Decrescita 5: Cliente chiama produttore

Strumenti/ I gruppi di acquisto solidale
I gruppi di acquisto nascono da una consapevolezza e
criticità nei consumi. Puntano a maggiore tutela ambientale e appoggio a
filiere agropastorali. Consumatore e produttore condividono decisioni sul
prodotto finale. Intanto la rete organizzativa è in continuo miglioramento. Ce
ne parla l’esperto Andrea Saroldi.

A raccontarci in maniera chiara ed esaustiva come funzionano
i Gruppi di acquisto solidale (Gas) è Andrea Saroldi, di professione impiegato,
che da anni se ne occupa in modo proattivo. «Intoo al 1994, insieme ad alcuni
amici avevo fondato un gruppo dal nome Cocorico (Consumatori, coscienti,
riciclanti, compatibili): persone attente a scambiarsi le informazioni su come
praticare uno stile di vita più rispettoso, un modo di consumare più
consapevole e compatibile con l’etica e nei confronti dell’ambiente. In questo
contesto abbiamo conosciuto i primi Gas, allora nascenti.  La prima rete nazionale dei Gas è nata nel
1997. Oggi, 2013, i Gas censiti in Italia sono circa 1.000, quelli effettivi
almeno il doppio, il che significa almeno 200.000 persone coinvolte insieme a
diverse migliaia di produttori. Una volta all’anno è organizzato un convegno a
loro dedicato in cui esperienze, evoluzioni e prospettive si incontrano e si
confrontano». 

Come e in che misura rientrano i Gas nell’ambito della
decrescita?

«Nel 1994 il concetto di “decrescita” non era ancora
diffuso e sicuramente non si poneva come orientamento. Si parlava di sobrietà e
di comportamenti equi e solidali. L’attuazione dei Gas confluisce naturalmente
in quello che è il pensiero portante della decrescita. Le idee e le motivazioni
sono le stesse; fanno riferimento a un pensiero ecologico derivante dagli anni
’70 e alla consapevolezza che una dimensione dello sviluppo così come oggi
attuata non può funzionare. I pensieri di fondo sono gli stessi ma i Gas hanno
un taglio più organizzativo e pratico».

Qual è il meccanismo che fa funzionare i Gas?

«Il meccanismo di base è semplice: alcuni cittadini si
organizzano a livello volontario per acquistare dal produttore della stessa
zona, senza passare attraverso l’intermediario commerciale. Il produttore manda
un listino di prodotti a cui segue un ordine complessivo e la spedizione della
merce. Ciò che si verifica è il rapporto a tu per tu tra cliente e produttore».

Quali sono gli articoli che si acquistano principalmente
all’interno di un Gas?

«Si inizia con le cose più semplici: prodotti alimentari
a lunga conservazione, a seguire prodotti freschi, detersivi per la casa,
articoli tessili fino ad arrivare all’acquisto delle energie alternative. Oggi
i Gas si sono evoluti nella direzione di un miglioramento della propria rete
organizzativa che, nell’ottica di una maggior tutela ambientale, appoggia la
filiera agroalimentare e, di comune accordo con il produttore, prende decisioni
sia sul “cosa” sia sul “come” coltivare. È un fenomeno innovativo che apre una
finestra sul domani: non più consumatori alla mercè dei produttori e dei
distributori ma consumatori critici e partecipi».

Quali sono le motivazioni che spingono
le persone ad avvicinarsi a un Gruppo di acquisto solidale. Si può evidenziare
anche una convenienza economica?

«I primi Gas nascevano soprattutto nella testa e poi
nelle azioni di persone impegnate a livello sociale, ambientale ed etico. Oggi
c’è meno intellettualismo ma molta volontà di esser consapevoli e di mangiar
sano e gustoso, scegliendo i prodotti giusti. Trasversale a ogni epoca c’è il
desiderio di fare aggregazione (in particolar modo a livello metropolitano), di
consumare con criticità, di instaurare un rapporto diretto tra produttore e
consumatore, di essere protagonisti delle proprie scelte alimentari e non. Per
quantificare il risparmio economico sui prodotti acquistati bisogna prima
considerare l’alto livello qualitativo dei prodotti trattati. In generale la
convenienza economica è assicurata per quel che concee il settore biologico
ed energetico. Nel caso del biologico, ad esempio, c’è un risparmio del 40%.
Inoltre, un prodotto acquistato tramite canali commerciali tradizionali passa
attraverso parecchi intermediari, mentre, nel caso dei Gas, la distribuzione
diretta aiuta nel poter concordare prezzi favorevoli. Il
discorso economico non è mai comunque il fattore determinante di chi decide di
avvicinarsi ai Gas.
Alla base delle scelte personali c’è sempre un anelito al buen vivir,
viver bene e meglio».

 


BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

Breve trattato sulla decrescita serena, Serge Latouche
(Bollati Boringhieri, 2008)
La scommessa della decrescita, Serge Latouche (Feltrinelli, 2009)
Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie
sulla decrescita
, Serge Latouche (Bollati Boringhieri, 2012)
Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta
reale
, Tim Jackson (Edizioni Ambiente, 2011)
La decrescita felice. La qualità della vita non
dipende dal Pil
, Maurizio Pallante (Edizioni per la decrescita felice)
Meno è meglio. Decrescere per progredire, Maurizio
Pallante (Bruno Mondadori, 2011) 

SITI

www.retegas.it Rete nazionale dei gruppi di acquisto
solidale
www.unisf.it Università del saper fare
www.decrescitafelice.it Sito del Mdf
www.cohousingnumerozero.org Co-housing nunero zero
www.mdftorino.it Circolo di Torino della Mdf
www.beacon.it/wordpress/sabrco-gas Cronistoria Gas
www.retecosol.org Rete di economia solidale
www.ilcambiamento.it
http://scollocamento.ilcambiamento.it


HANNO CONTRIBUITO A QUESTO DOSSIER

Gabriella Mancini, torinese, giornalista e script editor,
da tempo collaboratrice di MC, è autrice di questo dossier.
Luca Cecchetto, torinese, sistemista informatico. Si
occupa di questioni relative alla decrescita. È il marito di Gabriella.
Foto di: Co-housing «numero zero», Marta e Giorgio di Lo
Puy, Gabriella Mancini.
Coordinamento editoriale: Marco Bello, redattore di MC.

 

Gabriella Mancini




Decrescita 4: Natura e decrescita

           Esperienze 3/ La «Chabrochanto» in Val Maira                                              
Dalla città alla montagna. Reinventandosi una vita che
pareva decisa. Da subito il superfluo non trova posto. E un quotidiano in
decrescita si realizza prima di ogni teoria. Lei, lui e cinque figli sulle
montagne della Val Maira. Una storia che ha molto da insegnare. Siamo andati a
trovarli.

Grazie al suggerimento del responsabile del Circolo
della Decrescita di Cuneo veniamo a conoscenza di una famiglia che vive in
termini «decrescenti». Si tratta di Marta e Giorgio, un medico e un traduttore
torinesi che dal 1992 abitano in Val Maira. Contrariamente alla tendenza
anagrafica la coppia ha ben 5 figli, la più piccola di 7 anni. Marta e Giorgio,
entrambi 49enni, sono i proprietari dell’azienda agricola Lo Puy che produce
formaggi di capra a latte crudo e si trova in borgata Podio a due chilometri
dal comune di San Damiano Macra. 

La «Chabrochanto» è il loro locale di degustazione e
agriturismo, un luogo non solo gastronomico ma di incontro ed esperienze.

Arriviamo in borgata nel pomeriggio sotto un tiepido
sole e troviamo Marta intenta a dialogare con i suoi figli e con i loro amici.
Marta è una signora interessante, ha mantenuto le caratteristiche cittadine ma
ha assunto la tempra e l’aria sana della vita all’aria aperta.

Il salto nel vuoto

«Quando siamo venuti a vivere qui era il 1992» racconta
Marta: «Avevamo un sogno nel cassetto, in condivisione con il nostro gruppo di
amici torinesi: riabitare una borgata. Era un’idea di stampo antropologico e
sociale, dove aveva la prevalenza un
discorso di buon vicinato con spazi culturali in comune e unità abitative
individuali. L’idea di un trasferimento di gruppo non è mai decollata e alla
fine Giorgio e io abbiamo deciso di tentare il salto da soli. I nostri amici
non ci hanno mai abbandonato idealmente e, anzi, ultimamente hanno comprato
alcune case in borgata nell’ottica di una promozione turistica del territorio».

Da Torino alla Val Maira, dalla città alla comunità
montana. Marta ci racconta del loro amore per la montagna, per la natura e gli
spazi aperti, della fatica del vivere metropolitano. Non ne parla con
aberrazione, ma osservandola in questo contesto si intuisce quanto potesse
sembrargli limitato l’ambiente cittadino. «Appena arrivati qui vivevamo a San
Damiano Macra. Io continuavo a fare il medico negli ambulatori locali e Giorgio
seguiva ancora qualche consulenza come traduttore. Poi, sono arrivati i primi
due bambini e Giorgio è diventato sempre più il punto di riferimento per la
famiglia. Si occupava volentieri di tutto il menage familiare, dell’orto che stavamo iniziando a coltivare e di
proseguire con i suoi studi di arricchimento personale (lo studio dell’arabo,
del cinese e dell’antropologia). Erano anni duri ma pieni, iniziavamo a
delineare in modo più chiaro quello che sarebbe stato il nostro futuro. Nel 1996
abbiamo trovato questa casa in borgata e il progetto di riabitare una comunità
montana ha preso corpo».

Mentre Marta racconta, ci tornano alla mente le immagini
di un film di qualche anno fa «Il vento fa il suo giro» dell’italiano Giorgio
Diritti girato in Val Maira. La storia sembra clonare le esistenze di Giorgio e
Marta: una famiglia con tre figli si trasferisce in una comunità montana per
vivere secondo natura, occupandosi di pastorizia, ma la diffidenza nei
confronti dello straniero non tarda a farsi sentire da parte dei locali. A
questa citazione Marta sorride e commenta: «Volete sapere una curiosità? Le
capre del film sono le nostre. Il film è molto genuino e gli attori non
professionisti rendono l’affresco. Per quel che ci riguarda, però, la comunità
locale non ha mostrato nessuna chiusura nei nostri confronti. Il fatto che io
facessi il medico e lavorassi molto sull’aspetto umano del paziente, ha
favorito una rete di contatti sociali propositivi che ci ha sicuramente
incoraggiati nell’iniziativa».

Arrivano le capre

Medico, madre e costruttrice di una nuova esistenza
improntata sulla socialità, la spinta antropologica e il rispetto ambientale.
Quando è nata l’idea di una proposta anche commerciale? «Dopo i primi tempi in
borgata, anche Giorgio ha iniziato a vedere con più chiarezza quello che
potevamo ideare a livello professionale. Si è specializzato nella pastorizia ed
è andato in Francia per imparare a fare il formaggio. Nel 1999 abbiamo aperto
il caseificio con solo 20 capre. Il lavoro si è fatto sempre più intenso e
quando è arrivata Lara, prima come dipendente e poi come socia, mi sono
permessa una sosta dal lavoro di medico per dedicarmi esclusivamente alla
famiglia e all’attività».

Oggi, 2013, qual è la realtà di borgata Podio e
dell’azienda agricola Lo Puy? «Ad oggi la borgata è abitata dalla nostra
famiglia e da quella di Lara con le sue due bambine. Dal 2011 sono tornata a
lavorare come direttore sanitario in una struttura per anziani, tre giorni alla
settimana. Non ho studiato medicina per caso, era la mia passione pur
dissociandomi dagli aspetti del marketing sanitario. Il mio lavoro contribuisce
alle spese poiché la produzione del nostro formaggio è solo stagionale: da
marzo a novembre. Gli altri quattro mesi sono senza introiti. Anche il nostro
locale «Chabrochanto» contribuisce a rafforzare la nostra idea di rispetto a
360 gradi per la natura».

Marta ci chiarisce che non ama il termine «agriturismo»
in quanto ormai troppo inflazionato e, in troppe situazioni, poco veritiero: «Al
caseificio abbiamo abbinato l’attività della locanda di degustazione.
Proponiamo solo ed esclusivamente i nostri prodotti: formaggi, carne e
capretto, salumi di capra e maiali. Non avendo verdura a sufficienza, ci
foiamo dai produttori locali perché è insito nella nostra filosofia servirsi
a km zero. Non ci sono cartelli che rimandano alla Chaborchanto ma un ottimo
passaparola di clienti fidelizzati ci permette di sopravvivere. Il tutto è
nell’onda della purezza e genuinità».

Abolire il superfluo

Mentre deliziamo il palato con la marmellata di lamponi
e il pane fatto in casa da Marta, non possiamo non domandarci in che misura
rientra la decrescita in questo microcosmo. «Ci ritroviamo nel pensiero della
decrescita da prima che il termine venisse troppo abusato: ridurre il consumo e
il superfluo è la nostra linea quotidiana. Tutto quello che riusciamo a
guadagnare lo reinvestiamo nel nostro territorio, per la nostra famiglia e le
generazioni future che vorranno venire a vivere qui. Trovo personalmente
fallimentari le comunità che vivono nell’eremitaggio, appartandosi dal mondo.
Le scelte troppo radicali non mi appartengono. Cambiare è un progetto graduale
perché penso che, in un modo o nell’altro occorra fare patti con la società in
cui si vive. Non ci sentiamo ad esempio di privare i nostri figli da eventuali
attività sportive o musicali ma cerchiamo di organizzare la logistica in modo
da non creare troppo impatto sull’ambiente».

