
autore del blog cyberteologia.it, direttore de «La Civiltà Cattolica», docente
universitario e consulente dei Pontifici Consigli della Cultura e delle
Comunicazioni Sociali. Avviando la sua riflessione dalla constatazione che le
tecnologie digitali sono divenute presenti nella vita quotidiana di molti tanto
da essere oramai parte integrante, non separata, dell’ambiente di vita, Spadaro
sostiene che esse stiano cambiando il nostro modo di pensare, di conoscere la realtà,
di vivere le relazioni, e quindi anche di vivere la fede.

L’autore
illustra con la sua scrittura limpida e scorrevole come si possano trovare
punti di contatto fecondi tra la rete e la fede. La rete offre alla fede degli
spunti inediti per comprendere in modo più profondo Dio. Ad esempio illuminando
il tema del perdono che in un’epoca in cui tutto ciò che viene pubblicato su
Inteet non può essere cancellato, deve prescindere dall’oblio del male
commesso, e quindi porre l’accento sulla gratuità dell’amore che non dipende da
comportamenti giusti o sbagliati. Allo stesso tempo la fede può offrire
all’uomo in rete nuovi strumenti per dare senso alla sua vita, per camminare
verso Dio, anche nell’ambiente digitale.

È
contagiosa la speranza con cui padre Antonio Spadaro parla dei profondi
mutamenti dei nostri tempi. Non ignora i rischi, ma decide, come ha fatto il
papa nel suo messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni, di dare
ragione della speranza che Dio è presente e liberatore in ogni ambito della
vita dell’umanità, anche quando essa si sviluppa e spende nell’ambiente delle
nuove tecnologie digitali.

Luca
Lorusso

Livio Demarie




Bolivia 2: «Non c’è razzismo, soltanto diversità»

Intervista a Mons.
Julio María Elías Montoya.
Nelle
pianure amazzoniche del Beni, gli indigeni costituiscono una minoranza. Forse
anche per questo i candidati dell’opposizione prevalgono sempre nelle elezioni
per il governatore del dipartimento. Di
questo e altro ancora abbiamo parlato con il vicario apostolico della regione,
mons. Montoya.

Trinidad. La cattedrale sorge davanti alla piazza Generale José
Ballivian, cuore della città. La piccola facciata ha un grande rosone ed è
racchiusa ai lati da due solidi campanili a base quadrata. Gli uffici del vicariato
sono proprio a fianco, ospitati in una casa di cui s’intuisce l’antica ma
perduta bellezza. Il vicariato apostolico del Beni, creato nel 1917 da papa
Benedetto XV, include 6 delle 8 province che formano il dipartimento
amazzonico. Il vescovo si chiama Julio María Elías Montoya, francescano
spagnolo. Sacerdote dal 1968, l’anno seguente arriva in Bolivia. Nel 1974,
viene spostato dal Lago Titicaca a Trinidad. Nel 1987 è
promosso a vescovo. Mons. Montoya ha 67 anni, ma in testa ha meno capelli
bianchi del giornalista. Glielo facciamo notare e lui – divertito – ribatte con
una battuta: «Quando entrai nel noviziato, il superiore mi disse: “Vieni per
ricevere la prima comunione?”».

Monsignor Montoya, in Bolivia circa il 60 per cento della popolazione è
indigena e sono riconosciute almeno 36 differenti etnie. Com’è la situazione
nel Beni?

«Il vicariato
di cui sono responsabile ha una grande estensione territoriale ma una densità
abitativa molto bassa. Premesso questo, la maggioranza della sua popolazione è
composta da mestizos. I popoli indigeni sono una minoranza che penso non
raggiunga il 30 per cento del totale. Ci sono parecchie comunità, ma tutte
molto piccole. L’etnia più numerosa è quella dei moxeños, chiamati moxos ai tempi delle riduzioni gesuitiche».

A proposito di indigeni, nel confinante dipartimento di Santa Cruz, le
ex «riduzioni» dei gesuiti, sviluppatesi tra i chiquitos, sono molto conosciute, anche a livello turistico. Qui
cosa ha lasciato la storia delle missioni?

«Avrete
certamente notato che nel Beni tutte le cittadine hanno nomi di santi. La
ragione è che nel secolo XVII arrivarono qui i missionari gesuiti. Quasi tutti
i centri abitati sono nati dalle famose riduzioni. La prima missione gesuitica
fu fondata nel 1682 con il nome di Nuestra Señora de Loreto. Nel 1696 nacque
Trinidad e di seguito tutte le altre cittadine. Dopo la espulsione dei gesuiti
(nell’anno 1767), gli indigeni furono dispersi, ma sono loro ad aver preservato
le tradizioni cattoliche. Basti pensare alle celebrazioni durante le feste
religiose (Natale, settimana santa o feste patronali), celebrazioni attese da
tutti gli abitanti».

Raggiungere Trinidad e il Beni non è facilissimo, soprattutto nella
stagione delle piogge. Come giudica la situazione di questo dipartimento?

«Il
Beni è un po’ isolato rispetto a La Paz, Santa Cruz e Cochabamba, le principali
città del paese. Tuttavia, vivendo a Trinidad dal lontano 1974, posso dire di
aver visto progressi, anche se le difficoltà non mancano. Qui non ci sono
industrie. La nostra sola ricchezza è stata – almeno fino ad oggi –
l’allevamento di tipo estensivo».

A parte le condizioni del Beni, a suo giudizio, quali sono i principali
problemi della Bolivia?

«Al
primo posto c’è certamente la povertà. Mi spiego meglio: nella Bolivia di oggi
non manca da mangiare, ma si tratta sempre di un’economia di sussistenza. E poi
siamo carenti in tema di salute e educazione. Se ci si ammala, non è facile
curarsi. Allo stesso tempo manca anche un adeguato sistema educativo».

Nel 2014 ci saranno le elezioni presidenziali. Quando Evo Morales venne
eletto per la prima volta, nel dicembre 2004, c’erano molte aspettative.
Viaggiando per le pianure orientali abbiamo notato molta ostilità nei confronti
del presidente. Come lo spiega, monsignore?

«Con
l’elezione di Evo Morales c’è stata una grande speranza, che permane tuttora,
anche se la si trova soprattutto tra le popolazioni degli altipiani. Allo
stesso tempo, è vero che i cittadini di qui si sono sentiti un po’ colonizzati
dalla gente dell’Occidente».

Lei ritiene che ci sia una componente di razzismo in questa contesa tra
dipartimenti dell’Oriente (a maggioranza bianca e meticcia) e il resto del
paese (a maggioranza indigena)?

«No,
non credo che ci sia razzismo. Per esempio, il Beni è sempre stato aperto a
ricevere. Qui ci sono persone provenienti dagli altipiani e personalmente non
vedo razzismo nei loro confronti. D’altra parte, è altrettanto vero che
l’Oriente boliviano è diverso, culturalmente diverso dal resto del paese». 

Una diversità che è stata confermata anche nelle recenti elezioni per il
governatore del Beni. La candidata del presidente e del Mas è stata sconfitta –
per la seconda volta – dal candidato dell’opposizione. Che succederà ora? 

«Dopo il voto,
io ho detto pubblicamente che occorre collaborare tutti per l’interesse comune
del Beni. Con verità, giustizia, libertà, amore».

La sua è una visione carica di speranze…

«Passeremo per
crisi, per momenti dolorosi come la croce, ma io certamente rimango un uomo di
speranza. Sono – come diceva il papa Paolo VI – per costruire una civiltà
dell’amore».

La bellissima Costituzione boliviana del 2009 parla di «sagrada Madre
Tierra». Purtroppo, anche in questo paese, come nel resto del mondo, i problemi
ambientali stanno avanzando a un ritmo impressionante…

«È così vero
che, nel marzo 2012, i vescovi boliviani hanno presentato una lettera pastorale
– dal titolo El Universo, don de Dios para la vida – dedicata proprio
alle tematiche ambientali, al modello consumistico e alla crisi ecologica. Come
francescano, io ricordo che San Francesco parlava non soltanto di “Madre Terra”
ma di “Sorella Madre Terra”. Alla base del problema ambientale sta il fatto che
non si può pensare soltanto a noi stessi, ma occorre pensare a quelli che
verranno dopo di noi».

A proposito degli interventi della Chiesa boliviana, ritiene che
l’istituzione cattolica sia ancora ascoltata?

«Abbiamo voce
nella società boliviana e siamo rispettati dal popolo, che ci sente vicini.
Certi politici e governi pensano che vescovi e sacerdoti si debbano dedicare
soltanto alla salvezza dell’anima. Però non è così. L’evangelizzazione non è
soltanto per l’anima, ma per tutta la realtà della persona umana. Come
sacerdoti e vescovi non dobbiamo guardare al denaro, al potere o al piacere, ma
dobbiamo realmente metterci al servizio del prossimo».

Paolo
Moiola

Paolo Moiola




Bolivia 1: L’altra faccia della luna

Da Puerto Quijarro a Desaguadero (prima puntata)
La nuova Costituzione boliviana, in vigore dal 2009, parla – con
ragione – di un paese plurale. Su un territorio diviso tra pianure (llanos) e
altipiani (altiplanos) vivono popolazioni indigene e «bianche». Una convivenza non sempre facile a causa delle
grandi diversità culturali e materiali. Abbiamo viaggiato da Puerto Quijarro
(al confine con il Brasile) a Desaguadero (al confine con il Perù), dalle
pianure amazzoniche alle montagne andine, cercando di capire dove va la Bolivia
di Evo Morales, il presidente aymara eletto nel 2005.

Puerto Quijarro. Come accade spesso, il posto di frontiera è brutto, confuso e
disorganizzato. I controlli sono lenti e il personale addetto non fa nulla per
rendere meno spiacevole l’attesa delle molte persone in coda. La lentezza poi
non va a beneficio dell’accuratezza. Che probabilmente sarebbe necessaria,
considerando che da qui transita molta droga diretta verso le ricche piazze
brasiliane.

Il confine è quello tra Corumbà, in Brasile, e Puerto
Quijarro, in Bolivia. Il posto di controllo boliviano è in un minuscolo
edificio posto al centro della strada. La gente, quella che esce dal paese e
quella che vuole entrarvi, forma un’unica cola (fila) che si dispiega
all’esterno dell’edificio.

Per ingannare l’attesa, scattiamo qualche foto, ma senza
esagerare perché, dove ci sono militari e forze dell’ordine, è meglio non
attrarre troppo l’attenzione. Iniziamo allora a parlare con il signore che ci
precede. Eduardo Mejia, questo il suo nome, è un medico di Cochabamba, in
viaggio per il Brasile con la moglie biochimica e la figlia studentessa. La
conversazione si fa subito interessante.

Eduardo è deluso da Evo Morales, il
presidente aymara eletto nel 2005. Spiega: «La classe media pensava che
ci sarebbe stato un cambio, però non è stato così. I poveri non stanno meglio
di prima e neppure la classe contadina. Io ho votato per Evo, ma nel 2014 non
lo farò».

Eduardo si lamenta soprattutto della
corruzione diffusa a tutti i livelli, ma anche della grave impreparazione
culturale del presidente. «Evo non è Correa»1,
chiosa. Essendo il nostro interlocutore un medico, gli domandiamo se la sanità
funziona. «Nella mia città, Cochabamba, c’è un solo ospedale pubblico che deve
servire un milione di abitanti. La gente è ospitata nei corridoi e la poca
strumentazione esistente è obsoleta».

Nel frattempo siamo arrivati davanti ai
funzionari della frontiera. Salutiamo il dottor Mejia. Dopo le formalità
doganali, ognuno andrà per la sua strada.

Con il timbro sul passaporto e la targhetta
d’entrata, ci dirigiamo verso la stazione ferroviaria di Puerto Quijarro, che
si trova alla fine di una strada polverosa. Mentre la struttura è modea, i
treni della Ferroviaria Oriental, la compagnia (privatizzata nel 1996)
che gestisce la linea, lo sono molto meno. In compenso si parte in perfetto
orario. Non facciamo a tempo a trovare il nostro posto che tre donne, vedendoci
con la telecamera in mano, ci chiedono cosa facciamo. È un’altra buona
occasione per parlare e registrare qualche opinione della gente comune. Le
donne – tutte bianche di Santa Cruz – sono come un fiume in piena, quando
rovesciano accuse sul presidente Morales. «Fa soltanto gli interessi della
parte occidentale» dicono all’unisono. «Io – spiega una di loro – sono
funzionaria pubblica, ma il presidente non mi piace». Per quale motivo?,
domandiamo. «Perché ha molto risentimento verso chi possiede denaro. Vuole
danneggiare le persone che hanno di più». La signora ha (almeno) il dono della
chiarezza. Chiediamo che cosa succederà nelle elezioni del 2014. «Sfortunatamente
– risponde – in Bolivia c’è troppo indigenismo e quella gente voterà per lui,
mentre noi siamo divisi». 

