Edith Stein

Santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, è
una delle figure più straordinarie, affascinanti e complesse del ‘900, sia per
la traccia indelebile che, nel solco di Edmund Husserl, ha lasciato nella
storia della filosofia, sia per la sua straordinaria avventura umana e
spirituale, che la portò dall’ateismo alla conversione radicale al
cattolicesimo e alla scelta vocazionale del Carmelo, alla conclusione della sua
esistenza nelle camere a gas di Auschwitz. Nel 1999 Giovanni Paolo II la
dichiarò compatrona d’Europa, insieme alle sante Caterina da Siena e Brigida di
Svezia.


Di fronte a una testimone così
autentica sono un po’ in difficoltà. Innanzitutto ti devo chiamare Edith o con
il nome da carmelitana, Teresa Benedetta?

Rimanendo
in ambito familiare preferisco Edith, anche perché Teresa Benedetta della Croce
è un nome molto impegnativo che suggella un cammino di ricerca della verità che
caratterizza tutta la mia vita.

Edith, dove sei nata? Da che
famiglia provieni? Com’è stata la tua infanzia?

Sono
nata il 12 ottobre 1891 a Breslavia, città della Germania nella regione della
Slesia, ultima di 11 figli di una famiglia della borghesia ebraica cittadina.
Sono nata proprio il giorno di Yom Kippur, la festa ebraica più
importante.

Mio
papà, che aveva un’impresa per il commercio del legname, purtroppo morì quando
avevo solo due anni; mia madre, rimasta sola, donna molto religiosa, caparbia e
tenace, si rimboccò le maniche e riuscì ad accudire la famiglia e a portare
avanti l’azienda. In questo suo spendersi in favore degli obblighi familiari e
delle necessità dell’impresa, non trovò il tempo necessario per infondere a noi
figli una fede vitale.

E così, fosti travolta dagli
eventi familiari e da una prospettiva di vita in cui Dio era assente?

Non
solo smarrii ogni riferimento a Dio, ma durante la mia adolescenza smisi, in
piena coscienza e con libera scelta, di cercare ogni riferimento al
trascendente, al divino, al mistero, quindi cessai di pregare.

E con la scuola come andò?

Bene,
trascorsi i miei anni di gioventù studiando senza fatica; conseguii
brillantemente la maturità, studiai assiduamente germanistica e storia, ma ciò
che mi attirava di più era la filosofia. Per questo, nel 1913 mi recai a Göttingen,
in Sassonia, per frequentare le lezioni universitarie di Husserl, il più
illustre dei filosofi tedeschi del tempo, e ne rimasi letteralmente
conquistata, conseguendo la laurea in filosofia con lui, divenni sua discepola
e sua assistente alla cattedra di filosofia, entrai a far parte inoltre dell’«Associazione
prussiana per il diritto femminile al voto».

Eri una femminista «ante litteram»!

Fatte
le debite proporzioni sì, anche se l’insegnamento di Edmund Husserl aveva il
sopravvento un po’ su tutto il mio modo di pensare.

Ma cos’è che aveva Husserl di
tanto affascinante?

Egli
attirava il pubblico illustrando un nuovo concetto di verità: l’esistenza del
mondo – secondo Husserl – veniva percepita non solo in maniera kantiana, ovvero
quello che noi chiamiamo percezione soggettiva, ma la sua filosofia portava a
una visione molto concreta della vita e della storia, definita come un «ritorno
all’oggettivismo». La conseguenza indiretta del suo modo di intendere
l’esistenza umana fu che molti studenti ritornarono alla (o scoprirono la) fede
cristiana.

Se non erro, gli anni in cui
frequentavi i corsi di Husserl coincisero con l’inizio della Prima Guerra
Mondiale.

È
vero, in quel periodo dedicai molto tempo allo studio universitario, ma lo
scoppio della guerra mi spinse a frequentare un corso di infermieristica e a
prestare servizio in un ospedale militare. Nel 1916 seguii Husserl a Friburgo,
dove conseguii la laurea con una tesi Sul problema dell’empatia,
premiata summa cum laude. Ma di fronte al dramma della guerra, a una
tragedia che toccava tanti uomini e donne, tante famiglie e tanti popoli,
cominciai a leggere per trovare il senso di tutto quello che avveniva nel mio
paese e sullo scenario europeo.

Ritornasti ancora a Breslavia
nella tua città?

Sì,
e mi misi a scrivere saggi di discipline umanistiche e a leggere
disordinatamente tutto quanto mi capitava sotto mano, che avesse in qualche modo
attinenza con la filosofia. Lessi Kierkegaard, Newmann, Ignazio di Loyola…
finché una sera in casa di amici trovai l’autobiografia di santa Teresa
d’Avila, la lessi in una notte, quando richiusi il libro dissi a me stessa: «Questa
è la verità». Qualche anno più tardi, il 1° gennaio 1922, ricevetti il
battesimo e qualche settimana dopo lo comunicai a mia madre. Mi recai a
Breslavia e non appena entrai in casa le dissi: «Mamma, mi sono convertita alla
fede cattolica». Con queste parole mi accorsi che le davo un dispiacere, ma
subito dopo ci abbracciammo piangendo lungamente.

Cosa provavi dopo questo passo,
vivendo una condizione di vita praticamente nuova.

Mano
a mano che Dio si era impossessato del mio cuore, sentivo crescere dentro di me
una forza che mi spingeva a uscire da me stessa per dedicarmi sempre più agli
altri. Un impegno questo che cercavo di svolgere pienamente in ambito
accademico.

Intanto sulla Germania calava una
luce sinistra: l’ideologia nazista che proprio in quegli anni prendeva il potere.

Avvertii
subito l’odio che i seguaci di Hitler nutrivano verso gli ebrei, e l’incessante
ripetere che la razza ariana doveva liberarsi dai corpi estranei della società
tedesca identificati soprattutto in coloro che erano di religione ebraica, mi
fece capire più che mai che dovevo rendere testimonianza non solo della mia
fede, ma anche del popolo a cui appartenevo.

Subisti conseguenze in questo
senso?

Mi
fu tolta la facoltà di insegnamento in tutte le scuole della Germania; dentro
di me avevo preso la decisione di farmi carmelitana. Andai a casa a salutare i
miei e ancora una volta l’incontro con mia mamma fu struggente e pieno di
sofferenza, in quanto lei, donna dell’antico popolo d’Israele, vedeva la figlia
sua entrare a far parte della Chiesa cattolica, una cosa che per quanto si
sforzasse di capire non gli riusciva di intendere pienamente.

Come fu il tuo ingresso tra le
carmelitane.

Il
14 ottobre 1933 entrai nel carmelo di Colonia e il 14 aprile dell’anno successivo
ci fu la cerimonia della mia vestizione. Da quel giorno la mia nuova vita fu
segnata da un nuovo nome: suor Teresa Benedetta della Croce. Il 21 aprile del
1935 presi i voti temporanei. Nel settembre del 1936 mia madre morì e avvertii
chiaramente che l’avevo al mio fianco come fedele assistente per giungere alla
meta, il cui traguardo lei aveva già superato. Il 21 aprile 1938 feci la mia
professione perpetua con voti solenni; per l’occasione feci stampare
sull’immaginetta distribuita ai presenti le parole di san Giovanni della Croce:
«La mia unica professione d’ora in poi sarà l’amore».

Un programma di vita impegnativo
di fronte all’odio contro gli ebrei che divampava in Germania e in gran parte
d’Europa, alimentato dalla propaganda nazista.

Sì!
Effettivamente i nazisti fecero di tutto per annientare il popolo di Israele,
bruciarono sinagoghe, rinchiusero gli ebrei nei ghetti e sparsero terrore fra
la mia gente. Per questo i superiori decisero che non potevo più stare in
Germania: la notte di capodanno del 1938 fui portata nel monastero delle
carmelitane di Echt, in Olanda. Lì non si respirava la tensione che c’era in
Germania, ma quando l’Olanda venne invasa dalle truppe naziste si ripresentò il
volto truce e demoniaco della svastica. Presi così coscienza che dovevo
compiere fino in fondo la volontà di Dio con una «Scientia crucis» (la
scienza della croce) che aveva caratterizzato il mio nome dal momento
dell’entrata nel Carmelo. Dal profondo del cuore pronunciavo incessantemente: «Ave,
Crux, spes unica
» (ti saluto, croce, nostra unica speranza).

A Echt ti raggiunse tua sorella
Rosa che, seguendo le tue orme, si era convertita al Cattolicesimo ed era
diventata Carmelitana.

Sì!
Ma fummo scovate dai nazisti, i quali irruppero il 2 agosto 1942 nel nostro
monastero e ci avviarono al campo di raccolta di Westerbork, da dove il 7
agosto fummo messe sul treno insieme a migliaia di altri deportati destinati
alle camere a gas di Auschwitz.

E ad Auschwitz fosti inghiottita
dall’olocausto che si compiva sul popolo d’Israele.

Giunta
ad Auschwitz mi prodigai per tutte le persone del mio popolo che erano in preda
alla disperazione e allo sconforto. Mi occupai soprattutto delle donne,
consolandole, cercando di calmarle e avendo cura dei più piccoli.

Il
9 di agosto suor Teresa Benedetta della Croce, insieme a sua sorella Rosa e a
molti altri ebrei, venne avviata alle camere a gas del campo di sterminio, dove
trovò la morte, una sorte toccata a sei milioni di ebrei e che noi oggi
ricordiamo col termine Shoah.

Ebrea
per nascita, cristiana per scelta, dopo un lungo cammino di ricerca, elevandosi
alle più alte vette della spiritualità delle due religioni che tanto avevano
inciso nella sua esistenza, è diventata esempio affascinante e luminoso per
quanti cercano la verità con amore tenace e coraggioso. Il 1° maggio 1987
Giovanni Paolo II nel duomo di Colonia, nella cerimonia liturgica di
beatificazione dichiarò che era: «Una figlia d’Israele, che durante le
persecuzioni dei nazisti è rimasta unita con fede e amore al Signore crocifisso
Gesù Cristo, quale cattolica, e al suo popolo, quale figlia d’Israele”.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Faccia da poker: il gioco d’azzardo (seconda parte)

Giocare
d’azzardo può diventare molto pericoloso. Per sé, per i propri familiari, per
la società. Come si diventa «malati di gioco»? Chi è più a rischio? Come si può
guarire?

Poker Face, faccia da poker. Il titolo della famosissima canzone
di Lady Gaga sintetizza in due sole parole gli aspetti, che caratterizzano un
giocatore incallito. Certamente si tratta di un’esagerazione, poiché
esteriormente non ci sono elementi per distinguere un giocatore da chi non
gioca, tuttavia diversi studi sociologici, psicologici e neurobiologici hanno
permesso di individuare nei giocatori compulsivi precise caratteristiche che li
distinguono da coloro che non giocano o che giocano senza dipendenza.

Più perdi, più giochi

Per conoscere meglio i comportamenti legati
al gioco ed alle altre dipendenze degli italiani, nel biennio 2007-08 è stato
condotto a livello nazionale lo studio Ipsad (Italian Population Survey on
Alcohol and other Drugs
), un’indagine statistica («di prevalenza»)
effettuata mediante la distribuzione di un questionario per raccogliere
informazioni sui comportamenti di dipendenza (addiction) nella
popolazione generale, secondo gli standard metodologici definiti dall’«Osservatorio
europeo sulle droghe e tossicodipendenze» (Emcdda) di Lisbona. In particolare
per quanto riguarda il gioco sono state raccolte informazioni sull’abitudine a
giocare denaro, sull’intensità della propensione al gioco, sul «gioco d’azzardo
patologico» (Gap, o ludopatia), secondo la scala Canadian Problem Gambling
Index Short Form
. Da questa indagine è emerso che il giocatore una
tantum
è uomo, tra i 25 ed i 44 anni, con un livello di istruzione medio
alto, vive da solo o con amici e ha un lavoro affermato (imprenditore
dirigente, ecc). Giocano meno le casalinghe, i pensionati e le persone con
figli oppure i commercianti e i liberi professionisti. Sostanzialmente è emerso
che un livello socio-economico alto è maggiormente associato al gioco
d’azzardo. Però sono le persone con un basso livello economico ad essere più
frequentemente giocatori problematici. Sono inoltre state riscontrate
significative correlazioni tra il gioco d’azzardo ed il consumo di alcol, di
fumo e/o di droghe. Inoltre il gioco è spesso associato a varie tipologie di
comportamento aggressivo e talora alla pregressa perdita di denaro o di oggetti
di valore.

Nello studio è stato chiesto alle persone
quanto disapprovino chi gioca e quanto pensino sia rischioso giocare. Si è
visto che nei giocatori è presente una minore percezione del rischio del gioco
e una minore disapprovazione.

Un fenomeno diffuso è la «rincorsa della
perdita», cioè molti giocatori problematici tornano spesso a giocare per
tentare di recuperare il denaro perso.

Per quanto riguarda la diffusione
dell’abitudine al gioco a livello nazionale, si gioca di più nel Sud Italia,
soprattutto in Molise, Campania e Sicilia, mentre le regioni in cui si gioca
meno sono risultate la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige. 

Tra i giochi, che vanno per la maggiore, le
macchine elettroniche (slot machines) rappresentano quasi la metà del
comparto dei giochi pubblici e sono seguite, come volume d’affari, dal
superenalotto, dalle lotterie istantanee e telematiche, dalle scommesse
sportive ed infine dal bingo.

Chi gioca

La partecipazione a diverse tipologie di
giochi per un giocatore è risultata essere un forte indizio di gioco d’azzardo
patologico già in atto o futuro.

Si è visto inoltre che i giochi che
foiscono un feedback immediato attraggono maggiormente rispetto agli
altri, quindi danno più facilmente dipendenza. Tra questi sicuramente vanno
annoverati i videopoker, che presentano due importanti caratteristiche: in
primo luogo, l’affrettata ripetitività del tentativo successivo, che non
consente di rielaborare il gioco precedentemente effettuato ed in secondo
luogo, l’esiguità della singola giocata, che abbassa la soglia di percezione
del danno derivante dal gioco.

Come già spiegato (Gratta e perdi,
MC, maggio 2013), un’analoga indagine, denominata Espad (European
School  Survey Project on Alcohol and
Other Drugs
: www.espad.org) è stata effettuata sugli studenti italiani
delle scuole superiori. In questo studio è stato osservato che i ragazzi con
comportamenti a rischio (uso o abuso di sostanze psicoattive, legali e non;
rapporti sessuali non protetti, ecc.), quelli che hanno avuto guai con le forze
dell’ordine o che spendono più di 50 euro la settimana senza il controllo dei
genitori, hanno maggiori probabilità di diventare giocatori problematici. Altre
caratteristiche favorenti il vizio del gioco tra i giovani sono: avere amici o
fratelli, che fanno uso di alcol e/o droghe, andare spesso in giro con amici,
giocare con frequenza col Pc ed i videogiochi, navigare in internet, uscire
spesso la sera, stare davanti alla tv più di 4 ore al giorno, avere perso più
di 3 giorni di scuola nell’ultimo mese senza motivo, essere stati coinvolti in
incidenti, avere avuto gravi problemi nei rapporti con i genitori o con gli
insegnanti, essere fumatori, avere avuto un rendimento scolastico scadente. Per
contro, sono meno a rischio di diventare giocatori i ragazzi con genitori, che
sanno con chi escono i figli, quelli che leggono per piacere, che praticano
hobbies, che si prendono cura della casa, di persone o animali, che sono
soddisfatti del proprio rapporto con i genitori e della propria situazione
finanziaria.

Il giocatore patologico

Già nel 1980 il «gioco d’azzardo patologico»
è stato inserito dall’Apa (American Psychiatric Association) nel «Manuale
statistico e diagnostico dei disturbi mentali» (Dsm lll), come una vera e
propria malattia psichiatrica classificata tra i disturbi del controllo degli
impulsi. Nel manuale successivo, il Dsm IV, per definire il giocatore
patologico vengono proposti i seguenti criteri diagnostici, dei quali almeno 5
devono essere contemporaneamente presenti: 1) il soggetto è eccessivamente
assorbito dal gioco d’azzardo (è impegnato continuamente a rivivere le passate
esperienze di gioco, a pianificare le future ed a procurarsi il denaro
necessario); 2) deve giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo
stato di eccitazione desiderato; 3) ha più volte tentato di ridurre o
interrompere il gioco d’azzardo senza successo; 4) è irrequieto o instabile,
quando tenta di ridurre o interrompere il gioco; 5) gioca d’azzardo per
sfuggire i problemi o alleviare un umore disforico (stati d’ansia, di colpa,
d’impotenza, di depressione); 6) mente ai propri familiari o al terapeuta, per
minimizzare il proprio coinvolgimento nel gioco; 7) ha commesso azioni illegali
come furto, frode, falsificazione, appropriazione indebita allo scopo di
procurarsi il denaro necessario per giocare; 8) ha messo a repentaglio o perso
una relazione importante, il lavoro, la carriera o lo studio per il gioco; 9)
fa affidamento sugli altri per alleviare una situazione economica disperata
causata dal gioco, senza peraltro essere in grado di restituire le somme
ottenute in prestito.

Dentro la malattia

Alcuni studi attribuiscono un ruolo
fondamentale all’impulsività del giocatore, sottolineando una correlazione tra
il Gap e le disfunzioni del controllo degli impulsi. Secondo altre ricerche il
Gap deve essere visto come una vera e propria dipendenza, intesa come un
assoggettamento fisico dell’individuo da parte di una sostanza, che agisce e
modifica il funzionamento chimico dell’organismo. Dato che in questo caso la
sostanza non c’è, ci troviamo di fronte ad una dipendenza senza droga. Secondo
il primo gruppo di studi, il comportamento compulsivo presente nel Gap è una
malattia con basi neuro-fisio-patologiche che colpisce persone particolarmente
vulnerabili per la presenza di fattori individuali, amplificati e slatentizzati
(fatti emergere) da fattori socio-ambientali (si pensi agli stimoli
addizionali, che vengono messi all’interno delle sale da gioco e dei casinò: le
luci, la musica, gli ambienti eccitanti, l’alcol, le evocazioni sessuali). Tra
i fattori individuali vi sono importanti modificazioni dei sistemi cerebrali
come la corteccia pre-frontale (responsabile del controllo dei comportamenti
volontari), la corteccia orbito-frontale ed il giro cingolato (responsabili con
la corteccia pre-frontale del craving, vedi Glossario), il nucleo
accumbens (sistema della gratificazione), il sistema degli oppioidi
endogeni (implicato nella regolazione dell’ansia), l’amigdala estesa
(importante drive dei comportamenti aggressivi e delle sensazioni legate
alla paura), il sistema della memoria residente prevalentemente nell’ippocampo,
che è adibito alla memorizzazione del feedback (l’effetto di un atto o
di un comportamento su colui che l’ha compiuto). Inoltre l’ippocampo è
responsabile della memorizzazione delle decisioni volontarie, della magnitudo e
della durata della gratificazione correlata allo stimolo, della magnitudo e
della durata dell’effetto derivante dal gioco sull’ansia, sulla depressione,
sulla noia e sull’aggressività. In esso vengono anche memorizzati gli impulsi
attivanti il drive emozionale; la memoria stessa può da sola attivare il
drive mediante l’evocazione di ricordi, pensieri e situazioni correlati al
gioco d’azzardo. Infine un’altra struttura molto importante implicata nel
sistema motivazionale è il talamo. Il Gap è anche legato all’importanza che uno
stimolo assume per una persona rispetto al resto. Si è visto infatti che in un
cervello, che ha sviluppato dipendenza, la salienza (importanza attribuita a un
fatto) è estremamente alta rispetto alla norma. In pratica, la persona
dipendente focalizza la sua vita quasi esclusivamente sulla ricerca dello
stimolo, che ritiene particolarmente importante o addirittura essenziale.