Sensibilizzare al decrescere. Vi
sentite in parte operatori di questa ideologia? «A questo riguardo il nostro
locale, la Chabrochanto, vuole essere un punto di incontro e confronto di idee
ed esperienze tra persone. Dal 2010, infatti, promuoviamo i «Conviti di
agricoltura»: libere condivisioni di idee sull’agricoltura odiea,
sull’alimentazione, sul mondo contadino e sulla decrescita in generale. Le
tematiche attuali vengono poste come interrogativi su cui riflettere: si può
fare a meno della connessione a Inteet, dei centri commerciali e della
macchina? A questo scambio dialogico si associano piatti sfiziosi».

Baratto del tempo

Non sono solo gli stili di vita e le proposte al
pubblico che indicano uno stile «decrescente». Marta ci racconta che spesso a
Lo Puy si propone uno scambio del tempo. Vitto e alloggio assicurato, in cambio
di un paio di ore nell’orto o di una consulenza professionale in qualche
ambito. Rete e collaborazione sono le parole d’ordine ma anche ambiente. Grazie
alla collaborazione con una Onlus di Racconigi, l’azienda Lo Puy si è potuta
permettere i pannelli fotovoltaici. Questo ha favorito, oltre alla tutela
ambientale, un ottimo rapporto tra produttori e clienti. Il tutto fa parte di
un quadro che fa rima con impegno e anche con sobrietà.

Lasciando Borgata Podio l’impressione è che qui si
respiri un’aria di crescita, non quella del consumo ma quella dell’uomo, al
centro della sua vita in un paradigma «consapevole».

Gabriella Mancini




Decrescita 3: Decrescere fuori, per crescere dentro

             Esperienze 1/ Borgata Liretta                                               
Marito e moglie affiatati. Dopo una vita di lavoro e
volontariato decidono di dedicarsi totalmente agli altri. Ridando vita a una
borgata di montagna e ospitando coppie di sposi in cerca di tranquillità e
riflessione. E foendo un accompagnamento prezioso: calore ed esperienza.
Nell’essenzialità totale.

È sera, piove a
dirotto e il sentirnero verso borgata Liretta scorre in salita lasciando
intravedere, tutt’intorno, una natura selvaggia. È da Montemale (Cn) che
continuiamo a seguire le insegne di legno con raffigurata una piccola casa
tonda, tre finestre e un albero. Dopo qualche peregrinare eccoci giunti a
destinazione. Parcheggiamo l’auto e ci avviamo verso l’unica fonte di luce
circostante. La lucina ci conduce in una sala da pranzo in cui, con un gran sorriso,
ci accolgono Olga e Mario Garrone.

Non siamo soli a Liretta. Oltre la
figlia di Olga e Mario con la sua famiglia, c’è una giovane coppia con una
piccola di sei mesi e Maurizio Nai, responsabile del Circolo della Decrescita a
Cuneo.

È una bella tavolata, l’atmosfera è
calda e la zuppa servita in tavola ha un sapore veramente genuino. Olga ci
spiega qualche segreto culinario anche se il cuoco d’eccezione e per le grandi
tavolate è Mario che, non a caso, indossa un grembiule firmato «Il cuciniere».
La dicotomia è forte: fuori pioggia e fango imperversano, dentro l’umanità si
racconta. La convivialità sembra essere di casa e, approfittando di uno spazio
più appartato della mensa, cerchiamo di capie di più su questo angolo di
vita. La più ciarliera è Olga che, con fare entusiasta si racconta. «Le cose
non accadono mai a caso, Liretta è il frutto di un lungo cammino personale.
Mario e io abbiamo avuto la fortuna di conoscerci giovani e con un lavoro
sicuro. A 22 anni facevo già la maestra e Mario lavorava in banca. Facevamo
parte di un gruppo di giovani universitari post-concilio che si realizzava
fuori dagli schemi parrocchiali. Cercavamo di crescere nella fede e
nell’accoglienza verso gli altri. Il sabato lo dedicavamo all’aiuto dei più
bisognosi: disabili o ragazzi di strada. Il volontariato, l’approfondimento
della spiritualità e l’attenzione verso il prossimo era la molla che ci
accomunava e che non ci ha mai abbandonati».

I primi anni

Mentre Olga si racconta, l’atmosfera della sala da
pranzo si fa più raccolta. I più «piccoli» iniziano a dare cenni di cedimento e
si avviano verso le stanze per la notte. Approfittiamo della sosta per fare un
giro. Legno e pietra rallegrano la borgata anche nel cuore della notte.
L’accoglienza nottua di Liretta si compone di tre stanze dai nomi bizzarri:
oblò, chambre bleu e curiusa. A noi tocca quest’ultima, così
denominata per le sue grandi vetrate che spiano verso la strada. Nell’estrema
sobrietà, tutto è molto curato. Due bagni comuni sono a disposizione degli ospiti,
come anche un’altra piccola cucinotta, adiacente alle camere.

Toiamo nella sala da pranzo, oramai quasi solitaria e
anche Mario si siede al nostro fianco. La storia riparte: «Intoo al 1974,
appena sposati, abbiamo pensato di non chiuderci agli altri ma di essere una
coppia aperta. Abbiamo vissuto gli anni Settanta, anni di rivoluzione sotto
tutti i fronti, intensamente. Un ’68 vissuto al positivo con tutta la fatica di
sradicare un vecchio sistema ma anche il piacere di vivere la ribellione e il
sentirsi diversi. Di quel tempo ci è rimasto addosso il sogno del cambiamento.
Il nostro sentire comune e il nostro desiderio era di rendere il nostro amore
un punto di riferimento per gli altri. Su questo, qualcuno di lassù, ci ha
ascoltati e messi seriamente al lavoro».

Olga e Mario, già da neo sposi iniziano a collaborare
con la Pastorale Famigliare per la Diocesi di Cuneo e a organizzare gli
incontri prematrimoniali per giovani coppie. Quando arrivano i bambini (Olga e
Mario hanno 3 figli), non cessano certo il loro impegno nel sociale, anzi. Olga
e Mario, si ritrovano a dialogare delle loro scelte con i figli e a renderli
partecipi del loro agire. In quest’ottica di apertura, proprio dai figli
adolescenti giunge la richiesta di una maggiore attenzione da parte dei
genitori che per un paio di anni si dedicano così solamente ai loro ragazzi.

La famiglia chiama e Olga e Mario rispondono. Sono gli
anni delle baby pensioni e Olga pur utilizzando questa favorevole opportunità
anticipa la «ritirata» e attende quattro anni prima di percepire la prima
mensilità. Ecco che arrivano le rinunce per star vicino ai figli. «Anche in
questa occasione poter dialogare insieme ai figli è stato fondamentale. Meglio
una mamma più presente, che una serata in più in pizzeria. La vita insegna e in
questa fase abbiamo iniziato a rinunciare a tante piccole cose superflue,
accorgendoci che si viveva benissimo anche con molto meno. Pur non sapendo
nulla sulla decrescita, c’era la volontà di essere “sobri” e di praticare la
semplicità quotidianamente».

Il vero cambiamento

Come si arriva a una trasformazione così radicale della
propria vita? Questa volta a prendere la parola è Mario: «Alla base di tutto c’è
una propensione alla provvisorietà, al cambiamento. Per noi, il desiderio forte
è sempre stato quello della capanna e non del castello. Una dimora semplice,
con pochissime porte per dare la possibilità a tutti di entrare e uscire senza
problemi. La molla è stato il desiderio di scrollarsi di dosso le cose che non
servono, le occasioni di farlo sono giunte lungo nel cammino. Per costruire
qualcosa occorre prendere coscienza delle proprie potenzialità, sapere chi
siamo. In poche parole: conoscersi. Noi sapevamo di essere un punto di
riferimento per le coppie e le famiglie e su questo abbiamo posto le prime
pietre e costruito il nostro futuro. L’umiltà fa il resto».

Olga aggiunge con discrezione: «Una volta cresciuti i
figli ci siamo interrogati su cosa fare delle nostre esistenze e siamo partiti
da un’analisi. I giovani sposi dopo il matrimonio venivano «abbandonati».
Sembrava che tutto accadesse prima: i corsi di formazione, i cammini spirituali
e poi più nulla. Questo ci ha fatto riflettere e capire che il nostro supporto
doveva essere tanto pregnante prima quanto dopo, per non lasciare che tante
coppie si sentissero abbandonate a gestire i primi dissidi familiari.
Continuavamo a fare gli incontri pre matrimoniali in Diocesi ma avvertivamo in
maniera sempre più profonda la mancanza di uno spazio piacevole dove poter
dialogare in armonia. Ed ecco che entra in scena Liretta. Nostra figlia aveva
visto l’annuncio «vendesi intera borgata», ma noi eravamo vincolati
affettivamente a un’altra vallata e non eravamo ancora pronti. Passato un anno
e maturata l’idea di realizzare concretamente qualcosa, ci siamo decisi a
vedere la borgata. Era il 2002, Liretta era abbandonata da 20 anni ed era in
totale rovina ma è bastato uno sguardo per capire che era quello che faceva per
noi. Nella vita bisogna saper trasferire i propri sogni in avanti, essere lungimiranti.
Ci fossimo fermati solo alle macerie che presentava Liretta, saremmo scappati
subito. In quel luogo e in quel primo incontro con la zona, noi abbiamo
avvertito il profumo della trasformazione».

Reinventarsi a 50

Quella di Liretta è stata una scelta meditata e
coraggiosa. Per far tutto questo Mario, dopo 29 anni di banca, ha deciso di
licenziarsi e di reinventarsi a 50 anni di età. Un progetto che, afferma la
coppia all’unisono, non avrebbero mai fatto con i bambini piccoli per non
vincolarli o fargli subire una scelta non loro.

Mentre Olga e Mario raccontano, noi sfogliamo un album
di fotografie che ci rimanda ai primissimi tempi di Liretta. Come è stato
possibile portare avanti questo progetto con così tanto impegno fisico e
pratico? «Abbiamo dato subito accoglienza, seppur nella semplicità. Le giovani
coppie potevano venire in giornata a fare la loro formazione prematrimoniale».
Riprende Olga: «È sorprendente verificare come ci si abitua a vivere con poco.
Nell’autunno avevamo già realizzato un piccolo bagno e potevamo vivere in una
cucinotta della casa che ora è adibita all’ospitalità. Sicuramente è stato un
inverno freddo fuori ma caldo dentro: nel cuore e nelle intenzioni».

Vita «tipica» in borgata

Liretta: «Noi viviamo qui, ci siamo sempre 24 ore su 24
per chi è in difficoltà. La nostra accoglienza si rivolge alle coppie prima e
dopo il matrimonio ma è capitato che ci chiedessero di ospitare qualche
situazione di disagio e, ovviamente, abbiamo aperto la nostra porta. Diamo
conforto, amicizia, ascolto, pranzi e cene pronte e un letto caldo. Coccolare
la coppia e farla sentire a casa è il nostro compito. Attenzione: ci
concentriamo sulla crescita personale della coppia, sull’offrirle uno spazio
esclusivo, perché sono il marito e la moglie che fanno fatica a mettersi in
discussione. Quando i figli crescono e prendono la loro strada, la coppia resta
e se non si è alimentato un rapporto profondo e autentico negli anni, tutto si
sfalda e ci si ritrova soli. Abbiamo anche una buona rete di professionisti
della coppia e, per approfondimenti specifici su coppie in crisi, non esitiamo
a consigliare un parere più professionale del nostro».

Numericamente, quante coppie ospita Liretta? «È
difficile fare una stima numerica per la continua evoluzione degli eventi,
abbiamo iniziato con poche coppie e oggi ne abbiamo otto per il cammino
pre-matrimoniale, altre 15 che seguiamo dopo il matrimonio e tutta
l’accoglienza quotidiana».

Seppur sotto una pioggia incessante, quello che spicca
in armonia con il verde circostante è una piccola cappella di pietra. La
domanda sorge spontanea: a Liretta occorre essere praticanti o l’accoglienza è
per tutti? A rispondere è Mario: «Noi abbiamo deciso di costruire la cappella
per poter praticare la nostra spiritualità ma non obblighiamo nessuno a vivere
della stessa fede: i nostri ospiti devono sentirsi “liberi”. Sono stati i
nostri figli e i loro amici ad aiutarci a creare una dimensione laica ed è
stata proprio questa forma liberale che ha poi favorito un riavvicinamento alla
spiritualità anche da parte di alcuni giovani, da tempo lontani dalla fede».

Desbarasuma: la decrescita non teorizzata

L’accoglienza di Olga e Mario è semplice ma generosa,
anche nella quantità del cibo. Ci chiediamo come facciano con le spese e Olga
ci chiarisce che in ogni camera c’è una busta per le offerte. Ognuno offre il
suo contributo e se non ne ha la possibilità non importa, può offrire un aiuto
pratico viste le continue necessità in borgata. Nel corso degli anni la coppia
sostiene però di aver sperimentato che spesso le persone con maggiori difficoltà
economiche offrono il massimo.