SANTA CRUZ E I «CIPPI» DELL’AUTONOMIA

Il treno della Ferroviaria Oriental
procede lentissimo. Prima che cali l’oscurità, dal finestrino riusciamo a
vedere quanto il disboscamento sia avanzato. E quanto, identicamente ai paesi
confinanti (Brasile del sud, Paraguay e Argentina), si sia diffusa la
coltivazione della soia (oramai quasi tutta di tipo transgenico, anche se una recente
legge vieta gli Ogm2). 

Dopo un’intera notte di viaggio, il mattino
seguente arriviamo a Santa Cruz de la Sierra, capitale dell’omonimo
dipartimento. Una città dal clima caldo umido e con un centro formato da viuzze
strette in cui (purtroppo) convergono un numero esagerato di auto. Santa Cruz
non ha alcuna attrattiva particolare, ma è economicamente e politicamente
importante. Le fortune economiche della città dell’Oriente boliviano sono nate
prima con l’allevamento (introdotto dai missionari gesuiti nel XVII secolo) e
poi con l’agricoltura estensiva (piantagioni), che hanno beneficiato di una
terra e di un clima favorevoli. Entrambe le attività poi si sono avvalse dei
vantaggi del latifondo. Un latifondo che ancora esiste e prospera, nonostante
l’articolo 398 della nuova Costituzione boliviana lo proibisca o, per meglio
dire, lo consenta soltanto all’interno di precisi (e condivisibili) limiti3.

Politicamente Santa Cruz è parte e fulcro
della cosiddetta Media Luna, la regione orientale della Bolivia che,
oltre a Santa Cruz, comprende a Nord i dipartimenti di Pando e Beni e a Sud
quello di Tarija, disegnando appunto una «Mezza Luna». Per ragioni etniche (la
maggioranza degli abitanti – conosciuti anche come camba – sono bianchi
o meticci) ed economiche, questa regione ambisce all’autonomia dal resto del
paese a maggioranza indigena.

Il cuore di Santa Cruz è la verdissima Piazza
24 di Settembre, dove si trova anche la cattedrale di San Lorenzo. La piazza
non è soltanto un luogo piacevole, ma anche il simbolo dello spirito che anima
la città. Per capire di che si tratta, è sufficiente guardarsi attorno.

Su un lato della piazza c’è un gazebo sotto
cui è ospitato un grande pannello a colori con le foto dei prigionieri e dei
perseguitati politici in Bolivia. I più conosciuti sono Leopoldo Feández, già
governatore del Pando, e Branko Marinkovic, imprenditore di Santa Cruz. Secondo
gli autori della protesta (sei tra partiti dell’opposizione e associazioni), la
Bolivia sarebbe una vera dittatura. La frase finale incita ad agire: «Non
essere indifferente, il prossimo potresti essere tu!».

La tenda è mobile e dunque levabile in
qualsiasi momento, ma il concetto di autonomia viene ricordato anche
dall’arredo urbano. Nella piazza, accanto alle panchine, trovano posto delle
piccole colonne di legno massiccio a memento della richiesta di autonomia. Incisa hanno
una semplice scritta: mojón autonomia, cippo dell’autonomia.

Domandiamo spiegazioni a un vigile urbano
che, tranquillamente (pur essendo un impiegato pubblico in servizio), ci
conferma l’anelito autonomista e si presta per una foto accanto al cippo.

Se le idee autonomistiche meritano attenzione
(fintantoché rimangono nei binari della legalità)4, è però altrettanto doveroso non chiudere gli occhi
davanti a una Bolivia divisa dalle ingiustizie fondate su base etnica e dalla
povertà. Contro queste ingiustizie e contro questa povertà si batte il governo
centrale. Una lotta tutt’altro che facile. 
Nei dintorni della piazza centrale di Santa Cruz a chiedere le elemosine
sono soltanto persone indigene. Sedute sui marciapiedi o a lato delle
gelaterie, trascorrono le giornate chiedendo un’obolo donne piccole e un po’
tozze, con i capelli neri raccolti in due trecce, le grandi gonne che
ingrossano più del reale e 2 o 3 figlioletti nelle immediate vicinanze.

IL BENI NON VUOLE LE MODELLE

Dal dipartimento di Santa Cruz ci sposteremo a quello del Beni,
anch’esso a maggioranza non-indigena e politicamente avverso al governo di Evo
Morales.

Toiamo al Terminal bimodal della
città cruseña per prendere un bus alla volta di Trinidad, capitale del
dipartimento, circa 500 chilometri in direzione Nord. La signora seduta accanto a noi è al
telefono e non possiamo non sentire. «Di quanto abbiamo vinto? Sono sicuri i
risultati?». Il Beni ha appena eletto il nuovo governatore e la lotta era tra
il candidato locale e quello del Mas, il Movimiento al socialismo che
governa il paese.

Il partito di Evo Morales aveva proposto e
sostenuto la giovane e attraente Jessica Jordan, già modella e Miss Bolivia. La
Jordan ha perso (per la seconda volta). La gente del Beni le ha preferito
Carmelo Lens, esponente dell’alleanza di centrodestra. Arriviamo nella vecchia
e malconcia stazione dei bus di Trinidad al mattino. Quando – era il 1686 – il
gesuita Cipriano Barace la fondò con il nome di La Santísima Trinidad ,
la città era sulle sponde del Rio Mamoré. La collocazione si rivelò presto
sbagliata a causa delle periodiche inondazioni. Trinidad venne quindi spostata
a 15 chilometri dal fiume, nella posizione dove oggi si trova.

La piazza centrale – abbellita da un
giardino tropicale e dalla cattedrale – 
si chiama Plaza General José Ballivián.

Su lati diversi della stessa ci sono due
grandi cartelloni raffiguranti Evo Morales, da una parte sconfitto, dall’altra
vincitore. L’Evo sconfitto è quello che lo vede in compagnia della bella
Jessica Jordan, la candidata battuta nelle elezioni dipartimentali. L’Evo
vincitore è invece sul cartellone che celebra il 22 gennaio, festa nazionale
dello Stato plurinazionale di Bolivia. Una pluralità sancita dal primo articolo
della nuova Costituzione del 2009, un testo di altissimo valore, approvato a
larga maggioranza da un referendum popolare.

Sul manifesto celebrativo compaiono soltanto
volti indigeni, dando forse motivo ai bianchi e ai meticci quando parlano di un
«razzismo al contrario»5. Ne sono convinte, ed esempio, le bionde
signore che lavorano alla Paraiso Travel, un’agenzia di viaggi del
posto.

Insomma, anche a Trinidad il presidente aymara
è poco popolare, pur in assenza di segni visibili come a Santa Cruz. La Mezza
Luna boliviana rimane dunque antigovernativa, anche se lontana dagli eccessi
del 2008, quando dai quattro dipartimenti orientali furono indetti dei
referendum autonomisti illegali e ci fu un tentativo di colpo di stato.

DALL’AMAZZONIA AI 4.000 METRI DI EL ALTO

La strada che da Trinidad porta a La Paz è
una via brutta. Nella stagione delle piogge è anche molto pericolosa. Le
compagnie di bus preferiscono non percorrerla. Per raggiungere la capitale,
occorre allora tornare a Santa Cruz e passare per Cochabamba. In alternativa,
si può prendere un aereo. I voli della Tam, la compagnia aerea dei militari,
sono di gran lunga i meno costosi.

Nell’ora di volo che separa Trinidad da La
Paz si può apprezzare chiaramente il cambio orografico, dalle pianure
amazzoniche del Beni agli altipiani andini. Il velivolo della Tam atterra sulla
pista dell’aeroporto militare de El Alto, nome più che appropriato per una città
cresciuta a 4.000 metri sopra il livello del mare.

Fa freddo. Dopo aver contrattato il prezzo,
ci infiliamo velocemente in un taxi. El Alto ha soltanto 80 anni di vita, ma ha
già superato il milione di abitanti, in maggioranza di etnia aymara,
come il presidente. Si racconta che nella città transiti molto denaro del
narcotraffico e che una parte di questi capitali si trasformi in edifici. La
circostanza non è però verificabile. Quello che invece si può notare è un
numero importante di case dall’architettura molto particolare (qualcuno direbbe
kitsch).

Nel frattempo, il nostro taxi è arrivato al
casello dell’autostrada, che scende dai 4.000 metri di El Alto ai 3.600 di La
Paz. Rispetto a Santa Cruz e Trinidad notiamo subito una novità. L’autopista
è disseminata di cartelloni e soprattutto di murales che esaltano
l’opera del presidente.

Paolo Moiola

(fine prima puntata –
continua)

 
Note

1 – Rafael Correa, presidente dell’Ecuador (riconfermato
nel febbraio 2013), è dottore in economia con studi in Ecuador, Belgio e Stati
Uniti.
2 – Legge 300 del 15 ottobre 2012: Ley marco de la Madre Tierra y desarrollo integral para vivir bien.
3 – Il divieto è stato confermato dall’articolo 19 della
citata legge 300.
4 – Il separatismo della regione della Mezza Luna può
raggiungere livelli aggressivi e razzisti. Si visitino, ad esempio, i seguenti
siti web: www.nacioncamba.net; www.historiacamba.com
5 – Nell’ottobre 2010, il governo di Evo Morales ha
emanato una norma antirazzismo particolarmente severa: Ley contra el racismo y toda forma de discriminacion (Ley 045).

 
Archivio

Sulla Bolivia, sempre a firma Paolo Moiola, Missioni
Consolata ha pubblicato:
Evo, il presidente
aymara, Incontro con Evo Morales
, marzo 2006;
Se i popoli tornano
proprietari, Intervista con il presidente Carlos Mesa
, dicembre 2004;
L’utopia infranta
dei gesuiti, Dossier sulle riduzioni
, giugno 1999;
Lontani dal mondo, Viaggio tra i mennoniti, maggio
1999.

 
Il ritratto
INDIO, SINDACALISTA, «cocalero»

Le tappe fondamentali del cammino di Evo Morales Ayma da campesino a
presidente del paese.

Evo Morales Ayma nasce nel 1959 nel piccolo villaggio di Orinoca, sugli
altipiani di Oruro. La famiglia, di origine aymara, abita in una casetta di
adobe e tetto di paglia. I Morales vivono di agricoltura e allevamento di lama.
Nel 1982, a causa di una grave siccità, la famiglia Morales Ayma emigra nel
Chapare (Cochabamba), provincia di coltivatori di coca (cocaleros). Evo
entra nel sindacato (Confederación de trabajadores del Trópico de Cochabamba),
divenendo ben presto segretario generale.

Nel 1997, l’organizzazione di Morales si unisce al Mas, Movimiento
al socialismo, per potersi presentare alle elezioni. Pochi mesi dopo, Evo
Morales entra in Parlamento come deputato. Nelle elezioni presidenziali del
2002, si presenta come candidato e supera il 20% dei voti, poco meno del
vincitore, Gonzalo Sánchez de Lozada detto «Goni». Il Mas entra in parlamento
con 36 congressisti.

Nel 2003, diventa leader dell’opposizione contro i provvedimenti
neoliberisti del presidente. In ottobre, la «guerra del gas» degenera in
scontri cruenti e Sánchez de Lozada è costretto alle dimissioni. Dopo la breve
presidenza di Carlos Mesa, nel dicembre 2005 il paese torna a votare.

Al secondo tentativo, Morales viene eletto con il 53,7% dei voti,
divenendo il primo presidente indigeno nella storia della Bolivia.

Il 6 agosto 2006 si installa un’Assemblea costituente, formata da 255
membri eletti, che ha il compito di redigere una nuova Costituzione. Dopo vari
conflitti, nell’ottobre 2008 la Magna Carta (di ben 411 articoli) viene approvata
dal Congresso boliviano e nel gennaio 2009 da un referendum popolare.

Fin dal suo esordio, il presidente pone in essere una politica di ri-nazionalizzazione
delle imprese strategiche, in particolare di quelle energetiche (gas e
petrolio), dell’acqua e delle telecomunicazioni.

Il 10 agosto 2008 Morales vince il referendum sulla revoca del proprio
mandato. Nel 2009 viene rieletto presidente della Bolivia con il 64% dei
suffragi.

