Il gigante lusofono

Il grande produttore di greggio,
tra passato e futuro.

L’Angola ha vissuto una guerra
civile lunga 33 anni che ha disintegrato la società. Ma oggi registra un Pil in
crescita a due cifre. E la ricostruzione è visibile. Anche il rispetto dei
diritti umani registra dei progressi. Saranno
i benefici dell’oro nero e del rapporto stretto con la Cina? Intanto il presidente
José Eduardo dos Santos continua a regnare.

L’Angola è oggi uno dei giganti
africani. Con 20 milioni di abitanti, una superficie quattro volte l’Italia, è
il secondo produttore di petrolio del continente, dopo la Nigeria. Importanti
sono anche i giacimenti di diamanti, mentre l’agricoltura è in rapido sviluppo.
Il suo Pil ha visto una crescita a due cifre dal 2004 al 2008 (17,3% di media)
toccando il 22,6% nel 2007. Indicatore che poi ha frenato segnando 3,9% nel 2011.

Eppure
il suo passato è tragico. Nel
1961 inizia la guerra contro i coloni. Alla proclamazione dell’indipendenza,
nel 1975, il conflitto continua sotto forma di guerra civile, che sarà la più
lunga del continente. Si contrappongono l’Mpla (Movimento popolare di
liberazione dell’Angola) guidato da José Eduardo dos Santos e appoggiato dal
blocco dei paesi socialisti, e l’Unita (Unione nazionale per l’indipendenza
totale dell’Angola), appoggiata da Sud Africa e coloni portoghesi. Solo nel
2002, con la morte di Jonas Savimbi, capo storico dell’Unita, si raggiunge una
vera pacificazione. Il paese è in ginocchio, le zone rurali devastate, le
infrastrutture distrutte, la struttura sociale annullata, 4,5 milioni di
sfollati, ancora diversi milioni di mine antiuomo nascoste ovunque. Dos Santos,
divenuto presidente nel 1979, alla morte di Agostino Neto (padre della patria),
è tuttora in carica ed è stato rieletto per cinque anni nell’agosto del 2012.

Grazie
alle proprie risorse e al partenariato strategico con la Cina, l’Angola si
configura come una delle potenze africane di oggi e di domani. Mettiamo
a confronto il punto di vista di un intellettuale angolano e quello di un
cornoperante italiano che ha vissuto e lavorato tre anni nel paese.

Il Sociologo Angolano

Il professor José Feandes, è agronomo e sociologo, con un master in psicologia sociale. Da
oltre 22 anni lavora nel campo dello sviluppo sociale e umano, e vanta
un’esperienza sia nel governo del suo paese (nel ministero dell’Agricoltura),
sia in varie Ong. Attualmente è consulente indipendente, nell’area dello
sviluppo sostenibile, da circa otto anni. Si focalizza sullo sviluppo umano e
appoggia strutture governative per sviluppo locale. È inoltre docente
universitario, in sociologia della stratificazione, disuguaglianza e classi
sociali, sociologia del cambiamento e conflitti sociali e sociologia della
cultura. Gli abbiamo chiesto di darci un quadro del suo paese oggi.

L’Angola è una delle economie del mondo a crescita più veloce, ma
molti angolani vivono ancora in condizioni di povertà. Perché persistono queste
grandi disuguaglianze sociali?

«L’Angola sta crescendo economicamente, ma solo dal punto di vista
macroeconomico. In termini di microeconomia, il paese ha ancora molti problemi.
Le limitazioni nell’accesso ai beni, opportunità e servizi: sono la radice
principale della disuguaglianza. Il contesto sociale è caratterizzato dalla
nascita di una nuova élite, che è presente in tutte le aree sociali: politica,
economica, culturale, scientifica e tecnologica, dei trasporti. Questo non
permette un processo di inclusione sociale perché si tratta di un piccolo
gruppo che controlla tutte le aree, e che ha accesso a beni, servizi e
opportunità.

Un’altra questione chiave è il concetto meritocratico, che non è
ancora una realtà alla base dell’occupazione di posti nella struttura sociale.
Le competenze sociali e professionali, non sono ancora considerate come valori
chiave. Quello che conta è il clientelismo o l’appartenenza a una famiglia.
Esistono dunque disuguaglianze profonde e ben visibili tra i cittadini angolani
che possiedono e quelli che non hanno nulla o quasi».

La gran parte del Pil angolano è fornito dal petrolio. Come sono
gestite queste risorse dal potere? Sono investite in infrastrutture e in qualità
della vita per la popolazione?

«L’economia dell’Angola ha come principali fonti di reddito il
petrolio e il gas, insieme al settore diamantifero. Ma anche altri settori come
l’agricoltura cominciano ad avere un peso nel contributo al Pil. I proventi del
settore petrolifero e diamantifero sono stati usati soprattutto per la
costruzione di infrastrutture di base, come strade, scuole e ospedali. Il
programma di ricostruzione del paese è visibile e questo fa sì che la qualità
della vita del cittadino in generale migliori poco a poco. Tuttavia le sfide
restano grandi e importanti, e l’investimento dei fondi provenienti da questi
settori potrebbero essere usati in modo più efficace per creare benefici
diretti alla popolazione. In passato non c’era chiarezza sull’utilizzo di
questi soldi, mentre oggi la più grande impresa petrolifera dell’Angola, la
Sonangol, rende pubblici i propri bilanci, il che è un notevole passo avanti.
Dall’altro lato, le infrastrutture sono importanti, ma non è da meno
l’investimento nel capitale umano, e la diversificazione dell’economia, come
l’aumento dell’investimento nell’agricoltura, tanto a livello famigliare che
delle grandi fattorie».

L’Angola è il secondo fornitore mondiale di petrolio della Cina.
Può parlarci degli interessi della 
potenza asiatica in questo paese? Come descriverebbe il partenariato
Angola – Cina?

«La Cina ha una strategia chiara sull’Angola, come su molti altri
paesi africani, ad esempio Namibia, Mozambico, Sud Africa. Questo interesse è
reciproco, perché anche l’Angola ha bisogno della Cina, in questa fase di
costruzione e ricostruzione del paese.

La Cina possiede un know how di cui l’Angola ha bisogno per
crescere. Nel settore ad esempio delle costruzioni esiste una forte cooperazione
tra i due paesi. Occorre dire che quando l’Angola aveva bisogno di fondi per
iniziare il processo di ricostruzione del paese, tutte le istituzioni come Bm,
Fmi, impedirono che si organizzasse una conferenza di donatori per l’Angola. La
Cina fu l’unico paese che si offrì di finanziare questo processo mettendo a
disposizione prestiti. È chiaro che in questo senso i cinesi si sentono
privilegiati nello sfruttamento del petrolio dell’Angola. Si tratta di uno
scambio commerciale sulla base di interessi reciproci».

José Eduardo dos Santos, dopo 33 anni come
presidente della repubblica, è stato rieletto per altri 5 anni nell’agosto
2012. Come vedono i diversi settori sociali la non alternanza al potere? C’è
opposizione politica in Angola?

«La questione dell’alternanza al potere in Angola deve essere
analizzata tenendo conto di variabili politiche, militari, sociali e
soprattutto culturali. Il popolo angolano non pensa come il popolo occidentale
o orientale. Per questo l’analisi dell’elezione del presidente dos Santos, ha
il suo inquadramento sociologico e politico basato su due aspetti: il primo è
associato all’esistenza di un sistema monopartitico dal 1975 al 1991. Questo
vuol dire che dal 1979 (anno in cui dos Santos accede al potere) fino al 1991
(firma degli accordi di Bicesse), non esisteva la possibilità di elezioni.

Nel 1992 furono realizzate le prime elezioni, nelle quali dos
Santos fu eletto come primo e più votato, ma senza avere la maggioranza che lo
consacrasse presidente. Poi si ritoò alla guerra civile, che fece retrocedere
il paese rispetto ai progressi democratici. È importante dire che fu l’Unita a
riprendere la guerra. Il secondo aspetto è associato al processo di pace
interno e alla necessità di consolidarlo. Passarono ancora dieci anni, dal 1992
al 2002, per arrivare finalmente alla pace.

Come realizzare elezioni ed eleggere un nuovo presidente in uno
scenario di guerra reale, passato dal contesto rurale a quello dei principali
centri urbani? Così passarono 23 anni dal 1979 al 2002. I primi 6 anni di pace
furono impiegati nella pacificazione degli animi e in una gestione del governo
condiviso con l’Unita, chiamato Gu (Goveo di unità e riconciliazione
nazionale), sulla base degli accordi di pace. Obiettivamente solo nel 2012, con
la nuova Costituzione, si arrivò alla seconda vera elezione presidenziale nel
paese. La questione chiave è che il presidente dos Santos non avrebbe, di
fatto, potuto lasciare il potere prima del 2012. Se non per un golpe o per
rinuncia».

Dos Santos è un leader amato dalla popolazione?

«Come tutti i leader che stanno molto tempo al potere, in un paese
all’inizio della costruzione democratica, dos Santos è amato da alcuni,
idolatrato da altri e odiato da altri ancora. In ogni caso è riconosciuto come
persona che ha condotto il paese verso la pace e questo aiuta molto a
equilibrare la sua immagine. D’altro lato, l’Mpla è il partito politico con
maggior numero di sostenitori in Angola, il che significa
che la maggioranza degli angolani appoggia dos Santos e si riconosce nelle sue
politiche. Questo non vuol dire che non esistano contestatori, soprattutto
rispetto ad alcune politiche in relazione con il processo di inclusione
sociale. Ma globalmente lui ha tanti supporter».

Cosa
ci può dire rispetto alla società civile in Angola?

«La società civile è emergente in Angola. In questi anni
iniziano a nascere istituzioni che lavorano su temi specifici, per esempio i
diritti umani, l’uguaglianza sociale, gli obiettivi del millennio, la riduzione
della povertà. Storicamente la società civile pensava di essere contro il
governo e agiva in modo non allineato e disarticolato con le necessità della
popolazione, a diversi livelli. Questo generava diversi conflitti, e faceva in
modo che il governo non le desse spazio per condurre le proprie attività
normalmente. Oggi la società civile inizia a essere in linea con le attese
della popolazione e si è creato uno spazio di dialogo con il governo. Ad
esempio è grazie all’intervento delle associazioni che il governo ha creato un
segretariato dei diritti umani. Vediamo così segnali positivi nelle
realizzazioni della società civile».

Ci
parli allora del rispetto dei diritti umani in Angola? C’è libertà di stampa?

«I
diritti umani stanno evolvendo in Angola, per esempio la pena di morte è stata
abolita da parecchio tempo. Una parte dei diritti civili iniziano a essere
riconosciuti: come il diritto alla casa, alla salute, all’educazione, alla cura
dei figli e degli anziani, che sono la parte più vulnerabile di ogni società.
Iniziano a esserci investimenti e anche alcuni progressi a livello di
legislazione che regola alcune questioni del cittadino. Si osserva un
miglioramento. Intanto però continuano violazioni di alcuni diritti di base,
come il diritto a manifestare, molte volte represso dalla polizia. Questo
condiziona i progressi registrati. Si deve intendere la questione dei diritti
umani come un processo e soprattutto un mutamento di mentalità da parte di chi
detiene il potere politico.

Per
quanto riguarda la libertà di stampa dipende dal livello di analisi. Ad esempio
esistono vari giornali privati, radio e canali di televisione. Il più grande
partito di opposizione, l’Unita, ha una radio che è autorizzata a Luanda
24h/24. Ma questo non significa che tutto sia perfetto, come per i diritti
umani. È necessario lavorare di più per migliorare la libertà di stampa. Ad
esempio nella radio e nella televisione pubblica o statale, alcuni programmi
sono censurati. Ma esistono segnali di miglioramento nel trattamento di questi
temi da parte del governo».

Ci
sono problemi di libertà religiosa in Angola?

«No,
in Angola non esistono problemi di libertà religiosa. Il 90% della popolazione è
cristiana e sono state costruite alcune moschee che stanno funzionando,
svolgono il culto e non hanno mai avuto problemi. Probabilmente esiste troppa
libertà, perché ogni giorno che passa nascono nuove sette religiose, che creano
grande confusione nel cittadino comune».

Marco Bello 

Sull’Angola
MC ha pubblicato «Piedi a mollo nel petrolio», febbraio 2010.


        Testimonianza / La voce del cornoperante italiano                   


Gente forte, con cicatrici profonde

«In Africa un leader lo è dalla nascita. Non viene messo in discussione.
C’è qualcosa di magico. La guerra ha distrutto le famiglie. Ha messo fratelli
contro fratelli. In campagna mancava tutto. Ma oggi vedo solo voglia di
riscatto. Nessuna vendetta».

Simone Teggi ha lavorato in Angola tra il 2003 e il 2006 per
circa tre anni. I suoi progetti erano in aree rurali, soprattutto in zone
dell’Unita: Kuito Bié e Mavinga. Ci racconta come la gente comune che ha
conosciuto vede il presidente dos Santos.

«La gente vede dos Santos come un regnante piuttosto che un
presidente. Dalla parte Unita, la gente continuava ad aspettare Jonas Savimbi,
che nelle zone di sua influenza era considerato una figura magica, un
immortale. Ogni due tre mesi girava la voce che Savimbi stava tornando e la
luce della speranza per molti si riaccendeva.

È strano, ma come in molti altri posti d’Africa, il
presidente è legato a un aspetto magico. Il leader è leader di nascita, e
quindi non può essere spodestato, perché ha la protezione dei fetiseros (stregoni). La gente, non ha
quasi mai un’ideologia chiara e sicuramente questa non contrappone Mpla e
Unita. La popolazione vive assieme, e accetta la propria guida quasi per
vocazione. La magia tradizionale in Angola è fortissima e la realtà spesso si
mescola alla fantasia. La rassegnazione al leader fa il resto».