Per Maurizio Pallante (vedi articolo) la
decrescita è una vita in crescita. Crescita di valori, di pienezza di
esperienze, di tempo per dialogare. Prima di ritirarci nel nostro rifugio per
la notte, domandiamo ancora a Olga e Mario di parlarci del loro modo di vivere
secondo la chiave della decrescita. Ci rispondono quasi in coro: «Il denaro e
il successo non ci dava la felicità. La mera produzione per il consumo ci
avviliva. Per noi decrescere è trovare un “posto al sole”, in senso metaforico,
dove star bene e poter aiutare gli altri. Questo esserci per gli altri può
esistere solo se si è raggiunta una certa armonia con se stessi, un equilibrio
che nei ritmi frenetici e nella rete del consumismo fine a se stesso, non
avevamo trovato. Decrescita indica per noi una crescita interiore e di
attenzione verso l’altro. In termini pratici abbiamo una macchina sola che
usiamo il meno possibile per recarci a Cuneo, accumulando più impegni, cinque
galline per le uova, un orto per l’autoproduzione, il riscaldamento a legno con
il camino e la stufa, un pannello solare e un’accuratissima raccolta
differenziata su cui cerchiamo di sensibilizzare il più possibile i nostri
ospiti».

La mattina seguente esce uno spiraglio di luce e Liretta
è allo scoperto. Il belvedere apre una finestra naturale sulle montagne, ancora
leggermente innevate e dall’altura della borgata si intravedono i tetti di
Cuneo. Tutto è in armonia. Entriamo nella cappella dove una vetrata è in
perfetta simbiosi con la natura circostante; una piccola madonna bianca dalle
grandi mani ci guarda da una nicchia e tre piccole finestrelle dipinte indicano
una sorta di cammino verso l’ascensione. Una cura artistica si avverte ovunque,
nelle fioriere multicolore, nei dipinti creati da Olga per le piastrelle dei
bagni e nella gradevole stanza per i giochi dei bambini, realizzata
appositamente per gli ospiti «in erba».

Non possiamo che concludere la visita con uno sguardo più
intenso verso il logo: «Un tetto amico, una casa rotonda perché senza spigoli e
conflitti, tre sole finestre e nessuna porta. Perché a Liretta le porte sono
sempre aperte per chiunque ne abbia bisogno».

 

          Esperienze 2/                                                                
Co-housing

per con-dividere

Per parlare con autenticità della decrescita, occorre
sfatare un mito: decrescere non significa andare a vivere in campagna e
isolarsi tra gli elfi boschivi. Quello che si evince dalle interviste di questo
dossier è che l’assioma decrescita-relazioni umane non si cura dello spazio ma
interviene sul cambiamento più profondo delle persone. Da qualche anno è attiva
un’associazione, Coabitare, che si occupa di fornire conoscenze, informazioni,
idee e strumenti a chi desidera abitare in modo differente e decide di farlo
non solo in ambito rurale. Per strappare qualche curiosità in più
sull’argomento siamo andati a visitare il co-housing
«numero zero» a Torino in via Cottolengo n°4. Un antico edificio ristrutturato
con tutti i crismi ecologici ed estetici dove, da gennaio 2013, vivono otto
nuclei familiari. Fioriere sui balconi e una piacevole galleria di biciclette
parcheggiate all’entrata ci accolgono.

A raccontarci la scelta di una co–abitazione solidale
sono Matteo Nobili, fisico e fotografo 36enne, e Chiara Mossetti, architetto
35enne. Vivere insieme ad altre persone: come nasce questa scelta e perché?
Matteo inizia il racconto: «Sicuramente occorre essere propensi
all’aggregazione. In un co-housing si
condividono pensieri, ideologie e “saper fare”, ma ognuno mantiene la
riservatezza del proprio alloggio. A noi interessava l’ambito urbano, sia per
le nostre occupazioni lavorative e sia perché non concepivamo l’idea di abitar
fuori e poi dover utilizzare la macchina quotidianamente con un’elevata
produzione di CO2. La scelta del centro città è anche e soprattutto per potersi
spostare liberamente in bicicletta o a piedi».

Mentre parliamo del progetto, in uno degli otto
appartamenti è in corso un simpatico pranzo comunitario. Oltre agli
appartamenti privati, il condominio ha a disposizione uno spazioso terrazzo, un
laboratorio, un soggiorno e un’ampia sala semi interrata. La domanda sorge
spontanea: come rientra la scelta di un co-housing
nella decrescita? «Innanzitutto nel ridurre gli sprechi. Questo è alla base
della scelta di una co-abitazione. Nel co-housing
«numero zero» ad esempio la scelta preponderante è stata quella di mantenere
una metratura medio-piccola (circa 70 mq) per tutte le abitazioni ma di
privilegiare l’ampiezza di alcuni spazi comuni». Ma, in pratica, come si
traduce quest’attenzione verso i consumi? «La fortuna è stata avere un
architetto e un ingegnere nel nostro gruppo che ci hanno permesso una
ristrutturazione “secondo natura” e dall’estrema funzionalità. Non a caso rientriamo
nei canoni della bio-edilizia e siamo in classe A. Sempre nell’ottica
ambientalista, siamo provvisti di pannelli solari per l’acqua calda, integrati
con una caldaia a condensazione e, in ogni appartamento, è presente il riscaldamento
a pavimento che diffonde il calore e non comporta inutili dispersioni. Possiamo
usare la metafora del dimezzare: noi siamo in otto nuclei famigliari con due
grosse lavatrici a disposizione per tutti e quattro automobili. Una sorta di car-sharing tra coinquilini!».

Sbirciamo con interesse gli interni delle abitazioni.
Seppure diverse per gusti e personalità, si contraddistinguono tutte per un
buon gusto comune. E le travi di legno dei soffitti aiutano ad armonizzare il
tutto. Nella fattispecie, le pareti di casa di Matteo e Chiara ricordano i
colori del Mali e, infatti, non sono altro che una miscela naturale di argilla,
sabbia e paglia. In co-housing «numero
zero» abitano persone dai 30 ai 60 anni e, come ci spiega Chiara: «Fare una
scelta simile non significa semplicemente farsi casa propria risparmiando un
po’ ma deve includere tanta voglia di scambiarsi competenze. Se ho bisogno di
un orlo ai pantaloni o di una buona ricetta in cucina, posso chiedere a Piera
(che ha qualche anno in più di noi), mentre noi possiamo facilitarle la vita
con i mezzi tecnologici o i lavori più pesanti. C’è uno scambio paritario di
talenti e di competenze ma non è tutto. Per viver bene occorre una buona dose
di socialità: il più delle volte chi arriva prima a casa la sera, prepara cena
per tutti in un’ottica di risparmio del tempo, quello liberato, e di
condivisione».

Ma il «bello» aiuta o è solo vanità? «Decrescere non
significa imbruttirsi, anzi. La bellezza aiuta a vivere meglio e a trovare
anche il giusto equilibrio in noi stessi e con gli altri». (G.M.)

Gabriella Mancini




Decrescita 2: Produrre sì, ma… «merci» utili

      L’esperto 1/ incontro con Maurizio Pallante                                         
Che differenza c’è tra beni e
merci? Cosa può rendere la vita migliore? Come ridurre il Pil senza andare in
recessione? A queste e altre domande risponde Maurizio Pallante, classe 1947,
laureato in lettere, ex preside, fondatore e «guru» del Movimento per la
decrescita felice
.

L’alternativa alla crescita è la
riduzione degli sprechi. Maurizio Pallante ci racconta il suo cammino verso la «Teoria
della decrescita» partendo dalle sue esperienze ambientaliste degli anni Ottanta:
«Realizzavo già allora che l’alternativa ai combustibili fossili non poteva
essere esclusivamente legata all’utilizzo di fonti rinnovabili ma anche e
soprattutto alla riduzione degli sprechi. Solo in Italia si spreca il 70% di
energia, cioè si produce energia che non serve perché potrebbe essere
risparmiata in vari modi. È necessario dunque ridurre gli sprechi, il consumo “inutile”
e, solo dopo o parallelamente, si può pensare di ricavare energia dalle fonti
rinnovabili, ma solo per le rimanenti necessità».

Negli anni ’90 affronta tematiche legate alle
eco-tecnologie e all’efficienza energetica. Nel libro «Le tecnologie di armonia»
(Bollati Boringhieri 1994) analizza l’inadeguatezza degli indici economici
universalmente riconosciuti quali misura del benessere e valuta le opportunità
legate a una riduzione dell’orario di lavoro rispetto alle otto ore attuali.

Beni o merci?

Domandiamo a Maurizio Pallante quale sia la sua critica
al Pil (Prodotto interno lordo) come indicatore dello sviluppo economico. «La
crescita economica, che troppo spesso si identifica con benessere, viene
misurata dalla quantità di merci prodotte e scambiate, cioè con il Pil. Questo
indicatore, che è un dogma nella nostra economia, è una falsa misura di
benessere in quanto esistono molte merci che non determinano miglioramenti
reali della qualità della vita. Le merci che non apportano un reale
miglioramento alla vita dell’uomo non possono definirsi “beni” ma sono,
sostanzialmente, “sprechi”».

Esiste dunque un’alternativa a questo stato delle cose? «Concentrarsi
sulla produzione “efficiente” di beni, ossia di merci “buone”, cioè utili. In
questo contesto assumono molta importanza forme come l’autoproduzione e lo
scambio di beni non mercantile, il dono, la reciprocità e la solidarietà. La
decrescita è proprio questo: da un lato la diminuzione della produzione di
merci che non sono “beni”, ossia che non recano un effettivo miglioramento
qualitativo della nostra vita, e dall’altro l’aumento della produzione di beni
che non sono “merci”».

Ma la decrescita si può considerare un fenomeno di
nicchia o di massa? La teoria della decrescita felice viene sviluppata
attraverso la pubblicazione dell’omonimo libro del 2005 che ha venduto, a oggi,
50.000 copie. Il fenomeno, che ha avuto una diffusione lenta, ma costante,
appare oggi in fase di ulteriore espansione. Pallante ci spiega: «Nei frequenti
convegni a cui partecipo, il pubblico è sempre vasto e interessato.
L’associazione stessa (Mdf, cioè Movimento per la decrescita felice) fondata
nel 2007, conta oggi una trentina di circoli e vanta richieste continue di
nuove adesioni tanto da ipotizzare di poterli raddoppiare entro la fine
dell’anno. Il Movimento si propone in ogni caso di creare collegamenti tra
fasce di età, tra giovani e meno giovani, tra liberi pensatori, puntando per
tutti alla valorizzazione delle proprie attitudini e capacità».

Recessione e decrescita

Di questi due termini, spesso confusi, Pallante ci da
due definizioni precise: «La recessione è la diminuzione incontrollata e generalizzata
della circolazione delle merci. La decrescita è invece la riduzione selettiva e
controllata della produzione e circolazione delle merci che non sono beni, ma
piuttosto sprechi. Facciamo un esempio: ci sono due persone che non mangiano,
una perché ha deciso di fare la dieta e l’altra perché non ha proprio da
mangiare. Chi ha deciso di fare la dieta è in fase di decrescita, chi non
mangia perché non ha da mangiare sta vivendo la recessione. In questo senso
decrescita non si confonde con recessione ma ne è addirittura la medicina».
Addirittura? «Sì, perché puntare sulla riduzione degli sprechi significa
dirottare gli investimenti in specifici settori produttivi, quello delle
eco-tecnologie, dell’efficienza, quindi ottenere magari le stesse cose impiegando
meno risorse. Con questo risparmio si può innescare un circuito virtuoso che
permetterebbe a sua volta di pagare i salari dei nuovi lavoratori del settore».

Decrescita fa rima con innovazione o tradizione?

«Anche qui bisogna mettersi d’accordo. L’innovazione non
è un valore in sé, ma è utile quando mirata alla diminuzione degli sprechi di
risorse e di tempo. Diversamente, se punta a indurre un semplice desiderio
consumistico di emulazione, è inutile e dannosa. Lo vediamo ad esempio con i
modelli di smartphone o automobili che escono continuamente sul mercato a parità
sostanziale di funzionalità tra un modello e l’altro. Per il loro acquisto le
persone continuano a indebitarsi o a lavorare molte ore senza realizzare che si
tratta di merci che non aumentano di certo il loro benessere. La tradizione è
buona perché spesso raccoglie la saggezza di secoli di adattamento alla natura
e all’ambiente circostante. Ad esempio nel campo del risparmio energetico, le
cascine costruite nell’Ottocento erano ottimali, in quanto si teneva in gran
conto l’orientamento e l’esposizione al sole dell’abitazione, riducendo le
aperture di porte e finestre sui muri perimetrali del lato nord che invece con
il loro spessore funzionavano da regolatori termici. L’edilizia della seconda metà
del secolo scorso invece, pur essendo considerata innovativa rispetto agli
edifici precedenti, teneva poco o per nulla conto di questi aspetti,
considerando un fattore secondario la dispersione di calore, presupponendo un
facile e poco dispendioso accesso ai combustibili fossili e all’energia
elettrica».