Nonostante alcuni scandali, le accuse dell’opposizione (soprattutto nei
dipartimenti della Mezza Luna), la brutta vicenda del Tipnis e le ambiguità
sulla coca, alle elezioni del 2014 Evo Morales sarà il candidato di gran lunga
favorito.

Pa.Mo.

Paolo Moiola




Il lungo viaggio verso Remolino:  (prima parte)

Viaggio nell’Amazzonia Colombiana. Ogni viaggio è un’opportunità. Ogni viaggio è una
responsabilità. Ogni viaggio implica una «restituzione». Ecco il motivo di
queste pagine: la restituzione, seppur limitata, delle ricchezze viste e
ricevute, per farle conoscere e condividere. Il nostro viaggio è stato
caratterizzato da numerosi incontri: personaggi significativi che con il
proprio vissuto ci hanno mostrato un aspetto differente della realtà
colombiana. È attraverso di loro che vi racconteremo cosa abbiamo visto.

Partiamo da Torino l’11 settembre
2012. Siamo in quattro, di età differenti: due ventenni, una quarantenne e una
sessantenne. Un bel miscuglio e una bella sfida! Dopo aver fatto scalo a
Madrid, inseguiamo il sole per 900 km, per tutte le undici ore di viaggio fino
all’aeroporto Eldorado di Bogotá, arrivando in una nuova Babele per la varietà
dei lineamenti dei volti, del colore della pelle, del taglio degli occhi: una
varietà che fa sentire «a casa» chiunque. Una città-mondo che ritroviamo anche
all’interno della casa provinciale dei missionari della Consolata,
continuamente animata da chi arriva e chi parte. Un porto di mare a quota 2.600
metri.

Padre Carlos Olarte ci aiuta a muovere i primi passi in questa
metropoli di quasi 10 milioni di abitanti, risolvendoci le prime ed essenziali
questioni relative al cambio della moneta, all’attivazione delle chiamate
inteazionali dai cellulari, ecc. Con la sua tranquillità ci trasmette serenità
e, anche se nessuno di noi conosce bene la lingua (o non la conosce affatto!),
capiamo che la comunicazione è possibile con un po’ di sforzo da entrambe le
parti e un po’ di fantasia. Anche il direttore della Casa Provinciale, padre
Josè Grisales, ci dedica molto del suo tempo dandoci informazioni sulla
situazione economica e sociale della città e portandoci a visitare i nuovi
centri commerciali, vere e proprie «metropoli nella metropoli», così
catalizzanti che vi si praticano le vaccinazioni e si celebra la Messa.

Florencia


Siamo dunque sufficientemente attrezzati per affrontare il viaggio
verso la selva. Decolliamo da Bogotà con un simpatico piccolo aereo a elica e
atterriamo al nuovissimo ed efficiente aeroporto di Florencia: la quota è
diminuita di quasi 2500 metri, mentre la temperatura è aumentata di oltre 20
gradi. Ci assale un’aria calda e umida. La casa dei missionari si trova in cima
alla collina, dove sorge un quartiere completamente costruito dal vescovo
Torasso dopo un’inondazione, per dare un tetto a tutti coloro che l’avevano
perduto. Qui l’aria è più respirabile.

Siamo ai piedi delle Ande, in una delle prime cittadine
colonizzate a inizio ‘900 dalle popolazioni che dalle montagne migravano verso
la selva in cerca di nuove opportunità di vita e lavoro. Proprio in questi
giorni Florencia festeggia i 100 anni di municipalità, mentre compie 110 anni
di fondazione, della quale è testimone ancora vivo e imponente il grande mango
piantato per l’occasione nell’attuale piazza principale del paese e sotto le
cui fronde trova ombra il fondatore Doroteo di Pujales. Florencia, capitale del
Caquetà, è spesso definita la «porta della foresta amazzonica», avendo essa
dato avvio al processo di colonizzazione di tutta la fascia pedemontana e in
seguito dell’interno del bacino amazzonico. Oggi è una cittadina animatissima
di circa 20.000 abitanti, anche se con i villaggi vicini supera i 160.000, che
fanno capo alle sue strutture pubbliche (comune, scuole, ospedale, università …)
e alle sue attività commerciali. La nostra attenzione è attratta soprattutto
dai banchi della variegatissima frutta tropicale e dal mercato molto pittoresco
con bancarelle di artigianato locale, dai tessuti al vasellame. Numerosi i
carrettini di venditori di pietanze e di succhi preparati al momento.

Il Veterano

Nella casa dei missionari della Consolata, molto armoniosa ed
accogliente, troviamo padre Bruno Del Piero. È arrivato nella zona verso la metà
degli anni ’90 e da allora non si è risparmiato per dare dignità alla
popolazione locale, realizzando opere sociali e collaborando per un’istruzione
diffusa e il diritto alla sanità per tutti. Ancora oggi, all’età di 80 anni,
ogni mattina percorre a piedi un bel tratto di strada per raggiungere
l’ospedale e stare al fianco degli ammalati. È affascinante stare seduti
attorno a lui, la sera, ad ascoltare la descrizione di come era una volta la
zona, le avventure per raggiungere anche i più lontani insediamenti, le sfide
affrontate, la paura frequente per la situazione di guerriglia, le conquiste.
Ancora più affascinante ci appare l’amore per questa terra che lo pervade ai
nostri giorni, oggi. Un amore cresciuto, rinnovato, attuale, concreto. Quando
dal balcone di casa ci indica tutti gli edifici significativi della città, i
suoi occhi si animano e le vie del quartiere (che si chiamano calle e carrera,
a seconda dell’orientamento) si animano virtualmente davanti ai nostri.

La Pedemontana

Ci rimettiamo in viaggio verso l’interno. Ci vogliono 170
chilometri per raggiungere Cartagena del Chairà, l’ultimo paese dove arriva la
strada. Dopo, per proseguire, occorre utilizzare la barca e scendere lungo il
fiume Caguan. È il primo impatto con le vie di comunicazione colombiane e
soprattutto con i tempi necessari per percorrerle: qui si sa quando si parte,
ma non si sa né se si arriverà né quando. Si possono fare previsioni, tenendosi
tuttavia pronti a ogni sorta di inconveniente. Non bisogna avere fretta né
garantire la puntualità!

Da Florencia padre Angelo Casadei diventa il nostro «angelo
custode». Ancora una volta ci sentiamo coccolati perché ci viene a prendere con
la macchina del vescovo, messa a disposizione per tutti gli spostamenti. Lungo
il tragitto ci viene spontaneo fargli tante domande sulla vita in Colombia, la
situazione politica e sociale, la sua esperienza, approfittando del suo essere
italiano e dunque della lingua.
(clicca sul simbolo a sinistra per vedere un eccezionale documentario girato da p. Angelo Casadei)

La prima parte del nostro tragitto è costituita dalla pedemontana,
strada parallela alle montagne, ai piedi delle stesse. Tale strada rappresenta
un po’ il processo di colonizzazione della selva nel tempo. Infatti prima di
procedere verso il cuore della foresta, i coloni si sono mossi negli anni
parallelamente alla montagna, disboscando e destinando la maggior parte del
terreno ad allevamento. Per avanzare nella conquista di terra hanno creato
sentirneri divenuti sempre più marcati e importanti per i collegamenti tra i vari
insediamenti, fino a costituire vere tratte di comunicazione della zona.
Realizzate inizialmente dalla popolazione locale, con il tempo sono diventate
di interesse pubblico, richiamando l’attenzione dello stato che nel tempo le ha
asfaltate e ora le gestisce. Oggi queste strade più o meno asfaltate
costituiscono un elemento importante di sviluppo, ma allo stesso tempo uno
strumento di conflitto: per lo stato rappresentano la via per raggiungere zone
ricche di materie prime, spesso appaltate a multinazionali straniere, come nel
caso del petrolio nella zona di San Vincente; per la guerriglia rappresentano
l’ennesimo furto nei confronti della popolazione colombiana. Proprio due mesi
prima del nostro arrivo, in luglio, la guerriglia ha fatto saltare un ponte
lungo il tratto che noi percorriamo e ora, dopo la veloce ricostruzione da
parte dell’esercito, ogni ponte della pedemontana è sorvegliato 24 ore su 24 da
militari, con costi esorbitanti per lo stato.

La Madonina

Deviamo per un villaggio chiamato «La Madonina», presso la località
Santuario: ci sembra di essere dentro un presepe ambientato nel Far West!

Una signora, lungo la strada, spreme in un torchio di legno la
canna da zucchero e ne vende il succo. Qui incontriamo padre Marini Antonio: è
in Colombia ormai da cinquant’anni e guida una landrover che vuole
tenere in vita perché non arrugginisca. Ci racconta squarci di vita degni di un
romanzo: nel ’96 i campesinos avevano organizzato una protesta, che lo
stato aveva tentato di frenare con l’esercito. In tale contesto di violenza,
per evitare spargimenti di sangue il padre li aveva ospitati in parrocchia,
dove hanno stabilito regole precise per mantenere l’ordine all’interno
dell’istituto. Tra i militanti c’era un ufficiale, che era stato suo allievo:
per il grande rispetto nei suoi confronti non fece razziare le riserve
alimentari, permettendo a tutti di continuare ad avere cibo.

Durante la visita alla sua missione ci ha introdotti nel
laboratorio da lui stesso attrezzato dove è in grado di eseguire lavori di
carpenteria, piccola meccanica, manutenzione e ci ha spiegato che un tempo per
i seminaristi erano previste esercitazioni di edilizia idraulica elettrotecnica
perché fossero in grado di fare un po’di tutto.

Ora ha 86 anni e ammette di non avere più tanta forza fisica, ma
ci lascia una frase che è diventata nostro patrimonio, «Bisogna impiegare bene
il tempo per non averlo contro». Perciò ha ripreso a studiare teologia
dedicandosi a quella medioevale.

Bambini e Donne

Nella missione di Santuario, funziona molto bene un piccolo
collegio di 26 bambini, seguiti da Suor Agostina e suor Emilia. Entrambe sono
scampate al denghé, malattia che, se non curata in tempo, porta alla
morte e causata dalla puntura di una zanzara locale esclusivamente diua. Dopo
questa «avventura» hanno ripreso entrambe a pieno ritmo a portare avanti il
collegio. Le camerate dei ragazzi sono linde e allegre: le bambine sono
orgogliose di mostrarci i loro lavori di ricamo e i quadei. Frequentano tutti
la scuola pubblica, ma al pomeriggio eseguono i compiti con la guida delle
suore, per dedicarsi poi a tutte le faccende domestiche e di gestione della
casa. Le famiglie d’origine sono molto povere e le suore spesso non ricevono le
rette, nonostante la richiesta sia di soli 10.000 pesos (circa 5 euro)
all’anno. I bambini rimangono a Santuario fino alla V elementare. Le femminucce
ricevono nozioni di igiene, alimentazione, comportamento, che toeranno utili
nel giro di breve tempo perché a 14/15 anni solitamente sono già madri. Non
avendo contratto matrimonio, spesso il compagno le abbandona e si unisce ad
altre donne.

Le ragazze madri chiedono sostegno alle proprie madri per la
gestione dei figli, ma spesso sono sole e con una vita irregolare. Il ruolo dei
missionari è quindi quello di offrire luoghi sani in cui far crescere i
ragazzi, insegnando non solo le materie scolastiche, ma soprattutto la gestione
delle normali faccende quotidiane. Qui imparano a diventare adulti più
responsabili e anche a rispettare le regole di una comunità, nell’ottica di un
bene comune che porta benefici a tutti se rispettato.

Si riparte. EL Pauijl

Arriviamo a El Pauijl. Il paujil è un uccello – ormai
estinto – delle dimensioni di un tacchino, che seguiva l’uomo come un
cagnolino. Nel centro del paese sorge un monumento dedicato a questo animale.
Siamo arrivati proprio mentre si stava svolgendo un funerale: il carro funebre è
rosso, la partecipazione corale e, vien da dire, festosa. Abbiamo supposto che
il defunto fosse un taxista, perché all’uscita della chiesa le auto pubbliche
che stavano sulla piazza hanno suonato i clacson per poi incolonnarsi a seguito
del corteo fino al cimitero. Il paese di Pauji rappresenta un nodo cruciale: da
qui, andando dritti, si prosegue lungo la pedemontana fino a San Vincente, sede
del Vicariato; oppure, svoltando a destra, si prende la direzione della selva,
dell’entroterra. Si punta al cuore della foresta. Noi svoltiamo a destra.