Anche nei partiti politici di opposizione c’è stata una
certa assimilazione. «Qualcuno ha cercato di creare nuovi partiti di opposizione,
ma come per magia i loro leader scomparivano dopo pochi mesi. Inoltre i
generali Unita, poco a poco sono stati comprati con i diamanti da dos Santos,
perché li metteva a gestire le miniere, o li lasciava fare. Dopo la guerra, gli
accordi di pace prevedevano una divisione del potere amministrativo tra i due
partiti, ma poco a poco i capi dell’Unita si sono piegati alla volontà del Mpla
e ai soldi del petrolio e dei diamanti».

Petrolio, diamanti e
morti di fame

Simone ha vissuto e lavorato in zone rurali e ha anche visto
una grande differenza con le città. «I proventi del petrolio non si sentivano nelle campagne.
C’era Luanda, Benguela, Lobito (le grandi città) da un lato e il resto del
paese dall’altro. La gente in Angola era abituata a vivere bene, prima della
guerra. I servizi di base erano garantiti. Poi la distruzione e l’assenza,
almeno nelle campagne, del governo. E l’inesistenza di una struttura economica.
Si vedevano enormi cornoperative agricole distrutte. A metà anni 2000, l’unica
moneta erano il baratto o i diamanti, nell’interno del paese. Ci sono i ricchissimi (molto oltre i nostri ricchi) e chi
muore di fame. Niente borghesia, e gli stessi portoghesi a volte facevano i
meccanici, a volte avevano un chiosco o un piccolo bar».

Ma la gente si organizzava in associazioni? Si può parlare
di una società civile? «Gli angolani, hanno la tempra da leoni, sono forti, ma 30
anni di guerra, tra fratelli, blocca e distrugge ogni forma di società civile.
Le associazioni erano abbastanza assenti dopo la guerra, ma in poco tempo si
stavano ricostituendo. Io lavoravo per il rafforzamento di una associazione di
donne nata nel 1995. Ma la cosa interessante è che era continuata a crescere a
livello locale, mentre si era dissolta a livello di associazione. Quando è
finita la guerra, è bastato mettere in contatto i vari gruppi e ne è nata una
organizzazione a livello nazionale, abbastanza forte e con buone prospettive».

Angolani: persone
splendide

Simone si è trovato bene con gli angolani, nel lavoro e
nella quotidianità dei rapporti sociali. «La gente è calda, animata e dei gran
bevitori. Ma sono anche persone che hanno vissuto un conflitto interminabile.
Non vogliono più guerre, e per questo si sono inchinati alla morte di Savimbi. Ho
conosciuto persone splendide, che nascondono cicatrici e dolori immensi, che
spesso si riflettono sulla voglia di riscatto. Due aneddoti. Una delle donne
con cui lavoravo, un giorno, parlando della sua famiglia, mi fa vedere la
schiena, piena di cicatrici. Mi racconta che di sera mentre la sua famiglia era
in casa (Otto fratelli e i due genitori) sono stati bombardati. Lei è l’unica
superstite, ma non esiste pianto né commiserazione, solo voglia di riscatto per
la loro vita. La seconda storia riguarda il logista dell’Ong per cui lavoravo.
Un giorno mangiamo e beviamo assieme, eravamo rimasti soli. A un certo punto
lui, un omone tranquillo e apparentemente sereno, si mette a piangere. Dice: “Non
volevo farlo, non capisco come mi sia trasformato in una bestia”. Poi mi
racconta di quando faceva il militare. Quando vedeva morire i suoi amici, e
arrivava a conquistare un villaggio, l’unica idea era riprendere la vita di
altre persone, per soffocare il dolore della perdita dei suoi cari. Stupri,
gente tagliata a pezzi, insomma orrore.

A Kuito Bié, cittadina in cui ci sono stati 8 mesi di
conflitto, la gente di una stessa famiglia in parte era presa dall’Unita,
mentre il resto era preso dall’Mpla. Quindi la gente combatteva il giorno,
fratelli contro fratelli, e la sera si ritrovavano per mangiare insieme. Qui
una parte sostanziosa della popolazione era senza gambe, faceva impressione. Ma
con il trascorrere dei mesi,  sembrava
quasi normale».

Città e campagna

Le città e le campagne hanno vissuto la guerra in modo
diverso. «La città non ha mai vissuto la guerra e imprese, bianchi e ricchi si
installavano là, tra prostituzione, lusso e menefreghismo verso il resto del
paese. La situazione era incredibile. In campagna nessuno sapeva
cos’erano elettricità e acqua. La gente di campagna che andava in città,
pensava che con i soldi si potesse fare tutto, anche scappare da un paese che
per anni ha conosciuto solo l’inferno».

Distruzione del
tessuto sociale

Simone assiste alla profonda disgregazione sociale: «Come
Mao aveva fatto in Cina, in Angola le famiglie erano state distrutte, così
l’unica referenza era il comandante. Una volta a Kuito, incontro un ragazzo che
da 26 anni non vedeva nessuno della sua famiglia. Aveva circa 34 anni. Era
arrivato per cercarla, con un’emozione e paura enorme. Ma nel suo villaggio non
aveva trovato più nessuno, solo desolazione, e qualche zio.

Un giorno andiamo in un villaggio, e uno dei leader è un
personaggio ambiguo. Mi spiegano che era un cecchino. Ognuno sapeva dire che
membro della famiglia gli aveva ucciso. Rimango perplesso: la gente, dopo
trent’anni di distruzione ha imparato a perdonare e il miliziano era stato
accettatornin maniera incredibile».

Ricordi schioccanti: «La gente, soprattutto nel 2003,
saltava sulle mine ogni giorno. Contadini, bus pubblici scoppiavano, ma la
gente ne era abituata. Un giorno una donna è saltata per aria usando un ordigno
inesploso per pestare il mais nel mortaio. Un’altra volta un uomo che cercava
legna è saltato su una mina anti-uomo collegata a due mine anti-carro. È
rimasto solo un buco enorme.

Le mine erano nascoste ovunque, nelle scuole, lungo i ponti,
vicino alle fonti d’acqua e perfino negli alberi da frutta. A Kuito Bié,
durante la guerra la gente non poteva seppellire i propri cari e quindi lo
faceva nel giardino di casa. Mentre abitavo lì, avevano deciso di riesumare i
corpi. Più di 10.000 persone.

Ogni giorno, dei funerali rendevano l’atmosfera sempre più
pazza e, andando al lavoro, passavo attorno a fosse comuni in cui la
popolazione si scannava per identificare qualche cumulo di ossa come il proprio
caro».

Marco Bello

Marco Bello




Sotto il cielo di Corumbá

 


Nella cittadina brasiliana di Corumbá un missionario salesiano, nativo del Veneto, ha fondato un’organizzazione che segue neonati, bambini e ragazzi di famiglie bisognose. Da 0 a 18 anni, centinaia di giovani entrano nelle tre strutture di padre Pasquale Forin. Per crescere attraverso il gioco, l’istruzione e una sana alimentazione. Un’organizzazione efficiente che vive grazie al volontariato e alle donazioni internazionali. E alla perseveranza del suo fondatore. Ecco cosa abbiamo visto e cosa lui ci ha raccontato.

 

Corumbá. Ci avviciniamo a una fermata di mototaxi. Fa caldo, caldissimo. «No, oggi non è
caldo», ci spiegano i conduttori. Prima di infilare il casco, proviamo a convincerci che hanno ragione loro. Partiamo.

Sulla scia di Ernesto Sassida

Le strade di Corumbá, cittadina di 100 mila abitanti nello stato brasiliano del Mato Grosso del Sud, sono comode e poco trafficate. Le moto avanzano veloci.
Passiamo davanti alla Citade Dom Bosco, la Città Don Bosco, una grande struttura – comprende scuole, centri ricreativi e assistenziali – fondata da padre Ernesto Sassida, salesiano sloveno scomparso nel marzo 20131. Sulla stessa Rua Dom Aquino sta la parrocchia São João Bosco, nostro luogo di destinazione. La chiesa è una costruzione moderna, semplice ed elegante ad un tempo. Davanti all’ingresso campeggia un grande quadro con il volto inconfondibile di san Giovanni Bosco. Ci accoglie il parroco. Lui si chiama Pasquale Forin, missionario salesiano nato nella provincia di Padova, «ma – precisa – con familiari in Piemonte, a Nizza Monferrato e Alessandria». Veneto o piemontese poco importa ormai: padre Pasquale è in Brasile da 53 anni e a Corumbá da 26.
Corumbá è sorta a lato del fiume Paraguay e del Pantanal, una grande pianura alluvionale dalle caratteristiche uniche (leggere riquadro). «Forse a causa delle mie origini contadine – spiega padre Pasquale -, fin dal mio arrivo ho sempre accompagnato il cammino delle comunità rurali del Pantanal». Il missionario segue gli insediamenti contadini per un totale di 1.500 famiglie, comprese quelle degli indigeni guató. L’appoggio va dall’assistenza legale per difendere la terra dagli appetiti altrui fino al microcredito.
Basterebbe il lavoro svolto con le comunità rurali per qualificare come fuori dell’ordinario l’opera del salesiano. Ma esso non è che un aspetto della sua attività. Con la parrocchia padre Pasquale ha dato vita a tre progetti: un ospedale diurno per bambini denutriti (Casa de Recuperação infantil padre Antonio Müller, Cripam); un centro di doposcuola per ragazzi dai 7 ai 18 anni (Centro de Apoio Infanto Juvenil, Caij); una struttura per bambini abbandonati (Casa Irma Marisa Pagge). Per capirne la portata occorre visitarli.

 

Via dalla strada, via dalle tentazioni

Il bairro (quartiere) si chiama Cristo Redentor. Il Caij è in un’ampia costruzione circondata da mura color verde pallido.
«Non è una scuola – ci spiega padre Pasquale -, ma un centro d’accoglienza per ragazzi dai 7 ai 18 anni provenienti da famiglie povere e con problemi. Arrivano da noi quando non c’è scuola. È un modo per evitare che stiano sulla strada, dove ci sono molti pericoli, soprattutto quelli legati alla droga (consumo e spaccio). Come in tutto il Brasile, anche qui si può comprare una dose di crack, maconha o cola con un solo real2».
Il Caij ospita 560 ragazzi, a cui viene offerto tutto: lo svago, i pasti, l’assistenza. E poi un aiuto scolastico in accordo con gli istituti. Un impegno notevole, come dimostrano le 30 persone che vi lavorano.
Entriamo. Una targa affissa al muro ricorda che il padiglione del Caij è stato costruito con risorse provenienti da Spagna, Italia, Slovenia e Belgio.
Le aule sono state costruite attorno a un campetto sportivo, protetto da una copertura e dotato anche di una piccola tribuna. È occupato da un folto gruppo di ragazze e ragazzi che, divisi in gruppi, stanno gareggiando accompagnati dal sottofondo musicale regalato da un’orchestrina. «Gli istruttori sono ragazzi cresciuti qui dentro, che ora sono diventati volontari», spiega padre Pasquale.
Entriamo nel refettorio. La cucina è divisa dalla sala mensa da un semplice muretto. Tre donne – Maria, Cristiane e un’altra Maria – stanno preparando il cibo per l’imminente pranzo. Tutto è ordinato e pulitissimo. Sui fornelli, posti al centro della cucina, bollono alcune pentole: carne, verdure, gli immancabili fagioli. Una cuoca è intenta a spellare cipolle e spicchi di aglio. Un’altra sta preparando un impasto. «Se vuoi punire un ragazzo, digli che andrà a casa senza pranzo» racconta sorridendo padre Pasquale. Il comune di Corumbá offriva il cibo fino a gennaio 2013, poi ha smesso per – così è stato spiegato – problemi di bilancio.
Accanto al Caji, c’è la struttura del Cripam. Si tratta di un ospedaletto diurno per minori denutriti da 0 a 6 anni. Uno dei pochi esistenti in Brasile.
Entriamo in una stanza dove ci sono una quindicina di bambini, alcuni dei quali con problemi psicomotori. Stanno giocando sotto lo sguardo vigile delle maestre. «Andiamo a prenderli ogni mattina con un pullmino. E la sera li riportiamo alle loro case» spiega padre Pasquale.
Nelle stanze a fianco, disposte in file ordinate, ci sono una trentina di culle di colore bianco. Ventilatori al soffitto, pareti rallegrate con disegni colorati, giochi. Non manca nulla.
È ora di mangiare. Le maestre mettono i più piccoli sui seggioloni e i più grandicelli sulle sedie attorno al tavolo. Un paio debbono essere presi in braccio a causa dei problemi fisici.
Prima di uscire, c’è tempo per un’altra sorpresa. Scopriamo che in una sala si preparano gelati. «È un modo per autofinanziarci», spiega padre Pasquale. I gelati si chiamano Sabor da solidariedade, il sapore della solidarietà.

 

Volontarie

L’ultima tappa del nostro tour all’interno dell’organizzazione fondata da padre Pasquale è alla Casa Irma Marisa Pagge, così chiamata in ricordo di una suora italiana dell’Operazione Mato Grosso3. Come le precedenti, anche questa è una bella costruzione, con tre case indipendenti collegate da un giardino molto curato, con alberi in fiore e altalene.

Nella struttura sono ospitati bambini da 0 a 6 anni che sono stati abbandonati o che sono stati tolti, per gravi motivi, alle famiglie d’origine. «Rimangono qui – spiega il padre – finché saranno reinseriti in famiglia oppure dati in adozione».

Due targhe poste all’entrata ricordano i principali benefattori: varie città italiane (Torino, Alessandria, Valenza, Pietra Ligure, Desenzano, Borghetto) e l’associazione Rotary. Anche in questo caso i soldi raccolti sembrano stati impiegati al meglio. Il luogo appare molto accogliente, pulitissimo e funzionale.