Vado a vivere in campagna

La decrescita si può vivere esclusivamente in un
ambiente rurale? «Considero le città gli ambienti peggiori dal punto di vista
della qualità della vita. In un appartamento è materialmente impossibile fare
delle attività attinenti alla soddisfazione dei propri bisogni. Tutto si compra
col denaro guadagnato spesso facendo dei lavori legati alla produzione di merci
e servizi inutili, come certa “burocrazia”. La campagna, se vissuta come
opportunità di fare autoproduzione o allevamento, va nella direzione della
decrescita. Ma in generale la decrescita attecchisce in una persona consapevole
e sensibile all’idea. Se il decentramento aumenta fortemente le necessità di
spostamenti quotidiani in automobile per raggiungere differenti luoghi di
lavoro potrebbe non essere la soluzione ottimale. Anche la scelta di vita
individuale o comunitaria deve essere lasciata alle attitudini e all’indole di
ognuno di noi, è chiaro che l’isolamento può non favorire lo scambio di beni e
servizi o la reciprocità che è alla base della teoria della decrescita».

Chi abita in città cosa può fare da domani per aderire
in pratica all’idea di decrescita?

«Si possono fare molte cose tra cui: instaurare un
rapporto diretto di collaborazione con i produttori alimentari (i Gas, ndr),
aderire alle banche del tempo, brutto nome per un’ottima idea, che è quella di
scambiare il tempo per aiutarsi. Vedo bene in questo senso creare una rete di
aiuti e di solidarietà all’interno dei condomini in cui si vive. Poi c’è il
filone energetico: fare scelte che comportino risparmi e utilizzi di energie
rinnovabili, pianificare più spostamenti a piedi o in bicicletta. Ognuno deve
trovare la propria misura e il proprio equilibrio. Ridurre al minimo la propria
dipendenza dal mercato, dalle attività inutili e dagli sprechi».

Fare i conti con la crisi

Se si perde il lavoro, cosa si fa? Si mangia pane e
decrescita?

«È fondamentale reagire, conoscersi meglio per
riscoprire le proprie capacità pratico-manuali e i propri talenti. Oggi ci
rendiamo tristemente conto che non sappiamo “fare”, ma dobbiamo acquistare
tutti i beni che ci occorrono. Il modello di giornata che ho in mente dovrebbe
svilupparsi in tre momenti: l’auto produzione di beni, includendo le
riparazioni artigianali e l’orticoltura; il lavoro “esterno”, necessario per
ottenere denaro e acquistare quello che non si può costruire direttamente.
Infine, una parte importante della giornata dedicata alle relazioni umane, alla
spiritualità, al divertimento e all’apprendimento. Molto si può fare
individualmente, vivere il proprio cambiamento e operare contestualmente scelte
di consumo consapevoli, riducendo gli sprechi e gli acquisti inutili. Ma poi ci
vuole una risposta politica e di orientamento dei settori industriali che
mirino all’efficienza, alle energie pulite e alla produzione sostenibile dei
beni strumentali».

La fase di crescita è proprio “esaurita”?

«Io credo che tutti gli sforzi attuali di aumentare
l’occupazione senza porsi la questione dell’utilità di quello che si fa sono
destinati al fallimento. Dobbiamo invertire la tendenza ed entrare in una fase
nuova dell’economia; questa azione non potrà che ripercuotersi beneficamente in
un avanzamento sociale dell’intera umanità».

 
     L’esperto 2/ Jean Louis Aillon                                                             
Decrescita, medicina e giovani

Rimettere al centro l’essere umano, in armonia con la
natura. Una società in cui si possa consumare meno e meglio. E dare più spazio
alle relazioni. Questi e altri gli ingredienti della decrescita felice secondo
il responsabile salute del Movimento.

Jean Louis Aillon è un medico 29enne,
specializzato in psicoterapia dinamica adleriana. Fa parte del direttivo
nazionale del Movimento per la decrescita felice ed è il responsabile del
settore Salute all’interno del Movimento. Jean Louis è una persona estremamente
piacevole che, con una buona dose di profondità e disinvoltura, ci racconta la
sua visione della decrescita ponendo l’accento sulla reale necessità di un
capovolgimento di paradigma in medicina e analizzando l’orizzonte dei giovani.

Jean Louis, decrescere bene e meglio. Ci dai
qualche input in merito?

«L’obiettivo della decrescita è di rimettere
al centro gli esseri umani in un nuovo rinascimento, in armonia con la natura.
In questo stato delle cose, l’economia deve essere semplicemente un mezzo che
garantisca la piena realizzazione degli esseri umani. L’idea sostanziale è: non
si deve fare sempre di più ma fare meglio, non pensare alla quantità ma alla
qualità, consci dei propri limiti e di quelli del pianeta. Una società in cui
si possa consumare meno e meglio, lavorare un po’ meno per dare più spazio alle
relazioni, alla sfera affettiva, spirituale e creativa. In questo senso
ritagliarsi del tempo “liberato” che non è il “tempo libero” catturato dagli
svaghi dell’industria del divertimento ma un tempo prezioso da dedicare a sè
stessi e ai propri cari. Noi siamo stati colonizzati da un’immagine della
crescita che nutre in sé una serie di disvalori: essere sempre in forma,
competitivi sul lavoro, inseguire benessere materiale e successo. Con la
decrescita si intende decolonizzare quest’idea della crescita».

Salute, psiche e crescita dell’uomo. Come può
la decrescita intervenire in questo ambito? «Innanzitutto occorre porsi una
domanda: “Da cosa dipende la nostra salute?”. La risposta è così ripartita: 7%
da fattori genetici, 15% dall’organizzazione sanitaria e il restante 70% dagli
stili di vita che si conducono e dall’impatto ambientale. Una buona rete
sociale accanto a sé, una sana alimentazione e dei ritmi meno pressanti
costituiscono le chiavi per migliorare il nostro stato di salute. La “crescita”
fine a se stessa ha prodotto solo ineguaglianze e stili di vita insalubri. La
depressione nel 2020 sarà la prima patologia per cause di disabilità del mondo,
insieme ad altri malesseri sempre in aumento come l’insonnia e la cefalea.
Decrescere in ambito sanitario, significa, a mio avviso, svincolare la medicina
dalle influenze che nel corso dei secoli le ha apportato un sistema economico
basato esclusivamente sulla crescita del Pil; affrancarla da una visione miope
della scienza e del progresso che ha fatto dell’uomo un oggetto di studio come
gli altri, trascurandone le varie dimensioni essenziali, la sua unitarietà e la
sua complessità. La decrescita in questo ambito, come in economia, si propone
di riorientare la medicina secondo un carattere prettamente qualitativo (e non
quantitativo), riportando l’unicità della persona al centro del processo medico
e promuovendo tutte quelle pratiche che mirano al reale benessere psico-fisico
e sociale dell’essere umano, inteso nella sua globalità. Alcuni temi di
carattere generale (su cui vi è un consenso internazionale) che possono essere
affrontati con questo metodo, nell’ottica della decrescita riguardano: gli stili
di vita, la prevenzione, la promozione della salute, l’approccio olistico al
paziente, l’abolizione del consumismo farmaceutico, lo stress stile di vita
odierno, l’ambiente e l’inquinamento, l’approccio al dolore, l’organizzazione
sanitaria e molto altro ancora». 

Chiediamo a Jean Louis Aillon di spiegarci
come rientrano i giovani nella decrescita. «La decrescita è una filosofia che
fa presa su coloro che sono imbrigliati negli ingranaggi della “megamacchina
capitalistica”. Il mondo dei giovani è, però, completamente diverso: il tempo
non manca e le relazioni umane abbondano. Nonostante ciò i giovani non sembrano
affatto così felici.  Attraverso lo
strumento della decrescita, il rivalutare vecchi mestieri, conoscere meglio i
propri talenti e dare un senso alle cose che si fanno, si possono rompere le
catene dell’isolamento e della solitudine e trovare la forza per vivere
diversamente questo mondo». (G.M.)

 
 

Luca Cecchetto e Gabriella Mancini




Decrescita 1: Decresco, quindi sono

Teoria e pratica della «decrescita felice»

di Gabriella Mancini, con la collaborazione di Luca
Cecchetto

Premessa: perché decrescita?
«Non cambierete mai niente lottando contro la realtà
esistente. Cambierà qualcosa solo costruendo un nuovo modello che
renderà quello esistente obsoleto». (Buckminster Fuller)

Se apriamo il vocabolario e cerchiamo «benessere», la
definizione fa riferimento a: stato di buona salute fisica e psichica, felicità,
senso di benessere interiore o prosperità economica, agiatezza. Per società del
benessere si intende la nostra, quella occidentale, caratterizzata da agiatezza
collettiva e un elevato reddito pro capite. Ma siamo proprio sicuri che la
bussola dello sviluppo e del benessere di una società continui a essere solo
determinata dal Pil (Prodotto interno lordo)?

Da queste considerazioni nasce e si sviluppa la teoria
della decrescita che ne vede precursore l’economista rumeno Nicholas
Georgescu-Roegen in particolare per la sfera ecologica. I sostenitori della
decrescita affermano che la crescita economica – intesa proprio come
accrescimento costante del Pil – non porta a un maggior benessere e che il
miglioramento delle condizioni di vita deve essere ottenuto non con l’aumento
della produzione e del consumo di merci ma con il miglioramento dei rapporti
sociali, umani, della qualità ambientale, della collettività e del tempo
liberato. Le parole di Serge Latouche, principale teorico della corrente, ne
sono lo specchio: «La decrescita non è la crescita negativa. Sarebbe meglio
parlare di “acrescita” […]. D’altra parte si tratta proprio dell’abbandono di
una fede o di una religione (quella dell’economia, del progresso e dello
sviluppo). […] Siamo ancora in tempo per immaginare, serenamente, un sistema
basato su un’altra logica».

Una decrescita che può essere felice solo se non è
subita, se nasce da una scelta consapevole che, se sperimentata, dimostra di
saper dare i suoi buoni frutti.

Questa inchiesta svela che una nuova fetta di umanità si
è già messa in cammino per «reinventare» un modo più critico e consapevole di
esistere. Un percorso inverso, dove recuperare la manualità e le tradizioni può
salvaguardare il proprio destino; dove essere liberi dai condizionamenti
telematici senza risultare disinformati e operare scelte eco-compatibili come
riciclare, riparare, autoprodurre non deve essere l’eccezione ma la regola per
star meglio. Dove, lo spazio per esistere è uno spazio dettato dal dialogo e
non dalla mercificazione dei rapporti. Dove quel «de», davanti al termine «crescita»,
non è svilente ma è la linfa vitale di un altro paradigma: quello della
rinascita di un nuovo umanesimo e della riscoperta di un’economia basata sulla
ragionevolezza.

Gabriella Mancini




Di viaggi e incontri… e anche di cresima e cani

Siamo un po’
tutti nomadi nel cuore. Emancipati dal vincolo dell’agricoltura di sussistenza
che ci legava indissolubilmente alla terra, abbiamo riscoperto quello spirito
nomade che fa parte del nostro Dna ancestrale. Che siano le uscite del fine
settimana, le vacanze estive o quelle invernali, sentiamo il bisogno di
muoverci, di uscire, di conoscere, di vedere: sempre più in là, sempre più
oltre. Per tantissimi invece muoversi non è una scelta, ma una necessità:
emigrare o morire. Interi popoli si muovono ancora oggi per questo. Per noi
Italiani è la fuga dei cervelli. Ma questo è vero non solo per noi: quanti
immigrati approdati sulle nostre coste hanno titoli universitari che non
possono investire nei loro paesi!

C’è invece chi si muove
per piacere e conoscenza. Un paio di secoli fa solo i ricchi potevano
permettersi il lusso di grandi viaggi, di esplorazioni avventurose. La gente
normale vi partecipava leggendone i libri. Così gli africani hanno conosciuto i
primi bianchi: esploratori, gente che andava in giro apparentemente senza una
meta precisa, wazungu appunto (quelli che vanno in giro), come dicono in
kiswahili, la lingua franca dell’Africa dell’Est. Oggi invece è turismo di
massa. Con un aereo si arriva agli antipodi in poche ore. Il mondo è alla
portata di tanti.

Quale incredibile
occasione di incontro, confronto e conoscenza, di creare nuove relazioni, di
aprire i propri orizzonti, di amare la mirabile varietà di facce della razza
umana, di incontrare persone vere. Eppure… quante occasioni perdute, quanta
superficialità, quanta fretta, quanti abusi e incomprensioni. Ci si incontra e
non ci si conosce; non ci si conosce e non ci si capisce; non ci si capisce e
non ci si ama. Dopo il viaggio restano i soliti stereotipi e le foto da
mostrare agli amici: io nel villaggio, io col leone, io col vestito afro, io
con le treccine a foggia indigena, io al mercato. Gli amici si annoiano e non è
cambiato niente.