Cambia la strada: non è più asfaltata, ma sterrata. Si tratta di
terra rossiccia pressata mescolata a bitume, che viene stesa direttamente sul
battuto, ma basta qualche giorno di pioggia per farla dilavare o il caldo
torrido della stagione secca per sgretolarla. Nel paese c’è molta corruzione
legata alle opere pubbliche: chi appalta i lavori spesso specula sui materiali
per trae vantaggio economico, a scapito della popolazione.

Inizia il paesaggio della seconda fase di colonizzazione con
sterminati allevamenti estensivi (in contrapposizione ai nostri allevamenti
intensivi), con colline verdissime e radi alberi isolati. Il paesaggio appare
ai nostri occhi stupendo e rilassante, ma ci rammentano che un tempo era tutta
foresta. L’erosione del terreno dovuta alle piogge stagionali incessanti e al
sottilissimo strato di humus non è ancora evidente come nei terreni della
pedemontana, ma nel raggio di 30/40 anni, se non ci sarà un’inversione di
tendenza, gran parte del terreno sarà arido e incolto.

(1. continua)
_____________________

Per le foto ringraziamo:
Angelo Casadei, Fabio Vasini, Marta Faccaro e Giacomo Lazari.

Cinzia Boschis, Stefania Biagini Ghiotti, Marta Faccaro e
Giacomo Lazari sono volontari e soci di Impegnarsi Serve, una onlus che,
tra molto altro, anima nelle scuole medie e superiori il progetto educativo «L’altra
faccia della coca».

Stefania Biagini




La Missione sui Monti dei Sogni

In viaggio di nozze a Sererit
«Dove si trova Sererit?», gli
chiedo. Lui sorride, si avvicina alla cartina geografica appesa alla parete e
ferma il dito su un punto a Nord del Kenya in direzione del Lago Turkana. Dice
che è lì, in mezzo alle Ndoto Mountains
(le montagne dei sogni). Mi avvicino cercando di aguzzare la vista per leggere
il nome della missione, ma non c’è proprio niente da vedere! Quel punto nel bel
mezzo delle montagne nessuno lo conosce eccetto chi ci vive.

Lui
si chiama Aldo Giuliani, classe 1940, trentino doc della Val di Non, e ha la
testa dura, quasi quanto quella di un calabrese! Noi siamo i calabresi: io
(Beatrice) per nascita, e Frank (keniano) per «adozione» da quando, il 10
settembre 2010, siamo diventati marito e moglie. Se vi state chiedendo che cosa
hanno in comune un trentino e due calabresi (oltre, naturalmente, la testa
dura!) eccovi accontentati: l’amore per la missione che Cristo Gesù affida a
ogni battezzato, di portare la sua Parola di salvezza a tutte le genti, e
quello per la sua, nostra e di tutti amata Mamma Celeste che veneriamo con
l’appellativo di Consolata. Siamo missionari della Consolata, due facce della
stessa medaglia: padre Aldo un religioso, noi laici della stessa grande
famiglia missionaria, che fonda le sue origini nell’ispirazione del beato
Giuseppe Allamano, padre fondatore dell’Istituto Missionario della Consolata.

Il missionario dalla foresta

Conosco padre Aldo Giuliani a Nairobi, nel 2009. Io sono la
cornordinatrice dell’Ufficio Progetti dei missionari della Consolata in Kenya. In
un tiepido pomeriggio di metà luglio sento un rumore di pati-pati (le
ciabattine infradito di gomma che tutti usano in Kenya) avvicinarsi dal
corridoio al mio ufficio. Qualcuno fa capolino: polo a manica corta un po’
stropicciata e pantaloncino rigorosamente a mezza gamba, capelli bianchi un po’
in disordine, viso letteralmente bruciato dal sole; il missionario si presenta
come uno che arriva dalla foresta… Nella sua missione, a Sererit, nel Nord del
Kenya, fa caldo, troppo caldo, anche solamente per pensare ad un abbigliamento
di tipo diverso. «Dove si trova Sererit?», gli chiedo. Lui sorride, si avvicina
alla cartina geografica appesa alla parete e ferma il dito su un punto a Nord
del Kenya in direzione del Lago Turkana. Dice che è lì, in mezzo alle Ndoto Mountains (le montagne dei sogni).
Mi avvicino cercando di aguzzare la vista per leggere il nome della missione,
ma non c’è proprio niente da vedere! Quel punto nel bel mezzo delle montagne
nessuno lo conosce eccetto chi ci vive: niente strade, nessun villaggio, niente
di niente che possa interessare i geografi. Un punto sulla mappa: 1°40’47,08”N, 37°10’37,31”E. Dal satellite si intravedono a fatica i riflessi delle lastre
zincate del campo della missione.

«Per capire dov’è, devi venire a trovarmi». Continua a sorridere
p. Aldo, quasi sicuro che a quella signorina mancherà il coraggio di accettare
l’invito… non sa ancora di aver di fronte una calabrese! Appena il missionario
lascia il mio ufficio esco anch’io, faccio in fretta una rampa di scale e
arrivo alla sede della rivista dei padri della Consolata, «The Seed», dove il
mio (allora) fidanzato Frank lavora come grafico. Per via del suo lavoro Frank
conosce quasi tutti i missionari. Gli racconto emozionata del mio incontro con
p. Giuliani e, curiosa come una scimmia, gli chiedo notizie su Sererit. Mi
racconta che la missione si trova nel distretto Samburu, circa 500 Km a Nord di
Nairobi; i Samburu, popolo di pastori nomadi, vivono, infatti, nella parte
centro settentrionale del Kenya. La loro origine è nilocamitica e, per le
similitudini somatiche, le usanze e le tradizioni antiche, sono parenti dei
Maasai. Il loro territorio è molto vasto: a Nord si estende fino alla sponda
meridionale del lago Turkana, e a Sud arriva fino al «fiume marrone»,
l’Ewaso-Ny’ro.

Dopo queste notizie la mia curiosità cresce, e così decidiamo di
andare a trovare p. Aldo: due mesi dopo, di buon mattino, lasciamo Nairobi alla
volta di Sererit. P. Fabio Chaparro, sacerdote colombiano Fidei Donum che presta il suo servizio proprio sulle sponde del
lago Turkana, a Loyangallani (un’altra missione dove operano i missionari della
Consolata), ci dà un passaggio fino alla missione di South Horr e p. Aldo viene
a prenderci lì. Il viaggio da Nairobi a South Horr, ai piedi del monte Nyiro,
ha le sue piacevolezze: 180 km di asfalto fino a Rumuruti; 120 di sterrato
tormentato e spesso insicuro fino a Maralal; 100 km infami su una strada
ridotta a pista fino a Baragoi e ancora 50 sullo sterrato discretamente ben
tenuto che porta a South Horr.

Verso Sererit

Partiamo il pomeriggio. Da South Horr a Sererit il tragitto è
tutto su pista: sassi, pietre, sabbia, letti di fiume e ancora sassi! 70 km di «fuoristrada».
Passiamo diverse piste battute, rese agibili grazie alle braccia volenterose di
tanti uomini samburu che p. Aldo ha coinvolto nel suo progetto di «urbanizzazione
primaria» avviato già a fine anni Novanta, quando è stato destinato a
cominciare quella missione. Tutt’intorno, il paesaggio è mutevole: passiamo
dalle colline con grandi acacie ombrellifere alla savana con vegetazione bassa
di arbusti e acacie spinose, da scarpate rocciose a ampi letti di fiumi
stagionali in secca. La sera arriva presto, anche perché la velocità su queste
piste è necessariamente ridotta al minimo e, pertanto, non potendo raggiungere
la nostra meta prima che faccia buio, ci fermiamo a passare la notte in una outstation
nei pressi (si fa per dire) della missione: il campo di Maragì. In fretta
montiamo la tenda dove io e Frank trascorreremo la notte; il fido Maharague
(fagioli!), il guardiano samburu del campo, ci prepara del fegato di capra
arrosto e del buon chai (tè bollente con latte) e appena cala la notte
saliamo sul tetto della land cruiser del padre a gustarci l’immensità di
un cielo stellato la cui bellezza difficilmente riesco a descrivervi a parole!
Sono appena le nove e mezza ma è già ora di andare a nanna. «E tu dove dormi?»,
chiedo a p. Aldo. Lui sorride ancora. Forse è il candore delle mie domande a
farlo sorridere ogni volta. Presto detto: dal bagagliaio della land cruiser
– che, se non fosse per le dimensioni, potrebbe facilmente essere paragonata
alla borsa di Mary Poppins per la quantità e varietà degli oggetti che contiene
– tira fuori un materasso, che durante il giorno funge da schienale e la sera
si trasforma nel fugace giaciglio di chi ha imparato a non temere l’imprevisto.
Ci si stende sopra, lasciandoci a bocca aperta senza darci neppure la
possibilità di complimentarci per la trovata geniale!

Il mattino dopo di buon’ora siamo nuovamente on the road:
Ngoronit, Nasunyei, Loikum kum, Lekerrì, infiliamo uno dopo l’altro i villaggi-outstations,
più o meno grandi, che portano verso la missione; in ognuno di essi facciamo
una breve sosta per distribuire acqua e farina. A sera, poco prima del
tramonto, giungiamo a destinazione. L’arrivo è per noi un momento
straordinario: p. Aldo adora la musica e mentre stiamo ancora dando una mano a
scaricare la macchina, lui corre in casa e mette su una canzone di alcuni anni
fa, Don’t cry for me Argentina. Appena giriamo l’angolo verso l’ingresso
della casetta di lamiere a noi riservata, si apre di fronte a noi uno
spettacolo mozzafiato: il Manmanet, la gigantesca cima amica del popolo
Samburu, illuminata dal rosso del sole calante, si erge maestosa nel gruppo
delle Ndoto Mountains che domina la vallata circostante. Io e Frank ci
innamoriamo all’istante di questo luogo ai confini della realtà.

La missione è situata in una zona ricca d’acqua, dove la savana
(quando piove) si colora di verde e la natura assume un aspetto rigoglioso, con
fiori e piante dai colori sgargianti.

In un mondo fuori dal mondo

(clicca su slideshow per altre immagini del viaggio di Bea e Frank)
Trascorriamo a Sererit cinque bellissimi e
intensissimi giorni, entrando in contatto con il mondo dei Samburu, gli «aristocratici
dell’Africa orientale»: facciamo nuove amicizie soprattutto tra i bambini che frequentano
l’asilo della missione e le donne, belle ed eleganti nelle loro vesti ricavate
da stoffe policrome. Impariamo in breve a conoscere il loro tipo di società:
una società forte in cui è importante il fattore umano, dove tutti sono
considerati allo stesso modo, dove si vive in simbiosi con la natura, e dove il
fulcro di questa vita è la manyatta, un recinto di rami spinosi al cui
interno vi sono le capanne della famiglia, e al centro ulteriori recinti (uno
per ogni moglie – vedi foto pagine seguenti) per proteggere il bestiame
dagli agguati dei predatori.

Nel tardo pomeriggio quando il sole non
picchia troppo facciamo delle lunghe passeggiate su per la collina. In
compagnia dei bambini arriviamo fino alle manyatta più vicine, scambiamo
due chiacchiere con le padrone di casa, prepariamo con loro i canti e le danze
per la messa della domenica, e intanto aspettiamo il rientro delle mandrie dal
pascolo. I Samburu allevano principalmente bovini, dalle lunghe coa di tipo
indiano con la gobba, da cui prendono il latte che, (a volte) mescolato al
sangue, costituisce il loro alimento principale, e capre che, invece,
rappresentano una risorsa durante i lunghi periodi di siccità e il cui latte è
usato soprattutto per i bambini. Silenziose e ordinate in fila indiana, ecco le
mucche che rientrano prima della notte: siamo circondati da una magnifica
armonia tra persone, animali e vegetazione; ognuno al suo posto, rispettoso
dello spazio degli altri.

A sera, dopo cena, ci stendiamo tutti a naso in sù perché p. Giuliani
ci insegna a conoscere le costellazioni e, mentre gareggiamo a chi avvista più
stelle cadenti nello sconfinato cielo africano, ci lasciamo cullare dalle
melodie antiche del popolo samburu che si riunisce intorno al fuoco prima di
dormire. Non è difficile immaginare perché, a distanza di un anno, alla
classica domanda: «E in viaggio di nozze dove andrete?», che tutti ci faranno
dopo il nostro matrimonio, la nostra risposta non potrà che essere: «In Kenya,
a Sererit!».

Beatrice Romeo Wainaina



Nomade tra i
Nomadi

Dagli appunti
di viaggio di Gigi Anataloni, giugno 2009.

La missione provvisoria

Abbarbicata sul costone della montagna, la missione è l’apoteosi
del provvisorio perenne. Un attento terrazzamento del terreno ha ricavato piani
su cui creare basamenti in cemento per una serie di casette in lastre zincate,
e strutture in legno: un magazzino, la casa multiuso per gli ospiti, la
struttura garage-officina-falegnameria-idraulica, il dispensario vicino al
cancello d’ingresso, la spaziosa chiesa-manyatta
in struttura di ferro coperta da lunghe erbe e plastica coloratissima, e la
casa del missionario, evidentemente cresciuta senza un piano preciso ma secondo
i bisogni del momento. Qua e là ci sono fiori coloratissimi, piante da frutta,
banani e aiuole con insalata, pomodori, cipolle e tante erbe aromatiche.

L’acqua è vicina, solo duecento metri più in basso, dove scorre il
torrente, ma non è potabile, perché inquinata dallo sterco degli animali e
salmastra. Così p. Aldo è andato verso la cima della montagna, all’inizio della
valle, dove ha scoperto una sorgente incontaminata. Con la gente del posto ha
messo tubi, cinque chilometri, e ora l’acqua potabile arriva alla missione e
all’asilo annesso. Il più grande problema è convincere i pastori/pastorelli
samburu a non far buchi nei tubi per risolvere le loro necessità immediate. Ci
sono volute ore e ore di discussioni con gli anziani e un bel po’ di tabacco
per ottenere dei risultati, ma alla fine si sono convinti tutti che l’acqua
potabile è meglio, soprattutto per i loro bambini che giorniosi frequentano il
coloratissimo asilo della missione.

Fondata nel 1999, Sererit (che significa acqua che scorre) ha una
superficie di circa 1400 km2 e quasi 6.500 abitanti in maggioranza Samburu, con alcuni piccoli
gruppi di Rendille e di Turkana. La disponibilità di acqua potabile è stata la
ragione principale della scelta del luogo attuale, stupendo, ma un po’
marginale rispetto a tutta l’area che la missione serve. Nel futuro si pensa di
trasferire il centro a Lekeri, in un luogo più piano, dove esiste già una
grande scuola con un regolare campo sportivo, ma prima occorrerà costruire un
lungo acquedotto.

Educazione, salute e Vangelo

La missione ha solo tre centri con scuole, chiesetta e catechista
residente, centri avviati circa trenta anni fa, quando tutto quell’immenso
territorio era ancora parte della missione di Baragoi (la prima missione del
distretto – oggi contea – Samburu, fondata nel 1952). Questi centri sono gli
unici ad avere anche alcune case in muratura e dei negozietti. Per il resto la
gente è nomade e ha molta mobilità secondo le necessità di pascolo o i cicli di
siccità. Per questo p. Aldo ha creato in luoghi strategici, dove ci sono pozzi
per l’acqua (spesso salmastra), dei punti d’incontro e aggregazione e li ha
foiti di una grande pentola nella quale cuocere del cibo (normalmente latte
più farina di grano o preferibilmente miglio e soia) per i bambini, prime
vittime di un ambiente arido e spesso ostile, e offrire loro i primi rudimenti
dell’educazione in asili provvisori. Là, sotto una pianta di acacia si radunano
anche i cristiani o gli aspiranti tali per la preghiera e la catechesi, ma
anche gli anziani per discutere di salute ed educazione, di acqua e di strade.

Il fiore all’occhiello è l’asilo di Sererit, costruito proprio a
ridosso della missione: coloratissimo, pieno d’ingegnosi strumenti didattici
portati da fuori o ideati e realizzati sul posto con materiale locale, a misura
della cultura e del modo di vivere Samburu. Con l’aiuto di volontari italiani
che, salute permettendo, ritornano regolarmente a Sererit, sono state formate
delle maestre locali che insegnano con entusiasmo e competenza. I risultati
sono eccellenti. Diversi bambini usciti da quell’asilo sono entrati
immediatamente nella seconda elementare saltando la prima.

Ma l’educazione rimane un grosso problema. Gli anziani non ne
capiscono la necessità. La loro vita ruota attorno al bestiame e i bambini sono
più utili a seguire le capre che sui banchi di scuola. E poi, le ragazze che
studiano diventano piene di pretese, vogliono continuare gli studi e non
accettano di sposarsi giovanissime come fanno invece le loro coetanee
analfabete.

Il governo, con l’aiuto della missione, ha creato scuole a
sufficienza, ma il livello dell’insegnamento è povero, perché molti dei maestri
mandati in queste aree sono tra i più scadenti, che nessuno vuole, o sono in
punizione perché ubriaconi. Manca poi una rete efficace di asili, nei quali i
bambini possano imparare le basi per entrare nella scuola elementare.

La salute è anche un altro spazio d’intervento della missione. Ci
sono due dispensari e una clinica, anche se sono ben poca cosa in quell’area
così vasta. Importante è l’aiuto e il servizio fornito da alcune infermiere
italiane e anche dalla presenza saltuaria di una suora della Consolata.
Fortunatamente il clima è salubre e ci sono pochi casi di Tbc o malattie
respiratorie come polmonite, raffreddori e bronchiti. Comunissime invece le
fratture e le ferite da strumenti da taglio, incidenti che capitano sul lavoro
soprattutto quando si va a raccogliere legna. Un settore di grande rischio è la
mateità, anche perché spesso le donne arrivano al dispensario all’ultimo
momento e pochissime partecipano ai controlli. Quando i casi sono troppo gravi,
p. Aldo salta in macchina, giorno o notte, pioggia o sole, e va al centro di
salute più vicino o all’ospedale di Wamba (quasi 150 km). In quei casi non
sente ragione. Il malato ha tutte le priorità. È quasi leggenda la volta che
perse le staffe con una suora che non voleva curare una paziente perché era
sera tarda (ed era davvero tardi!) e la comunità non doveva essere disturbata.


Una giornata tra spine e
saliscendi

La giornata di p. Aldo comincia presto la mattina. Controllato il
fuoristrada, caricata l’acqua potabile (più o meno 600 litri!), le medicine, il
cibo, verificate le gomme, riempito il serbatornio, è pronto a partire. Un
particolare colpisce: le gomme sono lisce e consumate all’inverosimile. Viene
da chiedergli: «Ma non hai i soldi per delle gomme nuove?». Lui ti guarda
soione e con pazienza ti spiega che di gomme ne ha a volontà e buone (che usa
solo quando va a Nairobi!). Che viaggia con tre ruote di scorta, ma a Sererit
le gomme lisce sono più sicure delle nuove, perché è meno facile che vengano
bucate dalle lunghe spine che si trovano ovunque. Nella gomma nuova è facile
che una spina si pianti e spezzi dentro, e poi, pian piano, arriva fino alla
camera d’aria e sei a terra.

E poi l’acqua. Perché tanti fusti stracolmi? Non ci sono
spiegazioni verbali per quello. Occorre viaggiare con lui per capirlo.

Partiamo allora con lui. Dopo un po’ lascia la pista principale,
si infila nel letto di un fiume dove viaggia anche agli ottanta (dice che è la
sua autostrada), poi rallenta, entra nella foresta seguendo un sentirnero da
capre che chiama strada. Dopo un sacco di su e giù, attenti a non mettere le
braccia fuori dal finestrino per non restare graffiati dai rami spinosi,
arriviamo vicino a una manyatta tutta circondata di spine. Si va un po’
più in là: in riva a un torrente secco. Nel letto sabbioso ci sono grandi buche
e dentro donne e uomini che con pazienza raccolgono acqua per sé e il bestiame.
Sentendo la macchina, le donne ci corrono incontro, bidoni e contenitori in
mano. Una vecchia, con un bidoncino bianco da due litri, si versa addosso tutto
il contenuto giallastro raccolto nel fiume, si lava allegramente la faccia e
poi si avvicina, saluta calorosamente e attende. P. Aldo tira su il telone del
vano posteriore, piazza un tubo di gomma nel primo dei fusti e distribuisce
acqua per tutti: acqua pulita, potabile, chiara, dolce… una delizia per chi ha
sempre acqua salmastra. Un fusto si svuota in un baleno. Riempiti i
contenitori, le donne felici si siedono attorno a lui per raccontare, ascoltare
e pregare. Più in là, sotto una grande acacia, un gruppo di bambini stanno
seduti in cerchio attorno a una ragazza con una bacchetta in mano. Appoggiata a
un tronco c’è quella che dovrebbe essere una lavagna con parole e numeri
scritti in grandi caratteri. La maggior parte dei bambini è vestita di sole, e
l’attenzione a quei segni è totale. Sotto lo stesso albero, appena più in là,
su due pietre bolle un pentolone: una donna ne mescola il contenuto, una
pappetta bianca, e un’altra attizza il fuoco. Vicino, c’è una gran quantità di
tazze di plastica coloratissime. Tra poco la lezione sarà finita e i bimbi
avranno il loro pasto semplice ma nutriente. È uno dei tanti asili
informalissimi e semplici, ma prima e unica fonte di scolarizzazione in quelle
terre ignorate da tutti. Si riparte. È stagione secca. Ancora su è giù per «gli
irti colli». Difficile descrivere il paesaggio. Le immagini provano a dire quel
che l’occhio vede. In un angolo una manyatta solitaria. P. Aldo si
ferma, saluta tutti e condivide il dono dell’acqua. E via di nuovo. Di manyatta
in manyatta, di asilo in asilo, di pozzo in pozzo, finché la macchina è
vuota. Mille incontri, mille sorrisi, mille parole di speranza. È già vicino il
tramonto quando ritorniamo alla missione. Le capre stanno tornando dal pascolo,
i bimbi dell’asilo della missione sciamano verso casa. Se non ci saranno
imprevisti, la sera sarà tranquilla, la cena semplice, la preghiera silenziosa
nella chiesa-manyatta e poi sdraiati a pancia in sù, in silenzio, a
guardare le stelle in un cielo incontaminato.

Gigi Anataloni

Bea Romeo e Gigi Anataloni




Myanmar/Birmania: Cambiamento è anche progresso?

La rivoluzione democratica in Birmania
Un tempo Birmania, oggi Myanmar, la nazione divenuta sinonimo di
dittatura e isolamento, sta ora vivendo i primi passi di una nuova stagione di
libertà e rinnovamento a una velocità frenetica. I rischi sono molti, ma non si
può fermare il tempo. La speranza è che il cambiamento porti reale pace e armonia
in un popolo che deve reinventare la propria identità senza perderla.

Con maestria il pescatore affonda
la propria rete conica nelle acque basse del lago Inle e, manovrando la barca
con un solo remo avvinghiato alla gamba, estrae dalla nassa un paio di
guizzanti pesci argentei: anche stasera la cena per la famiglia è assicurata e
l’uomo guadagna la strada di casa remando nel modo tradizionale degli Intha, il
gruppo etnico tibeto-birmano che da secoli abita questo incredibile ecosistema
lacustre. Osservare i movimenti lenti e armoniosi dei pescatori Intha che
tornano alle proprie semplici palafitte, nell’atmosfera serena e avvolgente del
tramonto, rende difficile pensare che la Birmania stia attraversando uno dei
momenti più significativi di cambiamento della sua storia secolare.

La Birmania deriva il suo nome dal gruppo etnico di maggioranza, i
Bamar; assunse la denominazione Union of Burma dopo essersi smarcata
dall’impero anglo-indiano e aver raggiunto una fragile indipendenza nel 1948.
La disgregazione sociale e i contrasti tra le varie etnie insanguinarono il
paese per lunghi anni del secolo scorso, finché nel 1988 un colpo di stato da
parte della giunta militare guidata dal generale Saw Maung instaurò un nuovo
regime autoritario e repressivo. Fu nel 1989 che la giunta militare al potere
cancellò d’ufficio il nome Birmania, sostituendolo con Myanmar (secondo i
militari più rappresentativo delle diverse etnie presenti nel paese e
soprattutto completamente differente dal vecchio nome che richiamava il passato
coloniale) e spostando addirittura la capitale nel 2006 da Yangon a Naypyidaw,
luogo meno accessibile e quindi più irraggiungibile per le manifestazioni di
dissenso popolari.

Ma la voce di tale dissenso proruppe lo stesso, in particolare dalla
esile figura di Aung San Suu Kyi, figlia dell’eroe dell’indipendenza Bogyoke
Aung San e paladina della libertà. Divenuta leader della Lega Nazionale per la
Democrazia, venne posta agli arresti in occasione delle finte elezioni indette
nel 1989, il cui risultato, una schiacciante vittoria per il partito di San Suu
Kyi, non venne mai riconosciuto dai militari al potere. Durante gli anni della
prigionia la donna ricevette numerosi premi inteazionali, tra cui il Nobel
per la Pace nel 1991, e non abbandonò mai la propria paziente attività di
mediazione e contemporaneamente di lotta, grazie anche all’opera clandestina di
tanti sostenitori nel paese e al sostegno pubblico di importanti personalità
della scena internazionale, tra cui l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu.