Incontriamo due volontarie internazionali: Venus è un’insegnante di Londra che si fermerà un anno; Maria Vicenta è basca ed è qui da 5 anni, pur avendo figli e nipoti in Spagna. Maria ci accompagna nella stanza dove, nelle culle, stanno dormendo due bambini di pochi mesi, un maschio e una femmina. La bambina è stata portata al Centro perché la mamma è una consumatrice di droghe. «Nella quasi totalità dei casi i bambini – ci viene spiegato – provengono da famiglie composte dalla sola mamma».

Pane e liberazione

«Non riesco a parlare di Dio a chi non ha da mangiare», confessa padre Pasquale. Pare un’affermazione della teologia della liberazione, un mondo a cui i salesiani – per scelta e per tradizione – non sono mai stati molto vicini. «Questa – spiega convinto il missionario – è la vera teologia della liberazione. Quella di Hélder Câmara e Luciano Mendes». In verità, poco importa incasellare l’azione di padre Pasquale Forin. Mai come nel  suo caso vale il detto popolare: «Più delle parole contano i fatti». Fatti che a Corumbá si possono vedere e toccare con mano.

Paolo Moiola
  Note             

1 – Padre Eesto Sassida è morto il 13 marzo 2013 all’età di 93 anni.
2 – Il crack è un sottoprodotto della coca; la maconha è la marijuana; la cola è la colla; il real (reais, al plurale) è la moneta brasiliana. Un euro vale 2,7 reais (quotazione a giugno 2013).
3 – Nome di un movimento di volontariato nato nel 1967, legato ai salesiani.



     Il bioma del Pantanal                                                  

Uno?scrigno?sotto?assedio

Il Pantanal, la più grande zona umida del mondo, è in pericolo. Il cambio climatico sta modificando l’alternanza delle stagioni secca e piovosa. Le monocolture e le mandrie bovine distruggono la vegetazione e uccidono i fiumi. A?pagae le conseguenze, è l’intero ecosistema. E gli abitanti più poveri.

Corumbá. Dalla terrazza si ammira il corso placido del Rio Paraguay e dietro di esso un’estensione verde e piatta che si perde all’orizzonte. È la pianura del Pantanal, con la sua vegetazione a prevalenza di arbusti e manto erboso. Il Pantanal – che in portoghese significa «palude» – ha una superficie di circa 210 mila chilometri quadrati distribuiti su tre paesi: la Bolivia, il Paraguay e soprattutto il Brasile. È infatti quest’ultimo che ospita quasi il 70% del bioma. Precisamente nel sud dello stato di Mato Grosso e nel nord-est dello stato di Mato Grosso do Sul.

Durante la stagione delle piogge (da ottobre a marzo), l’acqua defluisce dagli altipiani circostanti alle terre basse del Pantanal ingrossando i fiumi che straripano inondando gran parte del territorio. Durante la stagione secca, l’acqua si ritira nei letti dei fiumi, le lagune e i piccoli canali (corixos) si riducono o addirittura scompaiono. A causa delle sue peculiarità, il Pantanal è un santuario della biodiversità, ospitando un campionario di animali, pesci, uccelli e piante che non ha eguali nelle Americhe. Oggi anche questo bioma unico è in pericolo.

I rischi e i danni ambientali arrivano dal cambio climatico (che ha prodotto inondazioni devastanti o siccità), ma anche e soprattutto dalle attività umane sugli altipiani circostanti, nel Mato Grosso e nel Mato Grosso do Sul: l’espansione delle attività agroindustriali (con annesse deforestazioni e uso di prodotti agrochimici, soprattutto per la coltivazione della soia), la crescita esponenziale dell’allevamento bovino1 (con un enorme impatto ambientale), le attività minerarie (estrazione aurifera in testa) hanno contaminato le acque che arrivano nel Pantanal; la costruzione di dighe ha modificato, ampliato o reso permanenti una parte delle zone inondate.

Con oltre 25 anni di permanenza nel Pantanal padre Pasquale Forin può testimoniare personalmente i cambi avvenuti nell’ecosistema naturale e umano.  «In alcune colonie – racconta il missionario -, prima si arrivava in barca, adesso si cammina per ore e ore dal fiume fino alle case. In questi anni io ho visto le trasformazioni del Rio Taquari, uno degli affluenti principali del Rio Paraguay: il suo corso naturale è stato deviato, il suo letto ridotto dai sedimenti, la vita nelle sue acque ammazzata dai fertilizzanti chimici». I mutamenti nel Rio Taquari sono testimoniati da un dato impressionante: nel corso dell’ultimo decennio, la pesca nel fiume è diminuita di sette volte, passando da 485 tonnellate all’anno a soltanto 622.

I cambi nell’ecosistema si sono riflessi pesantemente anche sugli abitanti del Pantanal. Relativamente pochi (poco più di 200 mila, 2 per chilometro quadrato), essi si distinguono in Pantaneiros (compresi alcuni gruppi indigeni: Kadiwéu, Guató, Terena, Umutina, Bororo, spesso composti da poche decine di individui) e in assentados. Questi ultimi sono arrivati con le assegnazioni di terra da parte dell’Istituto per la riforma agraria (Incra)3.

«Ai contadini assegnatari di terra hanno dato un contentino – si lamenta padre Pasquale -. La misura minima doveva essere 25 ettari. Qui l’Incra ha dato 13-16 ettari. E la terra è quella del Pantanal, che non è fertile come quella di altri stati brasiliani. Dopo uno-due anni la terra non è più produttiva, soprattutto in presenza di acqua calcarea, non adeguata per le coltivazioni. Da coltivatori i coloni diventano allevatori. Ma lo spazio necessario è di due ettari di terra per ogni capo di bestiame. Si prendono così capi di bestiame di qualità inferiore per produrre un po’ di latte per l’autoconsumo o per il mercato. Noi interveniamo per costruire pozzi e cisterne per l’acqua potabile e con progetti di microcredito, per consentire l’acquisto di sementi o di strumenti di lavoro. Tuttavia, in questa situazione di precarietà molti giovani lasciano gli insediamenti rurali, dove rimangono soltanto i vecchi a coltivare manioca in attesa di raggiungere l’età della pensione. Senza dire di quelle famiglie che, a causa di un’inondazione, hanno perso tutto e hanno dovuto indebitarsi o abbandonare la terra».

Poi ci sono – in Brasile non mancano mai – i latifondisti (terratenientes), proprietari delle fazendas. L’ultimo rapporto redatto dalla Commissione pastorale della terra (Cpt)4, encomiabile come sempre, segnala numerosi conflitti per la terra tra latifondisti e gruppi indigeni locali negli stati del Mato Grosso e Mato Grosso do Sul.

Come in tutto il Brasile, anche nel Pantanal ci sono famiglie o gruppi indigeni che si tramandano la terra da generazioni, ma che spesso non ne hanno la proprietà formale. Di questa situazione cercano di approfittare i latifondisti attraverso la pratica del grilagem5.

«Anche noi abbiamo dovuto – racconta padre Pasquale – difendere molte famiglie dai latifondisti perché non fossero sfrattate da un giorno all’altro. E abbiamo rischiato la vita: questa è gente che non scherza. Arrivavano con i trattori per buttare giù le loro case. E le donne con i bambini si mettevano davanti ai mezzi. Mi hanno raccontato di un grileiro che ordinò all’autista di passare sopra alle persone che si opponevano e che questi era sceso dal trattore rispondendo “Se vuole, lo faccia lei”. Oggi, per fortuna, la maggioranza delle famiglie da noi seguite ha il titolo di proprietà».

Nell’anno 2000 dichiarato dall’Unesco Patrimonio naturale dell’umanità e riserva della biosfera, il Pantanal ha accresciuto in questi anni la propria visibilità, richiamando un numero crescente di turisti. Come si sa il turismo è un’attività economica non esente da rischi, anche gravi. Tuttavia, se gestito in maniera adeguata, può essere la scelta meno impattante per preservare un bioma unico ma fragilissimo.

Paolo Moiola
   Note                 
 1 – I dati sulle mandrie bovine sono impressionanti. Il Mato Grosso, con una popolazione di appena 3,1 milioni di abitanti, ha 28,6 milioni di capi bovini (dati 2012, fonte Indea Mt). Il Mato Grosso do Sul, con una popolazione di soli 2,5 milioni di abitanti, conta 21,5 milioni di capi bovini (dati 2012, fonte Ibge).
2 – «Instituto Nacional de Colonização e Reforma agrária». Il sito: www.incra.gov.br.
3 – Dati dell’«Instituto de Preservação e Control ambiental» diffusi da Embrapa Pantanal: www.cpap.embrapa.br.
4 – Comissão Pastoral da Terra (Cpt), Conflitos no Campo Brasil 2012, aprile 2013. Il sito: www.cptnacional.org.br.
5 – Termine con cui si indica una falsificazione di documenti per divenire proprietari di una terra.
 

 

Il volontario                                        

«Per fare la mia parte»

Giorgio Roz, di Chieri (Torino), arrivò a Corumbá con l’«Operazione Mato Grosso». Da quel giorno sono trascorsi 12 anni.

Corumbá. «Anche a Madonna di Fatima, il bairro dove abito, gira molta droga. Fino a qualche mese fa c’era una boca – un punto di vendita – anche vicino a casa mia. Il problema della droga deriva spesso da altre questioni, sia sociali che personali. Giovani e adolescenti entrano in quel mondo perché alle spalle non hanno una struttura familiare forte. A sua volta questa mancanza è conseguenza della povertà che sovente porta a una destrutturazione della famiglia».

Giorgio Roz, 47 anni ben portati, è un volontario di Chieri, comune non lontano da Torino. È arrivato a Corumbá tramite l’«Operazione Mato Grosso», un movimento fondato nel 1987 da alcuni missionari salesiani1 che operavano nella regione brasiliana2. Il movimento, diffuso in tutta Italia, ha come obiettivo la crescita dei giovani attraverso il lavoro gratuito in favore dei più poveri.

«Sono cresciuto – racconta Giorgio – in ambienti di parrocchia, con i salesiani ma anche con i gesuiti. Il gruppo cui appartenevo era in contatto con padre Pasquale Forin, missionario a Corumbá, che ci visitava a ogni suo rientro in Italia. Un giorno, come avevano fatto altri amici, decisi di tentare anch’io un’esperienza di volontariato. Dopo due periodi (uno di un anno e un altro di un mese), al terzo – era l’ottobre del 2000 – decisi di fermarmi».  Perché?, gli domandiamo. «Per fare la mia parte», risponde Giorgio con invidiabile semplicità. «All’epoca il Mato Grosso era una regione di povertà totale, materiale e spirituale. Quando arrivai qui, in molte zone della periferia c’erano soltanto capanne e baracche fatte con materiale di recupero. La necessità principale era quella di alimentarsi».

Da allora le cose sono cambiate. Il Brasile è divenuto la sesta potenza mondiale. «Ma – osserva Giorgio -, se vediamo certe zone, è ancora Terzo mondo. Il Brasile è il paese dei contrasti, delle contraddizioni assurde. Si passa dalla ricchezza estrema alla povertà estrema. Oltre alla questione della distribuzione della ricchezza, io credo che il problema maggiore sia quello dell’educazione (il paese è agli ultimi posti nel mondo), seguito da quello sanitario. Esistono poche strutture sanitarie pubbliche, mentre quelle private non sono accessibili da parte dei poveri».

Chiediamo a Giorgio della riforma agraria, che avrebbe dovuto costituire un punto qualificante della presidenza del Partito dei lavoratori (Pt), prima con Lula e oggi con Dilma. «A Corumbà – spiega -, da 15 anni fa a oggi, sono stati distribuiti molti lotti di terra nella zona rurale. Peccato che non siano stati foiti anche i mezzi per coltivarla. Oltre tutto si tratta di terreni di piccola dimensione. Succede così che una parte dei coloni, quella che sputa sangue, riesce a tirare fuori il proprio sostentamento, mentre gli altri sopravvivono male. Per contro, anche qui esistono latifondi lunghi decine di chilometri dove vengono usati trattori enormi guidati dal Gps e vengono sparsi diserbanti con piccoli aerei».

Nel Mato Grosso do Sul la crescita economica è rilevante3 ma i problemi, le contraddizioni e le ingiustizie del sistema sono ben visibili come in tutto il paese. Per i volontari come Giorgio Roz il lavoro e le sfide di certo non mancano.

Paolo Moiola
       Note                

1 – I padri Pietro Melesi, Luigi Melesi e Ugo De Censi. Il movimento, oltre che in Mato Grosso, opera in Ecuador, Perù e Bolivia. Il sito
ufficiale dell’Operazione Mato Grosso: www.operazionematogrosso.it.
2 – Nel 1979 lo stato del Mato Grosso venne diviso in due entità indipendenti: il Mato Grosso e il Mato Grosso do Sul.
3 – Ad aprile 2013, il governatore del Mato Grosso do Sul,?André Puccinelli, è stato in tour in Italia per incontrare imprenditori disposti a
investire nello stato brasiliano. Puccinelli ha parlato di grandi opportunità e di forti incentivazioni fiscali per gli investitori.


 



Cari Missionari

Correzione: Le cornordinate giuste di Sererit in Kenya (vedi
MC 5/2013, p 21) sono 1°40’47.08” N e 37°10’37.31” E e non quelle indicate che
si riferiscono invece alla chiesa di San Bartolomeo a Serle, Brescia. Scusate
lo svarione. Inoltre Sererit significa «acqua che scorre» e non «acqua scarsa»
(Sereolipi).

RITORNO IN ETIOPIA

Egregio
direttore,
amare e vivere la vita è donarsi agli altri. Il tempo corre veloce e il «mal
d’Africa» aumenta sempre di più. Da poco sono ritornato dal quinto viaggio
nella mia amata Etiopia. Altre emozioni, altre esperienze e altri orizzonti e
realtà vissute. Pensavo di conoscere già la gente dei villaggi di Weragu e
Minne, il loro modo di vivere, di comportarsi ma ho costatato che ho molto
ancora da apprendere. Nei villaggi sono ormai di casa, sono uno di loro fra
loro. I bambini, le donne e i giovani mi vogliono bene. Ho potuto fotografarli
anche all’interno delle loro capanne. Sono stato accolto con amicizia da una
famiglia cattolica, una musulmana e una ortodossa. Le suore della clinica ogni
due-tre sabati al mese si recano in un villaggio vicino, distante due ore di cammino,
per insegnare a leggere e scrivere agli adulti, e le norme igieniche e
comportamentali. Ho portato a p. Angheben Paolo la somma raccolta in Borgo e
valle, frutto della generosità dei benefattori che hanno donato con amore. Dal
profondo del cuore un grazie sentito, sincero, affettuoso con l’augurio di ogni
bene. La somma è servita per pagare lo stipendio per quaranta maestri che
insegnano a 1.200 bambini nella scuola primaria e secondaria dei due villaggi.
Lo studio è una tappa fondamentale per lo sviluppo di quel paese. Lo stato non
dà nulla ma pretende il rendiconto dei soldi ricevuti: ora anche le bambine,
anche quelle musulmane, vanno a scuola come i coetanei maschi. Nella biblioteca
di Debre Selam (rifugio di pace), ora funzionante, circa 5.000 studenti possono
studiare, scambiarsi libri e imparare a usare il computer e l’internet. P.
Paolo è ritornato a Modjo: la missione stava morendo ed ha portato una ventata
di fede, di entusiasmo e di speranza. Ora il bellissimo centro di animazione
missionaria e vocazionale è funzionante. I nuovi progetti di p. Paolo sono: la
costruzione di una sala mensa per 180 bambini della locale scuola matea
(costo circa 20.000 euro) e una chiesetta chiesta da un collega missionario
senza mezzi, in un villaggio vicino (costo circa 7.000).

La
fede profonda del padre, la solidarietà vera dei benefattori e l’onestà della
ditta del geometra Caevale faranno un altro prodigio.

A
p. Paolo, uomo di preghiera, di azione, di poche parole, schivo ma grande
psicologo e apostolo di anime, vada il mio grazie infinito. A tutti i
missionari, suore e fratelli della Madonna Consolata di Torino, sparsi sui
cinque continenti, testimoni di Cristo e della Vergine Maria, di cuore un
grazie sincero con affetto filiale e spirituale. Siete luce di verità, di amore
e di altruismo per tanta gente povera, abbandonata, oppressa e dimenticata dai
popoli ricchi. Attraverso p. Oscar, superiore dei missionari in Etiopia, un
grazie a tutti i missionari per l’ospitalità ad Addis Abeba (nuovo fiore) e nelle
altre missioni.

Con
affetto e un forte abbraccio di amicizia e cordialità.

Giovanni
De Marchi

via email, 2/5/2013

PADRE GIANNI, UNO CHE C’ERA

Oggi
siamo qui. Sono passati trent’anni eppure è come ieri. Noi abbiamo capelli più
o meno bianchi, rughe più o meno marcate eppure siamo noi. È passata una vita,
la nostra vita, abbiamo fatto lavori diversi, scelte diverse, percorso strade
diverse eppure siamo noi. Ci siamo ritrovati, un po’ storditi e commossi,
quando abbiamo saputo della sua morte, inattesa anche se conoscevamo le sue
condizioni di salute. Ci siamo ritrovati dove eravamo sempre stati con lui,
nella parrocchia Maria Regina delle Missioni, per ricordarlo nella preghiera,
con i suoi confratelli.

Ben
poco oggi ci unisce ancora, se non l’amore che abbiamo ricevuto da lui. Due
amori anzi: la sua amicizia, umana, tenera e profonda, e l’Amore, con la «a»
maiuscola, quello di Dio, che proprio lui ci ha fatto incontrare e sperimentare
negli anni dei gruppi giovanili. Trenta anni fa, quando noi eravamo i «suoi»
ragazzi.

Non
si dava delle arie p. Gianni, non conosceva la dinamica di gruppo, allora tanto
di moda, la psicologia, la sociologia…

Lui
semplicemente «c’era». Era lì, sempre a nostra disposizione, quando casualmente
«passavamo» vicino alla parrocchia. Era lì, spesso a fare i lavori più
semplici, raddrizzava un cartello, spostava un vaso di fiori, metteva in fila
le sedie…

Era
lì e ci accoglieva sorridendo. Con una battuta, una frase scherzosa.

Sembrava
svagato, ed invece era sempre tutto per noi, ci vedeva «dentro», come eravamo
davvero oltre l’esteriorità. Di ciascuno di noi ricordava tutto: vicende,
aspirazioni, problemi, ma anche la data del compleanno, le ricorrenze che si
sono via via aggiunte con il passare del tempo. Anche da lontano, negli anni in
cui è stato in Brasile, nel giorno giusto, dall’altra parte del mondo, arrivava
immancabilmente un suo biglietto, un sms, un saluto, un ricordo, una preghiera.
E non parole generiche, ma personali, sentite, profonde…

P.
Gianni c’era, ma era ugualmente pronto a «sparire», a tirarsi indietro, a farsi
da parte tanto era umile e schivo. Un merito, un successo non se lo prendeva
mai, ma lo attribuiva agli altri, sempre pronto invece a chiedere scusa, a
camminare in punta di piedi per non disturbare…

Non
so cosa abbia rappresentato per le persone che ha incontrato nei molti anni di
missione, posso immaginarlo a partire dalla nostra esperienza. Ma so che,
quando ci parlava di loro, emergeva un insieme di persone vive, concrete, alle
quali p. Gianni aveva voluto bene nello stesso modo in cui aveva amato noi:
singolarmente, ad uno ad uno come persone, ciascuna importantissima ai suoi
occhi e nel suo cuore. E sono convinta di una cosa: è stato proprio questo suo
modo di volerci bene che ha fatto «sperimentare» a tutti e a ciascuno la
profondità e la concretezza dell’Amore di Dio su di noi.

Claudia
Carpegna

(giovani di Maria Regina delle Missioni, anni 70-80), 15/5/2013

 

P. Gianni Basso, nato a
Quinto di Treviso nel 1949, ordinato sacerdote nel 1973, ha esercitato il suo
ministero sacerdotale dapprima in Italia e poi per molti anni in Brasile.
Rientrato per ragioni di salute, è stato alcuni anni a Vittorio Veneto,
ultimamente aveva iniziato il suo servizio missionario a Olbia, in Sardegna. Là
la morte lo ha colto all’improvviso il 17 aprile scorso come conseguenza di un
ictus. Sepolto al suo paese di origine, a Torino è stato ricordato con molto
affetto dai «suoi ragazzi» nella parrocchia Maria Regina delle Missioni.

AL DIO DELLE SAVANE

Caro
direttore,
ti allego la mia poesia “Al Dio delle Savane” segnalata al Concorso S. Sabino”
di Torreglia (Padova) lo scorso 5 maggio:

«O Dio di queste bellezze selvagge
che susciti canti da gole riarse
e accogli preghiere
impastate di terra e sudore.

Dio che ti fai dono
invisibile
sotto tettornie
di lamiera ardente,
che scendi e ti adagi
là dove si annida
la fame
e morde e grida forte
la sua esigenza
impellente.

Dio che ti fai insolito pane
di anime senza attese,
cibo di una fame
diversa
che non chiede
latte o sangue
ma sorsate d’amore,
di speranza,
di condivisione.

Dio, lampada di una notte
senza luna né stelle,
notte di angosce
e di dolori,
di mute invocazioni.

Busso forte
alla tua porta o Dio,
ti tempesto
di richieste.

Dio che mai spegni
il sorriso
sul volto di questi bambini,
dona pioggia e
ristoro,
pace e riconciliazione,
pazienza e saggezza.

Conserva il sacro senso della vita
da rispettare e trasmettere
con umiltà e fiducia
qui, dove il tempo è così lento
e l’attesa infinita
ma mai priva di
speranza.

A te affido Dio
la gente di questa
savana».

Giulia
Borroni

Wamba – Kenya, marzo 2011

Francesco e rinnovamento nella Chiesa

Molte sono le novità apportate da Francesco «vescovo» di
Roma, positive, condivisibili, accattivanti. E tuttavia mi pare che il
rinnovamento della Chiesa, per la fedeltà al Vangelo meriti un approfondimento.

Egli ha subito invitato i fedeli a chiedere la
misericordia di Dio, senza stancarsi, perché essa è infinita. Dunque un
rapporto verticale tra l’uomo e la divinità, proprio comunque di ogni
religione. Ma Cristo introduce anche un altro rapporto, correlato al primo,
essenziale, cui dedica tutti i suoi insegnamenti: quello orizzontale tra l’uomo
singolo e gli altri uomini. Quest’ultimo condiziona lo stesso rapporto con Dio,
perché non è concesso ottenere da lui misericordia, se poi la si nega agli
altri e privi di compassione si calpestano i loro diritti fondamentali. Una
parabola del Vangelo è eloquente: quella in cui si parla d’un debitore che
chiede e ottiene la remissione del debito ma poi strozza, senza pietà, chi a
lui deve qualcosa. L’importanza del rapporto con gli altri uomini viene poi
sottolineata dal passo in cui Gesù afferma: «Se stai per deporre l’offerta
sull’altare e là ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la
tua offerta vai prima a riconciliarti con lui». E soprattutto là dove vengono
enunciati i criteri secondo cui saremo giudicati: avevo fame, sete, ero ignudo,
prigioniero.

È dunque chiaro che per Dio i rapporti con gli altri
uomini sono essenziali, primari; non ci può essere amore per lui se non nel suo
spirito, che dobbiamo attuare nel mondo in cui viviamo. Gesù viene in terra per
rivolgersi a tutti gli uomini, ma nello stesso tempo, pone una linea netta di
demarcazione: chi vuole seguirmi, deve conformarsi ai miei comandamenti, al mio
spirito. C’è un dovere di giustizia innanzitutto ed è chiarito dalla parabola
di Lazzaro e il ricco epulone. Il negare agli altri i propri diritti – e dunque
dare la preferenza al proprio egoismo anziché all’amore e al rispetto – pone
l’uomo al di fuori del rapporto con Dio, tra gli ingiusti, e Gesù verso
Epulone, non dimostra alcuna pietà, non gli dà alcuna chance.

Le ingiustizie, l’appropriarsi dei beni, lasciando
l’altro nella miseria, non si attuano tanto principalmente nel rapporto tra
uomo e uomo, ma soprattutto attraverso regole ingiuste imposte mediante
l’organizzazione sociale.

Don Camara affermava la necessità di chiedersi: come mai
tanti poveri?
Nella situazione
attuale, occorre aver ben presente gli strumenti mediante cui le nostre società,
che riteniamo e si dicono cristiane, realizzano l’ingiusta ripartizione dei
beni e il dominio sulla terra. Al di là delle leggi di mercato, che penalizza e
riduce alla fame chi potere contrattuale non ne ha, nonché tutti gli altri
strumenti economici che conseguono lo stesso fine, v’è qualcosa di più
terribile, immorale e devastante. La guerra in primis, attuata in forza
della propria superiorità tecnologica, usando ogni tipo di armi, le più
micidiali: gli embarghi, le destabilizzazioni, il terrorismo.

La Chiesa dovrebbe farsi una domanda: quale educazione ha
fornito ai suoi fedeli e quale contributo ha dato alle strutture che hanno
formato e formano le nostre società? Com’è possibile una devianza così
macroscopica dai comportamenti che dovrebbero discendere dal Vangelo?

Lo scandalo delle ingenti somme destinate alle armi,
quando una moltitudine di persone nel mondo sono prive di cibo e medicine.

Gesù pone altresì un’altra barriera, invalicabile: tra
Dio e «mammona». Mammona è la logica e la pratica del mondo per ottenere
successo, onori, prestigio, danaro, potere, senza alcun riguardo e a danno
delle altre persone. Opposte sono le strade volute da Dio e le logiche cui
conformarsi. La Chiesa attuale, che mette al primo posto la propria immagine,
la sostiene usando mezzi non dissimili da quelli del mondo, evitando di
guardare le sue pecche e di prendere atto dei gravissimi danni provocati, ad
esempio, col proporre «l’ingerenza umanitaria», non è in linea col Vangelo;
semmai la sua immagine deve generarsi, spontaneamente, dai comportamenti fedeli
al Vangelo e dai cambiamenti che essa riesce a realizzare nei rapporti tra gli
uomini indirizzandoli alla giustizia e all’amore.

Se la Chiesa avesse il coraggio di guardare alla sua
storia, di ricercare il perché di tanti e gravissimi peccati di cui ha chiesto
perdono, vedrebbe come questi siano stati generati dal connubio con i poteri
temporali, dalla pretesa d’usarli come braccio secolare, dal pensare che sia
compito degli stati formare dei buoni cristiani (e dunque d’esercitare delle
pressioni in tal senso ed addivenire a dei compromessi) quando tale compito è
invece della Chiesa soltanto. Non solo le politiche che attualmente gli stati
cattolici o cristiani perseguono, del tutto immorali, escludono ciò, ma nella
differenza sostanziale tra i fini e i mezzi proposti da Cristo (la libera
scelta del suo messaggio, che si pone agli antipodi del pensare del mondo), e
quelli naturali degli stati (di cui è propria la coercizione e il cui fine, nel
migliore dei casi, è quello di organizzare una buona convivenza), sta la
necessità che ciascuno dei due poteri non interferisca con l’altro.

Questo non significa che il singolo cattolico non ispiri
il suo agire in politica, l’essere cittadino, alla luce del Vangelo o che la
Chiesa non possa insegnarlo, ma senza pretendere d’imporlo a chi in essa non si
riconosce.

Giuseppe Torre
Arenano 08/04/2013

a cura del Direttore




Decrescita 5: Cliente chiama produttore

Strumenti/ I gruppi di acquisto solidale
I gruppi di acquisto nascono da una consapevolezza e
criticità nei consumi. Puntano a maggiore tutela ambientale e appoggio a
filiere agropastorali. Consumatore e produttore condividono decisioni sul
prodotto finale. Intanto la rete organizzativa è in continuo miglioramento. Ce
ne parla l’esperto Andrea Saroldi.

A raccontarci in maniera chiara ed esaustiva come funzionano
i Gruppi di acquisto solidale (Gas) è Andrea Saroldi, di professione impiegato,
che da anni se ne occupa in modo proattivo. «Intoo al 1994, insieme ad alcuni
amici avevo fondato un gruppo dal nome Cocorico (Consumatori, coscienti,
riciclanti, compatibili): persone attente a scambiarsi le informazioni su come
praticare uno stile di vita più rispettoso, un modo di consumare più
consapevole e compatibile con l’etica e nei confronti dell’ambiente. In questo
contesto abbiamo conosciuto i primi Gas, allora nascenti.  La prima rete nazionale dei Gas è nata nel
1997. Oggi, 2013, i Gas censiti in Italia sono circa 1.000, quelli effettivi
almeno il doppio, il che significa almeno 200.000 persone coinvolte insieme a
diverse migliaia di produttori. Una volta all’anno è organizzato un convegno a
loro dedicato in cui esperienze, evoluzioni e prospettive si incontrano e si
confrontano». 

Come e in che misura rientrano i Gas nell’ambito della
decrescita?

«Nel 1994 il concetto di “decrescita” non era ancora
diffuso e sicuramente non si poneva come orientamento. Si parlava di sobrietà e
di comportamenti equi e solidali. L’attuazione dei Gas confluisce naturalmente
in quello che è il pensiero portante della decrescita. Le idee e le motivazioni
sono le stesse; fanno riferimento a un pensiero ecologico derivante dagli anni
’70 e alla consapevolezza che una dimensione dello sviluppo così come oggi
attuata non può funzionare. I pensieri di fondo sono gli stessi ma i Gas hanno
un taglio più organizzativo e pratico».

Qual è il meccanismo che fa funzionare i Gas?

«Il meccanismo di base è semplice: alcuni cittadini si
organizzano a livello volontario per acquistare dal produttore della stessa
zona, senza passare attraverso l’intermediario commerciale. Il produttore manda
un listino di prodotti a cui segue un ordine complessivo e la spedizione della
merce. Ciò che si verifica è il rapporto a tu per tu tra cliente e produttore».

Quali sono gli articoli che si acquistano principalmente
all’interno di un Gas?

«Si inizia con le cose più semplici: prodotti alimentari
a lunga conservazione, a seguire prodotti freschi, detersivi per la casa,
articoli tessili fino ad arrivare all’acquisto delle energie alternative. Oggi
i Gas si sono evoluti nella direzione di un miglioramento della propria rete
organizzativa che, nell’ottica di una maggior tutela ambientale, appoggia la
filiera agroalimentare e, di comune accordo con il produttore, prende decisioni
sia sul “cosa” sia sul “come” coltivare. È un fenomeno innovativo che apre una
finestra sul domani: non più consumatori alla mercè dei produttori e dei
distributori ma consumatori critici e partecipi».

Quali sono le motivazioni che spingono
le persone ad avvicinarsi a un Gruppo di acquisto solidale. Si può evidenziare
anche una convenienza economica?

«I primi Gas nascevano soprattutto nella testa e poi
nelle azioni di persone impegnate a livello sociale, ambientale ed etico. Oggi
c’è meno intellettualismo ma molta volontà di esser consapevoli e di mangiar
sano e gustoso, scegliendo i prodotti giusti. Trasversale a ogni epoca c’è il
desiderio di fare aggregazione (in particolar modo a livello metropolitano), di
consumare con criticità, di instaurare un rapporto diretto tra produttore e
consumatore, di essere protagonisti delle proprie scelte alimentari e non. Per
quantificare il risparmio economico sui prodotti acquistati bisogna prima
considerare l’alto livello qualitativo dei prodotti trattati. In generale la
convenienza economica è assicurata per quel che concee il settore biologico
ed energetico. Nel caso del biologico, ad esempio, c’è un risparmio del 40%.
Inoltre, un prodotto acquistato tramite canali commerciali tradizionali passa
attraverso parecchi intermediari, mentre, nel caso dei Gas, la distribuzione
diretta aiuta nel poter concordare prezzi favorevoli. Il
discorso economico non è mai comunque il fattore determinante di chi decide di
avvicinarsi ai Gas.
Alla base delle scelte personali c’è sempre un anelito al buen vivir,
viver bene e meglio».

 


BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

Breve trattato sulla decrescita serena, Serge Latouche
(Bollati Boringhieri, 2008)
La scommessa della decrescita, Serge Latouche (Feltrinelli, 2009)
Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie
sulla decrescita
, Serge Latouche (Bollati Boringhieri, 2012)
Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta
reale
, Tim Jackson (Edizioni Ambiente, 2011)
La decrescita felice. La qualità della vita non
dipende dal Pil
, Maurizio Pallante (Edizioni per la decrescita felice)
Meno è meglio. Decrescere per progredire, Maurizio
Pallante (Bruno Mondadori, 2011) 

SITI

www.retegas.it Rete nazionale dei gruppi di acquisto
solidale
www.unisf.it Università del saper fare
www.decrescitafelice.it Sito del Mdf
www.cohousingnumerozero.org Co-housing nunero zero
www.mdftorino.it Circolo di Torino della Mdf
www.beacon.it/wordpress/sabrco-gas Cronistoria Gas
www.retecosol.org Rete di economia solidale
www.ilcambiamento.it
http://scollocamento.ilcambiamento.it


HANNO CONTRIBUITO A QUESTO DOSSIER

Gabriella Mancini, torinese, giornalista e script editor,
da tempo collaboratrice di MC, è autrice di questo dossier.
Luca Cecchetto, torinese, sistemista informatico. Si
occupa di questioni relative alla decrescita. È il marito di Gabriella.
Foto di: Co-housing «numero zero», Marta e Giorgio di Lo
Puy, Gabriella Mancini.
Coordinamento editoriale: Marco Bello, redattore di MC.

 

Gabriella Mancini




Decrescita 4: Natura e decrescita

           Esperienze 3/ La «Chabrochanto» in Val Maira                                              
Dalla città alla montagna. Reinventandosi una vita che
pareva decisa. Da subito il superfluo non trova posto. E un quotidiano in
decrescita si realizza prima di ogni teoria. Lei, lui e cinque figli sulle
montagne della Val Maira. Una storia che ha molto da insegnare. Siamo andati a
trovarli.

Grazie al suggerimento del responsabile del Circolo
della Decrescita di Cuneo veniamo a conoscenza di una famiglia che vive in
termini «decrescenti». Si tratta di Marta e Giorgio, un medico e un traduttore
torinesi che dal 1992 abitano in Val Maira. Contrariamente alla tendenza
anagrafica la coppia ha ben 5 figli, la più piccola di 7 anni. Marta e Giorgio,
entrambi 49enni, sono i proprietari dell’azienda agricola Lo Puy che produce
formaggi di capra a latte crudo e si trova in borgata Podio a due chilometri
dal comune di San Damiano Macra. 

La «Chabrochanto» è il loro locale di degustazione e
agriturismo, un luogo non solo gastronomico ma di incontro ed esperienze.

Arriviamo in borgata nel pomeriggio sotto un tiepido
sole e troviamo Marta intenta a dialogare con i suoi figli e con i loro amici.
Marta è una signora interessante, ha mantenuto le caratteristiche cittadine ma
ha assunto la tempra e l’aria sana della vita all’aria aperta.

Il salto nel vuoto

«Quando siamo venuti a vivere qui era il 1992» racconta
Marta: «Avevamo un sogno nel cassetto, in condivisione con il nostro gruppo di
amici torinesi: riabitare una borgata. Era un’idea di stampo antropologico e
sociale, dove aveva la prevalenza un
discorso di buon vicinato con spazi culturali in comune e unità abitative
individuali. L’idea di un trasferimento di gruppo non è mai decollata e alla
fine Giorgio e io abbiamo deciso di tentare il salto da soli. I nostri amici
non ci hanno mai abbandonato idealmente e, anzi, ultimamente hanno comprato
alcune case in borgata nell’ottica di una promozione turistica del territorio».

Da Torino alla Val Maira, dalla città alla comunità
montana. Marta ci racconta del loro amore per la montagna, per la natura e gli
spazi aperti, della fatica del vivere metropolitano. Non ne parla con
aberrazione, ma osservandola in questo contesto si intuisce quanto potesse
sembrargli limitato l’ambiente cittadino. «Appena arrivati qui vivevamo a San
Damiano Macra. Io continuavo a fare il medico negli ambulatori locali e Giorgio
seguiva ancora qualche consulenza come traduttore. Poi, sono arrivati i primi
due bambini e Giorgio è diventato sempre più il punto di riferimento per la
famiglia. Si occupava volentieri di tutto il menage familiare, dell’orto che stavamo iniziando a coltivare e di
proseguire con i suoi studi di arricchimento personale (lo studio dell’arabo,
del cinese e dell’antropologia). Erano anni duri ma pieni, iniziavamo a
delineare in modo più chiaro quello che sarebbe stato il nostro futuro. Nel 1996
abbiamo trovato questa casa in borgata e il progetto di riabitare una comunità
montana ha preso corpo».

Mentre Marta racconta, ci tornano alla mente le immagini
di un film di qualche anno fa «Il vento fa il suo giro» dell’italiano Giorgio
Diritti girato in Val Maira. La storia sembra clonare le esistenze di Giorgio e
Marta: una famiglia con tre figli si trasferisce in una comunità montana per
vivere secondo natura, occupandosi di pastorizia, ma la diffidenza nei
confronti dello straniero non tarda a farsi sentire da parte dei locali. A
questa citazione Marta sorride e commenta: «Volete sapere una curiosità? Le
capre del film sono le nostre. Il film è molto genuino e gli attori non
professionisti rendono l’affresco. Per quel che ci riguarda, però, la comunità
locale non ha mostrato nessuna chiusura nei nostri confronti. Il fatto che io
facessi il medico e lavorassi molto sull’aspetto umano del paziente, ha
favorito una rete di contatti sociali propositivi che ci ha sicuramente
incoraggiati nell’iniziativa».

Arrivano le capre

Medico, madre e costruttrice di una nuova esistenza
improntata sulla socialità, la spinta antropologica e il rispetto ambientale.
Quando è nata l’idea di una proposta anche commerciale? «Dopo i primi tempi in
borgata, anche Giorgio ha iniziato a vedere con più chiarezza quello che
potevamo ideare a livello professionale. Si è specializzato nella pastorizia ed
è andato in Francia per imparare a fare il formaggio. Nel 1999 abbiamo aperto
il caseificio con solo 20 capre. Il lavoro si è fatto sempre più intenso e
quando è arrivata Lara, prima come dipendente e poi come socia, mi sono
permessa una sosta dal lavoro di medico per dedicarmi esclusivamente alla
famiglia e all’attività».

Oggi, 2013, qual è la realtà di borgata Podio e
dell’azienda agricola Lo Puy? «Ad oggi la borgata è abitata dalla nostra
famiglia e da quella di Lara con le sue due bambine. Dal 2011 sono tornata a
lavorare come direttore sanitario in una struttura per anziani, tre giorni alla
settimana. Non ho studiato medicina per caso, era la mia passione pur
dissociandomi dagli aspetti del marketing sanitario. Il mio lavoro contribuisce
alle spese poiché la produzione del nostro formaggio è solo stagionale: da
marzo a novembre. Gli altri quattro mesi sono senza introiti. Anche il nostro
locale «Chabrochanto» contribuisce a rafforzare la nostra idea di rispetto a
360 gradi per la natura».

Marta ci chiarisce che non ama il termine «agriturismo»
in quanto ormai troppo inflazionato e, in troppe situazioni, poco veritiero: «Al
caseificio abbiamo abbinato l’attività della locanda di degustazione.
Proponiamo solo ed esclusivamente i nostri prodotti: formaggi, carne e
capretto, salumi di capra e maiali. Non avendo verdura a sufficienza, ci
foiamo dai produttori locali perché è insito nella nostra filosofia servirsi
a km zero. Non ci sono cartelli che rimandano alla Chaborchanto ma un ottimo
passaparola di clienti fidelizzati ci permette di sopravvivere. Il tutto è
nell’onda della purezza e genuinità».

Abolire il superfluo

Mentre deliziamo il palato con la marmellata di lamponi
e il pane fatto in casa da Marta, non possiamo non domandarci in che misura
rientra la decrescita in questo microcosmo. «Ci ritroviamo nel pensiero della
decrescita da prima che il termine venisse troppo abusato: ridurre il consumo e
il superfluo è la nostra linea quotidiana. Tutto quello che riusciamo a
guadagnare lo reinvestiamo nel nostro territorio, per la nostra famiglia e le
generazioni future che vorranno venire a vivere qui. Trovo personalmente
fallimentari le comunità che vivono nell’eremitaggio, appartandosi dal mondo.
Le scelte troppo radicali non mi appartengono. Cambiare è un progetto graduale
perché penso che, in un modo o nell’altro occorra fare patti con la società in
cui si vive. Non ci sentiamo ad esempio di privare i nostri figli da eventuali
attività sportive o musicali ma cerchiamo di organizzare la logistica in modo
da non creare troppo impatto sull’ambiente».

Sensibilizzare al decrescere. Vi
sentite in parte operatori di questa ideologia? «A questo riguardo il nostro
locale, la Chabrochanto, vuole essere un punto di incontro e confronto di idee
ed esperienze tra persone. Dal 2010, infatti, promuoviamo i «Conviti di
agricoltura»: libere condivisioni di idee sull’agricoltura odiea,
sull’alimentazione, sul mondo contadino e sulla decrescita in generale. Le
tematiche attuali vengono poste come interrogativi su cui riflettere: si può
fare a meno della connessione a Inteet, dei centri commerciali e della
macchina? A questo scambio dialogico si associano piatti sfiziosi».

Baratto del tempo

Non sono solo gli stili di vita e le proposte al
pubblico che indicano uno stile «decrescente». Marta ci racconta che spesso a
Lo Puy si propone uno scambio del tempo. Vitto e alloggio assicurato, in cambio
di un paio di ore nell’orto o di una consulenza professionale in qualche
ambito. Rete e collaborazione sono le parole d’ordine ma anche ambiente. Grazie
alla collaborazione con una Onlus di Racconigi, l’azienda Lo Puy si è potuta
permettere i pannelli fotovoltaici. Questo ha favorito, oltre alla tutela
ambientale, un ottimo rapporto tra produttori e clienti. Il tutto fa parte di
un quadro che fa rima con impegno e anche con sobrietà.

Lasciando Borgata Podio l’impressione è che qui si
respiri un’aria di crescita, non quella del consumo ma quella dell’uomo, al
centro della sua vita in un paradigma «consapevole».

Gabriella Mancini




Decrescita 3: Decrescere fuori, per crescere dentro

             Esperienze 1/ Borgata Liretta                                               
Marito e moglie affiatati. Dopo una vita di lavoro e
volontariato decidono di dedicarsi totalmente agli altri. Ridando vita a una
borgata di montagna e ospitando coppie di sposi in cerca di tranquillità e
riflessione. E foendo un accompagnamento prezioso: calore ed esperienza.
Nell’essenzialità totale.

È sera, piove a
dirotto e il sentirnero verso borgata Liretta scorre in salita lasciando
intravedere, tutt’intorno, una natura selvaggia. È da Montemale (Cn) che
continuiamo a seguire le insegne di legno con raffigurata una piccola casa
tonda, tre finestre e un albero. Dopo qualche peregrinare eccoci giunti a
destinazione. Parcheggiamo l’auto e ci avviamo verso l’unica fonte di luce
circostante. La lucina ci conduce in una sala da pranzo in cui, con un gran sorriso,
ci accolgono Olga e Mario Garrone.

Non siamo soli a Liretta. Oltre la
figlia di Olga e Mario con la sua famiglia, c’è una giovane coppia con una
piccola di sei mesi e Maurizio Nai, responsabile del Circolo della Decrescita a
Cuneo.

È una bella tavolata, l’atmosfera è
calda e la zuppa servita in tavola ha un sapore veramente genuino. Olga ci
spiega qualche segreto culinario anche se il cuoco d’eccezione e per le grandi
tavolate è Mario che, non a caso, indossa un grembiule firmato «Il cuciniere».
La dicotomia è forte: fuori pioggia e fango imperversano, dentro l’umanità si
racconta. La convivialità sembra essere di casa e, approfittando di uno spazio
più appartato della mensa, cerchiamo di capie di più su questo angolo di
vita. La più ciarliera è Olga che, con fare entusiasta si racconta. «Le cose
non accadono mai a caso, Liretta è il frutto di un lungo cammino personale.
Mario e io abbiamo avuto la fortuna di conoscerci giovani e con un lavoro
sicuro. A 22 anni facevo già la maestra e Mario lavorava in banca. Facevamo
parte di un gruppo di giovani universitari post-concilio che si realizzava
fuori dagli schemi parrocchiali. Cercavamo di crescere nella fede e
nell’accoglienza verso gli altri. Il sabato lo dedicavamo all’aiuto dei più
bisognosi: disabili o ragazzi di strada. Il volontariato, l’approfondimento
della spiritualità e l’attenzione verso il prossimo era la molla che ci
accomunava e che non ci ha mai abbandonati».

I primi anni

Mentre Olga si racconta, l’atmosfera della sala da
pranzo si fa più raccolta. I più «piccoli» iniziano a dare cenni di cedimento e
si avviano verso le stanze per la notte. Approfittiamo della sosta per fare un
giro. Legno e pietra rallegrano la borgata anche nel cuore della notte.
L’accoglienza nottua di Liretta si compone di tre stanze dai nomi bizzarri:
oblò, chambre bleu e curiusa. A noi tocca quest’ultima, così
denominata per le sue grandi vetrate che spiano verso la strada. Nell’estrema
sobrietà, tutto è molto curato. Due bagni comuni sono a disposizione degli ospiti,
come anche un’altra piccola cucinotta, adiacente alle camere.

Toiamo nella sala da pranzo, oramai quasi solitaria e
anche Mario si siede al nostro fianco. La storia riparte: «Intoo al 1974,
appena sposati, abbiamo pensato di non chiuderci agli altri ma di essere una
coppia aperta. Abbiamo vissuto gli anni Settanta, anni di rivoluzione sotto
tutti i fronti, intensamente. Un ’68 vissuto al positivo con tutta la fatica di
sradicare un vecchio sistema ma anche il piacere di vivere la ribellione e il
sentirsi diversi. Di quel tempo ci è rimasto addosso il sogno del cambiamento.
Il nostro sentire comune e il nostro desiderio era di rendere il nostro amore
un punto di riferimento per gli altri. Su questo, qualcuno di lassù, ci ha
ascoltati e messi seriamente al lavoro».

Olga e Mario, già da neo sposi iniziano a collaborare
con la Pastorale Famigliare per la Diocesi di Cuneo e a organizzare gli
incontri prematrimoniali per giovani coppie. Quando arrivano i bambini (Olga e
Mario hanno 3 figli), non cessano certo il loro impegno nel sociale, anzi. Olga
e Mario, si ritrovano a dialogare delle loro scelte con i figli e a renderli
partecipi del loro agire. In quest’ottica di apertura, proprio dai figli
adolescenti giunge la richiesta di una maggiore attenzione da parte dei
genitori che per un paio di anni si dedicano così solamente ai loro ragazzi.

La famiglia chiama e Olga e Mario rispondono. Sono gli
anni delle baby pensioni e Olga pur utilizzando questa favorevole opportunità
anticipa la «ritirata» e attende quattro anni prima di percepire la prima
mensilità. Ecco che arrivano le rinunce per star vicino ai figli. «Anche in
questa occasione poter dialogare insieme ai figli è stato fondamentale. Meglio
una mamma più presente, che una serata in più in pizzeria. La vita insegna e in
questa fase abbiamo iniziato a rinunciare a tante piccole cose superflue,
accorgendoci che si viveva benissimo anche con molto meno. Pur non sapendo
nulla sulla decrescita, c’era la volontà di essere “sobri” e di praticare la
semplicità quotidianamente».

Il vero cambiamento

Come si arriva a una trasformazione così radicale della
propria vita? Questa volta a prendere la parola è Mario: «Alla base di tutto c’è
una propensione alla provvisorietà, al cambiamento. Per noi, il desiderio forte
è sempre stato quello della capanna e non del castello. Una dimora semplice,
con pochissime porte per dare la possibilità a tutti di entrare e uscire senza
problemi. La molla è stato il desiderio di scrollarsi di dosso le cose che non
servono, le occasioni di farlo sono giunte lungo nel cammino. Per costruire
qualcosa occorre prendere coscienza delle proprie potenzialità, sapere chi
siamo. In poche parole: conoscersi. Noi sapevamo di essere un punto di
riferimento per le coppie e le famiglie e su questo abbiamo posto le prime
pietre e costruito il nostro futuro. L’umiltà fa il resto».

Olga aggiunge con discrezione: «Una volta cresciuti i
figli ci siamo interrogati su cosa fare delle nostre esistenze e siamo partiti
da un’analisi. I giovani sposi dopo il matrimonio venivano «abbandonati».
Sembrava che tutto accadesse prima: i corsi di formazione, i cammini spirituali
e poi più nulla. Questo ci ha fatto riflettere e capire che il nostro supporto
doveva essere tanto pregnante prima quanto dopo, per non lasciare che tante
coppie si sentissero abbandonate a gestire i primi dissidi familiari.
Continuavamo a fare gli incontri pre matrimoniali in Diocesi ma avvertivamo in
maniera sempre più profonda la mancanza di uno spazio piacevole dove poter
dialogare in armonia. Ed ecco che entra in scena Liretta. Nostra figlia aveva
visto l’annuncio «vendesi intera borgata», ma noi eravamo vincolati
affettivamente a un’altra vallata e non eravamo ancora pronti. Passato un anno
e maturata l’idea di realizzare concretamente qualcosa, ci siamo decisi a
vedere la borgata. Era il 2002, Liretta era abbandonata da 20 anni ed era in
totale rovina ma è bastato uno sguardo per capire che era quello che faceva per
noi. Nella vita bisogna saper trasferire i propri sogni in avanti, essere lungimiranti.
Ci fossimo fermati solo alle macerie che presentava Liretta, saremmo scappati
subito. In quel luogo e in quel primo incontro con la zona, noi abbiamo
avvertito il profumo della trasformazione».

Reinventarsi a 50

Quella di Liretta è stata una scelta meditata e
coraggiosa. Per far tutto questo Mario, dopo 29 anni di banca, ha deciso di
licenziarsi e di reinventarsi a 50 anni di età. Un progetto che, afferma la
coppia all’unisono, non avrebbero mai fatto con i bambini piccoli per non
vincolarli o fargli subire una scelta non loro.

Mentre Olga e Mario raccontano, noi sfogliamo un album
di fotografie che ci rimanda ai primissimi tempi di Liretta. Come è stato
possibile portare avanti questo progetto con così tanto impegno fisico e
pratico? «Abbiamo dato subito accoglienza, seppur nella semplicità. Le giovani
coppie potevano venire in giornata a fare la loro formazione prematrimoniale».
Riprende Olga: «È sorprendente verificare come ci si abitua a vivere con poco.
Nell’autunno avevamo già realizzato un piccolo bagno e potevamo vivere in una
cucinotta della casa che ora è adibita all’ospitalità. Sicuramente è stato un
inverno freddo fuori ma caldo dentro: nel cuore e nelle intenzioni».

Vita «tipica» in borgata

Liretta: «Noi viviamo qui, ci siamo sempre 24 ore su 24
per chi è in difficoltà. La nostra accoglienza si rivolge alle coppie prima e
dopo il matrimonio ma è capitato che ci chiedessero di ospitare qualche
situazione di disagio e, ovviamente, abbiamo aperto la nostra porta. Diamo
conforto, amicizia, ascolto, pranzi e cene pronte e un letto caldo. Coccolare
la coppia e farla sentire a casa è il nostro compito. Attenzione: ci
concentriamo sulla crescita personale della coppia, sull’offrirle uno spazio
esclusivo, perché sono il marito e la moglie che fanno fatica a mettersi in
discussione. Quando i figli crescono e prendono la loro strada, la coppia resta
e se non si è alimentato un rapporto profondo e autentico negli anni, tutto si
sfalda e ci si ritrova soli. Abbiamo anche una buona rete di professionisti
della coppia e, per approfondimenti specifici su coppie in crisi, non esitiamo
a consigliare un parere più professionale del nostro».

Numericamente, quante coppie ospita Liretta? «È
difficile fare una stima numerica per la continua evoluzione degli eventi,
abbiamo iniziato con poche coppie e oggi ne abbiamo otto per il cammino
pre-matrimoniale, altre 15 che seguiamo dopo il matrimonio e tutta
l’accoglienza quotidiana».

Seppur sotto una pioggia incessante, quello che spicca
in armonia con il verde circostante è una piccola cappella di pietra. La
domanda sorge spontanea: a Liretta occorre essere praticanti o l’accoglienza è
per tutti? A rispondere è Mario: «Noi abbiamo deciso di costruire la cappella
per poter praticare la nostra spiritualità ma non obblighiamo nessuno a vivere
della stessa fede: i nostri ospiti devono sentirsi “liberi”. Sono stati i
nostri figli e i loro amici ad aiutarci a creare una dimensione laica ed è
stata proprio questa forma liberale che ha poi favorito un riavvicinamento alla
spiritualità anche da parte di alcuni giovani, da tempo lontani dalla fede».

Desbarasuma: la decrescita non teorizzata

L’accoglienza di Olga e Mario è semplice ma generosa,
anche nella quantità del cibo. Ci chiediamo come facciano con le spese e Olga
ci chiarisce che in ogni camera c’è una busta per le offerte. Ognuno offre il
suo contributo e se non ne ha la possibilità non importa, può offrire un aiuto
pratico viste le continue necessità in borgata. Nel corso degli anni la coppia
sostiene però di aver sperimentato che spesso le persone con maggiori difficoltà
economiche offrono il massimo.

Per Maurizio Pallante (vedi articolo) la
decrescita è una vita in crescita. Crescita di valori, di pienezza di
esperienze, di tempo per dialogare. Prima di ritirarci nel nostro rifugio per
la notte, domandiamo ancora a Olga e Mario di parlarci del loro modo di vivere
secondo la chiave della decrescita. Ci rispondono quasi in coro: «Il denaro e
il successo non ci dava la felicità. La mera produzione per il consumo ci
avviliva. Per noi decrescere è trovare un “posto al sole”, in senso metaforico,
dove star bene e poter aiutare gli altri. Questo esserci per gli altri può
esistere solo se si è raggiunta una certa armonia con se stessi, un equilibrio
che nei ritmi frenetici e nella rete del consumismo fine a se stesso, non
avevamo trovato. Decrescita indica per noi una crescita interiore e di
attenzione verso l’altro. In termini pratici abbiamo una macchina sola che
usiamo il meno possibile per recarci a Cuneo, accumulando più impegni, cinque
galline per le uova, un orto per l’autoproduzione, il riscaldamento a legno con
il camino e la stufa, un pannello solare e un’accuratissima raccolta
differenziata su cui cerchiamo di sensibilizzare il più possibile i nostri
ospiti».

La mattina seguente esce uno spiraglio di luce e Liretta
è allo scoperto. Il belvedere apre una finestra naturale sulle montagne, ancora
leggermente innevate e dall’altura della borgata si intravedono i tetti di
Cuneo. Tutto è in armonia. Entriamo nella cappella dove una vetrata è in
perfetta simbiosi con la natura circostante; una piccola madonna bianca dalle
grandi mani ci guarda da una nicchia e tre piccole finestrelle dipinte indicano
una sorta di cammino verso l’ascensione. Una cura artistica si avverte ovunque,
nelle fioriere multicolore, nei dipinti creati da Olga per le piastrelle dei
bagni e nella gradevole stanza per i giochi dei bambini, realizzata
appositamente per gli ospiti «in erba».

Non possiamo che concludere la visita con uno sguardo più
intenso verso il logo: «Un tetto amico, una casa rotonda perché senza spigoli e
conflitti, tre sole finestre e nessuna porta. Perché a Liretta le porte sono
sempre aperte per chiunque ne abbia bisogno».

 

          Esperienze 2/                                                                
Co-housing

per con-dividere

Per parlare con autenticità della decrescita, occorre
sfatare un mito: decrescere non significa andare a vivere in campagna e
isolarsi tra gli elfi boschivi. Quello che si evince dalle interviste di questo
dossier è che l’assioma decrescita-relazioni umane non si cura dello spazio ma
interviene sul cambiamento più profondo delle persone. Da qualche anno è attiva
un’associazione, Coabitare, che si occupa di fornire conoscenze, informazioni,
idee e strumenti a chi desidera abitare in modo differente e decide di farlo
non solo in ambito rurale. Per strappare qualche curiosità in più
sull’argomento siamo andati a visitare il co-housing
«numero zero» a Torino in via Cottolengo n°4. Un antico edificio ristrutturato
con tutti i crismi ecologici ed estetici dove, da gennaio 2013, vivono otto
nuclei familiari. Fioriere sui balconi e una piacevole galleria di biciclette
parcheggiate all’entrata ci accolgono.

A raccontarci la scelta di una co–abitazione solidale
sono Matteo Nobili, fisico e fotografo 36enne, e Chiara Mossetti, architetto
35enne. Vivere insieme ad altre persone: come nasce questa scelta e perché?
Matteo inizia il racconto: «Sicuramente occorre essere propensi
all’aggregazione. In un co-housing si
condividono pensieri, ideologie e “saper fare”, ma ognuno mantiene la
riservatezza del proprio alloggio. A noi interessava l’ambito urbano, sia per
le nostre occupazioni lavorative e sia perché non concepivamo l’idea di abitar
fuori e poi dover utilizzare la macchina quotidianamente con un’elevata
produzione di CO2. La scelta del centro città è anche e soprattutto per potersi
spostare liberamente in bicicletta o a piedi».

Mentre parliamo del progetto, in uno degli otto
appartamenti è in corso un simpatico pranzo comunitario. Oltre agli
appartamenti privati, il condominio ha a disposizione uno spazioso terrazzo, un
laboratorio, un soggiorno e un’ampia sala semi interrata. La domanda sorge
spontanea: come rientra la scelta di un co-housing
nella decrescita? «Innanzitutto nel ridurre gli sprechi. Questo è alla base
della scelta di una co-abitazione. Nel co-housing
«numero zero» ad esempio la scelta preponderante è stata quella di mantenere
una metratura medio-piccola (circa 70 mq) per tutte le abitazioni ma di
privilegiare l’ampiezza di alcuni spazi comuni». Ma, in pratica, come si
traduce quest’attenzione verso i consumi? «La fortuna è stata avere un
architetto e un ingegnere nel nostro gruppo che ci hanno permesso una
ristrutturazione “secondo natura” e dall’estrema funzionalità. Non a caso rientriamo
nei canoni della bio-edilizia e siamo in classe A. Sempre nell’ottica
ambientalista, siamo provvisti di pannelli solari per l’acqua calda, integrati
con una caldaia a condensazione e, in ogni appartamento, è presente il riscaldamento
a pavimento che diffonde il calore e non comporta inutili dispersioni. Possiamo
usare la metafora del dimezzare: noi siamo in otto nuclei famigliari con due
grosse lavatrici a disposizione per tutti e quattro automobili. Una sorta di car-sharing tra coinquilini!».

Sbirciamo con interesse gli interni delle abitazioni.
Seppure diverse per gusti e personalità, si contraddistinguono tutte per un
buon gusto comune. E le travi di legno dei soffitti aiutano ad armonizzare il
tutto. Nella fattispecie, le pareti di casa di Matteo e Chiara ricordano i
colori del Mali e, infatti, non sono altro che una miscela naturale di argilla,
sabbia e paglia. In co-housing «numero
zero» abitano persone dai 30 ai 60 anni e, come ci spiega Chiara: «Fare una
scelta simile non significa semplicemente farsi casa propria risparmiando un
po’ ma deve includere tanta voglia di scambiarsi competenze. Se ho bisogno di
un orlo ai pantaloni o di una buona ricetta in cucina, posso chiedere a Piera
(che ha qualche anno in più di noi), mentre noi possiamo facilitarle la vita
con i mezzi tecnologici o i lavori più pesanti. C’è uno scambio paritario di
talenti e di competenze ma non è tutto. Per viver bene occorre una buona dose
di socialità: il più delle volte chi arriva prima a casa la sera, prepara cena
per tutti in un’ottica di risparmio del tempo, quello liberato, e di
condivisione».

Ma il «bello» aiuta o è solo vanità? «Decrescere non
significa imbruttirsi, anzi. La bellezza aiuta a vivere meglio e a trovare
anche il giusto equilibrio in noi stessi e con gli altri». (G.M.)

Gabriella Mancini




Decrescita 2: Produrre sì, ma… «merci» utili

      L’esperto 1/ incontro con Maurizio Pallante                                         
Che differenza c’è tra beni e
merci? Cosa può rendere la vita migliore? Come ridurre il Pil senza andare in
recessione? A queste e altre domande risponde Maurizio Pallante, classe 1947,
laureato in lettere, ex preside, fondatore e «guru» del Movimento per la
decrescita felice
.

L’alternativa alla crescita è la
riduzione degli sprechi. Maurizio Pallante ci racconta il suo cammino verso la «Teoria
della decrescita» partendo dalle sue esperienze ambientaliste degli anni Ottanta:
«Realizzavo già allora che l’alternativa ai combustibili fossili non poteva
essere esclusivamente legata all’utilizzo di fonti rinnovabili ma anche e
soprattutto alla riduzione degli sprechi. Solo in Italia si spreca il 70% di
energia, cioè si produce energia che non serve perché potrebbe essere
risparmiata in vari modi. È necessario dunque ridurre gli sprechi, il consumo “inutile”
e, solo dopo o parallelamente, si può pensare di ricavare energia dalle fonti
rinnovabili, ma solo per le rimanenti necessità».

Negli anni ’90 affronta tematiche legate alle
eco-tecnologie e all’efficienza energetica. Nel libro «Le tecnologie di armonia»
(Bollati Boringhieri 1994) analizza l’inadeguatezza degli indici economici
universalmente riconosciuti quali misura del benessere e valuta le opportunità
legate a una riduzione dell’orario di lavoro rispetto alle otto ore attuali.

Beni o merci?

Domandiamo a Maurizio Pallante quale sia la sua critica
al Pil (Prodotto interno lordo) come indicatore dello sviluppo economico. «La
crescita economica, che troppo spesso si identifica con benessere, viene
misurata dalla quantità di merci prodotte e scambiate, cioè con il Pil. Questo
indicatore, che è un dogma nella nostra economia, è una falsa misura di
benessere in quanto esistono molte merci che non determinano miglioramenti
reali della qualità della vita. Le merci che non apportano un reale
miglioramento alla vita dell’uomo non possono definirsi “beni” ma sono,
sostanzialmente, “sprechi”».

Esiste dunque un’alternativa a questo stato delle cose? «Concentrarsi
sulla produzione “efficiente” di beni, ossia di merci “buone”, cioè utili. In
questo contesto assumono molta importanza forme come l’autoproduzione e lo
scambio di beni non mercantile, il dono, la reciprocità e la solidarietà. La
decrescita è proprio questo: da un lato la diminuzione della produzione di
merci che non sono “beni”, ossia che non recano un effettivo miglioramento
qualitativo della nostra vita, e dall’altro l’aumento della produzione di beni
che non sono “merci”».

Ma la decrescita si può considerare un fenomeno di
nicchia o di massa? La teoria della decrescita felice viene sviluppata
attraverso la pubblicazione dell’omonimo libro del 2005 che ha venduto, a oggi,
50.000 copie. Il fenomeno, che ha avuto una diffusione lenta, ma costante,
appare oggi in fase di ulteriore espansione. Pallante ci spiega: «Nei frequenti
convegni a cui partecipo, il pubblico è sempre vasto e interessato.
L’associazione stessa (Mdf, cioè Movimento per la decrescita felice) fondata
nel 2007, conta oggi una trentina di circoli e vanta richieste continue di
nuove adesioni tanto da ipotizzare di poterli raddoppiare entro la fine
dell’anno. Il Movimento si propone in ogni caso di creare collegamenti tra
fasce di età, tra giovani e meno giovani, tra liberi pensatori, puntando per
tutti alla valorizzazione delle proprie attitudini e capacità».

Recessione e decrescita

Di questi due termini, spesso confusi, Pallante ci da
due definizioni precise: «La recessione è la diminuzione incontrollata e generalizzata
della circolazione delle merci. La decrescita è invece la riduzione selettiva e
controllata della produzione e circolazione delle merci che non sono beni, ma
piuttosto sprechi. Facciamo un esempio: ci sono due persone che non mangiano,
una perché ha deciso di fare la dieta e l’altra perché non ha proprio da
mangiare. Chi ha deciso di fare la dieta è in fase di decrescita, chi non
mangia perché non ha da mangiare sta vivendo la recessione. In questo senso
decrescita non si confonde con recessione ma ne è addirittura la medicina».
Addirittura? «Sì, perché puntare sulla riduzione degli sprechi significa
dirottare gli investimenti in specifici settori produttivi, quello delle
eco-tecnologie, dell’efficienza, quindi ottenere magari le stesse cose impiegando
meno risorse. Con questo risparmio si può innescare un circuito virtuoso che
permetterebbe a sua volta di pagare i salari dei nuovi lavoratori del settore».

Decrescita fa rima con innovazione o tradizione?

«Anche qui bisogna mettersi d’accordo. L’innovazione non
è un valore in sé, ma è utile quando mirata alla diminuzione degli sprechi di
risorse e di tempo. Diversamente, se punta a indurre un semplice desiderio
consumistico di emulazione, è inutile e dannosa. Lo vediamo ad esempio con i
modelli di smartphone o automobili che escono continuamente sul mercato a parità
sostanziale di funzionalità tra un modello e l’altro. Per il loro acquisto le
persone continuano a indebitarsi o a lavorare molte ore senza realizzare che si
tratta di merci che non aumentano di certo il loro benessere. La tradizione è
buona perché spesso raccoglie la saggezza di secoli di adattamento alla natura
e all’ambiente circostante. Ad esempio nel campo del risparmio energetico, le
cascine costruite nell’Ottocento erano ottimali, in quanto si teneva in gran
conto l’orientamento e l’esposizione al sole dell’abitazione, riducendo le
aperture di porte e finestre sui muri perimetrali del lato nord che invece con
il loro spessore funzionavano da regolatori termici. L’edilizia della seconda metà
del secolo scorso invece, pur essendo considerata innovativa rispetto agli
edifici precedenti, teneva poco o per nulla conto di questi aspetti,
considerando un fattore secondario la dispersione di calore, presupponendo un
facile e poco dispendioso accesso ai combustibili fossili e all’energia
elettrica».

Vado a vivere in campagna

La decrescita si può vivere esclusivamente in un
ambiente rurale? «Considero le città gli ambienti peggiori dal punto di vista
della qualità della vita. In un appartamento è materialmente impossibile fare
delle attività attinenti alla soddisfazione dei propri bisogni. Tutto si compra
col denaro guadagnato spesso facendo dei lavori legati alla produzione di merci
e servizi inutili, come certa “burocrazia”. La campagna, se vissuta come
opportunità di fare autoproduzione o allevamento, va nella direzione della
decrescita. Ma in generale la decrescita attecchisce in una persona consapevole
e sensibile all’idea. Se il decentramento aumenta fortemente le necessità di
spostamenti quotidiani in automobile per raggiungere differenti luoghi di
lavoro potrebbe non essere la soluzione ottimale. Anche la scelta di vita
individuale o comunitaria deve essere lasciata alle attitudini e all’indole di
ognuno di noi, è chiaro che l’isolamento può non favorire lo scambio di beni e
servizi o la reciprocità che è alla base della teoria della decrescita».

Chi abita in città cosa può fare da domani per aderire
in pratica all’idea di decrescita?

«Si possono fare molte cose tra cui: instaurare un
rapporto diretto di collaborazione con i produttori alimentari (i Gas, ndr),
aderire alle banche del tempo, brutto nome per un’ottima idea, che è quella di
scambiare il tempo per aiutarsi. Vedo bene in questo senso creare una rete di
aiuti e di solidarietà all’interno dei condomini in cui si vive. Poi c’è il
filone energetico: fare scelte che comportino risparmi e utilizzi di energie
rinnovabili, pianificare più spostamenti a piedi o in bicicletta. Ognuno deve
trovare la propria misura e il proprio equilibrio. Ridurre al minimo la propria
dipendenza dal mercato, dalle attività inutili e dagli sprechi».

Fare i conti con la crisi

Se si perde il lavoro, cosa si fa? Si mangia pane e
decrescita?

«È fondamentale reagire, conoscersi meglio per
riscoprire le proprie capacità pratico-manuali e i propri talenti. Oggi ci
rendiamo tristemente conto che non sappiamo “fare”, ma dobbiamo acquistare
tutti i beni che ci occorrono. Il modello di giornata che ho in mente dovrebbe
svilupparsi in tre momenti: l’auto produzione di beni, includendo le
riparazioni artigianali e l’orticoltura; il lavoro “esterno”, necessario per
ottenere denaro e acquistare quello che non si può costruire direttamente.
Infine, una parte importante della giornata dedicata alle relazioni umane, alla
spiritualità, al divertimento e all’apprendimento. Molto si può fare
individualmente, vivere il proprio cambiamento e operare contestualmente scelte
di consumo consapevoli, riducendo gli sprechi e gli acquisti inutili. Ma poi ci
vuole una risposta politica e di orientamento dei settori industriali che
mirino all’efficienza, alle energie pulite e alla produzione sostenibile dei
beni strumentali».

La fase di crescita è proprio “esaurita”?

«Io credo che tutti gli sforzi attuali di aumentare
l’occupazione senza porsi la questione dell’utilità di quello che si fa sono
destinati al fallimento. Dobbiamo invertire la tendenza ed entrare in una fase
nuova dell’economia; questa azione non potrà che ripercuotersi beneficamente in
un avanzamento sociale dell’intera umanità».

 
     L’esperto 2/ Jean Louis Aillon                                                             
Decrescita, medicina e giovani

Rimettere al centro l’essere umano, in armonia con la
natura. Una società in cui si possa consumare meno e meglio. E dare più spazio
alle relazioni. Questi e altri gli ingredienti della decrescita felice secondo
il responsabile salute del Movimento.

Jean Louis Aillon è un medico 29enne,
specializzato in psicoterapia dinamica adleriana. Fa parte del direttivo
nazionale del Movimento per la decrescita felice ed è il responsabile del
settore Salute all’interno del Movimento. Jean Louis è una persona estremamente
piacevole che, con una buona dose di profondità e disinvoltura, ci racconta la
sua visione della decrescita ponendo l’accento sulla reale necessità di un
capovolgimento di paradigma in medicina e analizzando l’orizzonte dei giovani.

Jean Louis, decrescere bene e meglio. Ci dai
qualche input in merito?

«L’obiettivo della decrescita è di rimettere
al centro gli esseri umani in un nuovo rinascimento, in armonia con la natura.
In questo stato delle cose, l’economia deve essere semplicemente un mezzo che
garantisca la piena realizzazione degli esseri umani. L’idea sostanziale è: non
si deve fare sempre di più ma fare meglio, non pensare alla quantità ma alla
qualità, consci dei propri limiti e di quelli del pianeta. Una società in cui
si possa consumare meno e meglio, lavorare un po’ meno per dare più spazio alle
relazioni, alla sfera affettiva, spirituale e creativa. In questo senso
ritagliarsi del tempo “liberato” che non è il “tempo libero” catturato dagli
svaghi dell’industria del divertimento ma un tempo prezioso da dedicare a sè
stessi e ai propri cari. Noi siamo stati colonizzati da un’immagine della
crescita che nutre in sé una serie di disvalori: essere sempre in forma,
competitivi sul lavoro, inseguire benessere materiale e successo. Con la
decrescita si intende decolonizzare quest’idea della crescita».

Salute, psiche e crescita dell’uomo. Come può
la decrescita intervenire in questo ambito? «Innanzitutto occorre porsi una
domanda: “Da cosa dipende la nostra salute?”. La risposta è così ripartita: 7%
da fattori genetici, 15% dall’organizzazione sanitaria e il restante 70% dagli
stili di vita che si conducono e dall’impatto ambientale. Una buona rete
sociale accanto a sé, una sana alimentazione e dei ritmi meno pressanti
costituiscono le chiavi per migliorare il nostro stato di salute. La “crescita”
fine a se stessa ha prodotto solo ineguaglianze e stili di vita insalubri. La
depressione nel 2020 sarà la prima patologia per cause di disabilità del mondo,
insieme ad altri malesseri sempre in aumento come l’insonnia e la cefalea.
Decrescere in ambito sanitario, significa, a mio avviso, svincolare la medicina
dalle influenze che nel corso dei secoli le ha apportato un sistema economico
basato esclusivamente sulla crescita del Pil; affrancarla da una visione miope
della scienza e del progresso che ha fatto dell’uomo un oggetto di studio come
gli altri, trascurandone le varie dimensioni essenziali, la sua unitarietà e la
sua complessità. La decrescita in questo ambito, come in economia, si propone
di riorientare la medicina secondo un carattere prettamente qualitativo (e non
quantitativo), riportando l’unicità della persona al centro del processo medico
e promuovendo tutte quelle pratiche che mirano al reale benessere psico-fisico
e sociale dell’essere umano, inteso nella sua globalità. Alcuni temi di
carattere generale (su cui vi è un consenso internazionale) che possono essere
affrontati con questo metodo, nell’ottica della decrescita riguardano: gli stili
di vita, la prevenzione, la promozione della salute, l’approccio olistico al
paziente, l’abolizione del consumismo farmaceutico, lo stress stile di vita
odierno, l’ambiente e l’inquinamento, l’approccio al dolore, l’organizzazione
sanitaria e molto altro ancora». 

Chiediamo a Jean Louis Aillon di spiegarci
come rientrano i giovani nella decrescita. «La decrescita è una filosofia che
fa presa su coloro che sono imbrigliati negli ingranaggi della “megamacchina
capitalistica”. Il mondo dei giovani è, però, completamente diverso: il tempo
non manca e le relazioni umane abbondano. Nonostante ciò i giovani non sembrano
affatto così felici.  Attraverso lo
strumento della decrescita, il rivalutare vecchi mestieri, conoscere meglio i
propri talenti e dare un senso alle cose che si fanno, si possono rompere le
catene dell’isolamento e della solitudine e trovare la forza per vivere
diversamente questo mondo». (G.M.)

 
 

Luca Cecchetto e Gabriella Mancini




Decrescita 1: Decresco, quindi sono

Teoria e pratica della «decrescita felice»

di Gabriella Mancini, con la collaborazione di Luca
Cecchetto

Premessa: perché decrescita?
«Non cambierete mai niente lottando contro la realtà
esistente. Cambierà qualcosa solo costruendo un nuovo modello che
renderà quello esistente obsoleto». (Buckminster Fuller)

Se apriamo il vocabolario e cerchiamo «benessere», la
definizione fa riferimento a: stato di buona salute fisica e psichica, felicità,
senso di benessere interiore o prosperità economica, agiatezza. Per società del
benessere si intende la nostra, quella occidentale, caratterizzata da agiatezza
collettiva e un elevato reddito pro capite. Ma siamo proprio sicuri che la
bussola dello sviluppo e del benessere di una società continui a essere solo
determinata dal Pil (Prodotto interno lordo)?

Da queste considerazioni nasce e si sviluppa la teoria
della decrescita che ne vede precursore l’economista rumeno Nicholas
Georgescu-Roegen in particolare per la sfera ecologica. I sostenitori della
decrescita affermano che la crescita economica – intesa proprio come
accrescimento costante del Pil – non porta a un maggior benessere e che il
miglioramento delle condizioni di vita deve essere ottenuto non con l’aumento
della produzione e del consumo di merci ma con il miglioramento dei rapporti
sociali, umani, della qualità ambientale, della collettività e del tempo
liberato. Le parole di Serge Latouche, principale teorico della corrente, ne
sono lo specchio: «La decrescita non è la crescita negativa. Sarebbe meglio
parlare di “acrescita” […]. D’altra parte si tratta proprio dell’abbandono di
una fede o di una religione (quella dell’economia, del progresso e dello
sviluppo). […] Siamo ancora in tempo per immaginare, serenamente, un sistema
basato su un’altra logica».

Una decrescita che può essere felice solo se non è
subita, se nasce da una scelta consapevole che, se sperimentata, dimostra di
saper dare i suoi buoni frutti.

Questa inchiesta svela che una nuova fetta di umanità si
è già messa in cammino per «reinventare» un modo più critico e consapevole di
esistere. Un percorso inverso, dove recuperare la manualità e le tradizioni può
salvaguardare il proprio destino; dove essere liberi dai condizionamenti
telematici senza risultare disinformati e operare scelte eco-compatibili come
riciclare, riparare, autoprodurre non deve essere l’eccezione ma la regola per
star meglio. Dove, lo spazio per esistere è uno spazio dettato dal dialogo e
non dalla mercificazione dei rapporti. Dove quel «de», davanti al termine «crescita»,
non è svilente ma è la linfa vitale di un altro paradigma: quello della
rinascita di un nuovo umanesimo e della riscoperta di un’economia basata sulla
ragionevolezza.

Gabriella Mancini




Di viaggi e incontri… e anche di cresima e cani

Siamo un po’
tutti nomadi nel cuore. Emancipati dal vincolo dell’agricoltura di sussistenza
che ci legava indissolubilmente alla terra, abbiamo riscoperto quello spirito
nomade che fa parte del nostro Dna ancestrale. Che siano le uscite del fine
settimana, le vacanze estive o quelle invernali, sentiamo il bisogno di
muoverci, di uscire, di conoscere, di vedere: sempre più in là, sempre più
oltre. Per tantissimi invece muoversi non è una scelta, ma una necessità:
emigrare o morire. Interi popoli si muovono ancora oggi per questo. Per noi
Italiani è la fuga dei cervelli. Ma questo è vero non solo per noi: quanti
immigrati approdati sulle nostre coste hanno titoli universitari che non
possono investire nei loro paesi!

C’è invece chi si muove
per piacere e conoscenza. Un paio di secoli fa solo i ricchi potevano
permettersi il lusso di grandi viaggi, di esplorazioni avventurose. La gente
normale vi partecipava leggendone i libri. Così gli africani hanno conosciuto i
primi bianchi: esploratori, gente che andava in giro apparentemente senza una
meta precisa, wazungu appunto (quelli che vanno in giro), come dicono in
kiswahili, la lingua franca dell’Africa dell’Est. Oggi invece è turismo di
massa. Con un aereo si arriva agli antipodi in poche ore. Il mondo è alla
portata di tanti.

Quale incredibile
occasione di incontro, confronto e conoscenza, di creare nuove relazioni, di
aprire i propri orizzonti, di amare la mirabile varietà di facce della razza
umana, di incontrare persone vere. Eppure… quante occasioni perdute, quanta
superficialità, quanta fretta, quanti abusi e incomprensioni. Ci si incontra e
non ci si conosce; non ci si conosce e non ci si capisce; non ci si capisce e
non ci si ama. Dopo il viaggio restano i soliti stereotipi e le foto da
mostrare agli amici: io nel villaggio, io col leone, io col vestito afro, io
con le treccine a foggia indigena, io al mercato. Gli amici si annoiano e non è
cambiato niente.

Diventassero i nostri
viaggi occasione per conoscerci di più, quanti pregiudizi potrebbero cadere. Si
avrebbe il piacere di scoprire che siamo tutti «uomini» e non bestie strane o
alieni, nemici o minacce. Smetteremmo forse di parlare per slogan: «Gli
africani sono tutti…, gli albanesi, i romeni, i napoletani, i romani…». Gli
africani? Quali africani? Quelli del Marocco o del Sudafrica? I pastori Maasai
o gli agricoltori Kikuyu? I Pigmei dell’Ituri o i Boscimani del Botswana? Noi
stessi non amiamo essere classificati con generalizzazioni, soprattutto se
negative. Non vale lo stesso per gli altri? Verrà il giorno in cui parlando dei
nostri vicini potremo dire «il mio amico Li», invece de «i cinesi»; «il signor
Ali» invece de «i marocchini», «la mia vicina Klodiana» invece de «gli Albanesi»?
Sì, può venire. Basterebbe cominciare da cose semplici: farci un amico nuovo
ogni volta che andiamo in un posto nuovo e scambiarci qualche buona ricetta;
imparare una breve preghiera in lingua locale e magari andare a messa insieme
nella parrocchia del posto; conoscere un po’ della storia e cultura. Forse
basterebbero solo fantasia e cuore.

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Stavo
scrivendo queste poche righe, quando una suora è arrivata trafelata con un
bigliettino in mano: «In occasione della mia S. Cresima ho voluto fare un gesto
di amore donando al posto della bomboniera, pappa e cure ai miei amici a 4
zampe». «Non ho dormito tutta la notte», mi ha detto. «Come è possibile dopo
cinque anni di catechesi? Cosa hanno capito? E siamo in un quartiere dove oltre
un terzo della popolazione è a rischio di sfratto, ma con tantissimi cani e ben
curati. Abbiamo parlato con loro di servizio, di carità, di accoglienza, di
condivisione. E mi fanno la “cresima per i cani”! Devi scrivere qualcosa».

Cara sorella, che scrivo?
Lo sa che non è politicamente corretto dire che prima vengono le persone e poi
i cani e che se i cani stanno male è perché gli uomini stanno peggio. Forse
potrei solo constatare che è meno impegnativo risolvere i problemi dei cani che
quelli degli uomini.

Papa Francesco ha detto (il
5/6/2013
) che c’è bisogno di una ecologia umana, perché «la persona umana è
oggi in pericolo, … sacrificata agli idoli del profitto e del consumo: è la “cultura
dello scarto”». Così continuiamo a scrivere che non si tratta di fare una
scelta tra gli uomini e i cani, ma di amare «e l’uomo e il cane»!

Gigi Anataloni