Diventassero i nostri
viaggi occasione per conoscerci di più, quanti pregiudizi potrebbero cadere. Si
avrebbe il piacere di scoprire che siamo tutti «uomini» e non bestie strane o
alieni, nemici o minacce. Smetteremmo forse di parlare per slogan: «Gli
africani sono tutti…, gli albanesi, i romeni, i napoletani, i romani…». Gli
africani? Quali africani? Quelli del Marocco o del Sudafrica? I pastori Maasai
o gli agricoltori Kikuyu? I Pigmei dell’Ituri o i Boscimani del Botswana? Noi
stessi non amiamo essere classificati con generalizzazioni, soprattutto se
negative. Non vale lo stesso per gli altri? Verrà il giorno in cui parlando dei
nostri vicini potremo dire «il mio amico Li», invece de «i cinesi»; «il signor
Ali» invece de «i marocchini», «la mia vicina Klodiana» invece de «gli Albanesi»?
Sì, può venire. Basterebbe cominciare da cose semplici: farci un amico nuovo
ogni volta che andiamo in un posto nuovo e scambiarci qualche buona ricetta;
imparare una breve preghiera in lingua locale e magari andare a messa insieme
nella parrocchia del posto; conoscere un po’ della storia e cultura. Forse
basterebbero solo fantasia e cuore.

 —————–

Stavo
scrivendo queste poche righe, quando una suora è arrivata trafelata con un
bigliettino in mano: «In occasione della mia S. Cresima ho voluto fare un gesto
di amore donando al posto della bomboniera, pappa e cure ai miei amici a 4
zampe». «Non ho dormito tutta la notte», mi ha detto. «Come è possibile dopo
cinque anni di catechesi? Cosa hanno capito? E siamo in un quartiere dove oltre
un terzo della popolazione è a rischio di sfratto, ma con tantissimi cani e ben
curati. Abbiamo parlato con loro di servizio, di carità, di accoglienza, di
condivisione. E mi fanno la “cresima per i cani”! Devi scrivere qualcosa».

Cara sorella, che scrivo?
Lo sa che non è politicamente corretto dire che prima vengono le persone e poi
i cani e che se i cani stanno male è perché gli uomini stanno peggio. Forse
potrei solo constatare che è meno impegnativo risolvere i problemi dei cani che
quelli degli uomini.

Papa Francesco ha detto (il
5/6/2013
) che c’è bisogno di una ecologia umana, perché «la persona umana è
oggi in pericolo, … sacrificata agli idoli del profitto e del consumo: è la “cultura
dello scarto”». Così continuiamo a scrivere che non si tratta di fare una
scelta tra gli uomini e i cani, ma di amare «e l’uomo e il cane»!

Gigi Anataloni




Santa Idelgarda di Bingen

Ildegarda nasce nell’estate del
1089 a Bermersheim, presso Alzey, nell’Assia-Renana in Germania, ultima di
dieci fratelli. Fin da bambina ha delle visioni che l’accompagneranno per tutta
la vita. A otto anni i suoi genitori, Ildeberto e Matilda di Vendersheim,
l’affidano al monastero di Disibodenberg, dove viene educata da Jutta di
Sponheim. A quindici anni emette la professione monastica e si avvia con
entusiasmo allo studio di opere patristiche e teologiche. Alla morte di suor
Jutta, intorno al 1136, Ildegarda le succede come magistra. Di salute
malferma, ma vigorosa nello spirito, si impegna a fondo per il rinnovamento
della vita religiosa del suo tempo e mantiene un intenso scambio epistolare con
personaggi di rilievo. Scrive inoltre trattati di filosofia e teologia, di
medicina, scienza e persino cosmologia; trova il tempo di comporre anche brani
musicali. Colpita da malattia nell’estate del 1179, Ildegarda si spegne in fama
di santità nel monastero del Rupertsberg, presso Bingen, il 17 settembre dello
stesso anno.

A essere sincero sono molto emozionato
nell’entrare in dialogo con una donna consacrata come te, una monaca
contemplativa, che durante la sua vita incise non poco nelle vicende ecclesiali
del suo tempo, in particolare nella sua terra, la Germania. Mi faccio forza
quindi, e ti chiedo di parlarci un po’ della tua vita.

Fin
dalla mia infanzia sono stata prescelta da Dio, che mi ha fatto dono di un
fenomeno molto particolare, ossia delle visioni celestiali che, data la mia
giovane età. Inizialmente non riuscivo a capire, ma in seguito pian piano
imparai a riconoscerle come doni del Signore affinché io mi dedicassi e
consacrassi totalmente a Lui.

I tuoi genitori come vivevano questo
fatto? Ne erano spaventati oppure tentavano di nascondere quello che tu stavi
vivendo per non suscitare troppo clamore attorno a te?

Certo
erano anche loro meravigliati di quello che mi succedeva, perciò all’età di
otto anni mi affidarono al monastero di Disibodenberg. Non appaia questo, a voi
modei, un gesto coercitivo. Ai miei tempi infatti era abbastanza normale che
sin da bambini si entrasse a far parte della comunità di un monastero. Del
resto, anche altre Sante entrarono in monastero in età piuttosto giovane, per
non dire adolescenziale.

Appartenente a una famiglia nobile e
affidata a una comunità monastica, fu abbastanza facile per te ricevere
un’istruzione di prim’ordine e nel contempo essere educata secondo le regole di
San Benedetto.

In
convento ebbi la fortuna di avere come Madre Maestra (Mater Magistra
come si diceva allora), Jutta di Sponheim, una nobile tedesca che si era
consacrata al Signore, dotata di un’intelligenza fuori dal comune e molto
addentro alle questioni teologiche, filosofiche di quel tempo. Fui presa sotto
la sua ala protettrice e grazie a lei ebbi un’istruzione di prim’ordine,
imparando ad accostarmi ai testi teologici e della nascente teologia scolastica
medioevale, che, data la presenza di personaggi di spicco miei contemporanei
come san Beardo e sant’Anselmo d’Aosta e influenze come quelle della scuola
di Chartres, cominciavano a circolare e a essere conosciuti nei circoli
accademici, nonché ovviamente in ambito religioso.

Ti piaceva studiare, addentrarti nei
meandri della Patristica e della teologia?

Molto,
in questa passione mi buttai a capofitto leggendo quasi tutti i testi dei santi
Padri in circolazione e i libri dell’enciclopedismo medioevale. Avevo una
particolare preferenza per san Dionigi l’Areopagita e il grande padre della
Chiesa, sant’Agostino di Ippona.

Con l’istruzione che hai avuto quindi non
ti deve essere costato molto scrivere anche ciò che sperimentavi durante le tue
visioni.

Di
certe cose ero piuttosto restia a parlare. Ma dopo i quarant’anni capii che i
doni che il Signore mi faceva dovevo condividerli con gli altri. Incominciai a
scrivere con particolare intensità tutto ciò che avveniva in me. Io non le
definivo visioni del cuore o della mente, ma, essendo visioni che prendevano tutto
il mio essere, fisico, psichico e spirituale, preferivo chiamarle: «Visioni
dell’anima».

Immagino che avendo tu acquisito una certa
notorietà per la santità di vita e per i trattati che hai scritto e che
cominciavano a circolare, molta gente ricorresse a te per avere dei consigli o
preziosi aiuti spirituali.

Sì.
Ma oltre a queste cose, cominciavano anche a chiamarmi a predicare nei villaggi
e nelle città. Del resto tutta la comunità civile e religiosa sentiva il
bisogno di una riforma morale del clero, dei monaci e del popolo. In questo
senso compii diversi viaggi pastorali e predicai nelle cattedrali di Colonia,
di Treviri, di Liegi, di Magonza, di Metz e di altre città.

Beh, per l’immagine che abbiamo noi del
Medioevo: quella di un’epoca triste e buia, sapere di una donna – sia pure
monaca – che predicava alla gente e al clero nelle cattedrali delle città
tedesche provoca un certo effetto.

Qualcuno
pensa che questo mio modo di fare sia l’antesignano del femminismo come lo
conoscete voi. In realtà il ruolo della donna nella Chiesa è sempre stato un
ruolo importante, anche se ha compiti diversi da quelli degli uomini. Inoltre,
all’interno dei nostri monasteri e dei nostri conventi, si provvedeva a
eleggere democraticamente i superiori, una cosa che neanche la società civile
medioevale riusciva a concepire. Questo per dire come bisogna smontare gli
stereotipi che, da un certo momento in poi, hanno fatto da padroni nella storia
della Chiesa.

Prova a sintetizzare la specificità della
tua predicazione e delle tue riflessioni teologiche che avevano tanto successo
e che ti ponevano ben al di sopra di tanti eruditi del tempo?

Cercavo
di manifestare la straordinaria armonia che esiste tra la Parola di Dio, la
dottrina cristiana che ne consegue e la vita quotidiana. Per capire sempre
meglio e sempre di più qual era il disegno che il Signore aveva su di me,
approfondivo le radici bibliche, liturgiche e patristiche alla luce della
Regola di san Benedetto, dando così origine e consistenza a una riflessione che
incideva sia nella prassi del popolo cristiano, che nella vita dei consacrati.
In questo modo, la pratica dell’obbedienza alla regola di vita del nostro
grande fondatore, san Benedetto da Norcia, faceva sì che la semplicità
dell’esistenza, l’ospitalità e la carità verso gli altri, fossero vissute come
una totale imitazione di Cristo. Proprio attraverso questa testimonianza si
riesce a lasciare traccia del mistero di Dio che agisce nella nostra vita.

Immagino che la considerazione culturale
che ti eri conquistata e la tua fama di santità abbiano richiamato discepoli –
o meglio, discepole – che volevano vivere la vita comunitaria accanto a una
persona così straordinaria, benedetta dal Signore con grazie particolari.

Quella
fu una stagione meravigliosa, le sorelle cominciarono ad arrivare e a un certo
punto diventammo così numerose che intorno al 1150 fondammo un monastero sul
colle chiamato Rupertsberg, nei pressi di Bingen, dove mi trasferii insieme a
diverse consorelle. Nel 1165, ne istituii un altro a Eibingen, sulla riva
opposta del Reno. In entrambi i monasteri fui nominata badessa, ma la mia
preoccupazione principale fu quella di curare sempre il bene spirituale e
materiale delle consorelle, che sentivo ormai figlie mie, favorendo in modo
particolare l’armonia della vita comunitaria, l’istruzione delle persone e una
pratica liturgica sempre accurata. Nei nostri monasteri davamo rilievo
all’ospitalità: accogliere cioè chi ricercava un luogo per riposare, pregare,
istruirsi e stare un po’ di tempo insieme al Signore.

Durante la tua vita sei entrata in
contatto con personaggi illustri del tuo tempo, ce ne vuoi parlare?

Ebbi
uno scambio di lettere con l’imperatore Federico Barbarossa, con il conte
Filippo d’Alsazia, con san Beardo di Chiaravalle e con il Papa Eugenio III.
L’imperatore Federico Barbarossa si pavoneggiava un po’ dicendo che lui era il
mio protettore, ma quando si schierò contro il Papa Alessandro III, nominando
ben due antipapi, io e Beardo da Chiaravalle gli scrivemmo una lettera di
fuoco per aiutarlo a riconsiderare la cosa. Devo dire che Federico accettò il
nostro richiamo e non intraprese nessuna iniziativa punitiva nei nostri
confronti.

Se non vado errato, ti sei occupata oltre
che di teologia, di politica, ecc., anche di scienza e di medicina.

Beh,
con le conoscenze del tempo, più che di scienza e di medicina, badavo al
rapporto che l’uomo, con le sue emozioni e con la sua razionalità, può avere
con la natura, perché questa è una preziosa alleata quando si tratta di guarire
dalle malattie. C’è un’energia vitale tra la creatura e il creato che sfugge a
un’esperienza empirica, ma che è profondamente vera e autentica in una
dimensione spirituale. Il rapporto, infatti, tra la persona e l’universo, è un
rapporto fondamentale che Dio stesso ha voluto. Bisogna aver cura quindi di ciò
che ci circonda. Il nostro pianeta, se trattato bene, saprà ridare il centuplo
all’uomo che ha nei suoi confronti un’attenzione tutta particolare.

Cara sant’Ildegarda, pur essendo tu una
figura di spicco del XII secolo, sei più modea di tanti nostri contemporanei.

Il
Signore, nella sua divina sapienza e benevolenza, fa in modo che le persone
considerate punti di riferimento per la loro vita cristallina non siano
soltanto ammirate da chi vive durante la loro epoca, ma siano esempio per ogni
tempo.

Sant’Ildegarda
di Bingen morì il 17 settembre 1179. Fu proclamata Santa a furor di popolo
quasi subito. Papa Giovanni Paolo II nella ricorrenza dell’ottocentesimo
anniversario della sua morte, la definì «la profetessa della Germania», una
donna «che non esitò ad uscire dal convento per incontrare, intrepida
interlocutrice, vescovi, autorità civili, e lo stesso imperatore Federico
Barbarossa». Alla santità del genio di Ildegarda, Papa Wojtyla fa cenno
nell’Enciclica sulla dignità femminile, Mulieris Dignitatem. Nel maggio
del 2012, Benedetto XVI l’ha proclamata Dottore della Chiesa.