Vent’anni duri

Durante questa paziente e tenace resistenza, riconosciute virtù
asiatiche, le condizioni di vita del popolo birmano conobbero un ventennio di
drastico peggioramento. La giunta militare si preoccupò principalmente di fare
affari con grandi potenze quali la Cina e la Russia, a cui praticamente regalò
parte delle immense ricchezze naturali del paese (materie prime, giacimenti
minerari, pietre preziose), e con una rete di baroni locali dediti al
contrabbando di droga e alla creazione di imperi personali. In questo scenario,
la popolazione urbana e quella rurale subirono le conseguenze peggiori: la
prima vide soffocato ogni tentativo di libertà d’espressione, di organizzazione
sindacale, di sciopero e manifestazione del dissenso, di stampa, di contatti
con l’estero; la seconda, distante dai giochi del potere politico ed economico,
fu costretta a occuparsi solo della propria mera sopravvivenza quotidiana,
priva di qualsiasi sostegno statale e pubblico, terrorizzata dal possibile intervento
militare in caso di protesta per le proprie misere condizioni. Le rivolte di
fine Novecento ebbero come protagonisti gli studenti delle grandi città e i
monaci, le uniche fasce di popolazione sufficientemente istruite per
intercettare e manifestare la protesta. Esse furono soffocate nel sangue grazie
anche al ripristino della legge marziale.

In questa fase, l’embargo attuato dagli Stati Uniti e dall’Europa
nacque con intenzioni forse condivisibili (tagliare i rifoimenti economici e
finanziari al regime per indurlo alla trattativa e alla apertura), ma all’atto
pratico intaccò solo superficialmente il potere militare ed ebbe gravi
conseguenze sulla vita della maggioranza dei birmani. L’isolamento
internazionale tagliò fuori il paese dai flussi economici, dallo scambio di
informazioni (la rete Inteet non funzionava, le e-mail erano soggette
a controlli e censura, i visti non erano rilasciati a giornalisti e operatori
dei mass media) e dal progresso sociale.

Tra passato e presente

Chi ha avuto l’opportunità di viaggiare come turista nella
Birmania dell’inizio del Ventunesimo secolo è stato facile testimone di una
realtà sospesa tra passato e presente, caratterizzata dalla mancanza di un
sistema educativo e scolastico obbligatori, dall’assenza di una rete sanitaria
a livello nazionale, dalla presenza di infrastrutture desuete risalenti per la
maggior parte all’epoca coloniale britannica. Visitare la Birmania in quegli
anni significava attraversare il tempo e ritrovarsi in un passato quasi del
tutto dimenticato in Occidente: i bambini al lavoro nei campi con i genitori,
gli anziani a fumare serenamente i propri cheerot (grossi sigari fatti a
mano) e ad attendere il tramonto, paesaggi rurali rigogliosi, ricchi di colori
e profumi, impreziositi da pagode e stupa secolari, giovani
monaci buddisti in meditazione o in fila per la ciotola di riso quotidiana:
nell’estrema povertà, i birmani mantenevano una grande dignità e una timidezza
curiosa, che inevitabilmente sfociava in un bel sorriso. La terra delle pagode e
dei sorrisi: sorrisi semplici, sinceri, genuini. Viaggiare in Birmania in
quegli anni consentì inoltre di aprire una minuscola crepa nel guscio in cui i
generali avevano rinchiuso il paese. Nell’indifferenza dei grandi poteri, le
spese dei visitatori mantennero in vita uno strato sociale di persone dedite al
turismo, tra cui guide, autisti, camerieri, addetti alle pulizie, facchini,
piccoli ristoratori, e lo alimentarono con idee, immagini, racconti di sistemi
politici e sociali differenti, ma anche con aiuti economici concreti. Ma il
dilemma morale del viaggiatore (non voler contribuire con tasse, permessi,
gabelle varie ad arricchire un regime sanguinario) restava per molti un nodo
irrisolto e un ostacolo etico.

Lo stato si ricordava dei suoi cittadini solo quando questi
alzavano coraggiosamente la testa e protestavano per le condizioni di vita
misere in cui si trovavano a sopravvivere. In quei momenti scattava la
rappresaglia, dura e silenziosa, contro studenti, monaci e gente comune di
Yangon e Mandalay.

La latitanza dell’istituzione centrale in tutti gli altri campi,
in particolare delle politiche sociali, economiche e culturali, venne in parte
colmata da alcune figure eccezionali per abnegazione e tenacia: i sostenitori
clandestini dell’opposizione democratica e i seguaci di San Suu Kyi non
cessarono mai di tramare alle spalle del regime, di tessere la rete dei
contatti e delle idee e di esprimere il dissenso anche in forme d’arte meno
palesi, ma altrettanto efficaci (come la musica degli Iron Cross, che nella
grande tradizione del rock sfidò le istituzioni repressive con il proprio motto
Rock the junta). I monaci buddisti giocarono un ruolo fondamentale nella
circolazione delle idee e della cultura, accogliendo nei propri monasteri molti
bambini e giovani e insegnando loro la lettura, la scrittura, le lingue e le
strutture del pensiero filosofico. Infine i sacerdoti missionari cristiani, non
rappresentarono in quegli anni solo figure di riferimento spirituale, ma anzi
tradussero il Vangelo in azioni concrete di pura solidarietà e amore per il
prossimo, aiutando i bisognosi in ogni campo, in ogni remoto angolo del paese.

Padre John

Un esempio su tutti è padre John Aye Kyaw,
un instancabile sacerdote cattolico che ha trascorso un po’ di tempo in
Vaticano e ha imparato qualche parola di italiano. Quando viene a conoscenza di
qualche gruppo di turisti di passaggio a Mandalay si sobbarca tuttora almeno
sette ore di viaggio lasciando il suo villaggio nella remota campagna birmana
per venire a incantare tutti con i suoi racconti di prete di frontiera. Le sue
parole pennellano una realtà drammatica fatta di povertà e miseria, che preti
come lui combattono istruendo i bambini del villaggio, dando loro rudimentali
nozioni scolastiche nella scuola che lui stesso ha costruito, confortando gli
ammalati, distribuendo vestiti ai bisognosi, impugnando gli aesi da lavoro e
contribuendo alla costruzione di una paratia contro le alluvioni monsoniche,
effettuando visite mediche e assegnando farmaci, addirittura aiutando giovani
donne a partorire. Padre John è l’esempio più emblematico dell’assenza dello stato in
Birmania. Solo la sua instancabile opera di coinvolgimento dei viaggiatori nei
suoi progetti ha consentito a molti abitanti del posto di ricevere aiuti
concreti dall’estero.

Cambiamento

Verso la fine del primo decennio del Duemila, l’acuirsi delle
sanzioni inteazionali indussero il regime ad allentare gradualmente la presa
autoritaria, con mosse spesso di facciata ma che sancirono l’inizio di
un’inevitabile fase di riforma in direzione democratica. Nel 2010 si tennero le
prime elezioni dopo 20 anni dalle ultime e vennero promulgate leggi sul lavoro,
sull’associazionismo sindacale, sui diritti civili e sull’apertura a
un’economia mista. Il cambiamento era in atto e le riforme aprirono una nuova
fase politica di riconciliazione nazionale, segnata dalla lieta liberazione di
San Suu Kyi nel novembre di quell’anno e dalla vittoria della sua Lega
Nazionale per la Democrazia alle elezioni generali del primo aprile 2012, in cui
però si distribuiva solo una piccola parte dei seggi in Parlamento, dato che la
maggioranza veniva sempre attribuita a ufficiali nominati dalla giunta
militare. Oggi, il processo nato come una timida democratizzazione sta
assumendo sempre più i contorni di un evento epocale: la recente visita del
presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama ha definitivamente fatto
puntare i riflettori dei media inteazionali sulla Birmania, dopo anni di
isolamento la procedura di ottenimento dei visti turistici è stata resa più
semplice e un flusso sempre più consistente di viaggiatori inteazionali e
soprattutto asiatici affolla gli alberghi e i siti turistici.

Con impressionante rapidità l’inflazione è cresciuta, i banchetti
di souvenir si sono coperti di magliette con il volto di San Suu Kyi, Inteet è
più veloce e le e-mail arrivano a destinazione in tempo reale. Persino i
telefoni cellulari cominciano a diffondersi, mentre le banche cambiano la
valuta straniera senza più necessità del mercato nero clandestino e gli
alberghi 5 stelle di Yangon sono costantemente affollati di businessmen
in cerca di affari.

Nuovo ottimismo

La gente è in fermento, ottimista, speranzosa: vuole godere
appieno dei nuovi, inediti spiragli di libertà. Fino a pochi mesi fa, la gente
comune viveva con la preoccupazione di essere controllata nelle proprie azioni
e nell’espressione del proprio pensiero. Il regime non aveva mai riempito le
strade e i luoghi pubblici di militari in divisa, ma aveva creato un clima di
paura e diffidenza, una sorta di cappa che gravava minacciosa su ciascun
cittadino. Ora il più significativo segno del cambiamento, al di là dei piccoli
seppur importanti progressi pratici quotidiani, è proprio il dissolvimento di
questa cappa di paura e oppressione. Prima era meglio tenere per sé le proprie
idee, magari quel signore all’angolo in attesa dell’autobus era un militare in
borghese che sarebbe potuto intervenire se insospettito da una qualche forma di
dissenso… ora invece il timore e il sospetto di essere controllati è svanito,
la libertà è soprattutto psicologica, è uno stato mentale.

Nuovi rischi

Chi ha visitato il paese anni fa e vi torna ora non riconosce più
la Birmania di un tempo, soprattutto nelle città: i ritmi tranquilli e gli
atteggiamenti sottomessi di un passato recente lasciano spazio a ingorghi
stradali e attività frenetiche. Molte persone che si trovano a sperimentare per
la prima volta una forma seppur acerba di libertà, confondono questo nuovo
status con la possibilità di fare ciò che pare a loro. Il passo indietro del
regime oppressivo è interpretato come assenza di autorità e molti ignorano le
regole perché tanto non c’è più chi le fa rispettare rigidamente. La gente
comincia a vedere i visitatori stranieri non più con occhio curioso e timido,
ma come una risorsa da cui trarre guadagno. E i sorrisi appaiono un pochino
meno genuini di una volta, anche il fascino delle pagode di Bagan sfuma
lentamente mentre grandi bus scaricano decine di turisti thailandesi, coreani e
cinesi. In un tempo molto breve si è passati da 300mila ingressi annuali in
Birmania per turismo a quasi un milione di visitatori nel 2012.

Ci si può chiedere se il cambiamento, soprattutto quando è così
repentino, sia sempre sinonimo di progresso: la giunta militare tuttora al
potere è in grado di traghettare il paese verso il futuro limitando gli
strappi, le ingiustizie e gli effetti negativi che tali eventi (che rimandano
al crollo dell’Unione Sovietica) portano sempre con sé? Non bisogna dimenticare
che il processo di apertura è stato voluto e guidato dall’alto, grazie agli
elementi più illuminati tra le fila dei dirigenti militari: questi hanno
captato i segnali di una crescente insofferenza intea e internazionale ai
metodi di governo autoritari e, dopo una severa fronda intea, hanno scelto la
strada delle concessioni e delle riforme graduali. Gli esempi dell’Iraq, della
Libia, dell’Egitto, della Tunisia, della Siria devono aver pesato sulla scelta
di gestire dall’alto il cambiamento anziché di combatterlo frontalmente. Il
rischio è che la giunta, una volta attivato il processo dirompente di
democratizzazione, cerchi quantomeno di accaparrarsi una bella fetta del potere
economico prima di lasciare le briciole ai birmani più svelti e intraprendenti.

La speranza è che il carattere mite e semplice di questo popolo ne
esca rafforzato, e non stravolto, nella propria identità. Sono interrogativi e
questioni a cui solo il tempo potrà rispondere. Intanto, il pescatore Intha
gira i suoi pesci sulla brace e scruta l’orizzonte, mentre gli ultimi raggi di
sole scintillano sulle acque placide del lago Inle.