Oltre alle caratteristiche neurostrutturali,
l’individuo presenta un sistema cognitivo, che si modifica costantemente e si
adatta alle condizioni socio-ambientali, attraverso lo sviluppo di credenze che
sono capaci di orientare fortemente le sue scelte ed il suo comportamento. Tali
credenze, nelle persone affette da Gap, tendono a sconfinare in vere e proprie
distorsioni cognitive, che si sviluppano nel tempo e sono in grado di fissare
il comportamento, nonché di reiterare e rendere permanente la dipendenza.
Queste persone presentano perciò una minore flessibilità mentale (in
particolare nella riformulazione e nell’uso di nuove strategie cognitive) e un
ridotto grado di apprendimento su come operare scelte vantaggiose. La presenza
di una minore flessibilità delle attività cerebrali è stata documentata da
studi di elettroencefalografia, che hanno evidenziato alterazioni importanti
dell’attività cerebrale, che porterebbero a perseverare nell’attività del gioco
d’azzardo, nonostante le conseguenze negative.

Studi di risonanza magnetica funzionale
hanno inoltre evidenziato che nei pazienti affetti da Gap, durante
l’aspettativa della vincita si manifesta un’accresciuta attività del sistema di
ricompensa, mentre dopo la vincita risulta minore, rispetto alla norma,
l’attività nelle aree della gratificazione. E durante il gioco c’è una minore
attivazione delle aree di controllo. Questo sbilanciamento nei giocatori
patologici può fare continuare il gioco d’azzardo.

Le alterazioni neurobiologiche che sono alla
base del Gap sono strettamente correlate all’alterazione dei sistemi di
produzione e di rilascio di vari neurotrasmettitori: dopamina (alti livelli
post-stimolo indicano maggiore effetto gratificante del gioco, rispetto ad
altri stimoli), noradrenalina (alti livelli post-stimolo comportano
intensificazione dell’eccitazione e della ricerca di sensazioni forti),
serotonina (bassi livelli post-stimolo indicano disturbi del controllo degli
impulsi da parte della corteccia pre-frontale), oppioidi endogeni, cioè
beta-endorfine (bassi livelli post-stimolo comportano alterazioni della
ricompensa, del piacere e della sofferenza). Vari studi sperimentali hanno
dimostrato che esiste una base genetica per la disregolazione di questi
neurotrasmettitori.

Elementi neurobiologici  e colpe dello stato

Sulla base delle prove scientifiche sommariamente ricordate, è
evidente che esistono persone più vulnerabili di altre, per le loro
caratteristiche neurobiologiche, quindi a maggiore rischio di dipendenza da
gioco o da sostanze psicoattive. Tali persone dovrebbero essere particolarmente
tutelate dallo stato, che invece è quanto meno corresponsabile della loro
ludopatia, avendo deciso di rimpinguare le proprie casse con i proventi del
gioco d’azzardo.

Rosanna Novara Topino
 

Tipi di Gioco

• Slot machine
• Videopoker
• Giochi da casinò (roulette, giochi di carte, ecc.)
• Gratta e vinci, Nevada, Scopri il numero
• Scommesse sportive (su corse ippiche, partite di calcio,
golf, biliardo)
• Speculazioni sui titoli di borsa
• Keno
• Lotterie
• Bingo
• Tombola

 TIPOLOGIE DI
GIOCATORI D’AZZARDO

• Giocatore sociale: che sa governare gli impulsi
distruttivi, usa il gioco come attività ricreativa e di socializzazione.
• Giocatore problematico: usa il gioco per sfuggire ai
problemi.
• Giocatore patologico: a causa di problemi psichici gioca
per distruggere inconsciamente se stesso e gli altri.
• Giocatore patologico impulsivo/dipendente: è mosso da
impulsi irrefrenabili nell’attività di gioco. 

LE FASI DELLA PATOLOGIA

• Fase vincente:
il gioco è occasionale, con vincite iniziali, che motivano a giocare in modo
crescente, spesso grazie alla capacità del gioco di produrre piacere e di
alleviare tensioni e stati emotivi negativi.

• Fase perdente:
caratterizzata dal gioco solitario, da più denaro investito nel gioco, dalla
nascita di debiti, dalla crescita del pensiero relativo al gioco e del tempo
speso a giocare.

• Fase di
disperazione:
aumenta ulteriormente il tempo dedicato al gioco e
l’isolamento sociale conseguente. I problemi lavorativi, scolastici, familiari
ed economici si ingigantiscono e talora sono la causa di tentativi di suicidio.

• Fase critica:
nasce il desiderio di aiuto, la speranza di uscire dal problema e vengono fatti
tentativi di risoluzione dei problemi lavorativi e socio-familiari.

• Fase di
ricostruzione:
si intravedono miglioramenti nella vita familiare, nella
capacità di pianificare nuovi obiettivi e nell’autostima.

• Fase di crescita:
in cui si sviluppa maggiore introspezione e un nuovo stile di vita lontano dal
gioco.

          GLOSSARIO                                                                 

Beta-endorfine
(oppioidi endogeni): sono sostanze chimiche prodotte dal cervello e dotate di
una potente attività analgesica ed eccitante. La loro azione è simile a quella
della morfina e delle altre sostanze oppiacee. Vengono sintetizzate anche
nell’ipofisi, nel surrene e in alcuni tratti dell’apparato digerente e hanno i
loro recettori in varie zone del sistema nervoso centrale, soprattutto nelle
aree deputate alla percezione dolorifica.

Craving: è un
forte e irresistibile bisogno di assumere una sostanza (o di tenere un certo
tipo di comportamento, come nel caso del gioco). È un desiderio compulsivo, che
diventa fortissimo e irrefrenabile e, se non soddisfatto, può provocare
sofferenza psicologica e fisica, ansia, insonnia, aggressività e altri sintomi
depressivi. Può esserci anche in assenza di dipendenza fisica e può comparire
anche nel momento in cui la persona rientra in contatto con la sostanza oppure
torna in un luogo frequentato quando era dipendente.

Dopamina: è un
neurotrasmettitore della famiglia delle catecolamine. Viene prodotta in diverse
aree del cervello ed è anche un neuro-ormone rilasciato dall’ipotalamo. La sua
principale funzione come ormone è l’inibizione del rilascio di prolattina da
parte dell’ipofisi anteriore, mentre nel cervello ha un ruolo importante in:
comportamento, cognizione, movimento volontario, motivazione, punizione e
soddisfazione, sonno, umore, attenzione, memoria di lavoro e di apprendimento.
Agisce inoltre sul sistema nervoso simpatico, determinando accelerazione del
battito cardiaco e aumento della pressione sanguigna.

Drive emozionale /
amigdala:
funzione di controllo delle emozioni (in particolare della paura)
esercitata dall’amigdala, struttura facente parte del sistema limbico e
localizzata nella parte anteriore del lobo temporale mediale dei due emisferi
cerebrali.

Ippocampo:
struttura cerebrale localizzata nella parte mediale del lobo temporale e
facente parte del sistema limbico. Svolge un ruolo importante nella memoria a
lungo termine e nell’orientamento spaziale.

Noradrenalina:
detta anche norepinefrina, è un ormone sintetizzato dalla midollare del
surrene, ma è anche un neurotrasmettitore prodotto dal sistema nervoso centrale
e simpatico (fibre post-gangliari).

Serotonina: è un
neurotrasmettitore sintetizzato dai neuroni serotoninergici del sistema nervoso
centrale e delle cellule enterocromaffini dell’apparato gastrointestinale. È
principalmente coinvolta nella regolazione dell’umore, del sonno, della
temperatura corporea, della sessualità e dell’appetito. La serotonina è
coinvolta in numerosi disturbi neuropsichiatrici come l’emicrania, il disturbo
bipolare, la depressione e l’ansia. Alcune sostanze stupefacenti come le
amfetamine e l’Mdma in particolare agiscono su questo neurotrasmettitore,
inibendone l’assorbimento. Ciò comporta un accumulo di serotonina nel cervello,
dando luogo, per il tempo dell’effetto della sostanza, a uno stato di
entusiasmo e benessere.

Talamo: è una
struttura situata anteriormente al tronco cerebrale. In esso si trovano nuclei
di sostanza grigia (neuroni) e fibre nervose connesse a grandi aree della
corteccia cerebrale, che esso eccita, attivando la funzione elaborativa dei
contenuti emozionali percepiti dal sistema limbico, con cui è anche connesso.

 
ECCO CHI AIUTA
• Piemonte
Comunità Terapeutica «Lucignolo & Co.», Via Roma 30,
Rivoli (To): Tel. 011 9584849 – Fax: 011 9533056  – 
asl5.ct.rivoli@sert.piemonte.it.

Asl To3, Dipartimento «Patologia delle dipendenze», Viale
Martiri XXX Aprile, 30 Collegno (To);  Tel.
011 4017546 –  Fax: 011 4017480

• Toscana

Sert Arezzo, II Dipartimento delle Dipendenze di Arezzo c/o
, Via Fonte Veneziana 17, Arezzo; Tel. 0575 255943 – Fax: 0575 255942

• Trentino Alto Adige
Siipac, «Società italiana intervento patologie compulsive»,
Via Siemens 29, Bolzano:
Sito: www.siipac.it – E-mail: info@siipac.it

• Veneto

Sert di Mestre, Via Calabria 17, Mestre (Ve), Tel. 041
5440526/31

Sert di Castelfranco Veneto, Via Ospedale, 18 c/o Ospedale  Castelfranco Veneto (Tv) Tel. 0423 732736
La Bussola, Piazza Niello 1, Legnago (Vr), Tel. 349 5826279

• Lazio
Studio Krisis, Roma: www.studiokrisis.it

• Puglia

«Associazione Giocatori Anonimi» c/o Parrocchia San Sabino
di Bari, Tel. 333 6513285

• Sardegna

Sert Cagliari c/o Asl 8 Sardegna, Cagliari, Tel. 070
6096310-6096322

ASSOCIAZIONI

Alea, «Associazione
per lo studio del gioco d’azzardo e del comportamento a rischio».
Associazione Orthos (Siena, Milano, Trieste, Roma).

SITI WEB

• Sos azzardo:
www.sosazzardo.it 
• Associazione
giocatori anonimi:
www.giocatorianonimi.org

 

Rosanna Novara Topino




Micro è bello (e fa bene)

Il 2 luglio del 1971 Paolo VI istituisce la Caritas
Italiana, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana per la
promozione della carità, che formalizza e lancia uno strumento di fatto
presente dal 1969: la microrealizzazione. Oggi, quarantadue anni dopo, le
microrealizzazioni portate a termine sono oltre tredicimila. Viaggio alla
scoperta di un’idea di solidarietà che continua a godere di ottima salute.

Micro azioni per macro valori

1967
– 1970: guerra del Biafra.
Le immagini e le storie di
milioni di persone colpite dal conflitto e dalla fame nella regione
sudorientale della Nigeria fanno il giro del mondo. L’entusiasmo per la
stagione della decolonizzazione – inaugurata nel 1946 in Medio Oriente da
Libano e Siria e nel Sudest asiatico dalle Filippine, mentre a Sud del Sahara
il primato spetta al Ghana di Kwame Nkrumah nel 1957 – lascia progressivamente
il posto alla presa di coscienza che nuovi drammi e crescente povertà stanno
soffocando il sogno di un’umanità pacificata e incamminata verso un avvenire di
benessere e pace per tutti dopo l’immane tragedia della seconda guerra
mondiale.

Il
Terzo mondo, termine che fino a quel momento aveva indicato quasi asetticamente
il blocco di paesi diversi da quelli aderenti alla Nato o al Patto di Varsavia,
diventa sinonimo di povertà, fame e sottosviluppo.

È
in questo contesto che sui bollettini Italia Caritas appaiono analisi in cui si
denuncia che il 30% dell’umanità dispone dell’85% delle risorse, si afferma che
«i poveri non ce la fanno da soli», che la risposta agli squilibri e
ineguaglianze può venire non solo da grandi interventi e cospicui investimenti
ma anche da piccole opere che incidano sul quotidiano e, infine, che nelle
comunità donatrici, così come in quelle riceventi, occorre un impegno politico
nutrito dalla conoscenza dettagliata delle realtà disagiate per intervenire
davvero sulle cause strutturali e non solo sui sintomi della povertà. La rete
che rende possibile la comunicazione fra le comunità è costituita da Caritas
italiana, Caritas diocesane e parrocchiali, che fanno da ponte fra i gruppi
umani coinvolti nel Nord e nel Sud del mondo e favoriscono uno scambio in
entrambe le direzioni.

La
microrealizzazione, recita il sussidio «Micro azioni per macro valori» della
Caritas (EDB, 2011), si configura come «la messa in opera, in loco, di
un’iniziativa intesa a risolvere con rapidità alcuni bisogni contingenti di una
piccola comunità» e «destinata a sviluppare sul piano umano e sociale il
livello di vita delle persone, delle comunità e quindi di tutto il territorio».
Dal punto di vista di chi dona, non si tratta di semplice «slancio emotivo e
contingente», ma di «crescita nella comprensione della carità che […] è sempre
necessaria come stimolo e completamento della giustizia». Ecco perché gli
elementi fondanti della microrealizzazione (termine sostituito progressivamente
dalla più «tecnica» definizione di «microprogetto») sono la relazione solidale
diretta fra due comunità – una, nel Sud del mondo, che chiama, e una, nel Nord,
che risponde – e l’educazione alla mondialità, che fornisce quelle informazioni
e conoscenze grazie alle quali si supera l’elemento puramente emotivo e si
percepisce la solidarietà come impegno nei confronti di altri inquilini della «casa
comune»: il mondo. Tutti siamo responsabili di tutti, scrive Giovanni Paolo II
nell’enciclica Sollicitudo rei socialis del 1987, come a voler
sintetizzare proprio questa idea.

Il
povero, dunque, non è più qualcuno che passivamente riceve aiuto e assistenza,
ma una persona che realizza la sua dignità in una comunità capace di individuare
i propri problemi, proporre soluzioni e mettersi in contatto con un’altra
comunità in grado di mobilitare le risorse necessarie per attuare quelle
soluzioni, in una collaborazione il cui obiettivo è quello di liberare dal
bisogno, di riparare la barca comunitaria e non solo di tamponare
temporaneamente una falla. Questa spinta dal basso è concepita come elemento
fondamentale anche nel determinare le scelte dall’alto: la consapevolezza dei
meccanismi alla base della povertà, da un lato, e la partecipazione attiva
all’individuazione delle soluzioni, dall’altro, hanno il potenziale di indurre
anche una serie di comportamenti diversi quanto a stili di vita e scelte
politiche dei cittadini e elettori, nel Nord come nel Sud del mondo. Nel
microprogetto, insomma,
carità e giustizia trovano la loro sintesi, sintesi che in tempi più recenti ha
cominciato a concretizzarsi anche attraverso la microfinanza, in particolare il
microcredito: questo tipo di intervento è forse quello che più di tutti
valorizza il beneficiario come persona titolare di diritti e in grado di
assumersi responsabilità di fronte alla propria comunità, che si impegna a
garantire per il singolo coprendo collettivamente i costi di un mancato
rimborso del credito. Non solo. La microfinanza porta con sé una critica
all’attuale economia disumanizzata e incurante dei diritti della persona: la
garanzia, infatti, non è data da un bene che il beneficiario mette a copertura
del credito ricevuto (ad esempio attraverso un’ipoteca sulla casa), ma viene
dal rapporto di fiducia fra il beneficiario e la comunità e fra questa e la
comunità donatrice. L’obiettivo della microfinanza è quella di permettere ai
soggetti cosiddetti non bancabili (che, cioè, non potrebbero avere accesso al
credito delle banche) di disporre comunque di un fondo con cui avviare
un’attività. Tale attività, poi, non ha il solo scopo di garantire il benessere
del beneficiario, ma di migliorare la condizione collettiva di una comunità e
di includere ulteriori persone nell’accesso al credito. La più che
quarantennale esperienza delle microrealizzazioni dimostra che sono proprio gli
anelli più deboli della catena comunitaria ad aver risposto in modo più
soddisfacente alla proposta della microfinanza e ad essee valorizzati: le
donne e i giovani emarginati.

Missioni Consolata Onlus e i microprogetti

Il
microprogetto ha un vantaggio fondamentale rispetto agli altri, più estesi e
complessi, progetti di cooperazione allo sviluppo: è concreto, immediato e più
facilmente gestibile. In un contesto come quello missionario in cui il grado di
conoscenza dei «nuovi» strumenti di solidarietà (nuovi rispetto alla più
classica forma della donazione da parte di un benefattore) varia molto da
contesto a contesto e da missionario a missionario, il microprogetto è il modo
più efficace per coniugare semplicità e rigore e per consentire alle comunità
di acquisire dimestichezza con lo strumento del progetto.

Missioni
Consolata Onlus collabora con Caritas da anni. Solo dal 2010 a oggi sono
quattordici i progetti dei missionari della Consolata che Caritas ha sostenuto
in Africa, Asia e America Latina. Ne passiamo brevemente in rassegna alcuni,
quelli che meglio permettono di illustrare i diversi tipi di intervento.

Il
progetto Emergenza zud ha permesso di assecondare lo sforzo dei
missionari nel sostenere le comunità colpite nel 2010 in Mongolia da un’ondata
anomala di gelo che aveva messo in ginocchio migliaia di persone e il bestiame
da cui queste dipendevano. Si è trattato di un tipo di intervento contemplato
da Caritas, quello appunto di risposta alle emergenze, che però riserva fin da
subito un occhio attento al «dopo» per non creare dipendenza nelle popolazioni
soccorse e per ideare fin da subito strategie di stabilizzazione post-crisi
umanitaria.

Il
progetto Avvio di un allevamento di capre a Monte Santo, Bahia
(Brasile) è un esempio di attività generatrice di reddito impeiata
sull’acquisto e distribuzione di capre a un gruppo di famiglie locali, che si
sono impegnate a fornire come contributo locale i serragli per il bestiame. Nel
medio periodo, l’intenzione è quella di passare dalla produzione di latte per
l’autoconsumo alla vendita a una cornoperativa locale che produce latticini.

Il
progetto Formazione professionale delle ragazze di Bisengo Mwambe,
Kinshasa (RD Congo) ha permesso a sessantadue ragazze congolesi di ricevere
formazione in sartoria e disporre delle macchine da cucire e della stoffa
necessarie per la pratica e la produzione, a fine corso, di manufatti per la
vendita.

Chiara Giovetti

 
L’Opinione
 


Tre domande a Francesco Carloni,


di Caritas Italiana

1. Puoi fare uno o più esempi di microprogetti «di successo»,
cioè piccoli progetti che più di altri hanno generato nella comunità ampie
ricadute innescando meccanismi di consapevolezza e volontà di elaborare autonomamente
soluzioni ai problemi della comunità stessa?

Il primo microprogetto di sviluppo, finanziato e realizzato
nel giugno del 1970, riguardava l’acquisto di materiale e attrezzatura
sanitaria per un reparto di pediatria a Maracha in Uganda; quel piccolo
intervento fu determinante per accreditare l’ospedale nel più vasto circuito
della sanità del paese. Nel 2013 l’ospedale è ancora funzionante, a pieno
regime. Da allora, senza soluzione di continuità, sono stati finanziati oltre
tredicimila microprogetti in quasi tutti i paesi e in oltre la metà delle
diocesi del mondo. Durante questo lungo percorso di cooperazione con le chiese
e le comunità locali, tanti sono stati gli ambiti di bisogno che sono stati
oggetto di microprogetto. Oltre ai tradizionali settori d’intervento, come
l’acqua, l’agricoltura, la sanità, negli ultimi anni molte delle richieste
pervenute hanno avuto come oggetto il lavoro.

Mi chiedi alcuni esempi: in Paraguay, con un finanziamento
di 3.200 euro, 15 famiglie indios trasferitesi a Ciudad del Este hanno
acquistato 10 carretti per intraprendere autonomamente la raccolta di carta e
ferro ottenendo in pochi mesi un aumento significativo del proprio reddito. In
Guinea Conacry, con 4.500 euro, 50 detenuti della prigione di Zérékoré hanno acquistato
attrezzature e materiali per avviare un laboratorio che produce sapone per il
mercato locale. In Vietnam 200 famiglie, con 5.000 euro, hanno potuto
acquistare 35 kg di semi di riso per riprendere la produzione nelle loro risaie
devastate da un tifone: la solidarietà vicendevole permette loro oggi di
congiungere la produzione per la vendita e la ridistribuzione dei semi.

2. L’educazione alla mondialità è fondamentale, specialmente
oggi, ma a volte rischia di raggiungere solo gli addetti ai lavori e chi già ha
sviluppato questo tipo di sensibilità. Che cosa si può fare per raggiungere
fasce sempre più ampie di cittadini e come la si può «raccontare» in modo che
emerga in modo comprensibile a tutti la sua rilevanza nell’oggi?

Per uscire dalla «cerchia degli addetti ai lavori» una
strada, che ritengo vincente oggi, è quella di riproporre con forza, a tutti
gli uomini di buona volontà, dei segni concreti che riportino la dimensione
della mondialità a essere trasversale e strettamente connessa alle azioni di
solidarietà internazionale e tutela dei dritti: significa costruire, proporre,
realizzare progetti «parlanti».

3. Una domanda scomoda: che cosa risponderesti a chi dice
che i microinterventi rischiano di essere delle «pezze» che tengono
faticosamente insieme nell’immediato delle realtà nel Sud del mondo? Non pensi
che richiederebbero un ripensamento molto più ampio circa le dinamiche alla
base della povertà, dell’ingiustizia, dell’esclusione e un cambio di rotta più
netto (specialmente da parte delle élites politiche locali) nella direzione di
una più equa distribuzione della ricchezza?

Rispondo che l’efficacia di un microprogetto di sviluppo
pensato, progettato e realizzato dagli stessi soggetti che si trovano in un
determinato bisogno, ha fin dalla sua fase di studio la stessa altissima
possibilità di successo di un grande progetto, che in fondo è costituito da
tanti microprogetti. La costruzione di risposte dal basso, pensate da chi ne
dovrà beneficiare, rappresenta in tutte le parti del mondo, oggi in particolar
modo, non una «pezza» ma un vestito di tessuto pregiato, il pregio derivando
dal fatto che trama e ordito sono un originale intreccio di peculiarità,
conoscenze e «voglia di fare» locali. (C. Gio.)


Chiara Giovetti




Quando l’islamofobia è buddhista

Riflessioni e fatti sulla libertà
religiosa nel mondo – 11
In Myanmar si registrano centinaia di musulmani uccisi e decine
di migliaia sfollati. Recenti episodi di vessazioni anti islam si sono
verificati in Sri Lanka. Anche la voce autorevole del Dalai Lama si è alzata
per condannare le violenze e implorare i monaci buddhisti dei due paesi, benché
non appartenenti al buddhismo tibetano: «Uccidere le persone in nome della
religione è davvero molto triste, impensabile». E il rischio di una reazione uguale e opposta in
altri paesi a maggioranza islamica cresce.

Da un anno, la violenza ha
sostituito un difficile «status quo» nei rapporti tra maggioranza buddhista e
minoranza musulmana in Myanmar. Prima ha colpito i Rohingya, minoranza etnica
che abita prevalentemente nello stato Rakhine, al confine con il Bangladesh, a
cui il governo birmano non riconosce alcuna cittadinanza, e poi le sparse ma
attive comunità islamiche di antica presenza e di piena cittadinanza. I
Rohingya, circa 800mila in Myanmar e 300mila nei campi profughi in Bangladesh,
rappresentano una delle tante «questioni» irrisolte di un paese sottoposto fino
a due anni fa a un regime militare autoreferenziale e intransigente che pare
oggi avviato verso una concreta apertura alle istanze di libertà, benessere e
diritti. I musulmani locali, in parte arrivati in Myanmar con l’esperienza
coloniale britannica, in parte convertiti dal buddhismo nei secoli scorsi, sono
oggetto di una campagna di odio che fa leva sull’islamofobia ma anche sulla
rivalità economica tra le comunità.

In modo inatteso – e nel sorprendente silenzio dei personaggi e
movimenti che stanno guidando la nazione fuori da una delle più gravi
repressioni della storia modea – la nuova realtà politica e istituzionale del
paese ha portato immediatamente in superficie tensioni latenti, ma anche un impensato
nazionalismo e la xenofobia di una parte della comunità buddhista e della
stessa leadership monastica.

Anche in Sri Lanka

Dalla parte opposta del golfo del Bengala, una situazione meno
radicale ma simile nei presupposti sta interessando lo Sri Lanka. Qui, la fine
della guerra civile nel maggio 2009, con la sconfitta della guerriglia espressa
dalla minoranza tamil, ha di fatto costretto al silenzio le voci di dialogo. Il
governo e il presidente Mahinda Rajapakse hanno, senza ormai ostacoli, perseguito
la politica del pieno potere dei singalesi buddhisti, non solo rifiutando gli
interventi estei volti ad accertare, ad esempio, gli abusi compiuti dalle
forze governative su ribelli e civili Tamil, ma anche stringendo la morsa della
censura e della «sicurezza pubblica», e allentando il controllo sul
nazionalismo estremista, il quale ha nell’identità religiosa il suo caposaldo.
Atti di intimidazione e violenze vere e proprie sono stati commessi negli
ultimi mesi soprattutto contro la consistente comunità islamica dell’isola (il
10% su 20 milioni di abitanti), ma non solo.

Buddhismo nonviolento?

Colpisce che nei due casi birmano e singalese sembri mancare un
elemento «scatenante», come sarebbe potuta essere l’infiltrazione nelle comunità
musulmane di membri militanti. Stupisce anche la partecipazione di esponenti
religiosi buddhisti, in molti casi addirittura direttamente coinvolti nelle
violenze.

Da qui nascono domande legittime sulla validità della tradizionale
opinione – diffusa soprattutto in Occidente – per cui la pratica della dottrina
buddhista, nelle sue varie forme storiche, sarebbe di per sé pacifista.

A maggior ragione impressiona l’emergere di un movimento violento
in paesi dove il buddhismo giocò in passato un ruolo essenziale nel processo
indipendentista anti britannico. E se per lo Sri Lanka si può sostenere che la
leadership
religiosa è stata imbavagliata e, soprattutto, tenuta
strettamente legata alle esigenze del potere politico e dei militari, in
Myanmar invece il clero buddhista ha cercato di essere attivo agente di
cambiamento e di democrazia, anche pagando duramente per le sue convinzioni, e
sempre mantenendo un atteggiamento nonviolento.

Vero è che l’identità nazionale in entrambi i paesi è strettamente
legata al buddhismo, e che questo ha spesso messo le minoranze, nella storia
post indipendenza, in condizioni difficili.

Gli eventi violenti degli ultimi tempi, tra l’altro, rischiano di
avere ripercussioni altrove: già oggi si registrano segnali di reazione alle
notizie che arrivano da Myanmar e Sri Lanka in paesi musulmani come Indonesia e
Malaysia.

Il Silenzio di San Suu Kyi

Uno studio sui rapporti tra organizzazione monastica, comunità
buddhista e leadership politica dei due paesi potrebbe spiegare con maggiore
chiarezza la situazione attuale, anche se comunque con ampie aree grigie.

Le recenti dichiarazioni del governo birmano di volere garantire i
diritti alla sicurezza e alla pratica religiosa della comunità musulmana (il 5%
dei 58 milioni di abitanti) contrastano con l’allargarsi delle aree di tensione
anche in regioni (come lo stato Kachin) che sfuggono in parte al controllo
diretto delle autorità centrali. Suscita meraviglia e attira critiche anche il
silenzio di Aung San Suu Kyi, spiegabile forse con la sua candidatura alle
elezioni presidenziali del 2015, o con la coerenza verso il suo impegno a
lavorare per la riconciliazione piuttosto che per la sottolineatura di fratture
già presenti nella composita società birmana. In ogni caso, pochi sembrano gli
spazi per una soluzione pacifica e duratura. Anzi, il rischio è che le violenze
si allarghino, anche davanti all’evidente impotenza della comunità
internazionale che ha – significativamente – lasciato cadere buona parte delle
sanzioni verso il governo erede del regime che per oltre 50 anni ha fatto
affondare il paese nella violenza e nella povertà.

Come sia possibile che il monaco Ashin Wirathu sia emerso come
referente del buddhismo violento e xenofobo in Myanmar, pochi lo spiegano, ma
colui che nel 2012, appena rilasciato dopo nove anni di carcere per incitamento
all’odio religioso, si era dichiarato «il Bin Laden birmano», da un anno spinge
il suo «Gruppo 969» a propagandare l’intolleranza nel paese.

La sua «campagna», orchestrata con ogni probabilità assieme ad
alcuni settori della politica e delle forze armate, cade in un vuoto di moralità
e di legittimazione dell’organizzazione monastica buddhista. Tra i 500mila
monaci ci sono infatti molti che nei monasteri hanno trovato un rifugio da
povertà, violenza, emarginazione. Giovani uomini con un’infarinatura di fede e
uno scarso bagaglio dottrinale pronti a scaricare rabbia e frustrazioni sui
bersagli loro indicati.

Rischi di contagi

Per Shwe Nya Wa, abate buddhista a Mandalay, un moderato, la
situazione segnala come qualcuno voglia accendere seri problemi nel paese per
spingere il governo a intervenire con durezza, come un tempo, e per confermare
la «debolezza» della democrazia e delle sue istituzioni già insinuata dagli
abusi di vario tenore verificatisi grazie all’eliminazione del blocco degli
investimenti stranieri che ha portato nel paese investitori istituzionali e
occasionali, pubblici e privati.

Davanti a oltre 300 morti e 140mila profughi dal giugno 2012,
appare chiaro che non solo la situazione è fuori controllo, ma è anche forte il
rischio di un «contagio» alla vicina Thailandia, anch’essa in maggioranza
buddhista, dove il conflitto in corso da tempo nel Sud tra forze di sicurezza e
ribelli indipendentisti musulmani potrebbe incentivare – se intervenisse una
spinta di carattere religioso-istituzionale – l’ostilità generale verso i
seguaci di Allah, il 4% della popolazione.

Tamil sotto torchio

In Sri Lanka nessun musulmano risulta finora vittima dell’ostilità
dei conterranei buddhisti che comunque fa sorgere preoccupazioni nella società,
oltre a reazioni nel mondo islamico. Durante la devastante guerra civile che ha
interessato il paese dal 1983, i musulmani locali hanno pagato un caro prezzo
per la loro neutralità. Soprattutto ai guerriglieri tamil. Oggi, con i Tamil
totalmente sottomessi al dominio dell’etnia singalese, i musulmani si ritrovano
sotto il giogo dei vincitori.

Vittima, in parte dei sospetti che risalgono ai tempi della
dominazione britannica, in parte degli effetti del radicalismo musulmano di
molte aree del mondo, in parte – ancora – della recente opposizione alla
macellazione secondo i dettami di purità musulmana (halal) o di piccole
rivalità locali, oggi la comunità islamica, pacifica e laboriosa, certamente
lontana delle suggestioni jihadiste, si trova sotto il tiro degli
estremisti del Bodu Sena (la Brigata buddhista), che contro i seguaci di
Maometto tiene comizi, proclama azioni di boicottaggio, condanna la prolificità
delle famiglie devote di Allah o chiama più chiaramente all’espulsione.

Il fatto che alti esponenti del governo di Colombo, e tra questi
il potente ministro della Difesa Gotabhaya Rajapaksa (fratello del presidente)
partecipino a iniziative della Brigata, come l’apertura di centri di
addestramento, e definiscano i monaci nazionalisti come destinati a «proteggere
il paese, la religione e la razza», chiarisce come il rischio di un nuovo
conflitto interno sia reale e le motivazioni del tutto pretestuose, utili solo
al nazionalismo e a chi se ne avvantaggia. Mostra inoltre la debolezza
identitaria, e la scarsa conoscenza del mondo, frutto anche di un’informazione
censurata e parziale.

Il senso di unità nazionale, incentivato da decenni di regimi
oppressivi, la dominanza storica su altre fedi, la preoccupazione per un «contagio
islamista», sia attraverso il potere dei petrodollari, sia attraverso una
volontà dell’Islam di convertire i buddhisti, contribuisce a una reazione che
non ha nelle istituzioni un freno, ma piuttosto un garante.

Stefano Vecchia
 


«Buddhismo e pacifismo»

Il principio della nonviolenza è intrinseco alla pratica
buddhista, come indicato nel Dhammapada, la raccolta di scritti che
raccoglierebbe, secondo la tradizione, l’originaria dottrina del Buddha. Il
primo sutra (aforisma) indica che «se
un uomo parla o agisce secondo un pensiero malvagio, il dolore lo segue come la
ruota segue lo zoccolo del bue che tira il carro».

Dei cinque precetti morali obbligatori per il monaco, il
primo è l’astenersi dall’uccidere esseri viventi. Strumento per raggiungere
pace interiore ed equilibrio, anche la meditazione è indicata negli antichi
testi come idonea a produrre uno stato di «consapevolezza amorevole» verso
tutti.  Storicamente, però, la religione
buddhista, che pure non si riferisce a un Dio onnipotente, a un popolo eletto e
nemmeno ha un carattere prettamente proselitistico e universalistico, ha
dimostrato di essere militante quanto l’Islam e il Cristianesimo. Le cronache
srilankesi ricordano come la dottrina del Buddha si sia affermata sull’isola
nel II secolo a.C., quando re Dutugemunu infilò sulla punta di una lancia una
reliquia del Buddha e guidò alla vittoria contro il rivale induista le sue
truppe che includevano 500 monaci. Fu un massacro, ma le cronache ricordano
come il sangue sparso sia andato a beneficio della fede oggi dominante.
Similmente sovrani indiani, khmer, birmani, thai e indonesiani giustificarono
le loro campagne belliche con la «necessità» di diffondere il buddhismo e
innalzare reliquiari in aree sempre più vaste.

In sostanza, da lungo tempo l’intransigenza dottrinale e il
rigore morale sono stati sovente espropriati nell’ecumene buddhista da
interessi diversi. Oggi fede minoritaria, posta sulla difensiva per ragioni
storiche e demografiche, il buddhismo rischia derive integraliste contrarie non
solo alle sue origini che stanno nel Buddha storico, ma anche ai suoi stessi
principi tramandati.  (S.V.)

Stefano Vecchia




«Chiesa peregrinante verso la Gerusalemme celeste» | Rendete a Cesare 5

«Essi non sono del mondo, come Io non sono del mondo» (Gv 17,16)

Distinzione netta e separazione

Di distinzione netta e separazione efficace, non nella storia, ma nei criteri di valutazione, si parla nel racconto della passione nel IV vangelo. In Gv 18,36 davanti a Pilato, che ribadisce il suo potere politico perché ha l’autorità di giudicare e di mettere a morte, Gesù afferma: «La regalità, quella mia, non è di questo mondo». Il greco usa l’espressione «hē basiléia, hē emê» che deve essere tradotta in forza del contesto e non materialmente, trasponendo solo le singole parole. «Basiléia» può significare «regno» e «regalità». Nel senso di «regno» si riferisce a un territorio in cui il «re» può esercitare la sua autorità; ma anche «il popolo» su cui la regalità si esercita, oppure la dignità regale in se stessa. Il senso da dare in ogni traduzione dipende dal contesto. Pilato crede che esista un solo «re» in tutto il mondo e quindi è preoccupato che qualcuno diverso da Cesare possa definirsi «re» in concorrenza, e per questo interroga Gesù: per valutare la portata di questa asserita «basiléia». Non può essere riferita ai Romani che riconoscono solo Cesare; resta il senso etnico, quasi razziale di Gv 18,33: «Tu sei il re dei Giudei?».

Pilato non può ammettere altra «basiléia» che non sia riconosciuta da Cesare, il quale ha già nominato Erode «re dei Giudei», cioè suo rappresentante/suddito, pur essendo estraneo al popolo d’Israele: un altro che vuole essere re, o è pazzo o è pericoloso. La domanda, infatti, è densa di preoccupazione squisitamente politica, perché l’orizzonte di Pilato è solo sul piano di quello che vede e sperimenta, non può andare oltre. In bocca al procuratore romano l’espressione può essere anche dispregiativa, mentre in bocca a un giudeo ha un valore nobile, anzi teologico perché corrisponde a «Re d’Israele» come nel grido della folla che lo acclama in Gv 12,13: «Benedetto nel nome del Signore colui che viene, il re d’Israele».

Nel contesto, però, avviene un fatto nuovo, imprevedibile: le autorità religiose giudaiche davanti all’affermazione di Gesù, inorriditi, rifiutano il Messia, «il re dei Giudei», e scelgono Cesare, un idolo con cui sostituiscono il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», il Dio dei Padri: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15). Con questa scelta, cessano di essere «il popolo d’Israele» al quale era stato mandato Gesù-Messia, e diventano un popolo qualsiasi, qualificato etnicamente come «Giudei», i quali si accontentano di un re provvisorio, nuovo idolo in sostituzione del Dio del Sinai.

La differenza di regalità

Nell’intervista di Pilato a Gesù è in discussione la natura della regalità/regno di questi: se egli si dichiara «re», in che cosa si differenzia nell’esercizio della regalità da Cesare Augusto, dal faraone o dall’imperatore di Persia o Babilonia? Gli stessi soldati che l’hanno catturato e si sono attardati a divertirsi, burlandosi di lui, lo hanno fatto con gli strumenti del mestiere dei re: il mantello rosso (la clamide), la corona, seppure di spine, lo scettro e infine l’adorazione burlesca (cf Gv 19,2-3). Tutti questi ingredienti, pur in un contesto di burla, mettevano Gesù sullo stesso piano dei re ufficiali e quindi ve lo equiparavano. Questo è un punto nevralgico e decisivo per stabilire la veridicità di quanto abbiamo asserito. La distinzione tra potere politico e potere di Cristo (e di conseguenza della Chiesa) sta nell’affermazione netta e decisa di Gesù: «La mia regalità/il mio regno non è di questo mondo/di questa natura» (Gv 18,36).

L’espressione di Gesù, tradotta alla lettera è questa: «La regalità, quella mia, non è di questo mondo/ordinamento/natura (cioè: non proviene da esso; non è il mondo che dà l’origine a Gesù); se da questo mondo provenisse la regalità, quella mia, le guardie mie avrebbero lottato affinché io non venissi consegnato ai Giudei; ora, dunque, la mia regalità non è di qui [di questo posto]». Esaminiamo il senso profondo. Ci troviamo di fronte a due concetti di «regalità»:

  1. Cesare Augusto, attraverso il suo procuratore Pilato, esercita un dominio che ha usurpato. / Gesù si pone su un altro piano e non contesta Pilato, il quale invece, sentendo odore di «pericolo», indaga per scongiurare qualsiasi equivoco.
  2. Il procuratore romano, in nome di Cesare, riceve Gesù nel pretorio, cioè nel luogo simbolo del potere imperiale, da dove esercita il suo potere, sedendo «in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà» (Gv 19,13). / Gesù si è lasciato condurre e sballottare dai soldati dipendenti del tempio e ora resta in balia dei soldati romani che usano la forza e la violenza come metodo ordinario di tortura e sevizia.
  3. Cesare Augusto va fiero delle sue legioni, immagine stessa di Roma, con le quali va alla conquista del mondo per imporre il suo ordine e la «pax romana» che è sudditanza, spogliazione e tasse a favore dell’occupante. / Gesù che dovrebbe essere il prigioniero e condannato, sta in mezzo, e tutto il potere negativo (Romani e Giudei) ruota attorno a lui.
  4. Senza i soldati, Cesare è nulla e non avrebbe alcuna autorità perché il suo potere si basa solo sulla forza, cioè sull’esercito e quindi sul dominio. / Gesù è disarmato e ha due soli strumenti: la parola e il silenzio con cui fronteggia quello che si crede il potere.

Su questo ultimo punto, Gesù è chiaro e senza equivoci, perché è la sintesi di tutto: «La mia regalità non appartiene a questo ordine di cose». La prova di questa «diversità» sta nel fatto che non si presenta a Pilato con un esercito per difendere il suo diritto regale, né si oppone ai soldati con altri soldati.

Dio impotente e senza forza

Il «senso di onnipotenza» non appartiene alla logica di Gesù; egli non riconosce alla forza, tanto meno alla violenza, la dignità di strumento regale o di autorità. Egli è un re che si pone su un altro piano, un livello che Pilato non può capire e non capisce; nemmeno «i Giudei» capiscono e, infatti, fanno confusione fino ad arrivare alla falsità e all’omicidio pur di togliere di mezzo uno di cui non conoscono nulla, se non il pericolo che rappresenta per il loro potere.

Sta tutta qui la differenza: il potere del «cesare di tuo» usa la forza e la violenza e impone se stesso con le armi e la soppressione della libertà, perché occupa e domina esteriormente. Il potere di Gesù è mite, si accosta con dolcezza a ogni singola persona e si rivolge alla coscienza per svegliarla, se dorme, o per rafforzarla, se veglia. Egli rifiuta violenza e forza come strumenti di regalità fino al punto di subire violenza fino alla morte, fallendo apparentemente, ma senza mai rinnegare la propria «modalità» di essere regale. Per questo e solo per questo può essere «universale», cioè, non si assomma ai regni della terra e al tempo stesso si estende a tutti i popoli fino agli estremi confini dell’umanità (cf At 1,8), cioè fin dove c’è una persona con una coscienza attenta e attiva.

Il regno di Cristo non può essere, infatti, una gestione diretta del potere politico, economico e sociale, ma la convocazione di ogni singola persona alla corresponsabilità del servizio come dimensione del «Regno di Dio». L’autorità di Cristo non esige tassazione e imposizione di tributi, non comporta presenza fisica di dominio con strutture opprimenti. Se così fosse, avrebbe bisogno di militari per imporre e mantenere nel tempo il dominio del suo potere, la sottomissione dei popoli dominati. C’è in Luca un esempio illuminante a riguardo. Un tale ha problemi di divisione di eredità col fratello e chiede a Gesù di intervenire ma Gesù risponde: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?» (Lc 12,13-14). Anche questo semplice racconto è nella linea dell’esercizio del potere: Gesù ne rifiuta l’esercizio come è svolto dagli uomini, come è strutturato nell’ordinamento umano.

La coerenza di Gesù

Due fratelli non avrebbero dovuto nemmeno porsi il problema; se ricorrono a un estraneo è segno che qualsiasi intervento di qualsiasi potere non potrà più risanare la frattura che si colloca a livello interiore, nemmeno se risolve in modo equo la questione materiale dell’eredità. Al tempo di Gesù, l’eredità non poteva essere frantumata per cui solo il maggiore ereditava l’intero, mentre il fratello minore ereditava un terzo, in linea teorica, ma ricevendone l’usufrutto. Forse è il minore che si rivolge a Gesù (sulla questione v. P. Farinella, Il Padre che fu madre, Gabrielli editore). Gesù distingue nettamente tra due «mondi» o «ordinamenti» che diventano due prospettive, due opposizioni, due visioni di vita e di destino. Il mondo di Cesare è «questo mondo/ordinamento» in forza del quale egli comanda, prende, impone. La logica di Gesù non è «di questo mondo/ordinamento», cioè proviene «dall’alto» (Gv 8,23), da un’altra dimensione, cioè, da un altro progetto di vita.

Gesù non si è adeguato al mondo del suo tempo, e tanto meno alla sua logica; se fosse stato un uomo di buon senso, se si fosse preoccupato di rapportarsi con le autorità «in modo istituzionale», ne avrebbe accettato anche la logica e si sarebbe posto a livello di Cesare, ma egli viene «dall’alto» e resta in alto e non scende in basso, ma chiama chi vuole seguirlo a salire in alto: egli promuove, non mortifica e non umilia.

Cristianesimo ed egoismo non possono coesistere, così come Cristianesimo e interesse personale sono antitetici. I credenti in Cristo gestiscono il potere, ma con criteri assolutamente disinteressati, avendo a cuore i destini dei poveri e degli emarginati in forza della prospettiva delle Beatitudini di quanti la società mette al bando (cf Mt 5,1-9). È un capovolgimento totale della prospettiva. È una contestazione radicale di quanto il mondo ha acquisito come proprio «specificum». È il rifiuto intimo del modo di vedere, di giudicare e di scegliere: «La mia regalità/il mio regno non è di questo mondo» significa che non ha come obiettivo il dominio, ma la coscienza consapevole e libera delle persone che servono i propri simili con gli stessi sentimenti di Dio, in forza del principio paolino: «Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2; cf Fil 2,1-8). È l’affermazione che Dio è «servo», non più onnipotente. Rifiutando l’esercito e la difesa, Gesù veste la sua nudità di non-violenza come statuto del suo essere e afferma un nuovo ordine di cui i suoi discepoli devono essere portatori sani e profeti consapevoli.

In altre parole, la distinzione tra Gesù e Cesare non è solo una questione di competenze o ruoli d’influenza, come generalmente si usa, sbagliando, l’altra espressione (date a Cesare… date a Dio), ma si tratta di premesse che esigono conseguenze coerenti. È la prospettiva stessa del potere che in Gesù si scontra con quella di qualsiasi altro potere che vuole essere «politico». Con l’affermazione netta e inequivocabile: «La mia regalità non appartiene alla logica di “questo” mondo», Gesù pone un atto politico estremo perché stravolge il concetto di potere, di organizzazione, economia, relazione tra gli individui, senso dello stato. Egli non intende spiritualizzare il suo «regno», che tra l’altro deve instaurarsi anche sulla terra e coinvolgere l’umanità intera. E dal contesto non si può evincere la contrapposizione tra cielo e terra, tra spirituale e materiale. Non significa che Gesù ci ha invitato a rivolgerci alle «cose del cielo», come una certa mistica ha interpretato esulando dal testo; al contrario, egli c’invita a piantarci nel cuore degli eventi, a essere come il Lògos, «incarnati» nella vita e nella storia, piena di contraddizioni, e di starvi con criteri di discernimento «opposti» a quelli di Cesare e di chi esercita il potere.

Gesù il politico

La prova di quanto affermiamo sta anche nella preghiera al Padre del capitolo 17, dove Gesù stesso equipara i suoi discepoli a sé, perché, come lui, «sono nel mondo»:

«9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. 15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. 20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,9-20).

L’espressione «non prego per il mondo» accentua la separazione dal mondo inteso come il complesso delle forze ostili al Regno di Dio, cioè il male (cf Gv 15,18). Non è un rifiuto degli uomini, o un disincarnarsi dall’umano, ma un rifiuto del «mondo» dell’ingiustizia e prevaricazione, del potere basato sulla forza e corruzione. In Gv (vangelo e lettere) il termine «mondo – kòsmos» ricorre circa 100x e ha almeno quattro significati (cf Gv 1,10-11):

  1. a) il mondo geografico, ambiente materiale;
    b) il mondo come umanità;
    c) il mondo dell’incredulità;
    d) il mondo della fede.

La separazione tra trono e altare sta tutta nella dialettica «sono nel mondo… non sono del mondo», per cui si afferma la natura provvisoria della Chiesa e quindi la sua condizione di «sacramento», cioè di segnale, di indicatore stradale. Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II che descrive l’«indole escatologica della Chiesa peregrinante e sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium 48-51). L’indole sta a significare che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio, cioè per creare le condizioni affinché tutti i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non siano ridotti a vivere da schiavi.

Un Esodo al contrario

Il compito dei cristiani e a maggior ragione della gerarchia non è quella di tramare per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi, ma unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e fare in modo che venga distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo. Nel 2010 in Italia, il governo nelle mani di Berlusconi e di Bossi che si fregiavano a ogni piè sospinto di ispirarsi agli insegnamenti della Chiesa cattolica, regalò alla Libia 6 motovedette per pattugliare il mare contro gli immigrati e 5 miliardi per impedire che gli immigrati africani attraversassero il mare, ben sapendo che migliaia di persone sarebbero fatte morire nel deserto libico. Se quei soldi fossero stati spesi per l’integrazione ne avrebbe beneficiato l’Italia e gli immigrati e avremmo costruito un ponte di civiltà verso l’Africa che invece piange i suoi figli. Il Signore della Bibbia gettava «nel mare cavallo e cavaliere» che opprimeva i poveri facendoli schiavi, sedicenti cristiani esercitano il potere per uccidere i poveri, amati da Dio, per una manciata di voti.

Questa è la differenza: chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo», chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46), viene «dall’alto». I primi trasformano la «Politica» in interesse, tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio di custodire il giardino di Eden e quanti vi abitano.

Quando coloro che si definiscono sempre cristiani o credenti e poi, per anni, appoggiano governi e politiche disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano complici e còrrei di corrotti e corruttori, immorali e amorali, siamo non più nel Regno di Dio, ma nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva. Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso papa Francesco il giorno di Pentecoste ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto il mondo in piazza san Pietro, il giorno 19 maggio 2013. Se il cristiano «non dà fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non ci coinvolgiamo, sulla terra, con il destino di chi è senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,19-31). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza tra Cesare e Gesù. A noi la scelta.

(5 – continua)

Paolo Farinella




Una chiesa del laicato

Reportage dalle Filippine, una terra di contrasti.

Arcipelago di oltre 7 mila isole, 96 milioni di abitanti, le
Filippine è l’unico paese a maggioranza cattolica in Asia (insieme a Timor
Est). Paese di attrazioni turistiche e forti contrasti tra ricchi e poveri,
miseria e lusso, desolazione e speranza. Mons. Broderick Pabillo, ausiliare di
Manila parla di una chiesa vivace e attiva, grazie ai suoi laici impegnati, ma
anche con problemi e sfide per il futuro, come quella dei tossicodipendenti ed
emarginati, di cui si prende cura la «Fazenda da Esperança».

Manila, 7 dicembre 2012, ore 3 del
mattino: avevo lasciato Incheon, in Corea, con 10 gradi sotto zero e Manila mi
salutava con 27 sopra zero. Ho cominciato subito a sudare, tanto che nella
stanza della casa dei missionari Comboniani dove ero ospite ho dovuto accendere
l’aria condizionata per poter dormire, dopo una doccia fredda.

La
visita, che aveva lo scopo di raccogliere materiale per la nostra rivista
coreana La Consolata, è durata una decina di giorni, abbastanza per
avere alcune idee sui forti contrasti economici e sociali del paese e sui
problemi e speranze della Chiesa cattolica. 

Prime impressioni

In vita mia non avevo mai visto così tanti bambini! Tanti e belli.
Sono dappertutto, soprattutto nelle baraccopoli, sparse purtroppo in tutta
Manila, eccetto che in alcuni quartieri più recenti e benestanti. Mi ha
sorpreso vedere coppie giovanissime con tre o quattro bambini, tutti
piccolissimi. La miseria in cui vivono tanti di essi mi ha molto rattristato;
al tempo stesso sono rimasto impressionato dal loro sorriso, nonostante la
situazione in cui vivono.

La strada è il loro parco di divertimenti; la maggior parte delle
baraccopoli sono sovraffollate di baracche, senza spazio per poter giocare.
Moltissimi bambini stanno lì tutto il giorno, perché non hanno accesso alla
scuola.

Il degrado delle baraccopoli è più che impressionante. Sono
entrato tre volte in alcuni di questi quartieri poveri: in uno di essi per
intervistare una suora missionaria coreana; in un altro slum insieme a
padre David, missionario comboniano, portoghese e mia guida, quando si è recato
a benedire un piccolo negozio di un loro dipendente e quando è andato a
celebrare la messa in una chiesetta nel cuore di un altro quartiere. Il
contrasto tra baraccopoli e condomini chiusi o palazzi lussuosi è sconvolgente.

Il traffico è assolutamente caotico, sia perché le strade sono ben
poche sia per l’impressionante quantità di macchine. Tra i mezzi di trasporto,
si distinguono tre tipi ben caratteristici: i jeepney (vecchie jeep
dei soldati americani adattati per trasportare gente e merce), i tricicles
(moto o biciclette per il trasporto di persone) e i vecchi pullman senza
finestrini.

Meno male che padre David è un autista provetto, ma anche lui,
dopo nove anni di presenza nelle Filippine, ogni tanto si arrabbia, e con
ragione, per come guidano i filippini: davvero pazzesco! Dopo questo viaggio,
ho promesso a me stesso di non lamentarmi più del traffico in Corea. Però devo
confessare che mi sono stupito di non aver visto un solo incidente stradale!

Mi ha stupito anche la quantità di Suv, certamente acquistati con
i soldi arrivati da parenti che lavorano all’estero, dato che la disoccupazione
è molto alta nelle Filippine, ma anche segno di divisioni sociali.

Tali contrasti sono ancor più evidenti nei cosiddetti quartieri
chiusi: qui vivono i più ricchi circondati da muri, protetti da guardie armate,
in abitazioni di lusso. Quando abbiamo fatto un giro dentro uno di tali
quartieri di lusso mi sembrava di essere in un altro paese. Tale contrasto tra
lusso e miseria è anche un segno dell’alto livello di corruzione di cui è
impregnata la politica.

Un altro segno del contrasto tra ricchi e poveri sono i cimiteri:
mentre la gente di classe economica più bassa seppellisce i suoi defunti in
cimiteri comunali, alcuni tra i più ricchi costruiscono persino dei mausolei,
con curatori permanenti. Curiosamente, questi cimiteri sono anche usati da
tante persone per fare sport o 
passeggiare, perché i parchi pubblici a Manila sono quasi inesistenti.

Conseguenza di questo contrasto tra ricchi e poveri è
l’impressionante quantità di guardie di sicurezza, sempre ben armate. Sono
proprio dappertutto: banche, ristoranti (persino McDonald’s e altri
simili), negozi di ogni dimensione, oltre che nei cancelli di controllo dei
quartieri chiusi.

Impressionanti sono pure la quantità e la grandiosità dei centri
commerciali, sempre affollati. Siccome a Manila fa tanto caldo e l’umidità è
molto alta, tanti cittadini e famiglie intere vi spendono quasi tutto il week-end
per rilassarsi all’aria condizionata. Per questo tali centri offrono servizi di
ogni genere, come parrucchieri, dentisti… e persino la messa cattolica! Ne ho
visitato uno la domenica prima di tornare in Corea: vi sono state celebrate
quattro messe, oltre ad altre due in un salone per un gruppo carismatico.

Le messe sono molto partecipate, da fare invidia a tante delle
nostre parrocchie qui in Corea. Infatti la fede dei filippini è impressionante:
varie parrocchie hanno sette o otto messe ogni domenica e qualcuna persino 10!

Vangelo e Responsabilità sociale

Una delle sorprese più belle è
stato l’incontro con mons. Broderick Pabillo, ausiliare di Manila. Un vescovo
semplice e accessibile, al lavoro in un angusto ufficio dietro la chiesa del Santo
Niño
(Gesù Bambino), a cui ho posto alcune domande sulla Chiesa nelle
Filippine.

Mons. Pabillo ha cominciato
subito dicendo che la maggior parte dei filippini sono membri della Chiesa
cattolica, una Chiesa con un laicato molto attivo, che supplisce
all’insufficienza di clero. Tale mancanza favorisce il flusso di gruppi
evangelici.

Da parte dei fedeli, è molto
forte il senso di religiosità: il popolo filippino è desideroso di conoscere
Dio ed entrare in comunione con lui. In questi ultimi anni sono fioriti molti
movimenti tra i laici cattolici, specialmente i carismatici e le «coppie per
Cristo». Tutti questi movimenti aiutano il processo di evangelizzazione della
Chiesa.

Tuttavia, nonostante la
religiosità della gente e il numero dei cattolici, ci sono molti problemi nella
società, alcuni dei quali causati dai fedeli, specialmente politici e ricchi.
Molti cattolici ricchi mancano di responsabilità sociale, attratti dalla
globalizzazione e dai profitti, ignorando i bisogni dei più poveri. Anche per
questo il livello di disoccupazione è molto alto e alcune compagnie impiegano
la gente part-time, causando instabilità sociale e maggiore povertà.

Un altro problema è la crisi
ambientale, anch’essa causata dall’ingordigia e mancanza di coscienza sociale,
specialmente da parte di grandi compagnie minerarie; a questa crisi vanno
aggiunti i problemi di molti indigeni nelle varie isole, anch’essi molto
poveri.

Dall’altra parte, alcuni gruppi
laicali stanno crescendo verso una maggiore responsabilità sociale. L’azione
sociale della Chiesa nelle Filippine non è solo orientata ad aiutare le vittime
di povertà o calamità, come nel caso dei recenti tifoni, ma sta facendo lobby
(pressione) perché siano implementate leggi giuste, specialmente nel
riconoscimento dei diritti dei poveri.

Alcuni dei problemi più pressanti
cui mira l’azione sociale della Chiesa include le miniere, la riforma agraria,
uccisioni extragiudiziali, violazioni dei diritti umani, traffico di esseri
umani (specie di donne e bambini)… Altro problema pressante è l’aumento dei
malati di Aids: la Chiesa raccomanda fedeltà e responsabilità, mentre il
governo e alcune Ong insistono sui condom (preservativi). Un altro
argomento scottante è la legge sulla salute riproduttiva, che raccomanda
contraccezione ed educazione sessuale a scuola, oltre a provvedere condom
per i poveri, nel tentativo da parte del governo di frenare la crescita
demografica del paese.

«La soluzione della povertà sta
nel prendersi cura dei poveri – afferma mons. Pabillo -, piuttosto che nella
semplice distribuzione di contraccettivi».

Sognando una Chiesa più Missionaria

I momenti più sentiti nella vita
della Chiesa filippina sono: Natale, la Fiesta (celebrazione del santo
patrono) e la Settimana Santa. «In tali ricorrenze le chiese sono gremite di
fedeli – continua il vescovo -, ma sorge la domanda se si tratti di fede
autentica o di semplici pratiche religiose. È questa soprattutto la sfida della
nuova evangelizzazione: i nostri fedeli hanno bisogno d’imparare sempre più i
contenuti della fede e le conseguenze che ne derivano».

Nel 2021 la Chiesa cattolica
celebrerà il 500° anniversario dell’arrivo della fede nel paese. Per quella
data i vescovi filippini sperano che le loro comunità abbiano mandato più
missionari all’estero di quanti ne entrano nel paese. Una delle ragioni per cui
ci sono ancora pochi missionari filippini è il bisogno di personale e risorse
materiali della Chiesa locale. «Il rapporto è un prete per 8 mila e più fedeli,
e non ben distribuiti – spiega il vescovo -. Ciò significa che la Chiesa deve
essere più autosostenibile, anche perché le risorse e gli aiuti che vengono
specialmente dall’Europa sono diminuiti considerevolmente».

In molti paesi asiatici i vescovi
sono preoccupati per la pastorale giovanile. «A differenza di altri paesi –
continua mons. Pabillo -, qui la gioventù è coinvolta nella vita della Chiesa:
il problema è che ci sono pochi leader per organizzare e istruire la gioventù.
In alcune diocesi la pastorale giovanile è ben strutturata, mentre in altre c’è
la mancanza di personale o di mezzi materiali per la loro formazione».

Un’altra sfida per la Chiesa
nelle Filippine è il dialogo con l’islam. «Nel passato la maggior parte dei
musulmani era concentrata nella provincia di Mindanao – continua il vescovo -.
Ci sono commissioni d’ambo le parti (cattolica e musulmana) che si impegnano in
un dialogo positivo. Ma alcuni gruppi fondamentalisti, come Abu-Sayyaf, non
sono affatto interessati al dialogo».

Attualmente molti musulmani si
stanno spostando in altre province, inclusa Manila, e la maggior parte delle
diocesi non sono preparate per questo, così il dialogo è poco o nullo. Al tempo
stesso, questi gruppi islamici stanno ottenendo più convertiti, anche tra i
cristiani.

Per quanto riguarda i
protestanti, c’è qualche dialogo con loro, ma non con i piccoli gruppi di
evangelici che sono più fondamentalisti. «In un certo senso – conclude il
vescovo – questa sfida del dialogo provocherà maggiore pressione sul processo
di evangelizzazione della popolazione cattolica. E i leader devono essere
pronti ad affrontare queste sfide con speranza e perseveranza».

La Fattoria della Speranza

Una delle esperienze più
significative fatte durante il mio viaggio nelle Filippine è stata la visita
alla «Fazenda da Esperança», nell’isola di Masbate: è il primo centro di
riabilitazione in Asia, aperto nel 2003.

Conoscevo già
quest’organizzazione cattolica da quando fui in Brasile nel 2007. Fu fondata
nel 1983 dal francescano tedesco fra’ Hans Staple, parroco di Guaratinguetá (São
Paulo, Brasile), in una «fazenda» donatagli da un amico, per
l’accoglienza e il recupero di tossicodipendenti e vittime della prostituzione.
In pochi anni altre fattorie furono regalate arrivando a più di 60 in Brasile e
30 in altri paesi, incluse le Filippine. Attualmente sono circa 2.500 le
persone nelle varie fattorie sparse nel mondo, da cui sono uscite più di 20
mila persone, dopo aver compiuto un anno di riabilitazione.

Uno dei responsabili della Fazenda
per ragazzi a Masbate nelle Filippine è Richardson Silva, il quale mi ha
accolto nella sua casa e mi ha raccontato la sua storia. È brasiliano anche
lui, dello stato del Maranhão (Nord del Brasile); ha trascorso un anno in una Fazenda
per curarsi dalla dipendenza dalla droga. Dopo un altro anno di vita fuori
della Fazenda, ne è diventato un volontario.

«Sono stato tossicodipendente per
dieci anni – racconta Richardson -. Ebbi il primo contatto con alcol e droga a
15 anni, dopo il divorzio dei miei genitori. 
Sognavo una famiglia normale, unita, un gruppo di amici, tra i quali
cominciai a drogarmi, divenne la mia nuova famiglia. Mi sentivo bene, felice.
Credevo di di avere il controllo di me stesso, cioè, di poter lasciare la droga
in qualsiasi momento».

Ben presto Richardson divenne
sempre più estraneo alla sua famiglia; spendeva tutto per soddisfare la sua
tossicodipendenza; sperimentò la solitudine più nera, si sentiva sempre più
solo, misero e triste. Si sottomise inutilmente a cure mediche, finché uno zio
lo invitò ad andare in una «Fazenda da Esperança», di cui era venuto a
conoscenza tramite una trasmissione televisiva. Inizialmente il giovane non
diede retta al consiglio dello zio, ma poi decise di tentare l’esperimento.

«Entrato nella Fazenda
continuava Richardson -, fui stupito nel vedere che non c’erano medici,
cliniche o terapie scientifiche, ma soltanto dei cornordinatori missionari che mi
trattavano bene. I primi giorni furono terribili: crisi di astinenza,
allucinazioni, non riuscivo a dormire… Mi era difficile pregare e non capivo
perché dovessi ogni giorno andare alla messa; per la prima volta, a 25 anni, mi
trovavo a recitare il rosario e meditare sul Vangelo. Una volta, mentre ero in
crisi profonda, due cornordinatori trascorsero la notte accanto a me: quando
domandai loro come erano riusciti a sopportare i miei comportamenti, mi
risposero che in quel giorno il Vangelo li invitava ad amare il prossimo come
noi stessi… e io ero il loro prossimo».

Il programma di recupero,
infatti, è basato sul lavoro come fonte di auto sostentamento e sulla vita
comunitaria come strumento di crescita interiore alla luce della Parola di Dio.

Ben presto Richardson cominciò a
sperimentare una gioia intensa; il lavoro nella fattoria lo liberava
gradualmente e gli faceva sentire l’amore di Dio in una forma concreta e
serena. Terminato l’anno di recupero toò a casa, finché decise di ritornare
nella Fazenda di Maranhão come cornordinatore, felice di condividere con
altri ciò che aveva imparato, oltre all’esperienza personale dell’amore di Dio.

«Ho imparato pure a perdonare –
continua Richardson -, a quei giovani che arrivavano nella Fazenda con
atteggiamenti molto aggressivi. Sono riuscito a perdonare anche mio papà e
perfino a chiedergli perdono. Il perdono mi ha liberato e trasformato veramente».

Tale esperienza sconvolse
completamente i piani del giovane Richardson: pensava di continuare gli studi,
ma l’invito a continuare come volontario cornordinatore nella Fazenda lo
convinse a restare dove era veramente felice. Dopo un anno e sei mesi, i
responsabili gli proposero di andare nelle Filippine. Sposato nel frattempo con
Marineya, anche lei cornordinatrice delle ragazze, ora Richardson è uno degli
amministratori della Fazenda di Masbate, incaricato della produzione di
riso e responsabile di un gruppo di giovani in recupero.

«Nella Fazenda produciamo
anche latte, pane e vegetali, che poi vendiamo per il nostro sostenimento
economico. Non è certo facile vivere in una cultura diversa, ma sono contento, fino
a sentirmi padre di questi giovani, anche perché Marineya e io non abbiamo
figli. Questi sono i nostri figli. Infatti, non basta aiutare questi giovani a
riabilitarsi: dobbiamo amarli, aiutandoli a rinascere con la nostra amicizia e
condivisione di vita. E dobbiamo darli a Dio, con atti concreti di amore e di
vita nuova».

Alla fine del mio breve soggiorno
nelle Filippine, non posso dire di conoscere bene questo paese. Padre David mi
ha parlato anche dei problemi degli indigeni che lasciano le loro isole per
aumentare la popolazione degli slum di Manila. Tuttavia ho lasciato il
paese portando con me tante indimenticabili e giorniose realtà, soprattutto la
simpatia, ospitalità, generosità, fervore religioso e semplicità della gente e,
certo, la bellezza dei bambini e il loro sorriso. Questo è il ricordo più caro
che porto nel cuore.

Alvaro Pacheco

Alvaro Pacheco




Le bizze dei Kim non finiscono mai


Le minacce di Pyongyang, le strategie degli?altri Il giovane Kim Jong-un non è diverso dal padre e dal nonno: pensa e agisce da dittatore. Le necessità della politica intea esigono che il paese abbia un nemico esterno su cui far ricadere tutti i problemi e per compattare la popolazione attorno al presidente. L’alleato cinese osserva perplesso. Per parte loro, Corea del?Sud e Stati Uniti agiscono in maniera provocatoria con protratte esercitazioni militari.

 

Per settimane, tra marzo e aprile, tutto il mondo ha seguito con attenzione ogni comunicato dell’agenzia ufficiale nordcoreana Kcna. In alternativa c’erano i pezzi del Rodong Sinmun, l’organo ufficiale del Partito unico di regime. Erano i giorni della minaccia nucleare dei due missili a medio-raggio Musudan trasferiti sulla costa orientale in una località segreta  e capaci (ipoteticamente) di giungere fino alle basi statunitensi di Guam, oltre che a quelle in Corea del Sud e in Giappone. Un crescendo di toni belligeranti iniziato con il lancio del razzo Unha-3, nel dicembre 2012, in spregio alle risoluzioni Onu che vietano test balistici al regime e con il quale Pyongyang ha superato sul tempo i più modei cugini del Sud nella corsa a piazzare in orbita un satellite. I sudcoreani ci sarebbero riusciti con il Naro soltanto un mese dopo, al terzo tentativo. La crisi ha poi toccato il culmine con il test nucleare sotterraneo del 12 febbraio, costato a Pyongyang nuove sanzioni approvate anche con il via libera della Cina, storico alleato. E proprio nella dirigenza cinese è serpeggiata la presenza di funzionari favorevoli a prendere le distanze da un regime poco propenso a sentire i consigli dei «fratelli maggiori».

La sequenza degli eventi è stata scandita dalla minaccia di un attacco nucleare preventivo contro gli Usa il 7 marzo; il giorno seguente è avvenuto il taglio della linea di comunicazione d’emergenza di Panmunjom (il villaggio al confine tra le due Coree dove fu firmata la tregua) e infine il ripudio dell’armistizio che mise fine alla guerra del 1953 e che di fatto, in assenza di un trattato di pace, regola le relazioni all’interno della penisola coreana.

Kaesong

Un mese dopo la Corea del Nord prendeva la decisione forse più significativa della recente crisi: il ritiro dei suoi 53mila lavoratori da Kaesong, il complesso industriale inter-coreano nell’omonima città, una decina di chilometri a nord della zona demilitarizzata (cfr. Glossario). Kaesong è considerato uno dei frutti più duraturi della politica di distensione tra le due Coree dell’inizio degli anni Duemila. Una sorta di «canarino nella miniera» circa le relazioni tra Pyongyang e Seul, capace di resistere anche alle crisi più gravi come l’affondamento della corvetta Cheonan nel marzo di tre anni fa, nel quale persero la vita 46 marinai del Sud o il bombardamento sull’isola di Yeonpyeong nel novembre successivo, che fece quattro morti di cui due civili. Sopravvisse inoltre con buoni risultati economici ai cinque anni alla Casa Blu di Seul del presidente Lee Myung-bak, fautore di una linea intransigente contro il Nord.  I lavoratori nordcoreani sono impiegati da 123 piccole e medie imprese del Sud, ora messe sul lastrico dal blocco della produzione. Come ha spiegato una fonte intea al sito Daily Nk, vicino agli esuli nordcoreani,  il gesto è stato dettato da motivi  di propaganda. Quanti a Nord del 38esimo parallelo sarebbero stati disposti a credere all’eventualità che la Corea del Sud potesse attaccare il regime con Kaesong ancora in funzione? D’altra parte, se i sudcoreani hanno manodopera a basso costo, per il Nord, Kaesong rappresentava una fonte di guadagno e valuta. Il regime trattiene per sé parte dei salari dovuti agli operai, che vanno invece a rimpinguare le casse di Pyongyang. L’ultimo incasso sono stati i 10 milioni di dollari che il regime si è fatto consegnare per consentire di tornare a casa agli ultimi sette sudcoreani bloccati nell’impianto dopo che anche Seul aveva deciso di richiamare i suoi. Soldi che dovevano coprire gli stipendi di marzo e le tasse e che il Sud ha mandato in contanti, quasi fossero una sorta di riscatto.  

«Il 99 per cento della propaganda nordcoreana è rivolta a un pubblico interno – ha spiegato James Pearson, direttore a Seul del sito Nk News, da noi contattato -. Ci sono ovviamente eccezioni alla regola, come le recenti minacce dirette alle basi statunitensi nel Pacifico, ma il linguaggio estremo usato in questo periodo non è fuori luogo rispetto a quanto la stampa nordcoreana pubblica normalmente. Gli articoli della Knca riprendono normalmente quelli del Rodong, il principale quotidiano del paese. Sono pezzi scritti da esponenti del Partito per altre persone del Partito. Spesso gli autori temono per la loro sicurezza e legittimazione, perciò usano un linguaggio aggressivo e provocatorio».

È la propaganda nordcoreana intea, ha confermato Roger Cavazos, analista del Nautilus Institute. Secondo l’esperto internazionale la propaganda nordcoreana segue principalmente quattro direzioni: istituzionalizzare il carisma del leader, sostenere l’ideologia politica, cementare la successione dinastica della famiglia Kim oggi alla terza generazione con il trentenne Kim Jong-un, figlio del caro leader Kim Jong-il  (morto nel dicembre 2011) e nipote del fondatore dello Stato, Kim Il-sung (morto nel luglio 1994); convertire l’intero Paese alla sfera politica.

 

Una?nazione? «forte e?prospera»

Sul fronte esterno invece il regime di Pyongyang tende a volere creare situazioni di crisi, mostrarsi il più forte possibile per affrontare un ipotetico tavolo delle trattative. Soprattutto vuole gestire l’andamento della narrazione. Molti analisti concordano nel ritenere che l’ultima serie di minacce sia servita per forgiare la figura del giovane Kim Jong-un davanti ai militari che per anni sono stati accanto al padre nella gestione del potere, ha ricordato Pearson. «Deve essere considerata soprattutto in questi termini la recente escalation, non possiamo da un lato farci beffa della propaganda nordcoreana e dall’altro prenderla sul serio».

Nei giorni della crisi due erano i temi ricorrenti: gli armamenti nucleari e lo sviluppo economico. Le due priorità per costruire una nazione «forte e prospera», come recita lo slogan del giovane leader nel suo primo anno di potere.  Nella pratica, ricordano gli analisti, si tratta di linee guida vaghe che possono essere interpretate tanto in termini militari, economici o diplomatici. Non a caso negli stessi giorni in cui giornali, televisioni e radio di tutto il mondo aprivano le edizioni con le minacce di Pyongyang, il Rodong dedicava ampio spazio all’economia, mentre i nordcoreani, prima in stato di massima allerta, si preparavano alla stagione della semina.

Denuclearizzare: sogno realizzabile?

I gesti di Kim Jong-un e dei suoi generali non sono tuttavia catalogabili semplicemente alla voce, «tanto rumore per nulla». La macchina della diplomazia si è messa in moto. Il segretario di Stato americano, John Kerry è volato in Asia in un tour di tre tappe a Seul, Pechino e Tokyo per discutere della crisi con i principali attori coinvolti. Il tema caldo è stato rappresentato dalla denuclearizzazione della penisola, di cui Kerry ha discusso tanto con la presidentessa sudcoreana Park Geun-hye tanto con il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro giapponese Abe Shinzo. 

Si sono poi susseguite le visite nelle quattro capitali degli inviati speciali con particolare attenzione al cinese Wu Dawei dato a più riprese in partenza per Pyongyang per riportare il regime a più miti consigli. Mentre a volare nella capitale nordcoreana è stato per primo l’inviato nipponico Iijima Isao , forse per un canale di dialogo interrotto con il test di dicembre, sebbene i due Paesi non abbiano relazioni diplomatiche e nonostante i contrasti per le atrocità compiute dall’esercito imperiale durante l’occupazione della Corea nella prima metà del secolo scorso e per la questione dei giapponesi rapiti dai nordcoreani.

«La stampa internazionale ha ceduto alla tentazione di spaventarsi da sola. Il Nord non lancerà un attacco nucleare contro gli Stati Uniti o contro qualcun altro. Sicuramente non darà inizio ad alcuna guerra. I coreani tanto del Nord quanto del Sud la pensano così. Ciò che la crisi ha dimostrato è quanto il resto del mondo debba rimettersi al passo per capire la situazione nella penisola coreana», ha sottolineato Pearson. D’altra parte, è opinione comune che l’obiettivo del regime di Pyongyang non sia l’autodistruzione, ma perpetuare il proprio potere.

L’ideologia?del «juche»

Le minacce in qualche modo rientrano in un copione che si ripete di anno in anno in occasione di celebrazioni di primo piano per il regime.  Nei primi quattro mesi dell’anno si susseguono l’anniversario della nascita di Kim Jong-il, il 16 febbraio, quello della nascita di Kim Il-sung, il leader eterno celebrato nella festa del Sole, astro cui è paragonato, il 15 aprile, l’anniversario della fondazione dell’esercito, uno dei pilastri della Repubblica democratica popolare di Corea (nome ufficiale del Nord), il 25 aprile.

In queste occasioni il governo di Pyongyang non ha mancato in passato di fare sfoggio della propria forza con parate militari o come lo scorso anno con test balistici di scarso risultato, prima di quello di dicembre.

Il crescendo delle tensioni è coinciso anche con le annuali esercitazioni congiunte tra statunitensi e sudcoreani, questa volta andate avanti sino alla fine di aprile. Per gli Stati Uniti sono state occasione per far sfoggio di muscoli. Sui cieli coreani si sono visti volare i bombardieri B-52, ricordo del conflitto degli anni Cinquanta, i B-2 capaci di trasportare bombe nucleari e gli F-22, fiore all’occhiello dell’aviazione statunitense. Terminate le esercitazioni il 30 aprile, dopo due settimane di relativa calma durante le quali le minacce di Pyongyang si erano fatte sporadiche, a dare una nuova fiammata, seppur non ai livelli precedenti, è stato l’arrivo nelle acque coreane della portaerei della marina statunitense Uss Nimitz. Una «provocazione» secondo Pyongyang che per tutta la durata della crisi ha fatto leva sul senso di accerchiamento. C’è infine la questione diritti umani, con gli inviati Onu che hanno ricevuto mandato di indagare sulle violazioni nei campi di lavoro forzato dove si ritiene che i detenuti siano almeno 200mila. Uno smacco per Pyongyang tanto più che dei tre componenti la commissione nessuno può essere accostato ai nemici di sempre.

Si tratta infatti di un australiano, Michael Kirby, di un indonesiano, Marzuki Darusman, e di una serba, Sonja Biserko. «La lotta contro l’esterno richiede che ci sia qualcuno cui dare la colpa», ha spiegato Cavazos. Il principio è quello di riunire il popolo attorno ai propri leader, gli unici portatori dell’ideologia del juche, o autosufficienza come vien tradotto, memori anche di un passato in cui il Paese è stato mira delle grandi potenze, prima la Cina, poi il Giappone, poi stretto nello scontro tra i blocchi. «La Corea del Nord è fiera della propria indipendenza. Nessuno può dirle cosa fare», viene ricordato da Brian Reynolds Myers della Dongseo University di Pusan nella sua analisi della propaganda nordcoreana.

Il?ruolo?di?Pechino

E la Cina? Che l’influenza può esercitare Pechino sul riottoso alleato? In una recente analisi del Nautilus Insitute si usa la metafora dell’elefante (la Cina) che entra nel prato schiacciando l’erba. Questa è il timore di Pyongyang in termini di indipendenza. Per Pechino è invece una questione tanto di prestigio internazionale quanto di interesse nazionale. Accettando le sanzioni, aumentando i controlli alla dogana e con la decisione unilaterale della Bank of China di chiudere il conto domiciliato presso i propri sportelli della nordcoreana Foreign Trade Bank, accusata di finanziare il programma nucleare di Pyongyang, la Cina mostra al mondo di essere una potenza responsabile e manda allo stesso tempo un segnale all’alleato.

Il legame «di sangue» stretto ai tempi della guerra di Corea rischia di rivelarsi controproducente per Pechino. Le bizze della Corea del Nord sono un alibi per il mantenimento e per il potenziamento dell’apparato militare statunitense nella regione a sostegno degli alleati sudcoreani e nipponici. Gli Usa hanno già decretato l’Asia come il fulcro della propria attuale e futura strategia estera ed economica. Nelle stesse zone dove la Cina vuole far valere la propria influenza.

Andrea Pira*

 
             Le attività religiose                                                                           

Forze?ostili

L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana garantisce la libertà di culto. La realtà mostra una situazione molto diversa. Come testimonia la vicenda del missionario evangelico Kenneth Bae, condannato a 15 anni di carcere.

Kenneth Bae è stato condannato per aver cercato di rovesciare il governo nordcoreano con attività religiose di propaganda, recita il comunicato dell’agenzia Knca.  Il caso del cittadino statunitense di origine sudcoreana fermato lo scorso novembre e a fine aprile condannato a 15 anni di lavori forzati dalla Corte suprema nordcoreana è corso di pari passo con la crisi nucleare nella penisola e i venti di guerra. Secondo quanto riferiscono i media ufficiali, la 44enne guida turistica, nota anche come Pae Jun-ho con il suo nome coreano, sarebbe la mente della cosiddetta «operazione Jericho» e avrebbe infiltrato nel Paese 250 studenti, spacciati per turisti e istruiti in quella che è considerata la base operativa nella città di Rason. Bae, scrive ancora l’agenzia, era stato inviato come missionario in Cina nel 2006 con  l’organizzazione evangelica Youth for a Mission. Gli sarebbe poi stata data la prospettiva di fare lo stesso a Nord del 38esimo parallelo sfruttando l’opportunità di ricevere inviti a visitare il paese per motivi turistici. La guida è così diventata una nuova pedina di scambio in mano a Kim Jong-un e ai suoi generali nelle ipotetiche trattative con Stati Uniti e Corea del Sud. Un appello diretto al «brillante leader» per la scarcerazione del cittadino statunitense è arrivato dall’ex campione di basket Dennis Rodman, di recente salito alle cronache per un abbraccio con il giovane dittatore dopo un incontro degli Harlem Globetrotters a Pyongyang organizzato dalla rivista Vice. Ancora prima, a gennaio il tentativo, senza risultati, di liberare Bae fu la motivazione ufficiale del viaggio umanitario del numero uno di Google, Eric Schmidt, in Corea del Nord, accompagnato dall’ex ambasciatore Usa all’Onu, Bill Richardson e da Tony Namkung, coreano-statunitense fautore di lunga data del dialogo tra Washington e Pyongyang.

Nello stesso mese la Corea del Nord si è classificata al primo posto per l’undicesimo anno consecutivo nell’indice sulla repressione religiosa stilato dall’organizzazione evangelica per le missioni cristiane «Open Doors». Secondo il rapporto, i cristiani sono considerati forze ostili e puniti con l’arresto, la detenzione e la tortura, se non con la pena capitale, o comunque catalogati all’ultimo gradino nella struttura castale nordcoreana: discriminati. Sempre secondo l’organizzazione, nel paese si starebbe sviluppando una rete di chiese sotterranee che conterebbe circa 400mila fedeli. L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana, si legge nell’ultimo rapporto della Commissione statunitense per la libertà religiosa a livello internazionale, continua a garantire la libertà di culto. Tuttavia lo stesso articolo precisa che la religione non può essere usata per minacciare lo stato, riferendosi in particolare alle attività fuori dal controllo governativo.

Simbolo di questo controllo è la cattedrale di Changchung a Pyongyang,  ricostruita nel 1988 per dimostrare il rispetto del regime per la libertà religiosa, ma senza tuttavia avere alcun vescovo né tanto meno sacerdote. Lo stesso anno fu fondata anche l’Associazione dei cattolici romani di Corea, presieduta da Samule Chang Jae-on. Secondo i dati di Uca news, principale agenzia giornalistica cattolica in Asia, a Nord del 38esimo parallelo i cattolici sono almeno 3mila. Circa 200 partecipano alla messa la domenica nella cattedrale. Nel 1985 il vescovo Daniel Tjie Hak-soon di Wonju fu il primo prelato sudcoreano a visitare la capitale nordcoreana dalla fine del conflitto del 1953.  E dire che lo stesso fondatore della patria Kim Il-sung veniva da una famiglia di ferventi cristiani come rivelato nel 2011 da Kim Hyun-sik, disertore e all’epoca delle dichiarazioni visiting professor a Yale, dopo 38 anni passati al «Pyongyang College Professor».

 

Andrea Pira
 
Glossario

KAESONG: è il complesso industriale inter-coreano di Kaesong, nell’omonima città a una decina di chilometri a Nord della zona demilitarizzata che spacca la penisola. È considerato uno dei risultati più duraturi della politica di distensione tra le Coree avviata a cavallo tra gli anni Novanta del secolo scorso e i primi anni Duemila. Gli impianti furono aperti nel 2003. Nell’area industriale 123 piccole e medie aziende sudcoreane danno lavoro a 50mila nordcoreani. Gli operai sono pagati 128 dollari, gran parte dei quai vanno però a rimpinguare le casse di Pyongyang. Nel 2012, sottolinea il Financial Times, la produzione ha toccato i 470 milioni di dollari, in aumento del 17 per cento rispetto all’anno precedente.

KCNA: la «Korea Central News Agency» è l’agenzia giornalistica di Stato. Fondata nel 1946, è la voce ufficiale del Partito dei lavoratori, il partito unico al potere, e del governo nordcoreano. È accessibile all’indirizzo internet kcna.kp, con dominio coreano, o sul server giapponese all’indirizzo kcna.co.jp.

JUCHE: è l’ideologia alla base del regime. Il termine è tradotto come «autosufficienza». Elaborata da Kim Il-sung è assurta a ideologia grazie all’opera di propaganda del figlio e poi futuro leader Kim Jong-il. Mescola socialismo, maoismo e nazionalismo, spesso puntando l’accento su quest’ultimo ed enfatizzando l’immagine della Corea del Nord accerchiata da potenze straniere e capace di resistere con le proprie forze.

MUSUDAN: spostati sulla costa orientale sono stati lo spauracchio delle settimane di tensione nella penisola. Sono missili a media gittata capaci di coprire 3mila-4mila chilometri, quindi in teoria le basi Usa a Guam. Sono stati mostrati per la prima volta durante una parata militare del 2010. Non è chiaro se siano mai stati testati.

RODONG SINMUN: il quotidiano dei lavoratori è il giornale ufficiale del Partito dei lavoratori coreano e il principale del paese. Fu fondato nel 1945. È considerato una fonte ufficiale su molti temi della politica nordcoreana. Dal 1996 l’editoriale di Capodanno presenta le linee che il paese seguirà per i successivi dodici mesi.

 Andrea Pira
 



Emozioni e sfide

Sulle orme di padre Witold Malej, missionario della Consolata nato
in Bielorussia
Nato in Bielorussia da famiglia polacca, padre Witold Malej
(1922-2006) è l’unico missionario della Consolata di nazionalità polacca.
Ordinato sacerdote nella diocesi di Varsavia, vi lavorò per vari anni, poi
chiese di entrare nell’Istituto. Emessa la professione religiosa, visitò
l’Africa e fu missionario per alcuni anni in Brasile. Poi chiese e ai superiori
e ottenne il permesso di ritornare in Bielorussia nel suo villaggio di origine
a Dzierkowszczyzna, dove fu parroco fino a quando le forze glielo permisero.
Oggi riposa nel cimitero di Alpignano.

Ho l’occasione di visitare la
Bielorussia grazie a un invito, come segretario della Pontificia unione
missionaria (Pum), a predicare una giornata di ritiro spirituale ai seminaristi
della diocesi di Grodno, insieme al mio collega don Bogdan Michalski,
segretario nazionale delle Pontificie Opere per la Propagazione della Fede e di
San Pietro Apostolo in Polonia.

Oltre a incontrare i seminaristi
ci diamo due obiettivi: cercare nel paese un compagno di seminario di don
Bogdan; cercare il villaggio nel quale nacque e lavorò il mio confratello padre
Witold Malej.

Uno sguardo sul paese

La Bielorussia ha una superficie
di 207.600 kmq e una popolazione di quasi 10 milioni di abitanti. Senza sbocco
al mare, conta 11 mila laghi. Viene attraversata da tre fiumi principali:
Neman, Pripyat e Dnepr.

La Bielorussia è relativamente
piatta e ricca di paludi. Il più grande territorio paludoso è Palesse. Il suo
punto più alto è la Dzyarzhynskaya Hara (Colle di Dzyarzhynsk), con 346 m,
mentre il punto più basso sul fiume Neman a 90 m. La capitale è Minsk. La
popolazione è cristiana: circa 80% ortodossa e 20% cattolica. Anche se le
statistiche mostrano un paese cristiano, in realtà è considerevole il numero di
persone atee.

Scopriamo che molto raramente è
parlato un idioma «puro» nel paese. Bielorusso e russo sono le lingue
ufficiali, ma a scuola si insegna più il russo che il bielorusso. Spesso queste
lingue sono mescolate con il polacco, il lituano e l’ucraino a seconda della
regione in cui ci si trova.

La lingua liturgica più amata dai
cattolici è il polacco. Nella cattedrale di Grodno, ad esempio, la domenica si
celebrano otto messe: una in russo, una in bielorusso e sei in polacco. Ciò
facilita il nostro incontro con i seminaristi, anche se don Bogdan parla russo
e io mi sono comprato un tascabile per le frasi elementari. Ma grazie a una
buona conoscenza del polacco ci si può capire anche con quelle persone che non
lo parlano per discendenza, perché parlano una lingua mescolata. L’alfabeto del
bielorusso e del russo è cirillico. La lingua ha molti suoni comuni alla lingua
polacca. La moneta corrente è il rublo bielorusso. Il cambio è di circa 11.000
rubli per 1 euro. È facile essere milionari in questo paese. Uno stipendio
medio di un insegnante si aggira sui 300 euro. La benzina costa poco: circa
8.000 rubli al litro (0,70 euro), ma bisogna fare attenzione a dove la si
compra perché a volte la qualità può essere scadente.

Per passare dalla Polonia alla
Bielorussia occorre il visa: infatti si esce dall’Unione europea e si entra
nella Confederazione degli stati russi. La strada che percorriamo è una delle
più frequentate dai camionisti. La coda di tir che si è formata oggi ci
impressiona. È lunga circa 25 km e il tempo di attesa per varcare il confine
come segnala un cartello è di ben 40 ore! Per fortuna le macchine vanno
spedite, ma parte di questi 25 km di coda è a una sola corsia così avanziamo
lentamente sorpassando quando si può.

Arrivati alla frontiera, troviamo
una lunga coda di auto targate Bielorussia, che subiscono un controllo
speciale. Per quelle con targa dell’Unione europea, come la nostra, non c’è
fila. I vari controlli (ne contiamo almeno cinque) ci prendono circa un’ora e
mezza. Un buon tempo tutto sommato, ci dicono dopo altri.

Il soldato polacco vedendo che
siamo sacerdoti si mostra particolarmente gentile e addirittura ci insegue per
qualche metro chiedendo preghiere per la sua famiglia. Gliele promettiamo e gli
regaliamo un’immagine della Consolata.

Dalla parte della Bielorussia,
dopo aver compilato altri documenti, incontriamo una giovane che si mostra
gentile, spiegandoci ciò che dobbiamo fare, al contrario del suo collega che in
modo sbrigativo ci indica i documenti da riempire.

Incontro con i seminaristi  e i preti di Grodno

Siamo in Bielorussia! Il
seminario che ci accoglie, a Grodno, è molto vicino alla frontiera e in meno di
un’ora arriviamo a destinazione. Padre Tadeusz, il direttore spirituale, ci
accoglie calorosamente insieme al rettore del seminario. Sono loro che hanno
scritto l’invito passato poi per il vescovo.

Abbiamo un’ora prima della cena e
dell’inizio dell’incontro con i seminaristi. Così accompagnati dal diacono
Paolo e lo studente Czeslaw, visitiamo brevemente Grodno. A dare il benvenuto
al visitatore è un carro armato sovietico posto su una colonna e rivolto verso
l’ovest. Segno di difesa.

Siamo ben impressionati da questa
città di circa 350 mila abitanti. È ordinata e pulita. I giovani passeggiano,
vanno al cinema o al teatro.

Ritorniamo in seminario; e dopo
cena incontriamo gli studenti, 40 circa, 10 di questi vivono nelle parrocchie.
Dopo la presentazione reciproca, introduciamo il tema raccontando delle nostre
esperienze di missione, vissute in Perù da Bogdan e da me in Tanzania, dando
così inizio al ritiro, che continuerà domani per tutta la giornata, scandita da
momenti di preghiera e da conferenze, tutte condite da un respiro missionario.

Troviamo nei seminaristi un clima
aperto e raccolto, attento a ciò che raccontiamo. Capiamo subito che per loro
sono esperienze pastorali totalmente nuove. La Bielorussia attualmente non ha
missionari al di fuori del proprio paese.

A tavola parliamo amichevolmente
con il rettore e i padri spirituali, che ci confermano che in questa diocesi (e
nel paese in generale) non c’è una tradizione precedente di incontro con i
missionari; tuttavia li troviamo aperti. Ogni anno essi mandano due seminaristi
agli incontri missionari in Polonia; proprio da uno di questi incontri è nato
l’invito a venire qui a Grodno.

Alla fine della giornata, dopo
avere avuto anche colloqui personali con i seminaristi, vediamo spuntare
germogli di speranza per il futuro missionario della diocesi: due studenti del
4° anno chiedono e ottengono il permesso di fare un’esperienza in missione
durante le vacanze estive e mi pregano di aiutarli a realizzare tale progetto;
un altro studente dell’ultimo anno di teologia, vuole fare un’esperienza
pastorale missionaria all’estero prima di ricevere l’ordinazione diaconale.

Con nostra grande sorpresa siamo
pregati di fermarci ancora un giorno per partecipare al ritiro mensile degli
oltre 100 sacerdoti della diocesi, che si tiene proprio nel seminario dove ci
troviamo, per dare la nostra testimonianza. Durante la messa presieduta dal
vescovo locale mons. Alessandro Kaszkiewicz, Bogdan fa l’omelia. Finita la
celebrazione, ho spazio per presentarmi e parlare dell’Istituto e, con
l’occasione, di padre Witold Malej nato in Bielorussia, in un’altra diocesi, e
divenuto poi nostro confratello.

Ci fermiamo ancora per il pranzo
e per un caffè con il vescovo, che ci accoglie frateamente e ci invita a
ritornare. Insomma, abbiamo avuto un surplus di animazione d’avvero
inaspettato. Ogni sacerdote ha ricevuto un’immagine della Consolata con la
preghiera e il nostro contatto.

Glebokie e Dzierkowszczyzna

Dopo i saluti e i ringraziamenti,
partiamo alla volta di Minsk, la capitale della Bielorussia. Il visa ci concede
ancora quattro giorni per stare nel paese e così ne approfittiamo per
conoscerlo. Minsk da Grodno dista quasi 300 km, che percorriamo senza problemi,
la strada è buona con poco traffico. Incontriamo diversi camion, ma poche
automobili private. Per tutta la lunghezza del viaggio vediamo solo boschi e
campi con chiazze di neve ancora intatta. Ogni tanto qualche piccolo villaggio
molto modesto costituito da poche case di legno.

Abbiamo in programma due
incontri: il primo con un collega di studi di Bogdan, don Mieczyslaw, che
proviene da Wroclaw in Polonia e che da oltre 20 anni lavora in Bielorussia; il
secondo incontro che vogliamo fare è con la comunità di padre Witold Malej, a
Dzierkowszczyzna. Non abbiamo molte informazioni sui luoghi che cerchiamo e non
sappiamo neanche dove siano precisamente.

A questo punto la Provvidenza ci
fa un regalo davvero grande. Scopriamo con gioia che don Mieczyslaw, l’amico di
Bogdan, è attualmente parroco e decano a Glebokie, a nord del paese, a circa
200 km da Minsk. Inoltre veniamo a sapere che la la sua parrocchia confina
proprio con Dzierkowszczyzna, il villaggio dove padre Malej nacque e lavorò,
mentre a Glebokie fece i primi studi scolastici.

A Glebokie la Provvidenza ci fa
incontrare un’altra persona importante: suor Lema, una giovane religiosa della
congregazione delle Suore Francescane della Santa Famiglia. Attualmente suor
Lema vive a Glebokie a fianco della parrocchia ma proviene da Dzierkowszczyzna.
Non solo. Padre Malej fu il parroco che le insegnò il catechismo; e ci confida
anche che, un po’ scherzando, padre Malej le predisse che sarebbe diventata
suora. Aveva avuto ragione!

Senza di lei non avremmo
conosciuto molto di padre Malej, dato che il parroco attuale poco sapeva delle
origini del suo predecessore missionario.

Memoria ancora viva

Guidati da suor Lema partiamo per
Dzierkowszczyzna. Raggiungiamo il villaggio percorrendo una strada a tratti
piena di buche e non asfaltata. Il villaggio è molto modesto e povero. Le case
sono tutte di legno eccetto alcune che sono state rinnovate. Qui vivono circa
1.000 persone, metà delle quali ortodosse e metà cattoliche.

Andiamo nella parrocchia dove ci
attende il giovane parroco don Witalii che vive qui da 4 anni. Visitiamo
l’esterno della chiesa costruita in pietra. Nel giardino dietro la chiesa è
sepolto lo zio di padre Malej, che era stato parroco. A fianco della tomba
dello zio, padre Malej aveva preparato la sua, ma è rimasta vuota, perché è
sepolto ad Alpignano (Torino).

Suor Lema ci guida per il
villaggio e ci porta nel punto in cui sorgeva la casa natale di Malej. Oggi è
solo una rovina. Poi andiamo al cimitero e visitiamo la tomba del papà di Malej
qui seppellito, mentre la moglie è sepolta in Polonia.

Poi prima di celebrare la Messa
facciamo visita dall’unico parente che vive ancora qui. È una persona anziana, Giovanni,
figlio di un cugino che vive con la moglie Anna. Anna racconta e si commuove
ricordando Malej. Ci dice che gli volevano tutti bene perché aiutava molte
persone, e che la gente fu dispiaciuta quando partì per l’Italia dopo aver
lavorato 11 anni qui come parroco.

Dopo l’incontro celebriamo la
Messa con un piccolo gruppo di anziane fedeli. Per l’occasione abbiamo portato
un quadro della Consolata che benediciamo e consegniamo alla comunità per mano
del parroco. Alla fine della celebrazione eucaristica canto il nostro inno «O
Consolata
». Lascio anche le immaginette della Consolata per tutti i fedeli
della parrocchia.

Tuttavia la Consolata era qui già
presente. Malej aveva molte immagini di lei. La più grande è in chiesa appesa a
un muro laterale, mentre altre sono nella casa parrocchiale ancora oggi nelle
stesse posizioni in cui erano ai suoi tempi. Troviamo anche i libri di padre
Candido Bona, con le lettere del Fondatore e la storia dell’Istituto.

Prima di salutarci facciamo cena
dalla signora Stanisława, che è la sacrestana della chiesa. Mentre apparecchia
la tavola, ci mostra le foto della tomba di padre Malej del cimitero di
Alpignano che ha ricevuto dall’Italia con la comunicazione della morte. Al
vedere le foto suor Lema si emoziona ed esclama: «Il mio parroco!».

Dialogando con la signora Stanisława
scopriamo che Malej ha una sorella ancora viva a Białystok in Polonia e nipoti
a Varsavia. Scriviamo il numero di telefono della sorella. 

Alla fine della giornata ci
congediamo. Il parroco ci invita a tornare. Questo luogo per noi è
significativo e in futuro terremo i contatti. Ma lasciamo al Signore guidare i
nostri passi, come chiaramente ci ha guidati in questi giorni. Volevamo
conoscere questo luogo, ma avevamo solo il nome del villaggio… e la Bielorussia
è grande. Anche Bogdan riesce a incontrare il suo vecchio compagno di studi.

Conclusione

Lasciando la Bielorussia dopo
quasi una settimana, passiamo in Lituania e ci fermiamo a Vilnius, la capitale
del paese. La distanza dalla Bielorussia è di poche decine di chilometri, ma le
differenze dello stile di vita sono grandi.

Ci sentiamo arricchiti da questa
missione breve e intensa. Abbiamo visto un paese che pur appartenendo
geograficamente all’Europa è notevolmente diverso da essa. Abbiamo chiara la
percezione di come la Provvidenza ci abbia guidato, soprattutto nella ricerca e
nell’incontro avuto con la comunità nativa di padre Witold Malej. Lasciamo che
la stessa Provvidenza continui a guidarci in questo cammino non facile, ma
affascinante, verso l’Est dell’Europa. Sfida che l’Istituto sente sua,
inviandoci in Polonia e continuando la missione.

Luca Bovio

Luca Bovio




Il medico che realizzava i sogni

2003-2013, Il decennale della scomparsa di Carlo Urbani

Il 29 marzo 2003, a Bangkok, moriva Carlo
Urbani, medico e infettivologo di Castelplanio (Ancona). Veniva ucciso dalla
Sars, il cui virus lui stesso aveva individuato. Abbiamo chiesto a Tommaso, figlio maggiore di
Carlo, di ricordare suo padre, il «babbo», come affettuosamente lo chiama. Ne è
uscito un ritratto speciale, vero e tenero a un tempo.

Negli ultimi mesi sono stato invitato spesso per ricordare
mio padre, per parlare di lui, come medico ma soprattutto come genitore. Sono
arrivato addirittura fino a Taiwan e in Vietnam. L’affetto e la riconoscenza
che ho trovato, anche in chi non lo conosceva, mi ha commosso.

Castelplanio

Per me non è un peso partecipare a queste
cerimonie. Non lo faccio solamente per ricordare, ma soprattutto per portare
avanti il suo, i suoi ideali. Gli ideali per i quali mio padre si è battuto
durante il corso della sua vita, gli ideali nei quali credeva fortemente. Penso
sia importante far conoscere alla gente la sua figura, per fare in modo che ce
ne possano essere altre, per dare uno stimolo e un appoggio a tutti coloro che,
ogni giorno, si battono per la difesa dei diritti umani e l’accesso alla
salute. Perché alla base dell’avventura di vita di mio padre c’erano questi
principi, coltivati sin da bambino, a Castelplanio. Spesso è stato ricordato il
suo impegno con Mani Tese, da ragazzo, o ancora la creazione, assieme ad
altri, del Gruppo solidarietà che si occupava e si occupa tuttora del
sostegno a persone disabili1. Iniziarono poi i primi viaggi all’estero. Insieme ad
alcuni amici raccoglieva medicinali per poi portarli in paesi africani, dove
l’accesso alla salute, alle cure sanitarie di base è un miraggio. Il suo era un
sogno, ma un sogno che doveva diventare un obiettivo: la sua realizzazione lo
avrebbe reso felice. Non accettava le condizioni nelle quali vivevano troppe
popolazioni, dimenticate e vulnerabili. Quindi lui doveva agire, doveva essere
in prima linea per aiutarli. Questo suo sogno lo realizzò quando iniziò a
collaborare con Medici senza frontiere (Msf) prima, e con l’Organizzazione
mondiale della sanità
(Oms) poi. Lo scrive lui stesso in una lettera a suo
fratello: «Sono cresciuto inseguendo i miei sogni, e ora credo di esserci
riuscito». Questa frase riassume un po’ lo spirito che ha accompagnato mio
padre nel corso degli anni, che lo ha portato a realizzarsi nel lavoro, come
nella vita.

Le Crocette sul Calendario  

Lavoro e vita: si tende a pensare che queste
due cose non possano convivere. Se si lavora troppo si rischia di trascurare la
propria vita, la propria famiglia, e viceversa. Per lui non era così. Mio padre
ha sempre avuto la grande capacità di portare avanti entrambe le cose. E non
superficialmente. Ogni minima cosa era fatta con passione. Ecco, questo è il
termine giusto: passione. Era appassionato del suo lavoro, della sua esistenza.

Nei primi anni della mia vita, almeno da
quando ricordo, lavorava a Macerata, collaborava con l’Oms e ogni tanto partiva
in missione. In quegli anni ancora non c’era stata l’esplosione di Inteet, i
voli last-minute non erano un’abitudine, e le comunicazioni erano
limitate… si scrivevano le lettere a mano! Insomma durante quelle missioni
c’era una corrispondenza epistolare in cui mi raccontava (allora ero ancora
figlio unico) il suo lavoro, la sua esperienza, e lo faceva con semplicità, la
semplicità con la quale un padre racconta una fiaba al figlio. Una volta prima
di una sua partenza ero arrabbiato, non volevo lasciarlo andare. Lui mi preparò
una caccia al tesoro, lasciando indizi sparsi in tutta la casa, che dovevo
completare con mia mamma una volta partito. Io non stavo più nella pelle,
aspettavo quindi con ansia la sua partenza.

Una volta trovato il premio però la nostalgia
ricominciava, e con mia madre mettevamo le crocette sul calendario ogni giorno,
aspettando il suo ritorno. Inutile dire la nostra gioia al suo rientro: ci
raccontava dettagliatamente il suo viaggio, con foto, aneddoti, e regalini.

Ricordo con gioia un ultimo giorno di scuola.
Ognuno doveva portare un dolce fatto in casa, una crostata, un ciambellone. Io
chiesi a mia mamma di fae uno, ma si offrì mio padre. Il pomeriggio del
giorno prima, ancora nulla… Iniziavo a preoccuparmi. Lui era in ospedale a
Macerata. La mattina, scendendo in cucina, trovai una casa fatta di biscotti e
marzapane, completamente decorata. Sembrava vera. Lui mi guardò e chiese: «Ti
piace?». Questo era mio padre.

In un modo o in un altro riusciva sempre a
non far pesare la sua mancanza, e devo riconoscere che ci riusciva davvero
bene!

Ricordo con piacere gli anni in cui lavorava
a Macerata, spesso quando si fermava a fare la notte lo raggiungevamo. Avevamo
un piccolo appartamento dove stare. Erano bei momenti, ero felice perché
eravamo tutti insieme. Semplici momenti di quotidianità che, come d’incanto, diventavano
magici.

Da Macerata a Phnom Penh

Quando – era il 1996 – arrivò la chiamata di
Msf per una missione in Cambogia, mio fratello Luca aveva appena un anno.

Mio padre ci propose questa «avventura». Come
risponderebbe un ragazzino di 9 anni se il padre gli chiedesse: «Volete venire
con me in Cambogia per un anno?». Non saprei. Ma so come risposi io. E come
risponderebbe una madre con un figlio appena nato? Probabilmente e
comprensibilmente con un «no». Io ero entusiasta, mia madre di meno. Ma ci
fidavamo di lui.

Quello che faceva mi coinvolgeva in qualche
modo, anche se non lo sapevo ancora. Allora lo vedevo come un viaggio in un
nuovo posto, una vacanza prolungata. D’altronde avevo solo 9 anni. Iniziai a
seguire dei corsi di lingua, là avrei frequentato la scuola francese. La sera a
casa mio padre mi interrogava, dovevo prepararmi al meglio. Ricordo ancora il
giorno della partenza. Un convoglio di amici e parenti ci accompagnò in
aeroporto a Falconara. E prendemmo il volo verso un nuovo mondo, una nuova
vita.

Il primo impatto non fu affatto facile: caldo
torrido, zanzare, scarafaggi, strade dissestate, spazzatura ovunque, tanta
povertà… In Cambogia erano ancora presenti i Khmer Rossi di Pol Pot, quindi la
situazione non era delle più rosee. Ci trovavamo a Phnom Penh, la capitale, e
inizialmente abitavamo nella casa famiglia di Msf. Non fu facile, lo ripeto. Ma
posso dire, dopo diversi anni, che la mia vita quell’anno cambiò. Mio padre mi
fece scoprire la povertà, quella vera, le condizioni nelle quali vivono troppi
bambini. Sembrano cose scontate, risapute, ma credo che non possano essere
capite se non vissute.

Superato l’impatto iniziale fu tutta un’altra
cosa. Dopo alcuni giorni di preparativi era arrivato il momento del colloquio
con il preside della scuola francese. Mi ero preparato minuziosamente il
discorso con mio padre, quindi ero pronto.

Entrammo nella scuola: palazzone giallo in
stile coloniale, campi da calcetto in terra, palme… poi l’ufficio. Il cuore mi
batteva a mille, mio padre cercava di tranquillizzarmi senza successo (mica
poteva far tutto!). Una volta dentro, il preside mi salutò e chiese come mi
chiamassi. Silenzio. Quanti anni hai? Silenzio. Al terzo silenzio intervenne
mio padre. Fu una tragedia. Una vergogna. Uscimmo entrambi sconvolti dalla mia debacle.
Eravamo increduli. Ma fu solo un episodio, poi mi integrai alla perfezione e
dopo un mese parlavo francese meglio del mio babbo! Tutto andava bene, la
scuola, mi ero fatto i primi amici stranieri, mia mamma faceva volontariato in un
orfanatrofio che ogni tanto visitavamo, mio fratello imparava il khmer, e babbo
era felice. Perché era riuscito a coinvolgerci nella sua avventura. Era
soddisfatto del suo lavoro, si assentava spesso per missioni sul campo, durante
le quali eravamo alquanto in apprensione. I Khmer Rossi pattugliavano le
periferie e le campagne, non era molto sicuro andare in giro. Ma era il suo
lavoro. A Phnom Penh c’era il coprifuoco la sera, ma di giorno giravamo
tranquillamente. Una delle cose che mi «eccitavano» di più erano le vacanze al
mare. Partivamo in convoglio con diverse Land Rover di Msf insieme ai colleghi
del mio babbo. Vivevo quei momenti quasi come un film. Ogni due settimane
andavamo a messa nella comunità cattolica francese, ed è lì che feci la mia
prima comunione. Ci venne a trovare anche mia nonna patea. Fu in
quell’occasione che mio padre organizzò un viaggio in macchina, in un altro
paese, il Vietnam. Ero ignaro di quello che sarebbe successo poi. Quel paese
pochi anni dopo sarebbe diventato la mia, la nostra casa. E lo è tuttora.
Ma torniamo alla Cambogia. Un bel periodo
dicevo, sì. Poi però, nel luglio 1997, scoppiò un colpo di stato2.

A Oslo e quel giorno senza Stampa

Quella mattina mio padre non c’era, era
fuori città, doveva tornare in aereo ma non lo facevano atterrare. L’aeroporto
era sotto assedio, e in città c’era la guerriglia. Ero a casa con mia mamma e
mio fratello e sentivamo le bombe esplodere, i carri armati sparare, i
proiettili volare. Uno scenario surreale, quello che sembrava essere un film
era realtà. Ma in quel momento l’unico mio pensiero era rivedere mio padre:
l’aereo riuscì ad atterrare e per fortuna toò a casa. Ci rifugiammo tutti in
un’abitazione vicina, insieme ai suoi colleghi che oramai erano diventati una
grande famiglia, la grande famiglia di Medici senza frontiere. I primi giorni
di attacchi e bombardamenti sembravano infiniti, le mura tremavano, si
sentivano le urla di paura e disperazione della popolazione, le tv
trasmettevano le immagini della città. Strade nelle quali camminavamo tutti i
giorni ricoperte di sangue e cadaveri. Uno spettacolo macabro. Io non capivo,
perché stava succedendo? E probabilmente, anzi sicuramente non mi rendevo
nemmeno conto della gravità della situazione. Un giorno addirittura chiesi a
mio padre di tornare nella nostra casa per prendere dei giochi che avevo
dimenticato. Un suo collega mi rimproverò: «Cosa ti salta in mente? Vuoi che
tuo padre si becchi un proiettile in testa per un gioco?». Ci rimasi male, ma
mi aiutò a rendermi conto che non si trattava di un divertimento. Dopo qualche
giorno i combattimenti finirono, mio padre e i suoi colleghi andavano in giro
per soccorrere eventuali feriti. Dopodiché ci evacuarono a Bangkok mentre la
situazione tornava alla normalità.

Qualcuno potrebbe pensare: «Ma chi è
quell’incosciente che porta la sua famiglia in guerra?». Non è così. Eravamo
una famiglia, lui non sarebbe partito senza di noi, e noi non gli avremmo
impedito di accettare quell’incarico.

Una volta in Italia si toò alla normalità.
Io a scuola a Castelplanio, mio babbo a Macerata, mio fratello all’asilo, mia
mamma al lavoro. Tutto normale, forse troppo. Grazie a mio padre avevo scoperto
nuovi orizzonti, quegli orizzonti che tanto aveva inseguito e raggiunto insieme
a noi. Quella vita mi stava stretta. Figuratevi a lui!

Dopo l’anno in Cambogia aveva capito che
poteva contare su di me per queste cose, un po’ meno su mia mamma. E come darle
torto, portare due figli in Cambogia non era stato di certo come fare una
passeggiata sul monte.

In quegli anni mio padre fu eletto
presidente della sezione italiana di Medici senza frontiere. E nel 1999
l’organizzazione vinse il premio Nobel per la pace. Lui andò insieme a tutti i
presidenti di Medici senza frontiere alla cerimonia di consegna, ad Oslo.
Purtroppo non se ne parlò molto in Italia di quel giorno speciale per Msf.

Non si parlò di quei medici che lottano per
assicurare un minimo di dignità e salute alle popolazioni dimenticate. Non se
ne parlò: quel giorno c’era lo sciopero della stampa.

Coalizzati… per convincere mamma 

Un giorno il mio babbo mi chiamò nel suo
studio. Aveva un libro in mano. C’era la foto di un lago con degli alberi
intorno e al centro un’isoletta con un tempio. «Tommy, questo è il lago di Hoan
Kiem.  Si trova ad Hanoi, la capitale del
Vietnam. La leggenda narra che al suo interno viva una tartaruga gigante, che
durante l’invasione cinese consegnò la spada all’imperatore vietnamita che
liberò il suo popolo dagli oppressori cinesi. Se ti dicessi che c’è la
possibilità di andarci a vivere?». Esplosi in un misto di gioia ed emozione,
non riuscivo a parlare, era tutto troppo bello per essere vero, mi sembrava di
vivere un sogno. La frase successiva fu: «Però devi aiutarmi a convincere mamma».

Nemmeno a farlo apposta, mia mamma era
incinta di Maddalena. Tempismo perfetto! Non fu semplice, ma mio padre con il
suo carisma (e il mio appoggio) riuscì nell’intento.

Mancava solo l’ufficialità. Per me era una
vera sofferenza non poter raccontarlo a nessuno (anche per un po’ di naturale
scaramanzia).

Un pomeriggio di autunno, tornando da scuola,
trovai mio padre seduto nel suo studio, serissimo. «Che è successo?», chiesi. «Non
sono stato scelto per il Vietnam». Sentivo tutta la sua delusione, che si
aggiunse alla mia. Raramente lo avevo visto così, un conto era vederlo
arrabbiato per qualche mio brutto voto a scuola, un altro era vederlo così. Poi
la sorpresa. Un suo collega della Cambogia, suo grande amico, gli aveva voluto
fare uno scherzo. In realtà ancora non s’era deciso nulla. Lo odiammo entrambi.

Arrivò il 6 gennaio 2000. Il giorno
dell’epifania, a Castelplanio, era usanza lanciare i palloncini dalla piazza
del comune, dopo la messa. Ero lì con mia mamma e mio fratello. Mio babbo era
rimasto a casa per lavorare.

Ad un certo punto lo vedo arrivare in
lontananza. Un sorriso a trentasei denti stampato in faccia. Capii al volo. Gli
corsi incontro e gli saltai addosso. «Andiamo in Vietnam, Tommy!». Non
dimenticherò mai quel giorno.

Sei mesi dopo partimmo tutti insieme, con un
passeggero in più, Maddalena, nata da due mesi.

La partenza fu diversa rispetto alla
Cambogia. Ad Hanoi mio padre aveva trovato una casa, e la situazione era
completamente diversa. Noi eravamo diversi. Eravamo pronti per questo nuovo cambiamento,
che sarebbe stato definitivo. Mio padre infatti, accettando l’incarico
dell’Oms, si era licenziato dall’ospedale rifiutando l’incarico di primario.

Hanoi e l’asilo di Maddalena

L’arrivo in Vietnam fu magico. Odori, rumori,
immagini che ho stampate in mente e nel cuore. Ogni volta che rimetto piede in
quel paese mi sento a casa. E questo grazie a mio padre.

Credo che in Vietnam raggiunse l’apice della
sua carriera. Era molto impegnato, come sempre, anzi forse più del solito. Ma
di nuovo faceva di tutto pur di farci essere felici. Non sto parlando di
benessere materiale, ma interiore.

Per noi era una gioia girare con lui. Non
erano dei banali giri turistici. Tutt’altro. Scoprivamo la cultura, le usanze,
i difetti di quel popolo (li adoro, ma i vietnamiti sono molto testardi!), ci
mescolavamo tra loro, condividevamo tutto con loro. Io e mio fratello
frequentavamo la scuola francese, mentre mia sorella era stata iscritta
all’asilo vietnamita. Bellissimo, anche se a casa avevamo bisogno dell’interprete,
dato che Maddalena parlava solo vietnamita.

Mio padre era fiero di tutto ciò. Era
riuscito in qualcosa di straordinario. E non sto parlando del lavoro. Ma della
famiglia. Era riuscito, attraverso il suo impegno nell’aiutare gli altri, a
farci capire cosa sia la vera felicità, il vero amore, la vera gratitudine. Che
troppo spesso pensiamo solo a noi stessi quando in troppi soffrono perché
perdono «la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la
diarrea, i risparmi per un ladro», come scrisse in una lettera.

Era felice di vedere mia sorella parlare
vietnamita, mio fratello giocare con i vicini di casa, me che raccontavo le
birre di troppo prese con gli amici. I suoi sogni si erano avverati, realizzati
sia nella vita che nel lavoro. E in tutto questo era riuscito anche a crescere
i suoi figli.

Un Uomo, Un Medico (Ma non un Eroe)   

Tutti sanno cosa è successo il 29 marzo del
2003. Mi crollò il mondo addosso. A me, a mia madre Giuliana, a mio fratello
Luca (mentre – per fortuna – mia sorella Maddalena era ancora troppo
piccola).  A famigliari,
amici, colleghi. Mio padre è stato spesso chiamato «eroe». Non sono d’accordo.
Mio padre è stato un medico, un uomo che si è messo a disposizione dei più
bisognosi. Ma non è l’unico. In tutto il mondo ci sono persone che rischiano la
loro vita per aiutare i più deboli, i più sfortunati… questo non va
dimenticato.

In molti mi chiedono se, ogni tanto, rimprovero
mio padre per la scelta che ha fatto. Lui mi manca. Ci manca. Ma sono convinto
che, se dovesse rivivere quel periodo, mio padre farebbe esattamente le stesse
scelte. Era la sua vita, la sua passione. E nessuno glielo rimprovererà.

Sono passati dieci anni dalla sua morte,
eppure molti dei suoi insegnamenti li colgo solo ora. Cerco di impegnarmi nel
quotidiano per provare a rispettare i valori che egli ha difeso con tanta
passione e amore. E, come detto all’inizio di questo ricordo, continuo ad accettare
gli inviti che ricevo in Italia e nel mondo, per trasmettere il suo messaggio,
per ricordare la sua figura di medico e uomo.

Sono convinto che da lassù mio padre mi
guardi. E probabilmente, considerando l’ironia di cui era largamente provvisto,
si faccia pure due risate.

Tommaso
Urbani*

* Tommaso
Urbani, primogenito di Carlo Urbani, è studente universitario. Partito da Forlì
(Scuola interpreti), passato per Bruxelles (per un master), frequenta
attualmente l’Università di Trieste. Appassionato di musica, suona il sax.

       Note             
1 – Il Gruppo solidarietà ha sede a Moie di Maiolati. Questo
il suo sito: www.grusol.it.
2 – Ebbe luogo tra luglio e agosto del 1997. Si trattò di
una lotta intestina tra i due uomini forti del governo: Hun Sen e il principe
Norodom Ranariddh. Il primo ebbe la meglio.

 
           Carlo Urbani e Missioni Consolata                                                      


COME STA FATOU?

Carlo Urbani è stato un nostro amico e collaboratore. Fu lui
stesso a stabilire il titolo della sua rubrica: «Come sta Fatou? In viaggio tra
malattie e sottosviluppo». Il primo articolo uscìnel gennaio del 1999.

Conobbi Carlo nell’ormai lontanissimo 1988. Ci incontrammo
in un viaggio alternativo in India e Nepal che lui stesso guidava. Fu immediato
capire che persona fosse: ironica, estroversa, curiosa. Appassionato di
fotografia, ma anche di cibo. E poi c’era il Carlo-medico, gentile e
competente. Fu un viaggio unico, anche per gli inconvenienti occorsi. Ci
rivedemmo ancora sia a casa mia, in Trentino, che a Castelplanio. Nell’autunno
del 1998 gli chiesi se volesse curare una rubrica di medicina per Missioni
Consolata. Rispose subito di sì e propose anche il titolo: «Come sta Fatou? In
viaggio tra malattie e sottosviluppo». Curò la rubrica fino alla partenza per
Hanoi, dove nel marzo del 2003 si ammalò. Seppi della sua morte poche ore dopo
il fatto. Cinzia, una comune amica di Castelplanio, mi telefonò per avvertirmi.
Pensai subito che scherzasse, ma purtroppo mi sbagliavo.

Nell’introdurre la sua rubrica – era il gennaio 1999 – Carlo
aveva scritto: «In questa rubrica (…) ci racconteremo qualcosa che riguarda
la salute, o meglio l’assenza di salute, in questo mondo dei più sfortunati,
dove povertà e malattia si generano a vicenda». Carlo non è morto a causa di
una delle malattie descritte nei suoi scritti, ma per la Sars, una patologia
fino ad allora sconosciuta il cui virus egli stesso aveva individuato.

Prima di chiedere a Tommaso di scrivere un ricordo di suo
padre, ci ho pensato molto. Mi sembrava di essere invadente, irrispettoso, come
sanno essere molti giornalisti. Poi ho capito che, dal giorno della sua
scomparsa, Carlo Urbani non è più soltanto un individuo ma un’icona pubblica,
un simbolo positivo. Di più: in questa Italia disastrata e senza speranza Carlo
Urbani rappresenta un esempio luminoso, un italiano di cui parlare ed essere
orgogliosi.

Paolo Moiola

Tommaso Urbani




Segni di risurrezione

Gruppo «fede e impegno» della parrocchia di Arvaiheer
Il tasso di disoccupazione è molto alto e il pericolo di cadere
nell’alcolismo è sempre in agguato; così durante l’inverno del 2012 nella
missione di Arvaiheer abbiamo formato con alcuni uomini il gruppo «fede e
impegno», offrendo loro un’opportunità di aggregazione basata sulla condivisione
di vita, sul lavoro manuale e la realizzazione di manufatti artigianali. Con
tali impegni dimenticano l’alcol e riacquistano la propria dignità.

Enkhamgalan (Amgaa per gli amici) è
un giovane medico dell’ospedale di Arvaiheer. Ci siamo conosciuti quando
insegnavo inglese alla biblioteca comunale. Da allora siamo rimasti in contatto
e nel tempo è nata una bella amicizia. Quando ne abbiamo bisogno, viene a
trovarci per consulti medici.

Così è stato anche pochi giorni
fa, mentre, fuori, il neonato gruppo di uomini stava lavorando a rimuovere lo
spesso strato di neve accumulata sotto le finestre. Finita la visita, Amgaa si è
fermato nell’ufficetto parrocchiale e abbiamo scambiato due parole. Gli ho
raccontato del gruppo itgel zutgel («Fede e impegno») e ne è rimasto
colpito.

Il lavoro fuori era ormai finito
e gli uomini entravano per salutare; allora ho pensato di trattenerli ancora un
poco per far fare loro conoscenza con Amgaa. In pochi minuti il piccolo ufficio
si è riempito: Boldoo, Renchin, Ganaa, Henchmedhev, Jigmedsuren e Chuka
siedevano intorno alla scrivania, mentre introducevo brevemente l’amico Amgaa.
Era la prima volta che ci trovavamo solo tra uomini, l’atmosfera era
interessante.

Dopo la mia
breve presentazione di Amgaa (troppo povera di elogi), lui stesso ha preso la
parola e subito la musica è cambiata: era iniziata una vera conversazione tra
mongoli, fatta di frasi brevi, quasi sbiascicate, spesso interrotte da suoni
rauchi e spezzati, come di chi aspira velocemente una consonante, bloccandola
in gola. È il loro modo di annuire. Amgaa raccontava la nostra amicizia dal suo
punto di vista e mi ha colpito quello che diceva: «Ho tanta stima di questa
gente straniera che è qui con voi; pur non essendo mongoli, per il vostro
cambiamento in meglio stanno facendo più loro che i nostri politici…». Poi ha
continuato: «Io non sono della stessa religione, ma non posso che restare
ammirato di quello che vedo: si prendono cura di voi, dei vostri bambini e
giovani; adesso vi hanno proposto questo radunarsi tra uomini: io ricordo le
facce di alcuni di voi, quando avete avuto bisogno del medico perché vi avevano
trovati ubriachi per strada» – e qui ha alzato il capo per la prima volta, dopo
esser rimasto chino sulle braccia appoggiate pesantemente su un angolo della
scrivania. Lo sguardo non era di critica, ma di compassione.

Nell’aria si sentiva che c’era
intesa tra loro: «Quando ho varcato lo spazio di questa staccionata ho visto
che vi davate da fare con la neve e ho riconosciuto le vostre facce. Siete
diversi, ve ne rendete conto?».

La frase, spezzettata varie
volte, è finita in crescendo e in risposta si sono elevati altri «tkhhhh» e
brevi cenni di assenso. «Se volete, potremmo pensare di vederci qualche volta,
per parlare di salute».

Questa infatti era la mia
proposta: invitare Amgaa e altri medici a parlare di temi legati alla salute,
per offrire momenti formativi. L’idea è piaciuta; ma è piaciuto ancora di più
il fatto di trovarsi insieme come uomini dignitosi, seduti compostamente al
termine di una giornata di lavoro. Cosa che quasi nessuno ricordava di aver
vissuto di recente.

Quando è squillato il telefono di
Boldoo e lui ha risposto: «Aspetta, sono in riunione», un altro gli ha fatto il
verso. Non erano abituati a sentirsi considerati.

Poi Amgaa è ritornato sul loro
cambiamento: «Io so cosa vuol dire avere in casa uno che beve. Mio padre ai
tempi del comunismo era responsabile di una brigata di costruttori. Quando il
sistema è crollato chi aveva un posto come lui ha trovato il modo di accaparrarsi
qualcosa, lui – che era molto onesto – no. Così in breve tempo si è trovato con
l’acqua alla gola. È andato giù di morale e ha cominciato a bere».

Il silenzio era palpabile; non
c’era artificio nel discorso di Amgaa. Diceva sempre che «nella vita di un uomo
prima o poi arriva il giorno in cui ti si apre la mente e capisci; per me quel
giorno dev’essere arrivato quando avevo 17 anni. Ho visto le mie tre sorelle
minori non mangiare nulla per 48 ore e mi son detto: non farò mai questo ai
miei figli».

Qualcuno
aveva gli occhi lucidi; nessuno lo ha interrotto. «Mio padre poi si è ripreso;
io sono andato all’università e sono diventato medico. Adesso che ho un bambino
di tre anni mi accorgo che lui ripete tutto quello che faccio e dico. Bisogna
che diamo un buon esempio ai nostri figli. I vostri figli e nipoti adesso
saranno contenti di vedervi così».

È sembrato un passaggio di testimone. è stato Renchin, il più anziano, a
prendere la parola: «Oggi è stato molto bello; abbiamo lavorato tutto il
giorno, non c’è stato il tempo neanche di pensare a bere. Io per anni ho
lavorato al teatro di Arvaiheer come cantante stabile. Poi ho cominciato a bere
e mi hanno buttato fuori. Dopo un po’ un conoscente mi ha dato un’altra
possibilità: andare a Ulaanbaatar, per entrare nel gruppo folkloristico di
stato. Mi hanno preso subito. Quello che guadagnavo
lo finivo subito con gli amici bevendo. Mi hanno cacciato anche di là».

Chuka, il nostro guardiano,
sembrava il più entusiasta: «Anch’io sotto il comunismo ero un capo, in una
piccola unità produttiva della campagna qui vicino. Lo scaffale era sempre
pieno di vodka. Anche ultimamente, da quando lavoro qui per la Chiesa, bevevo.
Poi, 10 mesi fa, mia madre mi ha detto: “Finché tua madre è in vita, non darle
questo dispiacere: smetti di bere. E io ho smesso”». Davvero, il suo è un caso eclatante; noi missionari ne siamo testimoni.
«Ho scoperto che si può anche fare a meno di bere e stai meglio, la gente ti
rispetta, riesci a lavorare – ha continuato Chuka -. Prima mio figlio, che
studia a Ulaanbaatar, al telefono chiamava solo mia moglie, chiedendole se papà
era ubriaco; adesso telefona direttamente a me! Capite? Mio figlio adesso
telefona direttamente a me!».

Piccoli segni di vera
risurrezione. «Anch’io ho lavorato a lungo per il teatro di stato, come attore.
Sono un buon pittore e ho decorato la stupa che si trova su quella
collina» ha detto Ganaa.

«Però, qui siete proprio tutti
artisti!» ha esclamato Amgaa. «Ebbene – ha continuato Ganaa -, quello che
ricordo è il trovarmi rannicchiato vicino alla porta, perché non riuscivo a
mettere le chiavi nella toppa. Sempre sbronzo. Adesso non bevo più; da quando
vengo qui le cose sono cambiate. Come gruppo vorremmo metterci a fare qualche
lavoretto, poi si vedrà».

Gli altri non hanno parlato, ma
era come se l’avessero fatto. Mi è venuto spontaneo intervenire: «Dovete
ringraziare molto le vostre mogli, se adesso siete così; è la loro pazienza e
la loro fede che vi hanno tenuti in vita». Sorridevano approvando. Sono state le
donne ad avvicinarsi per prime alla Chiesa e poco alla volta li hanno cambiati.

Ho provato una sensazione molto
bella, quella di essere spettatore di un miracolo più grande di noi e dei
nostri sforzi; c’è Qualcuno che ha tessuto la trama di queste vite e ora le
porta verso di Sé. Nessuno avrebbe detto che questi uomini si sarebbero trovati
qui un giorno a raccontarsi la loro vita. Neanche noi missionari e missionarie.
È vero, abbiamo messo in opera certe iniziative, è necessario e giusto farlo;
ma quello a cui stiamo assistendo va ben al di là dei nostri sforzi. Forse
quello che conta allora non è tanto il nostro affannarci dietro le tante cose
da fare, correndo di qua e di là, ma l’accorgerci di questo passaggio dello
Spirito. Esserci, con fede e pazienza. Questo è ciò che ci è richiesto. Al
Signore è sufficiente per compiere la Sua opera.

Giorgio Marengo

Giorgio Marengo