 
Don Mario Bandera, Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Uno sviluppo a tutto biogas

Produrre energia pulita con prodotti, rifiuti e residui
biodegradabili locali, liberandosi progressivamente della dipendenza dai
combustibili fossili come il petrolio e dai conflitti a essi legati, e
diminuendo i costi per i cittadini e le aziende. Non si tratta di uno slogan
che descrive il sogno a occhi aperti di un manipolo di visionari, ma di una
realtà che va prendendo forma nella vita di milioni di persone, e che getta
tutto il suo peso sulla bilancia dei temi che decidono le consultazioni elettorali.

Le
fonti di energia rinnovabili hanno oggi un peso che era impensabile solo pochi
anni fa, se è vero che nelle recenti elezioni tedesche, che hanno confermato Angela
Merkel alla guida del paese, sono state uno dei temi caldi. Quel tipo di fonti è
responsabile di ben un quinto della produzione energetica della Germania.
L’ambizioso piano tedesco per abbandonare i combustibili fossili entro il 2050
si sta rivelando più costoso del previsto per i cittadini, che si sono trovati
un aumento di circa il venti per cento sulla quota della bolletta che va a
sostenere gli incentivi alle rinnovabili (da 5,3 a 6,5 centesimi di euro per
chilowattora).

Fra queste fonti rinnovabili ci sono le biomasse che la
Direttiva Europea 2009/28/CE definisce come «la frazione biodegradabile dei
prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura
(comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie
connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile
dei rifiuti industriali e urbani». Sottoponendo una biomassa a un processo di
digestione o fermentazione anaerobica (cioè in assenza di ossigeno) è possibile
produrre biogas, composto per circa il settanta per cento da metano, che può
essere usato per la combustione (cioè ad esempio per far funzionare un
fornello) oppure, attraverso un ulteriore passaggio in un cogeneratore,
trasformato in energia elettrica. Il digestato, cioè il sottoprodotto della
digestione, può essere utilizzato come fertilizzante. Oltre al metano, il
processo di digestione produce anidride carbonica (CO2); questo,
tuttavia, non ha effetti sul riscaldamento globale poiché quella quantità di
anidride carbonica sarebbe stata prodotta comunque dalla biomassa nel suo
naturale decomporsi.

Secondo il rapporto 2012 della Iea, l’agenzia
internazionale per l’energia fondata dall’Organizzazione per la Cooperazione e
lo sviluppo economico (Ocse), i biocombustibili, fra cui il biogas,
rappresentano a livello mondiale circa il dieci per cento della produzione
totale di energia. In Italia, secondo il rapporto 2013 dell’Osservatorio
Agroenergia, a fine 2012 erano 850 gli impianti di biogas in funzione, per un
fatturato complessivo di due miliardi e mezzo di euro e un potenziale di
produzione pari a 5,6 miliardi di metri cubi l’anno. L’Osservatorio ha
calcolato che «il biometano può arrivare a coprire fino al dieci per cento del
consumo lordo di energia (scenario di “crescita accelerata”) o circa il 5%
(scenario di “crescita moderata”) al 2020». Il Consorzio italiano biogas stima
in un miliardo e mezzo di euro il risparmio che deriverebbe dal non dover
comprare gas dall’estero e ricorda che l’industria italiana del biogas dà
attualmente lavoro a circa dodicimila addetti.

Sulla carta, quindi, quella delle biomasse è
un’opportunità da non perdere per ridurre la dipendenza italiana dal gas
importato, pari a circa settanta miliardi di metri cubi l’anno. La
realizzazione pratica, tuttavia, non si sta svolgendo senza intoppi. Da un
lato, infatti, ci sono casi di successo come quello di Bertiolo, in provincia
di Udine, dove il biogas è stato ribattezzato il «petrolio verde». L’impianto
della Greenway, società che riunisce dieci aziende agricole locali,
produce oltre ottomila megawattora di elettricità in dodici mesi e ha creato un
giro d’affari di circa un milione di euro all’anno. La filiera corta, cioè
basata su operatori che agiscono in un territorio circoscritto e in contatto diretto
fra loro, è indicata dai produttori come una condizione imprescindibile per il
successo dell’iniziativa: i produttori, infatti, ricavano da circa trecento
ettari di coltivazioni locali tutta la materia prima necessaria per far
funzionare l’impianto, senza spese aggiuntive per trasporti delle materie prime
e creando un indotto importante per i piccoli paesi della zona.

Ma accanto a casi virtuosi come quello friulano, ce ne
sono altri nei quali la situazione non è così rosea: a Ponte Guerro, in
provincia di Modena, i cittadini hanno ingaggiato una lunga battaglia con Hera,
il gestore dell’impianto di biogas, esasperati dai miasmi prodotti dalla
centrale locale; il Centro Documentazione Conflitti Ambientali, nell’ambito
della campagna Green Lies (Bugie Verdi) che indaga i lati oscuri della green
economy
ha poi raccolto in un documentario le testimonianze dei cittadini
di Bondeno (Ferrara) e Mezzolara (Bologna) dai quali emerge che l’alimentazione
degli impianti a biogas previsti dal piano energetico regionale richiederebbero
seicentomila ettari di mais coltivati localmente e il conseguente
sconvolgimento dell’uso tradizionale dei terreni agricoli del ferrarese e del
bolognese.

Il documentario segnala inoltre «mancanza totale di
coinvolgimento e corretta informazione dei cittadini (…); piani di sviluppo
lontani dalle necessità e dall’esigenza dei territori e dei cittadini che lo
abitano; sistemi di incentivi sregolati che non permettono lo sviluppo graduale
e sostenibile di nuove economie locali a medio e lungo termine; assenza di
reali e efficienti misure di valutazione dei progetti, di controllo degli
impianti e del trattamento dei residui pericolosi e di future misure di
bonifiche; mancanza di conoscenza e curiosità tecnica da parte dei decisori che
avallano progetti inadatti».

Infine va considerato lo stravolgimento dei prezzi di
mercato nei casi di siccità (come è successo nel 2012) e, quindi, di scarsa
produzione, perché il bisogno di biomasse assorbe anche il prodotto vergine
destinato all’alimentazione animale e umana.

In assenza di una regolamentazione chiara e univoca e
guardando al biogas nella sola ottica del business, insomma, il rischio è
quello di trasformare una possibile occasione di crescita economica in
un’attività che danneggia il territorio. L’Energy & Strategy Group
del Politecnico di Milano, proprio partendo dall’analisi di questi rischi, ha
raccomandato di tornare al principio del chilometro zero: piccoli impianti
sostenibili alimentati da scarti agricoli e forestali locali e non da biomasse
vergini, cioè da prodotti coltivati ex-novo con lo scopo di essere
utilizzati per la produzione di biogas.

Il biogas nel Sud del mondo

Il biogas sta rivelandosi una novità dai risvolti
potenzialmente decisivi anche per le economie del Sud del mondo. Si
moltiplicano, anno dopo anno, i progetti sostenuti dalle istituzioni
inteazionali e dalle Ong con l’obiettivo di rispondere alla crescente domanda
di energia dei paesi in via di sviluppo, e diversi rapporti illustrano i
vantaggi di cui beneficia chi si è lanciato nella nuova avventura del biogas.
La Thomas Reuters Foundation riporta il caso di Parshottambhai Shanabhai
Patel, un contadino dello Stato di Gujarat, nell’India nord-occidentale, che
dal 2009 produce biogas grazie al quale fa funzionare il suo impianto di
irrigazione. Con duecento chili al giorno di letame delle sue vacche riesce a
produrre energia per otto – dieci ore e non deve più affrontare il costo, pari
a quattrocento euro l’anno, per il gasolio che alimentava la pompa. Inoltre,
soddisfatti i bisogni della propria fattoria, Patel può vendere l’energia in
avanzo agli altri coltivatori per sessanta rupie (circa un dollaro) all’ora.

Il Christian Science Monitor illustra poi
l’esempio della scuola di Gachoire, nel Kenya centrale, dove le acque reflue
delle latrine usate dagli oltre ottocento ragazzi della scuola vengono
convogliate nel digestore e convertite in gas per i fornelli della cucina. E
ancora, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), gli
scarti di un mattatornio a Dagoretti e la raccolta dei rifiuti a Kibera (due slums
di Nairobi) permettono di soddisfare, rispettivamente, il fabbisogno energetico
per il funzionamento del mattatornio e il fornello comunitario. I benefici per
l’ambiente derivano ovviamente anche dal fatto che i rifiuti animali del
macello non finiscono più nel vicino fiume (che era stato ribattezzato «il
fiume di sangue») e che la raccolta di rifiuti ha migliorato la salubrità del
quartiere.

Energypedia,
l’enciclopedia dell’energia avviata fra gli altri dall’agenzia di cooperazione
internazionale tedesca (Giz – Gesellschaft für Inteationale Zusammenarbeit),
riporta che il consumo energetico kenyano viene soddisfatto per oltre due terzi
dalla legna da ardere e dalla carbonella; la richiesta di legna sarebbe pari a
trentacinque milioni di tonnellate annue e rimane inevasa per oltre la metà.
Con questi numeri, è evidente che il rischio di deforestazione per il paese è
altissimo e il biogas può davvero rappresentare una svolta verso una soluzione
che impedisca la devastazione del patrimonio forestale del paese.

Mediamente, nei paesi in via di sviluppo, gli impianti
sono di piccole, se non piccolissime, dimensioni e vanno a sopperire alla
richiesta energetica di singole famiglie o comunità. Il rischio, nel Sud del
mondo come nel Nord, è quello delle speculazioni da parte di grandi produttori
industriali o società finanziarie.

Chiara
Giovetti

Progetto_____________________

La Fiamma di Natale

Quest’anno, la campagna di
Natale di Missioni Consolata Onlus si concentra su un tema
apparentemente poco natalizio: il biogas.

Questa volta abbiamo dato
un’interpretazione diversa del «regalare la vita» (lo slogan delle nostre
passate campagne): «preservare la vita che ci dà la Terra».

Su un pianeta che si sta
suicidando, utilizzando indiscriminatamente le risorse naturali a vantaggio di
pochi, l’attenzione per i temi dell’ambiente non può essere un lusso radical
chic
da occidentali ma un problema di tutti, ovunque. Un cittadino del Sud
del mondo ha diritto come chiunque altro a vivere in un ambiente pulito,
salubre, in un territorio non devastato da disastri ambientali provocati dalla
deforestazione e dall’inquinamento. L’energia, che permette di cucinare, di
pulire, di illuminare deve poter essere a disposizione di tutti.

Ecco perché quest’anno
abbiamo scelto di sostenere il progetto biogas di Familia ya Ufariji, a
Kahawa West, un quartiere della periferia di Nairobi.

Familia ya Ufariji
(Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di
strada fondata nel 1996 dai Missionari della Consolata. Oggi ospita sessanta
bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Da anni, Familia
ha avviato una serie di attività agricole che hanno il doppio risultato di
permettere alla struttura di contribuire al proprio mantenimento e ai ragazzi
ospitati di collaborare alle attività, apprendendo tecniche agricole che
permetteranno loro di avere una competenza professionale da utilizzare per il
proprio sostentamento.

Nella piccola fattoria di Familia
ci sono attualmente sei vacche e tre vitelli che possono fornire letame per far
funzionare un impianto per la produzione di biogas. Il gas prodotto sarà
utilizzato per integrare ed eventualmente sostituire la legna, il gas Gpl e gli
scarti del mais attualmente utilizzati per il fuoco della cucina. Un digestore
di ventiquattro metri cubi sarà sufficiente per fornire il gas a un fornello.

Padre Lorenzo Cometto e
fratel Kenneth Wekesa si occuperanno della realizzazione del progetto,
coadiuvati da tecnici locali specializzati per garantire che il piccolo
impianto sia costruito e messo in funzione nel rispetto delle norme di
sicurezza. Il costo del progetto è di 8.156 euro. Anche una piccola donazione
può servirci per acquistare le cistee, il cemento, i tubi e tutto il
materiale necessario alla realizzazione del digestore e alla sua messa in
funzione. (Chi. Gi.)

Maggiori informazioni sui dettagli del progetto sono
disponibili sul sito di Missioni Consolata Onlus:
www.missioniconsolataonlus.it

Chiara Giovetti




Lo Yom Kippur alla corte di Strasburgo

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 15
Un avvocato napoletano di religione ebraica vede rifiutata
la sua richiesta di rinvio di un’udienza per partecipare alla festa del Yom
Kippur. E ricorre alla Corte di Strasburgo (Cedu) per il mancato rispetto del
suo diritto di culto. Un caso emblematico della difficile ricerca di equilibrio
tra diritti in conflitto. E del ruolo fondamentale che la Corte svolge nella
costruzione di una comune coscienza civile in Europa, anche sul tema della
libertà di religione. Prendendo in esame le sentenze della Cedu, possiamo
comprendere se in Europa esiste un problema di libertà religiosa e di pensiero
e, quindi, di laicità dello stato.