Andrea Mapelli e Daniele Biella

Andrea Mapelli e Daniele Biella




(Papa) Francesco: dalla fine del mondo

Abbiamo chiesto a tre argentini (un vescovo dal
Sudafrica, un prete dal Kenya e una giornalista dall’Argentina) di raccontarci
cosa hanno provato alla notizia dell’elezione dell’arcivescovo di Buenos Aires
a vescovo di Roma e papa di tutta la Chiesa cattolica. Ecco le loro
testimonianze, molto concordanti.

PREMESSA

«[Essere nel conclave] non è un
gioco divertente. È [un’esperienza] molto intensa e che davvero ti svuota
emozionalmente perché ci pensi notte e giorno. [Pensi:] “Questa è una delle
cose più importanti che mai farò: votare per il prossimo successore di Pietro”.
Così c’è una grande intensità. Non so come spiegarlo. [A un certo punto] è come
se si percepisse la bellissima sensazione del gentile movimento dello Spirito
Santo. Non ci sono tuoni e lampi. Niente colpi di testa. Nessuno che cade da
cavallo. Ma pian piano cominci a sentire come un movimento [che orienta] verso
un uomo. Si prega duro. Si parla tanto con gli altri. E questa convergenza
cresce gradualmente. È stata una cosa che ha generato tanta gioia e serenità. […]
Quelli sono momenti meravigliosi. E poi c’è il silenzio! Gran parte del
conclave è silenzio. Non è un caucus di partito, non è una convention,
è quasi una liturgia, un’occasione di preghiera. C’è molta pace. È come se tu
stessi facendo un ritiro, dove hai un sacco di spazio per pensare, riflettere e
pregare». [Nostra traduzione della testimonianza di Timothy Dolan, cardinale
e arcivescovo di New York, rilasciata alla Cnn il 15.03.2013].

Tra i fiumi di parole scritti e
detti nei primi venti giorni di marzo, ho scelto questa breve testimonianza del
cardinal Dolan di New York, perché mi sembra esprima meglio di qualunque altra
testimonianza la realtà di quanto è accaduto nel conclave che ci ha dato il
nuovo papa Francesco. Senza negare tutte le possibili passioni umane, i diversi
punti di vista dei cardinali – uomini sono! -, alla fine l’elezione del papa è
stata soprattutto un’esperienza di fede e di Chiesa, nel senso più vero del
termine. A dispetto di tutte le speculazioni, è stato un avvenimento dello
Spirito, che ancora una volta ha saputo sorprenderci e ha dato l’uomo giusto al
momento giusto.

Papa Francesco ha davanti a sé
una lista di desiderata che non finisce più. Tutti si sono sentiti in
dovere di esprimergli i loro desideri, da quello di vendere la Basilica di san
Pietro e liquidare il Vaticano, a quello di aprire il sacerdozio alle donne…
Il cardinal Hummes gli ha detto
di «non dimenticare i poveri».

Sì, papa Franceso, non
dimenticare i poveri e non permetterci di dimenticarli. Tu che vieni «dalla
fine del mondo» aiutaci ad aprirci al mondo, soprattutto al Sud del mondo e
alla sua Chiesa povera e fedele. Dacci dei pastori che abbiano il cuore e la
libertà di Cristo, non funzionari senza amore e senza misericordia. Aiutaci a essere
santi, veri santi, grandi santi. Facci gustare la faccia misericordiosa e viva
di Dio, celebrata nell’amore che si fa prossimo e nella festa, nella gioia,
nella semplicità di una liturgia che tocchi il cuore degli uomini e non sia
inbalsamata nel ritualismo ricco e barocco di chi ama più le pietre inerti che
le «pietre vive» della Chiesa.

Papa
Francesco, nel febbraio 2012 hai detto che «tutta l’attività ordinaria della
Chiesa si è impostata in vista della missione. Questo implica una tensione
molto forte tra centro e periferia, tra la parrocchia e il quartiere. Si deve
uscire da se stessi, andare verso la periferia. Si deve evitare la malattia
spirituale della Chiesa autoreferenziale: quando lo diventa, la Chiesa si
ammala. È vero che uscendo per strada, come accade a ogni uomo e a ogni donna,
possono capitare degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in se stessa
[…], invecchia. E tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una
Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima» (da
«La Stampa», 14.03.2013, pag. 7).

Guidaci col
tuo esempio sulla strada della nuova evangelizzazione. Incoraggia la nostra
debolezza!

Gigi Anataloni

Un Pastore da imitare

Nel mese di aprile del 2011 andai
in Argentina per le vacanze. Tra le tante cose che volevo programmare c’era
anche un incontro con l’arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Jorge
Bergoglio, non soltanto perché sono nato nella sua arcidiocesi, ma anche perché
volevo fargli sapere che un bambino di quella arcidiocesi, da grande era
diventato vescovo in Sudafrica.

Mi avevano
detto: «Se chiami alle 7 del mattino, egli stesso risponde al telefono». Poiché
non mi conosceva, decisi di scrivergli una email per presentarmi. Mi
rispose che aveva un calendario pieno di impegni, ma che sicuramente avrebbe
trovato il tempo. Concluse la email con le stesse parole che abbiamo
sentito nel suo primo giorno di pontificato: «Per favore, ti chiedo di pregare
per me». Ci incontrammo un pomeriggio nel suo ufficio per una mezz’ora. Con
semplicità condividemmo molte cose in pochissimo tempo. Poi mi accompagnò fino
in strada e mi disse: «Grazie per essere venuto a trovarmi. Te ne sono
veramente grato». Per quanto mi riguardava, gli dissi di apprezzare il fatto
che offrisse una nuova immagine di arcivescovo (era famoso perché a Buenos
Aires viaggiava in autobus o in metropolitana e perché viveva in modo
semplice), e i segnali che ci aveva regalato nel corso degli anni, soprattutto
il Giovedì Santo quando usciva dalla cattedrale per lavare i piedi delle
persone con Aids, degli anziani e delle donne in gravidanza. Credo che questo
uscire dalla cattedrale sia stato il segno visibile della sua pastorale
missionaria nella diocesi. Era la testimonianza di quello che voleva si vivesse
come Chiesa a Buenos Aires.

L’incontro mi segnò
personalmente. Tanto che, da due anni, nel vicariato affidatomi, il Giovedì
Santo lasciamo la Cattedrale e andiamo a celebrare in altre comunità, in modo
che tutti abbiano la possibilità di partecipare (il Vicariato di Ingwavuma, in
Sudafrica, si estende su una superficie di più di 200 km di lunghezza).

Ci rimane però ancora la sfida
culturale di fare la celebrazione fuori dal tempio e con uomini e donne,
giovani e vecchi…

Un altro aspetto del cardinal
Bergoglio che ho sempre tenuto ben presente è la sua disponibilità di cui avevo
sentito e letto in qualche giornale: quando un sacerdote aveva bisogno di
vederlo, il cardinale faceva l’impossibile per incontrarlo il giorno stesso
senza farlo aspettare. In questi anni, sia nel Vicariato di Ingwavuma che nella
Diocesi di Manzini (Swaziland) ho sempre cercato di mantenere un atteggiamento
similare e ho insistito sul fatto che i sacerdoti non si preoccupassero di
correre da un posto a un altro per incontrarmi, ma che, quando avessero avuto
bisogno di me, sempre sarei stato disponibile.

Qui il mio televisore riceve
soltanto canali sudafricani e per di più il segnale non è buono. Grazie a
Facebook ho appreso che era uscita la fumata bianca e grazie a Inteet sono
riuscito a seguire l’annuncio. È stata una grande sorpresa e una grande
emozione. Forse perché è la prima volta che come vescovo ho incontrato il papa.
Dopo l’elezione del papa il mio telefono non ha mai smesso di suonare e sono
stato inondato di messaggi email, segno della grande gioia del popolo,
sia in Sudafrica che in Swaziland.

Tutti sono stati colpiti dal nome
che il papa ha scelto (chi non conosce san Francisco d’Assisi?) e dai suoi
primi gesti: la semplicità, l’aver mantenuto la croce pettorale e l’anello;
l’essersi inchinato davanti al popolo di Dio affinché questi in silenzio
pregasse per Lui.

Le sue parole, il cammino del
popolo e del pastore compiuto assieme, il desiderio di costruire in comunione
il futuro: parole e gesti che hanno toccato i cuori di molti e che sembrano
ripetere ciò che è stato il suo servizio episcopale a Buenos Aires.

Spero che il Papa possa
continuare a regalarci questi piccoli segnali che sono come il seme di senape,
il quale, una volta piantato, produce molto frutto, perché essi parlano a
tutti. Senza riguardo per l’età, il colore della pelle o la fede di ognuno.

José Luis Ponce de León
Missionario della Consolata argentino, Vicario Apostolico di Ingwavuma,
Sudafrica.

 E’ LUI!

Appena dopo l’elezione del nuovo
papa ho ricevuto l’invito da padre Gigi a scrivere alcune righe sul nostro caro
cardinale Bergoglio, o semplicemente monsignor Bergoglio. Non voglio mancare di
rispetto, ma è così che noi lo chiamavamo. Jorge Mario Bergoglio, sacerdote
gesuita (Sj), ora possiamo chiamarlo papa Francesco! E perché non… papà
Francesco?

Padre Gigi mi ha chiesto di fare
parlare il cuore più che la mente. Grazie! Perché se dovessi far parlare la
mente dovrei mettermi a studiare, far delle ricerche, invece il cuore parla «in
diretta».

Nei giorni che hanno preceduto il
conclave leggevo la stampa internazionale per vedere se lo metteva in primo
piano. Ma nei pochi giornali che arrivano qui, non avevo trovato niente.
D’altra parte pensavo che avesse già la sua età, anche se era stato detto che
il card. Bergoglio era stato uno degli eletti quando il cardinal Ratzinger era
diventato Benedetto XVI. Solo su un giornale argentino era apparso come colui
che stava guadagnando il beneplacito di molti dopo alcuni suoi interventi.

È stato con grande gioia che ho
ricevuto un messaggio con la notizia della sua elezione. Son rimasto incredulo.
Ma, accesa la Tv, eccolo lì! Sì! Era lui! Anche se un po’ più grassottello di
come lo ricordavo. E subito ho visto il suo nome: Francesco! Da quel momento il
mio cellulare non ha più smesso di suonare: messaggi, chiamate, chi mi ripeteva
la notizia, chi si complimentava (non sono molti gli argentini in Kenya!), chi
voleva sapere le mie reazioni. E subito la mia risposta: «Ora vedete che c’è un
santo in Argentina!».

A dir la verità, non ho mai avuto
contatto diretto con lui, ma ovviamente so bene chi è. Mentre lo sentivo
parlare e poi salutare la gente radunata in San Pietro, mi son detto: «Sì, è
proprio lui!». Sorridente, piacevole, senza protocollo, umile… invitando a
pensare agli altri (al suo predecessore Benedetto XVI), inchinando il suo capo
di fronte alla gente per chiedere la loro benedizione (nella messa facciamo il
contrario, noi preti chiediamo alla gente di inchinare il capo), e il ripetuto
invito alla fratellanza. Sì, semplice come Francesco, Fratello Francesco!

In Argentina monsignor Bergoglio
era il vescovo missionario che camminava, e invitava i suoi colleghi vescovi a
camminare, verso le periferie, le baraccopoli… parlando con la gente,
ponendosi accanto ai poveri, non rimanendo nel «tempio». Coerentemente
incoraggiava i preti e i laici a organizzare «carpas misioneras», cioè delle
tende in città, negli incroci delle strade e nelle piazze, nella diaspora, dove
si trovano quelli che vanno in chiesa e quelli che non ci vanno proprio. Dove,
soprattutto, si può capire che il nostro Dio non è un Dio che si trova solo nel
tempio, ma è Emmanuele, il Dio con noi, tutti i giorni, in ogni momento, in
ogni luogo. Un Dio che cammina con l’uomo.

Il cardinal Bergoglio dimostrava
la sua semplicità girando in città coi mezzi pubblici: autobus, metropolitana,
treno… e vivendo in un appartamento molto sobrio vicino alla cattedrale.

Era vicino alla gente, in
particolare ai giovani in deversi momenti, come durante il pellegrinaggio
nazionale giovanile al santuario della nostra patrona, Nostra Signora di Luján.
I giovani marciano a piedi quasi 70 km, e lui molte volte li aspettava per
accoglierli e presiedere l’eucaristia, incoraggiandoli nella vita quotidiana.
In diverse occasioni ha presieduto la messa in onore di S. Gaetano, patrono per
noi del pane e del lavoro. Coinvolto in situazioni di Giustizia e Pace, in
situazioni sociali in favore dei poveri, papà Francesco, può aiutare il mondo e
la Chiesa a vivere i rapporti sulla base del rispetto e della corresponsabilità,
con serietà e gioia allo stesso tempo. Gioia che è frutto della speranza,
speranza certa che Cristo è vivo, e la Chiesa è sua!

Forse Francesco ha ravvivato la speranza
nella Chiesa. Preghiamo per lui, perché possa essere semplicemente uno
strumento di Dio nel mondo di oggi.

Daniel Bertea
Missionario della Consolata argentino, parroco del Consolata
Shrine in Nairobi, Kenya.

ORTODOSSO E PROGRESSISTA

Papa Francesco è la persona che il
mondo ha visto nei primi giorni del suo pontificato. E pare proprio che i
protocolli vaticani non riusciranno a impedirgli di mischiarsi alla gente.
D’altra parte, come arcivescovo di Buenos Aires, egli chiedeva ai suoi
sacerdoti di uscire dalle sacrestie e andare per le strade.

La sua semplicità, i suoi
comportamenti umili, il suo rifuggire dai lussi, sempre lo hanno
contraddistinto. Uomo dalla vita semplice, tanto che chi viaggia sui mezzi
pubblici di Buenos Aires lo poteva incontrare. Porteño (termine con cui si
indicano gli abitanti originari di Buenos Aires, ndr), amante del tango,
tifoso di calcio, peronista (come lo definiscono i vecchi militanti). Era
solito cucinarsi quello che mangiava. Ha viaggiato per il Conclave con un paio
di scarpe nuove regalategli da alcuni amici dopo aver notato che quelle che
indossava erano un po’ logore. Ma è certo che lui avrebbe preferito consumarle
del tutto.

Il «Bergoglio padre» è lo stesso
che i giornalisti hanno visto viaggiare in classe economica verso il Conclave,
lasciare da solo l’aeroporto di Fiumicino, trascinare la sua piccola valigia, e
poi, nei giorni precedenti l’elezione, raggiungere a piedi i luoghi delle
riunioni. Semplicità e austerità. Una sensazione strana per il Vaticano che di
solito mostra il contrario.

Se il linguaggio del corpo dice
qualcosa, allora Francesco ha già detto tutto quando, appena eletto papa, di
fronte ai fedeli, si è inchinato davanti a loro chiedendo la benedizione di Dio
su di lui. «Pregate per me» è una sua richiesta abituale.

Francesco è ciò che dice e come
lo dice. Persona affabile ma ferma. Ortodossa nella morale, progressista nel
sociale. Egli ha già dato segnali di ciò che vorrebbe, con parole semplici e
tono sereno: «Oh, come vorrei una Chiesa povera e dei poveri», ha detto. Che
altro ci si poteva aspettare dal primo papa latinoamericano, se non mettere in
cima alle scelte «l’opzione preferenziale per i poveri»?

A Buenos Aires, l’arcivescovo
Bergoglio ha creato il «Vicariato delle baraccopoli» (in Argentina si chiamano villas
miserias
, ndr) dando ai preti che lavorano lì una visibilità
speciale all’interno della Chiesa locale. E ha aperto la Casa San Giovanni
Bosco, nel bel mezzo di Villa 31 (quartiere tra i più emblematici), per
accogliere le vocazioni che sarebbero uscite dai bassifondi. Ha camminato,
lavorato e partecipato in drammi sociali come la tratta di esseri umani e il
lavoro forzato, offrendo rifugio, anche in prima persona, alle vittime di
questi flagelli. A lui, come a tutta la Chiesa argentina, sono arrivate accuse
di collaborazionismo, per azione o omissione, nell’ultima dittatura militare
(dal 1976 al 1983, ndr). Le ombre sulla Chiesa argentina di quel periodo
sono molte e hanno fondamento. Tuttavia, vari esperti in diritti umani sono
intervenuti in difesa di Francesco. Altri si sono limitati a ricordare che egli
è un esponente di una «Chiesa che oscurò il paese», come ha commentato la
presidente (Estela de Carlotto, ndr) delle «Nonne di Piazza di Maggio». È
certo che le ferite di quel tempo non si chiuderanno facilmente, anche se si
tratta di un papa.

La sua elezione ha anche causato
sorpresa tra le fila del governo di Cristina Feandez Kirchner, che ha sempre
considerato l’arcivescovo come «il leader dell’opposizione». È famosa la dura
battaglia dell’arcivescovo contro la legge sui matrimoni omosessuali, battaglia
persa, nonostante la chiamata in piazza dei cattolici argentini. Per tutto
questo, la prima reazione della presidente alla notizia arrivata da Roma
dell’elezione a papa del cardinal Bergoglio è stata fredda e distante (salvo
poi volare a Roma per incontrare il papa e presenziare all’inaugurazione del
papato, il 19 marzo, ndr). Francesco, il papa argentino, non era nei
piani della politica locale. La nomina di Bergoglio, inattesa e non sperata, ha
scosso fortemente sia il governo che l’opposizione, in un anno elettorale.

Per quanto mi riguarda, ho visto
padre Bergoglio ogni 11 febbraio, in occasione della festa di Nostra Signora di
Lourdes, nel «nostro quartiere» di Flores, dove papa Francesco è nato e
cresciuto. Confesso che io vi andavo soltanto per la sua presenza. Proprio
quest’anno non ci sono stata. Tuttavia, quello stesso giorno una vicina di casa
mi ha raccontato che, quando l’arcivescovo ha parlato delle dimissioni di
Benedetto XVI, la gente lo ha acclamato gridando: «Che Dio ti faccia papa». E
così è stato.

Alba Piotto
Gioalista
e scrittrice di Buenos Aires, vive a Flores, il quartiere nativo di papa
Francesco.

A cura di Gigi Anataloni




5_Orti: Passione e Metodo

L’intervista / Roberto Moncalvo, Coldiretti
Gli agri-asili, le agri-tate,
l’inserimento lavorativo di giovani. In un mondo dove le zone periferiche sono
sempre più sprovviste di servizi, le aziende agricole hanno qualcosa da dire.
L’agricoltura sociale diventa un risparmio per la collettività. Ma sono necessari competenza e
rigore. Parola di Coldiretti.

Roberto Moncalvo, 32 anni, è il
giovane presidente di Coldiretti Piemonte e di Coldiretti Torino. L’agricoltura
sociale è per lui, oltre che un compito istituzionale, una vocazione personale.
Insieme alla sorella Daniela, Roberto è titolare dell’azienda Settimo Miglio
(situata a Settimo Torinese), che in questi anni ha assunto nel proprio
organico un ragazzo psichiatrico, un disabile e un rifugiato politico della
Somalia.

Com’è nata nella Coldiretti l’idea
di aprirsi all’agricoltura sociale?

«In Piemonte nel 2002 abbiamo
iniziato a interrogarci sulla qualità della vita dei nostri associati, e su
come arginare l’abbandono delle terre da parte dei giovani. Attraverso una
mappatura della provincia di Torino ci siamo resi conto della carenza di
servizi sociali, ad esempio gli asili. In molte aree rurali o peri-urbane,
soprattutto a bassa densità di popolazione, c’è carenza di interventi del
pubblico ma a volte anche del terzo settore. Costruire un’impresa nuova
richiede investimenti e, con un numero basso di utenti, non c’è garanzia di
sostenibilità economica. Le imprese agricole invece sono già presenti e quindi
mettono a disposizione una parte dei loro spazi. Così, grazie anche
all’approvazione della legge di Orientamento, i nostri soci si sono attrezzati
per offrire nuovi servizi, dagli agriturismi alle fattorie didattiche. In
questi anni si sono moltiplicate le aziende del territorio che, con altri
attori locali, hanno realizzato diverse sperimentazioni nel campo
dell’agricoltura sociale».

Qualche fiore all’occhiello?

«Sì, per esempio La Piemontesina di
Chivasso (To), il primo agri-nido d’Europa. Si tratta di un asilo situato
all’interno di un’azienda agricola, gestito dall’imprenditrice insieme ad alcuni
educatori. Il progetto formativo è legato ai cicli naturali e alla vita
campestre, i giochi sono costruiti con materiali disponibili in loco. I bambini
possono sperimentare spazi e tempi di vita meno frenetici, più naturali.
Imparano anche a mangiare sano, solo prodotti di stagione, e maturano un
atteggiamento di rispetto verso l’ambiente.

Un’altra esperienza innovativa, nel
cuneese e in tutto il territorio piemontese, è quella delle «agri-tate»,
progetto di Coldiretti Piemonte che vede il coinvolgimento di tre assessorati
regionali: si tratta di imprenditrici, coadiuvanti o anche solo appartenenti a
una famiglia agricola, che dopo un corso di 400 ore (organizzato da Coldiretti)
possono offrire un servizio di cura per bambini fino a 3 anni all’interno dell’impresa
agricola, sperimentando un progetto educativo basato sulla pedagogia della
domesticità.

Così si creano posti di lavoro e si
offre ai bambini un ambiente protetto che ne favorisce la socializzazione. Ci
sono poi aziende che foiscono servizi di Estate ragazzi, andando a colmare il
vuoto dovuto al calo di preti e suore nelle parrocchie. Altre ancora, durante
le vacanze, accolgono i “nonni” che non se la sentono di andare in ferie con i
figli».

Che vantaggi trae da queste pratiche
l’impresa agricola?

«L’azienda ricava maggiore
visibilità e può aumentare il giro di vendite. L’agricoltura sociale funziona
secondo il modello win-win (vincente-vincente, ndr), cioè tutti
ci guadagnano. Prendiamo il caso di chi fa riabilitazione e inserimento dei
ragazzi psichiatrici: l’azienda migliora la sua produttività, i consumatori
mangiano cibi puliti e sani, i ragazzi vedono accrescere il proprio benessere,
le famiglie sono contente… e le Asl risparmiano. Perché se il ragazzo sta
meglio si riducono i costi per i ricoveri, per gli psicofarmaci, ecc.
L’agricoltura sociale è un risparmio per tutta la collettività».

Quali sono i punti di forza delle
aziende agricole?

«Una componente è senz’altro la
dimensione familiare: qui il luogo di lavoro coincide con la casa, con la
famiglia, il che favorisce l’instaurarsi di legami forti tra i residenti e i
ragazzi coinvolti nei progetti di reinserimento. Ma non basta la buona volontà,
servono anche competenza e rigore. Per questo Coldiretti Piemonte ha pubblicato
di recente un manuale di “Agricoltura sociale innovativa”, a cura di Francesco
Di Iacovo, che fornisce gli strumenti scientifici per una corretta valutazione
delle “buone pratiche” di agricoltura sociale».

Bibliografia
e sitografia

Agricoltura
sociale innovativa
, Francesco Di Iacovo (Coldiretti 2012)
La cooperazione
sociale agricola in Italia
, Aa.Vv. (Euricse-Inea 2012)
I buoni frutti:
viaggio nell’Italia della nuova agricoltura civica, etica e responsabile
,
Aa.Vv. (Agra Editrice 2011)
Farm City,
l’educazione di una contadina urbana
, Novella Carpenter (Slow Food 2011)
Mondi agricoli e
rurali. Proposte di riflessione sui cambiamenti sociali e culturali
, Aa.Vv.
(Inea 2010)
I nuovi
contadini
, Jan Douwe van der Ploeg (Donzelli 2009)
Linee guida per
progettare iniziative di agricoltura sociale
, Alfonso Pascale (Inea 2009)
Vite contadine.
Storie del mondo agricolo e rurale
, Aa.Vv. (Inea 2009)
Agricoltura
sociale: quando le campagne coltivano valori
, Francesco Di Iacovo (Franco
Angeli 2008)

www.torino.coldiretti.it
www.aiab.it
www.ortietici.it
www.aicare.it
www.fattoriesociali.com
www.lombricosociale.info
http//:sofar.unipi.it

Documentario La buona terra. Esperienze di agricoltura
sociale in Italia, Rai 2011.

 
Hanno contribuito a questo dossier:

Stefania Garini, torinese, ha una laurea in filosofia
con master di specializzazione in Bioetica. Da 15 anni lavora come giornalista,
occupandosi soprattutto di tematiche sociali e ambientali. È volontaria Avo
(Associazione volontari ospedalieri) e presta servizio con i malati
psichiatrici. Da tempo collaboratrice di MC, è autrice di questo dossier.

Foto di Stefania Garini, Massimo Maiorino, Cooperativa
Frassati, L’Orto dei ragazzi e Silvia -Venturelli per Cavoli nostri.

Coordinamento editoriale di Marco bello, redattore di
MC.

 

Stefania Garini