La Corte europea dei diritti
dell’uomo (Cedu) ha il compito di decidere se nei paesi che fanno parte del
Consiglio d’Europa e dell’Unione europea viene violata la libertà religiosa,
oppure messa in discussione la laicità dello stato o, ancora, il pluralismo
religioso e la pari dignità di tutte le fedi che rispettino i principi
costitutivi dell’Europa. La Cedu è sorta nel 1959 sulla base della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
.
Chiunque ritenga che tali diritti non siano stati rispettati, si può appellare
a essa. Per i casi riguardanti la libertà religiosa l’articolo della
Convenzione europea a cui fare riferimento è il numero 9 sulla libertà di
pensiero, di coscienza, di religione e di manifestare la propria fede o le
proprie convinzioni.

Costruire una comune coscienza civile europea

A livello europeo le sentenze della Cedu sono molto importanti, al
di là di quanto affermano le singole Costituzioni nazionali (le quali, essendo
tutte democratiche, riconoscono esse stesse in linea di principio le medesime
libertà). Se infatti, all’interno di un singolo paese europeo i diritti e le
libertà fondamentali venissero, per qualsiasi motivo, violati, la Cedu può
riconoscerlo grazie al suo ruolo di giudice di ultima istanza.

È per questo che la Corte svolge il fondamentale compito di
contribuire alla costruzione in Europa di una comune coscienza civile, quindi
anche riguardo alla libertà di religione.

Tra Yom Kippur e lavoro

Analizzando le sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo ci
troviamo di fronte a casi emblematici che mostrano, spesso, quanto sia
difficile trovare l’equilibrio giusto tra diversi diritti: ad esempio il
diritto di culto di un avvocato e il diritto di altre persone alla durata
ragionevole di un processo.

È il caso della sentenza emessa dalla Corte il 3 aprile 2012 che
vedeva l’avvocato napoletano di religione ebraica Francesco Sessa in
contrapposizione al governo italiano per la presunta violazione del suo diritto
di culto.

Il 7 giugno 2005 l’avvocato Sessa si presenta al giudice delle
indagini preliminari (Gip) di Forlì in rappresentanza di uno dei due querelanti
in una causa penale contro diverse banche. Il Gip titolare non può presenziare
all’udienza, e il suo sostituto, per fissare l’udienza successiva, propone due
possibili date: il 13 o il 18 ottobre. Entrambe, tuttavia coincidono con feste
ebraiche: rispettivamente lo Yom Kippur e il Succot. L’avvocato di Napoli lo fà
presente. Osservante, membro della comunità ebraica della sua città, non potrà
partecipare all’udienza di rinvio. E chiede che venga indicata una data
diversa, appellandosi alla legge del 1989 che regola i rapporti tra lo stato
italiano e l’Unione delle comunità ebraiche. Ma il giudice non tiene conto
della richiesta, e fissa l’udienza per il 13 ottobre. Anche il Gip titolare
della causa, cui l’avvocato napoletano si rivolge immediatamente, respinge la
sua richiesta di rinviare la nuova udienza. L’interessato, allora, sporge
querela contro entrambi i giudici.

Diritti o «ragioni personali»?

Arriva frattanto l’udienza del 13 ottobre e l’avvocato non si
presenta. Il Gip lo dichiara assente per «ragioni personali» e, raccolto il
parere delle parti, rigetta la sua richiesta di rinvio perché non aveva motivi
legittimi per ottenerlo. L’avvocato napoletano fa ricorso contro tale
decisione. La causa, attraversati tutti i gradi di giudizio, termina il 15
febbraio del 2008, quando il Gip di Ancona, cui era alla fine pervenuta,
l’annulla sostenendo che nessun elemento dimostrava una violazione del diritto
dell’avvocato di esercitare liberamente il culto ebraico o un attentato alla
sua dignità in ragione della sua fede religiosa.

Cedu: ultima istanza

Sessa decide quindi di fare ricorso alla Cedu. Appellandosi all’art.
9 della Convenzione per i diritti dell’uomo, sostiene che l’aver fissato
l’udienza nel giorno di una festa ebraica gli ha impedito di partecipare
all’udienza attentando al suo diritto di manifestare liberamente la propria
religione. La legge del 1989, secondo lui, l’autorizzava ad assentarsi dal
lavoro in occasione di feste ebraiche, per poter esercitare il proprio culto.

Il governo italiano, contro cui l’appello alla Cedu è rivolto,
naturalmente è di parere contrario. E sostiene che il diritto invocato dall’avvocato
di Napoli non riveste carattere assoluto. Infatti la stessa legge che regola i
rapporti dello stato con l’Unione delle comunità ebraiche prevede espressamente
che le esigenze legate a servizi essenziali dello stato prevalgano sul diritto
dell’individuo a esercitare liberamente il proprio culto. E l’amministrazione
della giustizia costituisce certamente un servizio essenziale. Inoltre
l’avvocato avrebbe potuto farsi sostituire per quella particolare giornata da
un collega, e non l’ha fatto. Egli dunque ha rinunciato a conciliare gli
obblighi religiosi legati al suo culto con le esigenze della buona
amministrazione della giustizia.

Ribadire il diritto alla libertà religiosa…

Questa causa riveste un interesse particolare per il tema della
libertà religiosa nel nostro continente, perché la Corte europea dei diritti
umani deve confrontare il caso specifico dell’avvocato napoletano con i
principi fondamentali espressi nell’articolo 9 della Convenzione: la libertà
religiosa riguarda prima di tutto il «foro interiore» delle persone, ma implica
egualmente il diritto di manifestare la propria religione sia in modo
collettivo, in pubblico e assieme a chi condivide la stessa fede, sia
individualmente e in privato. La Corte sottolinea quindi che la libertà
religiosa non è una questione solo «interiore», soggettiva e individuale. Essa
non è un fatto «privato», come un certo «laicismo» di carattere «radicale»
pretende. Ha invece anche dimensione e rilievo pubblici. E solo tutelando
entrambe queste dimensioni si può parlare di libertà religiosa.

La Corte, da un lato, sostiene, in base a queste valutazioni, che
l’avvocato di Napoli aveva tutto il diritto di partecipare alle feste della sua
religione.

…puntualizzandone i limiti

Dall’altro lato, la stessa Corte afferma che tale diritto non è
assoluto. L’articolo 9, infatti non protegge qualsiasi atto ispirato a una
religione. E per chiarirlo ricorda altri due casi emblematici, su cui si era
espressa in precedenza. Il primo riguardava un agente di servizio pubblico,
Tuomo Konttinen, Finlandese, licenziato perché non aveva rispettato i suoi
orari di lavoro per la ragione che la Chiesa avventista del settimo giorno, a
cui egli apparteneva, vieta ai suoi fedeli di lavorare il venerdì dopo il
tramonto del sole. Il secondo si riferiva a un militare turco di nome Kalac
collocato d’ufficio in pensione per motivi disciplinari, perché manifestava
idee integraliste. In questi casi la Corte aveva ritenuto che non valesse
l’art. 9 perché le misure prese non erano motivate dalle idee religiose degli
interessati ma dagli obblighi contrattuali specifici che li legavano ai loro
datori di lavoro.

Anche nel caso dell’avvocato napoletano secondo la Corte non si è
verificata alcuna restrizione del suo diritto di esercitare liberamente il suo
culto. Infatti l’interessato aveva potuto svolgere i propri doveri religiosi.
Egli avrebbe dovuto invece soddisfare comunque i suoi doveri professionali
facendosi sostituire nell’udienza da un collega.

4 a 3: la delicatezza dell’equilibrio

La sostanza della sentenza della Corte va quindi contro Francesco
Sessa: non è stato un caso di violazione del suo diritto di religione.

All’interno della Corte la decisione non è stata facile da
prendere. Dei sette membri che la costituivano, tre hanno sostenuto che si era
verificata comunque una ingerenza nei diritti dell’interessato.

In una società democratica la possibilità di ingerenza è ammessa
dalla legge quando si tratta di proteggere i diritti e le libertà altrui. In
questo caso il diritto dell’avvocato napoletano era in conflitto con il diritto
delle persone coinvolte nel processo al quale Sessa avrebbe dovuto prender
parte a godere di una buona amministrazione della giustizia e a vedere
rispettato il principio della durata ragionevole del processo. Secondo i tre
membri della corte che davano «ragione» all’avvocato, tuttavia, l’ingerenza non
aveva risposto al criterio della proporzionalità, secondo cui tra i vari mezzi
che permettono di raggiungere lo scopo legittimo perseguito, le autorità devono
scegliere quello che lede meno i diritti e le libertà. Si doveva infatti
scegliere una soluzione che permettesse di conciliare sia i diritti di libertà
religiosa dell’avvocato di Napoli sia quello di buona amministrazione della
giustizia delle parti in causa, ad esempio organizzando in modo diverso il
calendario delle udienze. In quel caso, i disagi e i problemi provocati da tale
scelta avrebbero rappresentato un modico prezzo da pagare per il rispetto della
libertà di religione in una società multiculturale. In più, secondo loro, non
esisteva alcun motivo di urgenza, dato che non erano previste misure che
privassero qualcuno della libertà. Per questo, tre giudici su sette erano del
parere che fosse stata violata la libertà religiosa di Francesco Sessa.

Fatto sta che alla fine, nonostante i tre pareri a favore
dell’avvocato di fede ebraica, la sentenza della Corte gli ha invece dato
torto. Si può non essere d’accordo. Occorre tuttavia sottolineare l’importanza
dei principi affermati dalla Corte nella sua sentenza. Il fatto stesso che essa
abbia deciso a stretta maggioranza, dimostra quanto delicata sia la questione
del rispetto del diritto alla libertà religiosa, sia nella sfera privata sia in
quella collettiva e pubblica. Esso non è, come detto, un diritto assoluto, e la
sua limitazione – possibile esclusivamente per tutelare i diritti altrui – va
considerata con grande attenzione e prudenza. La libertà religiosa, come quella
di pensiero e di coscienza, è uno dei cardini fondamentali su cui si basa una
società autenticamente laica e pluralista.

Paolo Bertezzolo

Paolo Bertezzolo




Voglia di tenerezza

Tra i vari richiami di papa Benedetto XVI in riferimento
all’attuale situazione, ricordo quanto disse ai vescovi italiani: «In vaste
zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non
trova più alimento. Siamo davanti a una profonda crisi di fede, a una perdita
del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi.
Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità dell’impegno della Chiesa
intera ai nostri giorni».

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Fede non limitata all’aspetto dottrinale, ma fede come vita, preghiera, celebrazione, trasmissione ad altre persone. Chi incontra veramente il Signore sente il bisogno di comunicarlo ad altri. I primi annunciatori sono coloro che hanno avuto gli occhi e il cuore pieni della visione del Cristo Risorto, come i discepoli di Emmaus, che possono considerarsi i cristiani di oggi: dubitano, sono delusi, ascoltano magari distratti, camminano con lui, mangiano insieme, lo riconoscono, ne restano abbagliati e corrono a dirlo agli altri discepoli. Così Matteo, la Samaritana, la Maddalena e le donne che corrono al sepolcro. Tutti dicono: «Abbiamo visto il Signore». È così sempre, fino a oggi.

Il racconto del cieco Bartimeo indica un cammino di fede: non si accontenta di correre da Gesù per essere risanato dalla sua cecità, ma rimane con lui, cammina sulla sua strada, lo segue, percorre il suo stesso cammino: «Getta via il mantello e balza in piedi» (Mc 10, 46-52).

Il problema grave del nostro tempo è che chi è stato avviato alla fede a volte si ferma, rimane a una fede bambina, del tempo del catechismo. O, peggio ancora, ritorna indietro, i suoi genitori non l’hanno fatto battezzare, rinviando tutto al solito ritornello che cioè toccherà a lui decidere quando sarà adulto, senza nessuna educazione religiosa (eppure è sempre prevista una educazione civile e umana). Magari sta alla porta della Chiesa, ma non vi entra, come dissero qualche anno fa i nostri vescovi, che sono ben consapevoli di questo fatto. Tuttavia, come scriveva Giovanni Paolo II all’inizio del nuovo millennio, anche le persone «del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai cristiani non solo di parlare a loro di Cristo, ma in certo senso di farlo vedere» (Novo millennio ineunte, 16).

Ci è di esempio e ci incoraggia in modo molto umano e sorridente la testimonianza di papa Francesco, la quale è chiaramente fondata sulla riscoperta dei contenuti veri della fede, perché diventi sempre più viva, solida e in crescita, essere «testimoni credibili e giorniosi del Signore risorto, capaci di indicare alle tante persone in ricerca la porta della fede» (Nota Pastorale per l’Anno della Fede). Senza gioia non si comunica nulla, non si dona nulla, ma si rifiuta qualsiasi dono, anche il più bello e il più costoso.

Impegno nuovo

È questo, per molti aspetti, un impegno nuovo chiesto ai cristiani di oggi. Perché? Cosa c’è di tanto nuovo nel nostro mondo da costringerci a cercare una nuova via di comunicazione della fede? In che senso è così diverso il mondo di oggi da quello di ieri, di non tanto tempo fa?

La prima novità è la cosiddetta globalizzazione. Messaggi di posta elettronica entrano a fiotti ormai nelle nostre case, e il mondo giovanile ne è affascinato. La crisi economica, e soprattutto culturale e religiosa, circola ovunque. Non abbiamo più nessuna identità, se non quella che ci offrono i massmedia, che danno di tutto ma un po’ di tutto, soprattutto una certa mentalità circa la politica, la famiglia, il mondo e le sue pazzie (che ci rendono sempre meno ottimisti e più depressi e ci mandano in tilt).

Viviamo in un villaggio globale, dove si parla di tutto nel bene e nel male. Praticamente nessun luogo dista più di un giorno di viaggio. Forse il frutto peculiare della globalizzazione è nel non sapere dove noi e il mondo stiamo andando. In quale direzione vada la nostra storia e la nostra società. Oggi si parla di un «mondo che cambia» (A. Giddens), di «modeità liquida» (Zygmunt Bauman) nel senso che tutto è relativo, che tutto è accettabile; che come l’acqua ci infiliamo dappertutto senza meta fino a impantanarci. Il guru di Tony Blair, Antony Giddens, lo chiama «mondo inafferrabile». La storia sembra ormai al di fuori del nostro controllo. La nostra mente non è più in grado di cogliere tutto, di capire tutto quanto avviene attorno a noi (pensate al telefonino, a Google, a Facebook, a Twitter, a Youtube, e ai milioni e milioni che li usano), come avveniva un tempo non molto lontano nel nostro villaggio, in cui in fondo si condivideva la direzione verso la quale si andava. I socialnetwork rendono davvero globale l’accesso alla cultura, che diventa comunicazione di massa, su vasta scala, che da one to many (da uno a molti) diventa una comunicazione da many to many (da molti a molti).

Nel mondo passato i rischi del vivere erano certo molti: epidemie, cattivi raccolti, tempeste, siccità, invasioni di popoli stranieri. Tuttavia erano rischi in gran parte estei a noi, fuori controllo. Oggi abbiamo inventato nuovi rischi, quelli derivati dalla nostra civiltà: surriscaldamento globale, sovrappopolamento, inquinamento, instabilità dei mercati finanziari (contro cui papa Francesco si è pronunciato come causa della crisi e dell’aumento della forbice della povertà mondiale, invitando il 16 maggio 2013 gli Ambasciatori non residenti presso la Santa Sede a farsi governare non dall’idolatria del denaro, ma dall’etica e dalla solidarietà per non ridurre l’uomo a mero bene di consumo).

Sapienza e ottimismo

Di fronte a questo mondo in fuga, quello che i cristiani possono offrire non è conoscenza, ma sapienza e ottimismo, la sapienza della destinazione ultima dell’umanità, la meta del Regno di Dio per noi indicato da Gesù. Senza meta non si va avanti. E il mondo globalizzato, pur ricco di conoscenza e informazione, è scarso di sapienza, quella dell’ultimo destino e del valore della vita. La sapienza del fine e della fine cui siamo chiamati ci libera dall’ansietà e dalla paura. Il fine è il regno di Dio, Gesù Cristo è stato colui che ce ne ha parlato. Importante in questo frangente mettere al centro Gesù Cristo, il suo messaggio, la sua parola, le sue scelte, più che le istituzioni che ne sono derivate, sempre fallibili, perché umane (Ecclesia semper reformanda est, la Chiesa è sempre da riformare).

Nella lettera agli Efesini Paolo parla e invita a «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra» (Ef 1, 9-10). I cristiani sono un segno del Regno; per esserlo vale non ciò che si fa o si possiede, ma ciò che si è, ciò che sono io per me e per gli altri. Nell’essere non solo per me, ma anche per altre persone, io scopro una nuova identità. Non è facile, richiede fedeltà.

Dialogo e rispetto

Il mondo che cambia porta con sé anche molti cambiamenti nella vita religiosa, e per conseguenza nel nostro cristianesimo. Per prima cosa è inevitabile il confronto con altre religioni: scontro o dialogo? I cristiani sono invitati a scegliere il dialogo, pensando alla storia religiosa dell’Europa e del mondo intero che ha interpretato e vissuto questo incontro come lotta e guerra di religione, per far prevalere il proprio Dio, che è poi il Dio di tutti. È comunque inevitabile il confronto con una, due, tre e tante altre religioni o pseudo-religioni, presenti nel nostro mondo. Questo spiega i diversi cambiamenti di fede e religione che si verificano anche in Italia e l’innalzamento di templi di religioni diverse da quella che riteniamo la «nostra», come quelli dell’Islam (le moschee).

Il relativismo di cui parlava Benedetto XVI contagia ormai non poche coscienze, sempre più spaesate nell’attuale clima d’incertezza morale, economica e culturale. Il rischio è che questo clima porti a ritenere che non ci sia più nulla di valido nella nostra esistenza umana e religiosa, o, all’opposto, a guardare alla dimensione religiosa come a un rifugio con la conseguenza di una vita spirituale intimistica, al limite dell’integralismo. Ci rifugiamo in chiesa di fronte a questo nostro mondo che non capiamo più, che ci travolge e ci spaventa.

Domande nuove

Si aprono domande nuove che nessuno può ignorare, domande esistenziali, che nascono dall’esperienza dell’uomo e che reclamano risposte. Come per esempio quella della evoluzione umana, della sua complessità e del suo rapporto con la creazione biblica. L’uomo, «una scimmia nuda», l’uomo, «una scimmia intelligente». Definizioni come queste lasciano spazio a tutto quanto si vuole nel campo della vita e del suo valore, della biologia e della scienza: vecchiaia, clonazione, eutanasia, donazioni di organi...

Nel 2012 in Belgio ci sono stati 1492 casi di eutanasia. La tendenza a livellare l’uomo al piano animale o a elevare la scimmia a quello umano è ricorrente, e secondo alcuni troverebbe supporto nella teoria dell’evoluzione. Certo, la religiosità e la spiritualità dell’uomo non sono misurabili con metodi empirici o scientifici.

Inoltre la cultura assume una grande importanza nel rapporto dell’uomo con l’ambiente. Mediante la cultura l’uomo è in grado di modificarlo, di trasformarlo per renderlo adatto alle sue necessità, ma anche per distruggerlo. Non mancano scienziati che ritengono il pensiero un puro prodotto dell’attività cerebrale. Un pensiero e la coscienza si possono misurare e come?

Anche il rito viene ritenuto il lato debole della fede. Per questo il rito, la messa domenicale, può essere tranquillamente tralasciato come un involucro ingombrante. Non si riconosce più nel rito un momento incisivo della propria fede. Svincolato dal fondamento della fede, il rito è al massimo un fattore oamentale e non offre i veri contenuti della fede, come è per esempio la celebrazione della messa domenicale. La celebrazione domenicale e l’esperienza viva della fede ci permettono di iniziare a credere e vivere e crescere in una dimensione autentica di fede insieme a tutti i credenti. Non si è muti ed estranei spettatori, ma la liturgia chiede sempre una partecipazione attiva. La liturgia attualizza qui, oggi per noi, il mistero di Cristo fatto uomo. In essa Dio parla da uomo, parla la lingua dell’uomo, e a sua volta l’uomo parla a Dio nella sua lingua insieme a tutta la comunità cristiana.

Stereotipi

Scattano così le accuse contro la Chiesa: inquisizione, nemica della scienza, maschilista, vuole solo la sofferenza, i protestanti sono più modei, è contro il sesso. Sono questi alcuni stereotipi molto diffusi. Ad essi si devono aggiungere numerosi libri polemici contro il Vaticano: I segreti del Vaticano di Corrado Augias (Mondadori), o, l’ultimo, Vaticano massone di Giacomo Galeazzi e Ferruccio Finotti (Piemme). Ma è anche uscito ultimamente un libro dal titolo La grande meretrice a cura di Lucetta Scaraffìa, che chiarisce dal punto di vista storico alcuni di questi stereotipi (edito dalla Libreria Editrice Vaticana). Sono tanto diffusi e indiscussi, questi stereotipi, che chi li legge non tenta neppure un minimo controllo: «Sanno tutti che è così» e basta, senza discussione.

Quale risposta?

Come inserirsi da cristiani in questo mondo che cambia? Limitarsi ad aggiungere il volto di Cristo alla folla di volti che bombardano il nostro mondo, la nostra televisione e la nostra stampa, non è sufficiente. Potrebbe magari essere cosa buona, ma certo non sufficiente, se la Walt Disney trasformasse in cartoni animati i Vangeli. Molte chiese fanno pubblicità all’esterno dei loro edifici, con cartelli che recano espressioni evangeliche, in concorrenza con gli annunci pubblicitari. Può essere cosa ammirevole, ma imbarazzante vedere la propria fede messa all’asta.

La sfida è come possiamo comunicare la fede ai non credenti, a coloro che dubitano o sono scandalizzati da quanto accade nella Chiesa: pedofilia (perfino di un cardinale), la banca vaticana, lo sfarzo dei cardinali, la mediocrità di certi parroci, la predicazione che fa pena, il modo poco umano e poco cristiano di trattare chi è separato e risposato, e così via. Come però possiamo comunicare loro la bellezza della nostra fede? Come possiamo mostrare loro il volto di Dio, quello vero, quello dei Vangeli, quello di Gesù?

La bellezza del volto di Dio

Intanto, invece di maledire il buio è meglio accendere una candela. Il Vangelo colloca la bellezza del volto di Dio nell’amore e non altrove (per esempio nelle tante devozioni spesso devianti).

Il Medioevo è passato, ora la gente è più istruita e crede nella scienza e nella medicina più che nei miti del passato. Specialmente i giovani sono permeati da questo nuovo orientamento, ma come scriveva già Marco Fabio Quintiliano (35-95 d.C.): «I giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere».

Ma non basta! Che cosa vuol dire la dimostrazione dell’amore di Dio per noi e tutta l’umanità? Dio si svela sulla croce come amore totale e unico, in un uomo morente e abbandonato! È una idea tanto scandalosa al punto da essere già messa in evidenza da Paolo con particolare vigore: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1, 23-24; Gal 5, 11). L’assoluta bellezza irresistibile di Dio splende nella sua povertà, nel suo abbassamento, nel suo essere servo per noi, nella lavanda dei piedi (ricordiamo papa Francesco nella Pasqua 2013). Dicono che a inventare il presepe sia stato Francesco d’Assisi, segno di Dio che per amore abbraccia la nostra povertà. Questa è la sfida nel villaggio globale, che è il nostro mondo: mostrare la bellezza di Dio povero e impotente.

Segni di risurrezione

Come mostrarla? Attraverso i nostri atti di trasformazione interiore, di cambiamento del cuore, come intendeva fare Gesù: cambiare il cuore dell’uomo in profondità. Lo dice ancora Paolo nella lettera ai Galati: «Siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri». Li aiuta in questo lo Spirito del Signore. «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge» (Gal 5, 13-23). In tal modo il cristiano raggiunge la vera libertà e di conseguenza la totale liberazione dal dominio della legge e del proprio egoismo. Sono questi i segni della Risurrezione che irrompe in noi e nel mondo globalizzato con gesti di liberazione e trasformazione.

Ildegarda di Bingen (1098-1179), una mistica tedesca del secolo XII, proclamata da Benedetto XVI Dottore della Chiesa (7 ottobre 2012), preferiva parlare non di croce ma di Risurrezione del Signore, come scoperta, come primavera, come nuova nascita, luce, risveglio, liberazione, come amore, speranza, riconciliazione, dono, fede (vedi pag. 79).

Voglia di tenerezza

Infine, il nostro cristianesimo è sovente accusato o almeno sospettato d’indottrinamento e di arroganza. In ogni caso la nostra società è profondamente scettica verso ogni certezza di verità. Succede anzi che la verità oggi è quello che ci fanno apparire sullo schermo. L’enciclica Fides et ratio del 1998 di Giovanni Paolo II afferma che «Si può definire l’essere umano… come colui che cerca la verità» (n. 28). L’oggetto della nostra verità, ossia della nostra fede, non sono le nostre parole o le nostre verità, ma è amare e conoscere Dio, o come diceva Galileo: la scienza insegna come vada il cielo non come si vada in cielo. Noi non possediamo la verità, né la padroneggiamo.

Di fronte alla scienza, alla ricerca, ma anche di fronte alla fede e alle affermazioni di altre religioni, dobbiamo mantenere una profonda umiltà. Proclamiamo un mistero, il mistero di Dio fatto uomo e non è facile spiegarlo nella sua realtà. Ognuno di noi non possiede tutta la verità; anch’io ho bisogno della verità degli altri. Sono un mendicante della verità, come tutti gli uomini di questo mondo. Dobbiamo perciò stare attenti al nostro facile chiacchiericcio sul Vangelo e sulla fede. Solo così possiamo distruggere le false immagini di Dio che potremmo essere tentati di adorare, e liberarci dalle trappole dell’ideologia e dell’arroganza circa la verità e la nostra fede, altrimenti anche noi rischiamo di cadere nel fondamentalismo religioso.

È la testimonianza dell’amore vissuto che conquista i cuori e la mente. Tu non credi; non preoccuparti, è Dio che crede in te. Non importa quante cose fai, ma quanto amore metti in ogni cosa che fai. «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili» (Rosario Levantino). Predicazione, catechesi, liturgie vengono dopo. Lo sottolinea papa Francesco: «Non siamo funzionari. Abbiamo tutti bisogno di tenerezza». Voglia di tenerezza è il titolo di un film del 1983 di T. L. Brooks.

Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi