Armi: commercio trasparente?

Ad aprile l’Onu ha approvato il trattato
sul commercio delle armi. Gli stati dovranno dichiarare la destinazione delle
armi prodotte. Ma l’accordo entrerà in vigore solo con la ratifica di 50 paesi.

Sembra
paradossale, ma un effetto positivo la crisi lo ha avuto: le spese mondiali per
armamenti nel 2012 sono diminuite dello 0,5%. È la prima volta in dieci anni.
Le nuove guerre del terzo millennio, che si sono sommate a quelle vecchie, e la
lotta al terrorismo hanno fatto crescere smisuratamente gli investimenti in
armi che oggi superano i livelli del periodo della guerra fredda: nel 2012 sono
stati spesi 1.750 miliardi di dollari, il 2% per prodotto mondiale lordo. La
diminuzione rispetto all’anno precedente è dovuta alla contrazione della spesa
nei paesi occidentali colpiti dalla crisi, in compenso hanno speso di più le
nuove potenze economiche: la Cina registra un 8% in più, la Russia ben il 16%.
Insomma non si tratta di un’inversione di tendenza, il pianeta continua a
essere super armato e il commercio delle armi fiorente, al primo posto nella
classifica degli esportatori rimangono gli Stati Uniti, in contrasto con le
crociate di Obama contro le troppe armi in casa propria, poi la Russia e più
distanti Germania e Francia, l’Italia non sfigura piazzandosi all’ottavo posto.
I migliori clienti sono in Asia: India, Cina, Pakistan, Corea, ma anche i paesi
del Nord Africa hanno aumentato le importazioni.

Questo è il commercio, per così dire, legale, in cui le
transazioni sono registrate dai governi, poi c’è quello clandestino che
alimenta i conflitti più spaventosi, come quello della Siria, 200 mila vittime
e un milione e mezzo di rifugiati.

In Italia, timida e inascoltata dalla politica, si è
alzata la voce dei movimenti pacifisti contro gli F-35 che non
solo costano al bilancio della stato decine di miliardi, che investiti
diversamente potrebbero far ripartire l’economia e l’occupazione, ma sono
mostri attrezzati per trasportare armi nucleari telecomandate. Nel nostro paese
mancano le risorse per la ricerca contro le malattie e le varie associazioni, come
l’Airc (Associazione italiana ricerca sul cancro) devono contare sulla
generosità dei cittadini, eppure l’industria italiana degli armamenti continua
a disporre, anche grazie ai finanziamenti pubblici, di sostanziosi mezzi per lo
sviluppo tecnologico.

In
questo scenario desolante, lo scorso aprile si è aperto uno spiraglio: dopo
sette anni di complicate mediazioni, l’Assemblea delle Nazioni Unite ha
approvato a larga maggioranza il Trattato internazionale sul commercio delle
armi
. Scopo dell’accordo non è quello di bloccare l’import e l’export di
armamenti convenzionali: dai carri armati alle pistole, dagli aerei da guerra
ai sistemi di artiglieria, piuttosto di porvi dei limiti, scoraggiando la
vendita a paesi sotto embargo, come la Siria o l’Iraq, o a paesi responsabili
di gravi violazioni dei diritti umani, come l’ Uzbekistan o il Congo
Rd.

Il governo degli Stati Uniti che, pressato dalle lobby
dell’industria bellica, ha contribuito alla lungaggine delle trattative, ha
dichiarato che si tratta di un accordo storico perché contribuirà a «ridurre la
violenza nel mondo». Gli Stati continueranno legittimamente a produrre ed
esportare armi, ma dovranno dichiarare dove sono destinate, evitando che
vengano utilizzate da paesi e gruppi colpevoli di genocidi, crimini contro
l’umanità o atti di terrorismo. Amnesty Inteational, che avrebbe sperato in
un trattato vincolante che prevedesse divieti e sanzioni, ha dichiarato: «Non è
l’accordo che avevamo sperato, ma è un effettivo passo avanti, in quanto
obbliga tutti gli stati ad una maggiore trasparenza»

L’opinione pubblica potrà sapere e intervenire, questo è
l’aspetto più importante dell’accordo che, occorre ricordarlo, entrerà in
vigore solo quando almeno 50 paesi l’avranno ratificato. Sotto questo profilo
l’Italia può fare da scuola, infatti, grazie alla pressione di Ong e Istituti
missionari e all’impegno di molti parlamentari, già nel 1997 ha adottato la legge
n. 185/97 che pone vincoli precisi all’export italiano, obbligando tra l’altro
le banche a segnalare le transazioni che effettuano nel settore, inclusi gli
importi finanziari e i paesi destinatari.

Gli istituti di credito hanno espresso a più riprese la
loro protesta, anche con qualche ragione (l’obbligo riguarda solo le banche
italiane), ma le più attente alla propria reputazione hanno capito che è
controproducente fare affari sulla morte e sulle stragi e si sono dotate di policy
per regolamentare il proprio intervento nel settore delle armi.

Un grande aiuto è venuto dal professor Umberto Veronesi
che, insofferente allo squilibrio tra spese per la difesa e per la ricerca
scientifica, ha dato vita da due anni a questa parte a un tavolo di confronto
tra banche e società civile che ha portato all’adozione di un codice di
condotta condiviso.

Sabina Siniscalchi




Carità? Per carità!

Due libri provocano un acceso dibattito sulla cooperazione: «L’industria
della carità» di Valeria Furlanetto e «La carità che uccide» di Dambisa Moyo.
Il primo, recentissimo, si riferisce alla cooperazione delle organizzazioni
no-profit, il secondo, del 2010, è critico sugli aiuti mandati da nazioni ed
enti inteazionali. Quando la cooperazione si riduce a carità» – non certo
quella evangelica – invece di far crescere può uccidere o mantenere nella
dipendenza.

La carità che non funziona

Feste
a base di alcol e musica cornol in mega-ville stile Califoia alle porte
di città africane martoriate dalla guerra, jeep che sfrecciano sugli sterrati
del Sud del mondo per portare i cooperanti dall’ufficio alla palestra e poi al
ristorante di lusso, bilanci non pubblicati o non trasparenti, donazioni che si
perdono per strada, milioni di euro spesi in marketing e pubblicità. E
ancora: volontari che strattonano vecchiette terremotate per trascinarle
davanti a una telecamera e farsi riprendere mentre le «aiutano»; offerte
investite in titoli azionari invece che inviate sul campo; bambini fatti
diventare magicamente orfani con un tratto di penna su un documento per darli
in adozione a ignare coppie nel Nord del mondo; organizzazioni no-profit
tramandate ereditariamente di padre in figlio come fossero aziende; manager
strapagati e accordi con i «cattivi» delle multinazionali. Il mondo della
beneficenza che Valentina Furlanetto descrive nel suo libro L’industria
della carità
, uscito nel gennaio 2013 e edito da Chiarelettere, assomiglia
più a un brutto cine-panettone che all’ambiente virtuoso dove opera «l’Italia
migliore che non teme il mondo», come l’ex ministro per la Cooperazione Andrea
Riccardi ha definito gli operatori della solidarietà internazionale al Forum di
Milano dello scorso autunno.

Criticato
ancora prima che uscisse, il libro è stato definito dai suoi (tanti) detrattori
«scientificamente inconsistente» (Stefano Zamagni, presidente della non più operativa Agenzia per il Terzo Settore), «un
pasticcio dove si mescolano tutto e il contrario di tutto» (Andrea Pinchera di Greenpeace),
«un’occasione persa» (Konstantinos Moschochoritis di Medici senza Frontiere),
solo per citare alcune opinioni. Che realtà anche molto diverse (Ong, onlus,
cornoperative, livello nazionale e internazionale, aiuti pubblici e privati)
vengano nel libro superficialmente sovrapposte e appiattite è un dato di fatto;
che lo stile dell’autrice tradisca a volte la volontà di polemizzare più che
quella di mantenere l’obiettività – tante lo occasioni in cui dice: «dovrebbe
essere così. Peccato che sia cosà» – è pure vero. Che alcuni dati
citati siano discutibili o approssimativi è indubbio. Infine, che a pagina 189
la lingua dell’Etiopia diventi l’aramaico (invece che l’amarico) fa perfino un
po’ sorridere.

Al
netto di questi tanti limiti anche chi scrive trova che il libro della
Furlanetto sia un’occasione persa, ma per motivi opposti a quelli dei critici
citati sopra: è un’occasione persa per fare autocritica. E per provare a
spiegare al pubblico come stanno le cose senza facili indignazioni, altezzosa
autoreferenzialità e quell’orribile linguaggio «sviluppese» che non solo è
sgradevole, ma anche incomprensibile ai più, vediamo in dettaglio alcuni punti.

Cose che il libro non dice

Furlanetto
non dice che il mondo del no-profit è tutto un magna-magna. Non
sono forse di cooperanti delle Ong (Viviana Salsi, Enrico Crespi, Silvana e gli
altri) le critiche più feroci al «circo umanitario» citate nel libro? Segno che
l’autrice sa che la solidarietà (o beneficenza, che però è tutta un’altra cosa;
ma su questo toeremo dopo) non consiste solo in sprechi, errori, distrazioni
di fondi, ma è fatta anche di persone e organizzazioni oneste e appassionate.
Di Medici Senza Frontiere, ad esempio, Furlanetto ricorda la serietà di cui
l’organizzazione diede prova, nel 2004, nel comunicare che i fondi raccolti per
lo tsunami avevano superato le capacità operative dell’organizzazione e
nell’offrire ai donatori di scegliere tra farsi restituire i soldi o dare
l’assenso perché fossero impiegati altrove.

Fatta
eccezione per questi contenuti, l’autrice non parla del buono e dà ampio spazio
al marcio. Ma il titolo del libro non è «Trattato sulla cooperazione», non ha
pretese di esaustività e analizza dichiaratamente un lato, o un volto, di un
fenomeno. Si trattasse anche di un Giano bifronte, se non di un poliedro a più
facce, resta chiaro che c’è almeno un altro volto e che, semplicemente,
Furlanetto non lo sta raccontando.

La
giornalista trevigiana, però, sembra sbilanciata (forse un po’ demagogicamente)
verso il lato dei piccoli donatori interessati a sapere che fine fanno i loro
soldi, mentre la sensazione è che la presenza di questo interesse da parte di
chi dona non sia sempre così scontata. Siamo sicuri che chi invia due euro via
sms dopo aver visto il viso sfigurato dal pianto di un bambino di Haiti voglia
davvero sapere, vedere, toccare con mano il fatto che quei due euro sono
diventati il riso che quel bambino sta mangiando? In Italia gli utenti iscritti
a Facebook sono ventidue milioni: possibile che chi è tecnologicamente
alfabetizzato abbastanza per scambiarsi battute su un social network con gli
amici non sia anche in grado di scrivere una mail a un’associazione per
chiedere conto dell’utilizzo dei fondi? Eppure non succede, o succede solo
molto di rado: perché? Perché spesso la solidarietà in Italia è appunto solo
carità (non nel senso usato nell’editoriale di MC 3/2013, ndr), se non
una mera reazione di pancia, non interessata a capire e conoscere quello che
sta attorno all’immagine del bambino che piange e come quell’attorno,
passaggio dopo passaggio, arrivi fino al nostro quotidiano, al carrello delle
spesa, al telefonino che compriamo, al mezzo con cui ci spostiamo.

La
misura del fallimento della solidarietà internazionale – italiana come estera –
non è solo nel saldo fra danno e utile nelle azioni compiute sul campo, ma
anche, e forse soprattutto, nei numeri irrisori di persone che le
organizzazioni sono state fin qui capaci di sensibilizzare e informare davvero.
Se ci fosse un modo semplice ed efficace per illustrare, ai donatori e al
pubblico in generale, come quello che scegliamo di comprare, mangiare, usare ha
conseguenze molto più ampie di quel che sembra e rischia di elidere i benefici
portati da una donazione, la solidarietà internazionale cambierebbe
radicalmente. Ma un modo semplice non c’è. Ed è proprio nella ricerca di un
metodo efficace che le organizzazioni di solidarietà internazionale si sono
miseramente arenate, cedendo invece a un marketing a volte pietistico
che nulla ha a che fare con lo sforzo di informare – «educare» è un termine di
cui preferiamo non abusare – l’audience esposta ai messaggi promozionali.

Cose che il libro dice

Furlanetto
parla di sprechi, di truffe e di cooperanti che in Italia pagherebbero duecento
euro per un letto in una stanza doppia alla periferia di una grande città e
invece sul campo hanno begli appartamenti con cuoco, servizio di pulizia,
autista e guardiano; di funzionari che parlano di «progetti che vendono», di
manager di Ong inteazionali che guadagnano quanto i loro omologhi delle
multinazionali, di colossi del profit che si lavano coscienza e immagine
collaborando con enti no-profit e di Ong che si prestano a questi
connubi sostenendo che in tal modo possono meglio controllare i «cattivi».

Che
faccia più notizia uno di questi eccessi di quanto lo facciano i progetti e le
realtà che funzionano non è nulla di nuovo; ciò non toglie che gli eccessi
esistano davvero e chiunque è stato nel Sud del mondo per più di una settimana
ha avuto modo di imbattersi in una o più di queste situazioni. Molte delle
critiche al libro utilizzano la formula: «È vero, la mala gestione esiste, ma
le cose che funzionano sono di più di quelle che non funzionano». Ma è anche
vero che ci sono tonnellate di campagne di promozione dei progetti e di
comunicati stampa che ci spiegano quanto bene operino le organizzazioni attive
nell’umanitario o nelle emergenze e quante belle cose facciano. Per questo le
bordate à la Furlanetto – ovviamente quando verificate, ben documentate
e equilibrate – controbilanciano quell’incensare se stesse in cui le
organizzazioni spesso finiscono per indulgere.

A
questo proposito, l’autrice insiste molto proprio sulla grande quantità di
risorse che vengono impiegate dalle Ong per marketing e promozione.
Furlanetto non è sola nell’avanzare perplessità. Il 43° World Economic Forum
di Davos, Svizzera, ha dedicato un approfondimento proprio al mondo delle Ong,
rilevando che queste appaiono sempre più perse nella burocrazia e sottolineando
che chi vince nella raccolta fondi è spesso non chi fa meglio il proprio lavoro
ma chi è più efficace nella comunicazione.

La carità che uccide

Ma
non è solo quello che non funziona che merita di essere dibattuto e il rischio
connesso alle discussioni provocate da L’industria della carità è quello
di spostare l’attenzione da temi che stanno un passo indietro (o un gradino
sopra) rispetto alla mala gestione, e cioè la riflessione sul perché, più che
sul come, della cooperazione.

Un
merito del libro della Furlanetto è quello di riprodurre in modo abbastanza
fedele il punto di vista del grande pubblico attraverso semplici scelte
lessicali: termini come «beneficenza», «carità», «generosità» e «aiuto» ci
dicono forse molto di più di quello che era nelle intenzioni dell’autrice e cioè
che nel nostro paese (e probabilmente anche all’estero) la solidarietà continua
a essere percepita più come un gesto di buoni sentimenti a senso unico che una
effettiva partecipazione a bisogni e assunzione di responsabilità che sempre di
più travalicano i confini nazionali e riguardano la comunità umana nel suo complesso.
Nei forum sulla cooperazione continuano a emergere in maniera sempre più
chiara una serie di dati di fatto che mettono in discussione il senso stesso
della cooperazione, se è vero che il più grande contributo al benessere dei
paesi del Sud del mondo viene dalle rimesse dei loro stessi cittadini emigrati
all’estero e che paesi un tempo beneficiari degli aiuti sono ora potenze
economiche in ascesa.

Non
solo. Non si era ancora spenta l’eco delle polemiche suscitate dal libro della
sociologa camerunese Axelle Kabou, E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?
– uscito in Italia nel 1995 e fortemente critico nei confronti delle élite e
delle popolazioni africane a suo parere responsabili del sottosviluppo quanto,
se non di più, dei paesi ex colonizzatori e delle istituzioni finanziarie
inteazionali – che l’economista zambiana Dambisa Moyo ha rincarato la dose
con il suo La carità che uccide.

Il
testo di Moyo, anch’esso criticatissimo, parte dalla constatazione che dopo
cinquant’anni di interventi e mille miliardi di dollari in aiuti allo sviluppo
riversati sul continente nero dalle istituzioni inteazionali (Moyo non si
occupa di Ong) l’Africa sta peggio di prima e si chiede, quindi, se non sia il
momento di interrogarsi seriamente sul senso stesso di questo aiuto che ha
creato nazioni di mendicanti condannate a una perenne adolescenza economica.
Secondo l’economista zambiana, la via che l’Africa dovrebbe seguire per uscire
dalla dipendenza sarebbe quella di prendere esempio dalle economie emergenti
asiatiche, incoraggiare le politiche cinesi di investimento su larga scala in
Africa, battersi per una reale apertura al libero commercio in ambito agricolo,
promuovere la microfinanza, rendere meno costoso per gli emigrati l’invio delle
rimesse e riconoscere agli abitanti delle baraccopoli il titolo di proprietà
legale sulla casa in modo che questa possa essere usata come garanzia. Kabou e
Moyo concentrano la loro attenzione sull’Africa; ovviamente Asia e America
Latina meriterebbero una trattazione a parte dei loro problemi specifici.
Tuttavia, molte delle riflessioni sulla dipendenza creata dagli aiuti e sulla
differenza fra carità e giustizia valgono anche per continenti diversi
dall’Africa.

Ben
vengano i dibattiti provocati da libri che raccontano storie di mala
cooperazione. Quella di una comunità umana con legami sempre più inestricabili
che vive drammi globali tangibili per tutti, però, è un’altra storia e non si
racconta né si fa con un sms.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Egitto: Prima e dopo la primavera araba

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 11

Secondo le ricerche del Pew Forum è uno dei paesi al mondo in
cui maggiormente viene violata la libertà religiosa. L’Egitto ha fin dalle sue
origini modee una grande difficoltà a risolvere il conflitto tra potere
statale e potere religioso. La cosiddetta primavera araba ha sparigliato le
carte sul tavolo dando maggiore peso alle autorità religiose e alla sharia. Ma
tutto è in movimento. 

Chiunque voglia iniziare a
occuparsi di Egitto si renderà immediatamente conto che non potrà non
considerare il fattore religioso. La società egiziana in patria e in
emigrazione (ad esempio la comunità egiziana in Italia) ne è profondamente
intrisa, e questo non riguarda solo i musulmani.

In Egitto circa il 90% della popolazione è costituito da musulmani
sunniti, l’1% da musulmani shiiti, l’8-12% da cristiani, in maggioranza della
Chiesa ortodossa copta, e il restante da altre minoranze, tra le quali i
baha’i  e gli ebrei (questi ultimi
stimati dall’Inteational Religious Freedom Report stilato dal
Dipartimento di Stato degli Usa in meno di 200 individui nel 2008, e in circa
100 nel 2012).

Per quanto riguarda la comunità cristiana, nonostante la Chiesa
copta ortodossa ne rappresenti la maggioranza, è importante considerare la
presenza di altre chiese: quella cattolica (con le sue sette denominazioni:
copto-cattolica, greco-melchita, maronita, siriaca, caldea, armena e latina),
quella greco-ortodossa, e quelle anglicana ed evangelica. Uno dei problemi
posti dalla predominanza della Chiesa copta ortodossa, messo in evidenza da
Michael Fitzgerald, ex presidente del Pontificio consiglio per il dialogo
interreligioso, oggi nunzio apostolico al Cairo, è il fatto che le autorità,
sia quelle del precedente regime che quelle dell’odierno governo, tendono a
vedere tutti i cristiani come copti e a considerare il loro papa Tawadros II
come loro unico rappresentante.

Altra questione posta dalle minoranze religiose riguarda la
presenza di comunità non riconosciute che si trovano private della maggioranza
dei diritti. Il caso più eclatante è quello della comunità baha’i, che a
partire dagli anni Sessanta è stata disconosciuta e interdetta, le sono stati
confiscati tutti i beni, con l’ovvia conseguenza dell’impossibilità di
costruire o mantenere propri luoghi di culto.

Secondo Elisa Ferrero, giornalista freelance, profonda
conoscitrice del contesto religioso egiziano, che abbiamo sentito proprio sul
tema della libertà di religione in Egitto, «la nuova costituzione ha radicato
l’esclusione di altre religioni. Paradossalmente ha riconosciuto maggiormente i
cristiani, dando alla Chiesa ortodossa copta la prerogativa di decidere su
alcune questioni come la famiglia, i matrimoni, l’eredità. Questo non è
piaciuto a molti cristiani che preferiscono invece uno stato laico in cui sia
effettivamente garantita la libertà di credo di tutti».

La libertà
religiosa prima della primavera araba

Gianluca Parolin, costituzionalista italiano e professore di
diritto comparato presso l’Università Americana del Cairo ci offre
un’interessante analisi della libertà religiosa in Egitto dal punto di vista
giuridico. Nel suo articolo La libertà religiosa nell’Egitto post coloniale
descrive la relazione tra politica e religione in Egitto dalle sue origini
modee a oggi, e le principali questioni (nella maggior parte dei casi ancora
aperte) relative alla libertà religiosa. Lo studioso sostiene che la stessa
creazione dell’Egitto moderno – la quale coincide con l’affermazione di
un’autorità politica il cui controllo si estende al di là dell’ambito
precedentemente ricoperto, e che «progressivamente circoscrive, assedia,
penetra ed espugna il dominio dell’autorità religiosa, incidendo in tal modo
assai profondamente sul fenomeno religioso stesso» – potrebbe essere
ricostruita seguendo la ri-articolazione dello snodo tra fenomeno religioso e
autorità politica nei decenni.

Da Muhammad ’Ali (1769-1849), colui che è ritenuto il fondatore
dell’Egitto moderno, fino alla rivoluzione del 1952, infatti, sono stati erosi
gli spazi di autonomia della religione, ed è stato delineato un sistema
giuridico con aspirazioni esclusive, ma dalla natura plurale.

Tra l’inizio dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, in
particolare, la relazione tra autorità politica e fenomeno religioso in Egitto
ha subito, secondo lo studioso, tre ri-articolazioni fondamentali. La prima ha
riguardato l’introduzione della gestione centralizzata delle fondazioni pie (waqf)
che ha sottratto alle autorità religiose l’indipendenza economica
trasformandole in «salariate» dello Stato. La seconda ha colpito la giurisdizione
dell’autorità religiosa con la creazione di giurisdizioni concorrenti che hanno
limitato l’area d’influenza del diritto confessionale. La terza ha coinvolto il
contenuto del diritto confessionale attraverso forti incursioni dell’autorità
politica, primo tra tutti nel diritto di famiglia.

La rivoluzione del 1952 ha infine portato a compimento il processo
cominciato nell’Ottocento.

Nella sua analisi Parolin evidenzia come nella seconda metà del
Novecento «l’autorità politica estende significativamente il suo controllo sul
fenomeno religioso con due operazioni di grande impatto»:

1) la giurisdizione dei giudici religiosi viene accorpata nel
sistema di tribunali statali, diventando una sezione specializzata dei
tribunali civili dello stato (pur mantenendo invariato il personale e il
diritto sostanziale applicato);

2) lo stato nazionalizza l’università al-Azhar, la maggiore
istituzione di formazione religiosa, disponendo che lo shaykh al-Azhar,
il suo vertice, venga nominato con decreto presidenziale e ridisegnando
l’impianto stesso della formazione offerta.

Primavera
Araba, trasformazioni religiose?

La situazione descritta è rimasta più o meno stabile fino agli
eventi del gennaio 2011 e alle dimissioni di Mubarak.

Diverse fonti sono concordi nell’affermare che la «rivoluzione»
egiziana sia stata portata avanti da forze diverse e che nelle proteste di
piazza Tahrir si respirasse un generale senso di unità e di orgoglio di essere
egiziani, prima che cristiani o musulmani, moderati o fondamentalisti.
Cristiani e musulmani erano insieme, «una sola mano», come titola Elisa Ferrero
il suo bel libro che descrive i giorni caldi della rivolta.

La «rivoluzione» del 25 gennaio non ha però assunto tra i suoi
temi la questione della libertà religiosa, e molti dei nodi irrisolti si sono
riproposti nei mesi successivi, soprattutto con la polarizzazione elettorale
(sia per le elezioni parlamentari sia per quelle presidenziali).

Sono due in particolare – riprendendo ancora Gianluca Parolin – le
questioni ancora aperte che continuano a generare tensioni interconfessionali:
la disciplina delle conversioni e quella degli edifici di culto non musulmani.
Per quanto riguarda il primo punto, la questione riguarda, ad esempio, i copti
ortodossi che si convertono all’islam per aggirare la severità del diritto di
famiglia copto ortodosso. Papa Shenouda, nel 2008, aveva infatti ridotto le
nove condizioni per divorziare, previste dalla legge del 1938, al solo
adulterio, spingendo molti copti alla conversione (a volte temporanea)
all’islam, per essere così in grado di annullare il proprio matrimonio. Tale
pratica ha causato spesso tensioni settarie anche gravi. Per quanto riguarda i
luoghi di culto non musulmani, da una parte l’art. 46 della Costituzione
egiziana impone «dieci condizioni» difficilmente rispettabili per la
costruzione, dall’altra la riluttanza e la discrezionalità delle autorità a
concedere l’autorizzazione, anche in presenza delle condizioni, rende il
rispetto della normativa rarissimo: la creatività dimostrata nell’aggirarla
pone, secondo Parolin, le comunità non musulmane nell’illegalità, e le espone a
rappresaglie che ciclicamente culminano in scontri con vittime e luoghi di
culto incendiati.

Oltre alle questioni legate ai «due nervi scoperti del sistema»
appena analizzati, nel dibattito pubblico dopo il 25 gennaio 2011 sono state
costanti le discussioni sul ruolo dell’islam nella vita pubblica egiziana e sul
ruolo dello stato nel fenomeno religioso. La prima delle due ha fortemente
polarizzato i processi referendari ed elettorali e si è riproposta anche in
occasione della stesura della «nuova» Costituzione. L’accesa campagna
referendaria, infatti – sempre riprendendo le analisi di Parolin – «non è stata
condotta se non sul rapporto tra islam e stato», con particolare riferimento all’art.
2 della Costituzione del 1971: «L’islam è la religione dello stato, l’arabo la
sua lingua ufficiale e i principi del diritto musulmano la fonte principale
della legislazione», anche se il pacchetto di emendamenti sottoposto a
referendum verteva su altro. Dopo il voto referendario pare che l’art. 2 sia
scomparso dal dibattito pubblico e tutte le successive bozze di Costituzione lo
hanno mantenuto fondamentalmente invariato. Questo anche perché l’art. 2 «gode
– secondo Parolin – di quella caratteristica ambiguità che fornisce alle
previsioni costituzionali di compromesso una lunga tenuta» avendo in sé diverse
possibili interpretazioni.

La polarizzazione ideologica riscontrata nella campagna per il
referendum pare essere stata presente anche nel lungo processo di elezione dei
due rami del parlamento e nelle elezioni presidenziali.

Per quanto riguarda il ruolo dello stato nel fenomeno religioso
significativo è stato il dibattito sulla riforma dell’università al-Azhar. La
sua nazionalizzazione aveva segnato l’apice della penetrazione del potere
politico nel campo religioso, oggi la Costituzione stabilisce l’indipendenza di
al-Azhar e prevede che essa revisioni tutte le leggi prima della loro
promulgazione, per controllare che non siano in contrasto con la sharia.

Il Dialogo
Interreligioso

Il 18 novembre 2012, la Chiesa copta ortodossa egiziana ha
ufficialmente insediato il suo nuovo pontefice, Tawadros II, che si trova ad
affrontare come prima sfida il confronto con l’islam politico al governo.
Proprio per questo, poco dopo la sua elezione, papa Tawadros ha dichiarato di
voler servire l’interesse del paese intero ponendo l’accento sul dialogo e
l’unità nazionale, considerando se stesso, innanzitutto, un cittadino egiziano.
Egli ha inoltre espressamente affermato di voler privilegiare il ruolo
spirituale della sua Chiesa, con particolare attenzione all’educazione dei
giovani. Così facendo è parso abbracciare la posizione di chi vuole il ritiro
della Chiesa dalla politica. Al tempo stesso, però, ha anche ribadito che i
cristiani si aspettano il pieno rispetto dei loro diritti.

Per quanto riguarda le altre Chiese cristiane, poi, proprio
quest’anno, al termine della Settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani a
gennaio, è nato il Consiglio nazionale delle Chiese di cui fanno parte tutte le
cinque confessioni dell’Egitto. L’idea è che il consiglio possa contribuire a
rafforzare l’unità tra i cristiani, a lottare su alcuni temi comuni, e ad
affrontare discriminazioni e violazioni di diritti.

In conclusione possiamo dire che, se da un lato la situazione
della libertà religiosa in Egitto non ha subito grosse trasformazioni a livello
legislativo con il nuovo governo e la nuova Costituzione, dall’altro è vero che
a livello di società civile qualcosa si sta muovendo. Elisa Ferrero riconosce
infatti come «sia un po’ caduto il tabù della religione, e ci siano maggiori
confronti aperti sul tema delle minoranze (riconosciute e non) e dell’ateismo».

Viviana Premazzi
 
«Centro Culturale Tawasul»

«Il Centro culturale Tawasul è una piccola associazione nata
al Cairo nel 2006, su iniziativa di un gruppo di musulmani laici
(intellettuali, professori universitari, artisti, giudici, giornalisti, ecc.),
con lo scopo di creare uno spazio di incontro per la conoscenza reciproca fra
Europa e mondo arabo, musulmani e cristiani, che privilegiasse la relazione
diretta tra individui, piuttosto che quella tra istituzioni. Il termine arabo
Tawasul, impossibile da tradurre in italiano con una parola sola, ben esprime
l’idea ispiratrice del Centro. Esso riassume in sé, infatti, il significato di
una «continua comunicazione attraverso una relazione di amore».

Il 28 e 29 ottobre 2010, Tawasul ha ospitato il Meeting del
Cairo, un’edizione egiziana del Meeting di Rimini. Il risultato più importante
dell’incontro è stato il coinvolgimento di centinaia di giovani volontari
egiziani, musulmani e cristiani di ogni denominazione, che hanno lavorato
insieme per giorni. L’esperienza di dialogo e condivisione non si è fermata con
la fine del Meeting, ma è proseguita fino agli eventi del gennaio 2011, poiché
gli organizzatori e i volontari avevano deciso di continuare a incontrarsi
regolarmente per discutere insieme dei problemi della società egiziana e
sviluppare iniziative per contribuire alla loro risoluzione.

In seguito agli attentati contro le chiese copte di
Alessandria d’Egitto del Capodanno 2011 il Centro ha chiesto ai suoi membri e
ai volontari del Meeting del Cairo di indossare qualcosa di nero in segno di
lutto, quindi ha domandato a ciascun volontario musulmano di visitare una
chiesa del proprio quartiere per porgere le proprie condoglianze, come gesto
visibile di solidarietà. Pochi giorni dopo l’attentato, è stato poi organizzato
un concerto di musica sacra, musulmana e cristiana insieme, in segno di
riconciliazione, e alcuni suoi membri hanno partecipato alla messa di Natale
del 6 gennaio. Infine, il giorno 7 gennaio, subito dopo la preghiera del venerdì,
Tawasul ha organizzato una breve dimostrazione sul piazzale della moschea della
Luce del Cairo, occupando quel luogo in silenzio, per breve tempo, per impedire
le consuete arringhe contro i cristiani, tenute da fanatici che spesso prendono
la parola dopo la funzione.

I responsabili del Centro sono convinti che la lotta contro
il terrorismo e il fanatismo religioso non si gioca soltanto sul piano politico
e della sicurezza, ma soprattutto e fondamentalmente sul piano culturale. Molti
in Egitto l’hanno capito e stanno agendo in tal senso, meritando tutto il
nostro appoggio e la nostra collaborazione. Queste persone hanno principalmente
bisogno di visibilità e occasioni per far sentire la propria voce, poiché
troppo spesso le società civili dei paesi arabi vengono fatte scomparire dai
mezzi di informazione che prediligono la cronaca degli eventi che dividono,
nonostante siano proprio le società civili a lottare quotidianamente contro i
profeti dello scontro di civiltà». 

Tratto da Qualcosa di nero in segno di lutto di Elisa
Ferrero.

 

Viviana Premazzi




«Costruite il secolo del dialogo»

Il Dalai Lama a Trento e Bolzano


Coltivare la pace partendo da se stessi. È stato questo il
messaggio centrale del Dalai Lama durante la sua visita al Trentino Alto Adige.
Una terra di montagne e di frontiera proprio come il Tibet, nel quale però la
libertà, la cultura e la religione sono schiacciate dal pugno di Pechino. Con
pesanti conseguenze sul popolo tibetano.


Trento. Due terre
di autonomia, il Tibet e la regione Trentino Alto Adige. Il primo la chiede da
tempo, senza trovare ascolto presso il governo cinese, che sta conducendo una
sinizzazione forzata del «Tetto del mondo» nel nome dello sviluppo economico;
la seconda, invece, l’autonomia l’ha ottenuta alla fine della Seconda guerra
mondiale, sviluppandola progressivamente fino a diventare di fatto un
piccolo-grande modello di autogoverno, a cavallo fra Italia e mondo tedesco.
Sarà forse questo il legame fra le due terre di montagna, per altri versi così
distanti; un legame che ha spinto lo scorso aprile il Dalai Lama a venire in
visita per la quarta volta, in poco più di dieci anni, prima a Bolzano e poi a
Trento.

L’accoglienza della gente è stata come sempre molto
calorosa. Un segno anche questo, probabilmente, di come tante persone oggi
desiderino sentir pronunciare certe parole, indipendentemente dalle fedi e
dalle ideologie. Parole che invitano innanzitutto a coltivare la pace, partendo
da se stessi, dal proprio vissuto quotidiano, dalle proprie relazioni
familiari, e a superare la visione economicista della vita e del mondo che
sembra prevalere a ogni latitudine, tanto in Occidente quanto, ormai, in
Oriente.

Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, premio Nobel per la
pace 1989, è oggi di fatto solo un’autorità
spirituale. Il suo ruolo di massimo rappresentante del governo tibetano
in esilio (che ha sede in India, a Dharamsala) è passato infatti nel 2011 a un
laico, Lobsang Shangay, di formazione accademica, eletto dalla comunità degli
esuli tibetani. Tuttavia, il Dalai Lama continua ad essere un punto di
riferimento imprescindibile per i tibetani e non solo per loro. A Trento, dove
ha tenuto un incontro pubblico presso il locale palasport, si è concentrato in
particolare sul tema della felicità, ma naturalmente anche con molti excursus
sulla situazione attuale del Tibet. Dal Dalai Lama è venuto in particolare un
forte appello ai giovani: «Spetta a voi – ha detto – far sì che il XXI secolo
non sia uguale a quello che lo ha preceduto. Il XX secolo è stato il secolo dei
conflitti. Anche qui in Italia ne avete avuto esperienza. Adesso le cose devono
cambiare. Questo deve essere il secolo del dialogo. Aumento della popolazione,
fino a 10 miliardi di persone, riscaldamento globale, tensioni di ogni genere
create dai populismi, dai flussi migratori, dal crescere abnorme delle città:
le sfide che le nuove generazioni hanno di fronte sono molteplici. Il passato
non si può cambiare ma possiamo costruire il futuro. Saranno le nuove
generazioni a doverlo fare, la mia è già passata. Sono i quindicenni che devono
impegnarsi, ora. Dobbiamo usare i conflitti come un’opportunità per generare
nuove idee, nuove soluzioni. È, questa, una grande occasione ma anche una
grande responsabilità».

A colloquio con il Dalai Lama

Santità, lei sostiene la causa di un’ampia autonomia per
il Tibet. Su quali basi dovrebbe poggiare?

«Sin dal 1951, quando abbiamo firmato un accordo
in 17 punti, era iniziata una collaborazione col governo cinese. Infatti nel
1954, quando ho incontrato Mao Zedong di persona e abbiamo avuto diversi
colloqui, nel primo di questi lui aveva detto che, come definito nei 17 punti,
si sarebbe costituita una Commissione d’inchiesta sul tema. Successivamente ha
deciso di introdurre l’autonomia per il Tibet e questa proposta era stata
accettata da tutti noi presenti all’incontro. Perciò nel 1956, quando siamo
tornati in Tibet, abbiamo costituito il governo autonomo per il Tibet e io ero
il capo del nuovo governo. Quando si parla di autonomia si parla di
autogestione. È una cosa molto pratica, decisa da Mao stesso, e questo è stato
portato avanti in Tibet fino al 1959 (anno dei moti tibetani, della grande repressione
che ne è seguita e della fuga del Dalai Lama in India, ndr).

Da tanti anni in Europa e anche qui in
Italia è praticata molto bene una autonomia “completa”. Anche noi tibetani
chiediamo una autonomia completa però rimanendo insieme: non stiamo chiedendo
la separazione dalla Cina. Sicuramente sarà molto utile imparare dalla vostra
esperienza (del Trentino Alto Adige, ndr), però la cosa importante da
considerare è che i cinesi vivono sotto un governo totalitario, senza la
democrazia, la libertà e la giustizia, mentre l’Italia è un paese democratico.
Per questo motivo anche l’autonomia in Italia è espressione di democrazia, e
questo fa la differenza».


Quali speranze ci sono quindi che la Cina
accetti di negoziare un’autonomia per il Tibet?

«I problemi del Tibet non si possono
risolvere nella maniera con cui si cerca di risolverli oggi. Sono un problema
anche per il governo cinese. Per esempio, diversi anni fa il ministro degli
Affari esteri del governo cinese aveva chiesto all’esecutivo di impegnarsi a
risolvere la questione tibetana a causa delle critiche che continuava a
ricevere dagli altri governi, che creavano disagio nelle relazioni
inteazionali e un ostacolo alla creazione di legami profondi e duraturi.
Questa è la realtà. Quindi i problemi del Tibet si devono risolvere in qualche
modo. Ma sicuramente questo modo non può essere la violenza, come pensano un
paio di ministri cinesi. Usando la violenza verso i tibetani non ci sarà mai
una soluzione.

Per questo motivo noi stiamo proponendo una
soluzione vantaggiosa per entrambe le parti, che consenta da un lato al governo
cinese di avere la pace in Tibet e dall’altro ai tibetani di non soffrire e di
assumersi le loro responsabilità in ordine alla preservazione della  nostra religione, della nostra cultura e del
nostro ambiente.

Si creerebbe una situazione “vincente” per
entrambi i lati. Una cosa importante da dire è che tanti cittadini cinesi –
soprattutto quelli con istruzione più alta – hanno sostenuto la posizione di
un’autonomia che consenta ad entrambe le parti di essere vincenti, coloro che
lottano per la giustizia e coloro che “cercano la realtà nei fatti” come ha
detto una volta Deng Xiaoping».

Nel frattempo l’esasperazione del popolo
tibetano cresce, e molti tibetani stanno scegliendo come estrema forma di
protesta la strada della autornimmolazione con il fuoco. Lei cosa ne pensa?

«È una cosa molto triste e che ti fa perdere
il cuore, un’azione causata da difficoltà estreme e dalla disperazione. Viene
da pensare come possano farlo e soprattutto cosa li spinga a un gesto tanto
estremo. Però questa azione estrema  non
garantisce che si possa risolvere il nostro problema. Sicuramente indica il
fallimento assoluto del governo cinese, della sua gestione della situazione
politica tibetana con il ricorso alla violenza per continuare a mantenere il
controllo. Devono pensare loro, innanzitutto, quelli che hanno creato il
problema, a come risolverlo. Noi da fuori comunque possiamo soltanto pregare».

Il mondo sta attraversando una fase di
grande incertezza, causata dalla crisi economica ma anche dall’assenza di punti
di riferimento stabili. In questo contesto, qual è la sua idea di felicità?
Quale insegnamento ci può dare riguardo all’essere felici?

«In generale si è puntato su uno sviluppo “esteriore”,
materiale. Anche i sistemi scolastici sono basati sul come sviluppare le cose
materiali o come curare le malattie del corpo, non viene mai data importanza
alla crescita mentale o alla felicità interiore. Sembra di fatto che non si
sappia proprio da dove viene questa sofferenza mentale, da cosa sia causata. Da
quando c’è l’ idea che tutte le cose possono essere risolte per la via
economica e che la felicità sia basata sulla crescita dell’economia, anche
affrontare una crisi come questa, non avendo un punto di riferimento stabile a
cui chiedere aiuto, causa molta sofferenza e tristezza.

In senso religioso il problema può essere
risolto tramite la fede. Ma quando parliamo di fede parliamo di fiducia senza
ricorrere alla ragione. Come ha detto il Papa precedente, dobbiamo cercare
anche di portare avanti la fede assieme alla ragione.

Questo può aiutare a trovare una strada “stabile”
per la mente e sconfiggere la sofferenza interiore. Un esempio può essere
questo: con l’attuale crisi economica le persone che hanno pensato solo ai
soldi stanno ovviamente soffrendo molto, però le persone che hanno amici o
buoni conoscenti dai quali si sentono amati o sostenuti moralmente e le persone
che hanno dato una certa importanza all’amore e alle relazioni umane
soffrono  di meno, anche se hanno gli
stessi problemi economici delle altre».

In quanto Premio Nobel per la pace, può
dirci come il cittadino comune può dare il suo contributo alla costruzione di
un mondo più pacifico?

«Ho sempre detto che la pace può essere
realizzata solo tramite la pace interiore. Siamo noi uomini che eliminiamo la
pace dalla nostra vita, non sono la natura o gli animali che distruggono la
pace. Per questo motivo le persone stesse devono prendersi la responsabilità di
creare la pace, eliminando cose come gelosia, cattiveria, pensiero negativo o
avidità dalla loro mente, che possono distruggere la pace interiore. Quando la
pace interiore è stata distrutta a causa di qualcosa si creano tutti i tipi di
litigi e di violenza tra le persone. Per avere la pace esteriore bisogna dunque
iniziare dalla pace interiore e per questa ragione è importante capire le cause
negative che possono disturbare la nostra mente. Questo può essere anche
raggiunto grazie alla religione, con la credenza nel paradiso o, nel buddismo,
coltivando la pace interiore al fine della liberazione dalla rinascita.

Comunque dobbiamo innanzitutto guardare ai
fatti di questo mondo e di questa vita, dove, grazie alla pace mentale,
possiamo aiutare e amare la nostra famiglia. Questo amore passa da una famiglia
all’altra e da una comunità all’altra, aumentando sempre, e alla fine si
espande in tutto il mondo.

La pace, comunque, non ha nessuna speciale
relazione con nessun tipo di fede o di religione. Se c’è la fede ben venga però
anche un ateo può capire l’importanza della gelosia e della cattiveria, e il
valore del buon cuore e della pietà verso gli altri.

Non avere la pace mentale può anche causare
molte malattie e non dà nessun frutto positivo. Per questo motivo la pace deve
essere oggetto di studio e di ragionamento. Come noi curiamo le nostre malattie
fisiche, dobbiamo curare anche i nostri problemi della mente». 

Marco
Pontoni

L’autore – Marco Pontoni è caporedattore all’Ufficio stampa
della Provincia autonoma di Trento. Ha realizzato reportages e documentari in varie parti del mondo, documentando
soprattutto iniziative di cooperazione allo sviluppo. Con Massimo Zarucco è
autore di Mozambico, l’orgoglio di un
popolo
, Valentina Trentini ed., 2005.
Ringraziamenti – L’autore ringrazia Tenzin Khando per la
traduzione dal tibetano.

Web Tv – I video dell’incontro con il Dalai Lama sono
visionabili sul sito: www.webtv.provincia.tn.it.

L’archivio
Sul Tibet si legga: Contro Pechino, a
costo della vita
, di Mauro Crocenzi (China
files
), MC, dicembre 2012.

 
Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama


Compassione e Reincarnazione

Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, è nato nel 1935 a Taktser,
un villaggio dello sterminato altopiano tibetano, in una famiglia contadina. In
tenera età è stato riconosciuto come la reincarnazione del Dalai Lama, massima
autorità spirituale del buddismo tibetano, ovvero come la manifestazione
terrena di Avalokitesvara o Chenrezi, spesso definito in Occidente «il Buddha
della compassione». Nella religione tibetana questa carica (analogamente a
quella di altri Lama) non è elettiva né ereditaria, ma si basa appunto su un «riconoscimento»,
ovvero sull’individuazione di un bambino nel quale lo spirito del Dalai Lama
defunto si è reincarnato, perché mosso da compassione nei confronti degli
uomini e dal desiderio di aiutarli. Dopo il riconoscimento, Tenzin Gyatso ha
vissuto la sua giovinezza nella capitale del Tibet Lhasa, dimorando nel Potala,
il palazzo reale e venendo educato dai suoi precettori (come in parte
testimoniato da Heinrich Harrer nel suo fortunato libro di memorie Sette anni
in Tibet). Vive in esilio dal 1959, quando – in seguito all’occupazione cinese
del Tibet, e alla successiva repressione delle rivolte scoppiate nel «Paese
delle nevi» – molti tibetani hanno lasciato la loro terra stabilendosi un po’
ovunque nel mondo, in massima parte in India, dove, nella cittadina di
Dharamsala, è nato anche il governo tibetano in esilio. Premio Nobel per la
pace 1989, il Dalai Lama ha già visitato molte volte l’Italia (e quattro volte
il Trentino: nel 2001, 2005, 2009, 2013), portando il suo messaggio permeato
dai principi della nonviolenza, ma anche le ragioni di un popolo che continua a
rivendicare con determinazione un’autonomia per la sua terra. (Ma.Po.)

Marco Pontoni




Amico

Caro Amico
L’editoriale

Chiamata
in causa esplicitamente con i suoi precisi riferimenti biblici
(Genesi 1) o in modo indiretto, la Creazione riecheggia nelle pagine
che seguono come uno dei temi principali di questo numero estivo di
amico.

Come
animali di piccola taglia che, loro malgrado, hanno dovuto cedere al
letargo invernale, siamo felici di mettere il muso fuori dalla tana
per scoprire qual è il magnifico lavoro che la primavera, insieme al
Creatore, ha preparato per l’esposizione alla luce calda del sole.

Quanti
di noi durante le settimane che verranno avranno la grazia di
lasciare smarrire lo sguardo sui prodigi plasmati dal Creatore?
Qualcuno partirà per visitare la Creazione nel suo «lato Sud», nei
volti scuri di altri paralleli e meridiani. Qualcuno parteciperà
all’evento ecclesiale giovanile più intenso degli ultimi due anni,
dalla passata edizione della Gmg di Madrid, volando fino a Rio per
incontrare il papa insieme alle meraviglie lì operate in lingua
portoghese dal Signore. Qualcuno rimarrà dove si trova, e anche là
avrà l’occasione per far emergere dalla sua quotidianità la
bellezza celata e sempre in attesa di essere svelata: anche la
Creazione quotidiana, lontana dagli eventi «notiziabili», è
Creazione amata, e amabile.


Chissà
che durante questi mesi non venga maggiormente a galla di fronte allo
sguardo di alcuni di noi anche il lato impoverito della Creazione:
oltre ai sorrisi festanti dei bambini africani, anche i meccanismi
d’ingiustizia che soffocano i sorrisi dei loro genitori, oltre
all’entusiasmo dell’abbraccio di massa sotto il Cristo Redentore
di Rio, anche lo sfinimento delle favelas o delle foreste
latinoamericane rasate a zero.

Il
20 di questo mese festeggiamo la nostra fondatrice, Maria Consolata.
Invocata con l’appellativo di Guadalupe in America Latina, è la
medesima mamma che viene consolata da suo figlio e che consola
portando Lui a chi – a volte senza saperlo – ne ha bisogno.

Consolato,
porta consolazione anche tu, con le tue fatiche e la tua limpidezza.
In qualsiasi angolo di questa meravigliosa opera modellata dalle Sue
dita, sei atteso. Parti.

Luca
Lorusso

Vai su AMICO Web dal link nella barra del Consolata Network

Luca Lorusso




Cari Missionari

Michele De Michelis

Nasce
a Nichelino (To) il 06/12/39. In tenera età perde la mamma e vive con la
sorella poco più grande e il padre. Dopo la scuola media studia dai Salesiani
per diventare tipografo e, finita la scuola, inizia subito il lavoro in
tipografia. All’inizio degli anni ‘60 il padre viene trasferito a Biella per
lavoro, ma Michele sceglie di rimanere a Torino perché ama la sua città e le
montagne. Alcuni anni dopo inizia la sua avventura con le missioni, lavora a
Mani Tese, collaborando con il cuore e le mani; la sua disponibilità per la
realizzazione degli ideali del Movimento, e verso gli amici, è totale. Con gli
anni matura la decisione di andare in Africa, con i missionari della Consolata,
dove mette a disposizione la sua professionalità. Rimane due anni in Kenya.
Rientrato in Italia, riprende la sua vita da single e trova lavoro come custode
nel seminario di Via XX Settembre dove svolge il suo servizio con grande umanità
fino al-
l’età di 71 anni. Nella sua piena disponibilità verso il prossimo, i poveri e i
bisognosi per anni presta servizio al Sermig. Muore a Torino il 16 marzo 2013.
Michele, che hai amato la natura e la montagna, che hai sempre tenuto presente
e vissuto i valori dell’amicizia, sarai sempre nei nostri cuori.

Gli
Amici con p. Giordano Rigamonti,
16/04/2013

FESTA PER ROLANDO RIVI

Nel
68° dell’uccisione del Servo di Dio Rolando Rivi, il 13 aprile, alle 18,00, nel
Duomo di Modena, l’arcivescovo Antonio Lanfranchi ha dato l’atteso annuncio
della promulgazione del decreto della Congregazione della Cause dei santi che
ne riconosce il martirio avvenuto nel 1945, quando Rivi aveva solo 14 anni.

La
vita di Rolando è legata alla chiesa di San Valentino di Castellarano (Modena),
dove i missionari della Consolata sono stati fino al 2011. P. Colusso Giovanni
(1915-2007), parroco per molti anni e ivi sepolto, è stato uno dei principali
promotori della causa di beatificazione del martire e una concausa del
miracolo a lui attribuito, come racconta Emilio Bonicelli, autore del libro «Il
sangue e l’amore» sulla storia di Rivi, in un articolo del settembre 2012 su www.tempi.it.

«Sono rimasto folgorato dalla storia di questo piccolo
ragazzo, profondamente innamorato di Gesù e trasformato da questo amore, su cui
aveva progettato la sua intera esistenza. E per tale amore è stato sequestrato,
torturato e ucciso da uomini accecati dall’ideologia. Quando ho “incontrato”
Rolando vivevo una vicenda personale molto difficile. Ero da poco tornato al
lavoro dopo una lunga convalescenza seguita a un trapianto di midollo osseo per
curare una leucemia. Allo stesso modo, un bambino inglese era guarito da questo
cancro ma attraverso una grazia. Sotto il suo cuscino, un amico aveva posto una
ciocca di capelli di Rolando, intriso del sangue del martirio.

Come ha fatto una ciocca di capelli di Rolando Rivi a
finire in Inghilterra?

Un giovane di origine indiana, che aveva studiato a Roma
e completato i suoi studi in Inghilterra, dove guidava un gruppo di preghiera,
era stato accolto da una famiglia di amici protestanti. Rimase colpito da un
articolo dell’Osservatore romano, che parlava proprio di Rolando. Il giovane si
mise in contatto con padre Colusso, parroco di San Valentino dove Rolando è
sepolto e venerato. Il figlio più piccolo di quegli amici protestanti si era
ammalato di leucemia e il giovane chiese al prete una reliquia per poter
chiedere l’intercessione di Rolando. Padre Colusso gli spedì la ciocca di
capelli. Al termine di una novena di preghiera, il bambino stava bene».

Ora finalmente, dopo sessant’anni, il silenzio su Rolando
è finito e sarà dichiarato beato. Sono sicuro che p. Colusso, dal cielo, esulta
con tutti noi.

Bruno
Bardelli
Castellarano, 15/04/2013

Precisazione

Caro
direttore, mi permetta una piccola precisazione circa un dettaglio riguardante
il dossier «Missione di carta» marzo 2013 apparso sulla sua pregiata rivista
che leggo con tanto piacere. La precisazione riguarda l’articolo di Lorenzo
Fazzini, in chiusura di dossier. Di don Luigi Bonomi si dice che era «uno dei
preti mazziani rimasti prigionieri del Mahdi in Sudan». Don Bonomi non era un
mazziano, ma un sacerdote diocesano veronese reclutato da mons. Daniele Comboni
per il Sudan nel 1874. Alla morte di don Nicola Mazza (2 agosto 1865), il suo
successore don Gioacchino Tomba non si sentì di continuare l’impegno del suo
istituto per la missione africana e a Comboni non restò che continuare il suo
progetto con l’aiuto di missionari reclutati tra sacerdoti diocesani e altri
vari. Uno di questi fu anche don Luigi Bonomi, che divenne membro dell’istituto
fondato dal Comboni stesso nel 1867.

P.
Giuliano Chisté
Verona,10/04/2013

a cura del direttore




La speranza della chiesa non sta nei privilegi offerti dall’autorità civile | Rendete a Cesare (4)

«Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi le tasse, le tasse; a chi il rispetto, il rispetto» (Rm 13,7)

All’interno del contesto di fede, che emerge dalle puntate precedenti in cui abbiamo esaminato i testi biblici, si pone il problema del rapporto tra il potere politico/economico e l’ambito religioso e spirituale, rapporto che tocca sempre nervi scoperti, data la delicatezza e il rischio insito in esso, perché coinvolge la vita di ogni giorno che impone scelte e valutazioni. In questa puntata non possiamo quindi esimerci dal fare riferimento all’attualità e a quale deve essere l’atteggiamento interiore del credente, alla luce della Parola di Dio che, diversamente, rischia di restare astratta e avulsa dalla realtà.

Rito e vita sono indissolubili

L’individuo non vive sulle nuvole, ma sulla terra, dove nulla è così netto da spaccarsi con l’accetta, per cui è necessaria una vigilanza costante per non porre in atto un «sistema di confusione», una struttura di connivenze che, inevitabilmente, portano a gestire benefici e utili, smarrendo la dovuta coerenza. Non bisogna mai perdere di vista la parabola del grano e della zizzania (cf Mt 13,24-30) che «crescono insieme» fino alla mietitura; oppure la parabola della rete da pesca che raccatta ogni sorta di pesce, sia buono che cattivo (cf Mt 13,47-50).

Gesù nel vangelo non si stanca di invitare ed esortare alla «vigilanza» come condizione essenziale e previa dell’agire credente, sintetizzato nella massima riportata da Mc: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mc 14,38). La debolezza della «carne» non è riferita alla sessualità, ma alla condizione umana in sé, alla fragilità dell’individuo e della struttura in cui vivono le persone e che inducono alla lussuria del potere che è la tentazione più satanica contro cui il credente deve combattere.

Nessuno può essere parcellizzato: in chiesa si è cristiani, nel partito si è politici, negli affari si è economisti e trafficanti, nel sindacato si è sindacali. Un individuo che è padre, e al tempo stesso figlio, amico, marito, impiegato, letterato, studioso, sportivo, volontario, non può vivere a compartimenti, ma è sempre lo stesso mentre svolge ruoli diversi. Purtroppo la realtà dei cristiani è diversa: essi separano volentieri gli ambiti della loro vita con il risultato che si ritrovano smembrati, divisi «dentro» se stessi, mentre dovrebbero essere un «tutto» in ogni istante della vita, senza distinzione di luogo, condizione e scelta.

Il battesimo consacra «figli di Dio», membri del popolo sacerdotale, profetico e regale: lo siamo realmente e lo siamo per sempre, anche quando ce ne scordiamo. Da questo dipende l’attendibilità nostra e di Dio perché se negli affari, nella politica, nel sindacato, nell’economia non portiamo il nostro «essere credenti», non serve a nulla «andare in chiesa»; anzi rischiamo di aggiungere peccato a peccato. Nello stesso tempo, non possiamo «stare in chiesa» come se questo luogo fosse avulso dalla vita che si snoda fuori, perché la preghiera e la fede senza la vita sono solo ritualità morta, droga dello spiritualismo che illude artificialmente.

O la vita dà contenuto al rito o il rito è solo scenografia che dura lo spazio di un sospiro. Ogni volta che celebriamo un’Eucaristia, compiamo l’atto più politico che esista al mondo perché diciamo che Dio si spezza come il pane e si offre come cibo, e del «Dio spezzato» noi siamo gli strumenti provvidenziali con cui si manifesta il volto di Dio, anzi la sua «immagine», che non è quella impressa sulle monete di Cesare, ma quella ben più intima e profonda del Dio creatore e padre.

Il vescovo di Recífe, dom Hèlder Cámara, un grande profeta del sec. XX, soleva dire: «Quando dico che bisogna aiutare i poveri sono un “santo”, quando dico perché esistono i poveri sono “comunista”». Se uno si limita a fare l’elemosina, magari coinvolgendo i ricchi, riciclatori ed evasori, ma senza interferire, tutti lo aiutano; se invece grida contro le ingiustizie che creano l’elemosina, contro l’evasione fiscale che ruba e depreda la collettività dei servizi primari (scuola, sanità, stato sociale), è facile che resti solo e sia tacciato di sovversivismo. Per molti cristiani, vescovi e prelati, spesso Dio è un alibi, un modo comodo per girarsi dall’altra parte e non vedere, come il sacerdote e il levita della parabola del Samaritano nel vangelo di Luca (cf Lc 10,25-37).

Quando il silenzio è complicità

Se si accettano i benefici economici (denaro, leggi su misura o peggio ancora leggi di scambio), non si può contestare lo stato o il governo di tuo, i quali hanno il diritto di emanare le proprie leggi e di pretendere che siano osservate. Lo stato può esigere obbedienza da chi usufruisce dei vantaggi della sua protezione (cf Rm 13,1-8; Tt 3,1-3; 1Pt 2,13-14). È quello che è successo in Italia negli ultimi venti anni: parte della gerarchia cattolica ha appoggiato governi e politici che sono stati (lo sono di natura) l’opposto della legalità, della moralità privata e pubblica come del «bene comune», pagando il prezzo di un silenzio assordante e l’allontanamento di molti credenti anche dalla fede. Non si può essere profeti e legati alla mangiatornia del potente, come i veggenti di corte combattuti dal profeta Amos nel sec. VIII a. C. (cf Am 7,10-16).

Persone di pensiero che non possono essere considerate «rivoluzionarie» e che hanno svolto funzioni e ruoli di prestigio all’interno della Chiesa cattolica, non esitarono, «voce che grida nel deserto», a parlare apertamente e ufficialmente di fronte «al silenzio dei vescovi». Il gesuita padre Bartolomeo Sorge, già direttore de «la Civiltà cattolica», la rivista quindicinale dei gesuiti italiani che nulla pubblica senza l’approvazione della Segreteria di Stato vaticana, direttore del «Centro Studi Pedro Arrupe» di Palermo negli anni ’80 del secolo scorso e ultimamente direttore della prestigiosa rivista «Aggiogamenti sociali» di Milano, stretto collaboratore di Paolo VI e della Cei per i convegni a cadenza decennale e uomo di grande prudenza, nel marzo del 2004 scriveva:

«Il rimanere in silenzio di fronte alla gravità della situazione italiana non appare motivato. I vescovi non possono esimersi dall’illuminare le coscienze dei fedeli sulla coerenza o meno con la Dottrina sociale della Chiesa dei programmi politici che nel Paese si confrontano. È sempre valido l’ammonimento di san Gregorio Magno: come “un discorso imprudente trascina nell’errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch’è giusto” (in Regola pastorale, Lib. 2, 4; PL 77, 30)». (B. Sorge, Il silenzio dei vescovi sull’Italia, in «Aggiogamenti sociali», Vol. 55, n. 3, marzo 2004, pp. 161-166).

Consapevole che le sue parole sarebbero apparse forti se non dissacratorie alle orecchie degli interessati e delle persone pie di professione in qualche gruppo interessato perché connivente, egli fece ricorso all’appoggio di un vescovo e cardinale della statura e della caratura di Carlo Maria Martini, unica voce fuori del coro nel panorama della diaspora episcopale italiana. Egli il 6 dicembre 1995 (già nel millennio scorso!), in occasione della festa di Sant’Ambrogio, nel discorso alla città dal titolo C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare, disse testualmente:

«La Chiesa non deve tacere perché [in Italia] è in gioco la sopravvivenza dell’ethos politico. Non è la Chiesa come tale a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi della democrazia. Non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio e neppure di distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza».

Padre Sorge, forte di questo assist, espresse tutta la sua preoccupazione per la situazione esplosiva che si era prodotta in ambito ecclesiale.

«La necessaria equidistanza dagli schieramenti partitici non significa neutralità di fronte alle implicazioni etiche e sociali dei diversi programmi politici. Infatti, il silenzio in tal caso potrebbe indurre i fedeli a credere che tutti i modelli di società, per il solo fatto di essere formalmente «democratici», si equivalgano e che i cristiani possano indifferentemente aderire all’uno o all’altro, purché si comportino con coerenza di fronte alle singole scelte. Il sospetto che la profezia sia frenata dalla diplomazia, cioè dalla speranza di vantaggiose contropartite per il bene della comunità ecclesiale e in difesa di alcuni valori etici, si tratti dei sussidi alle scuole cattoliche o dei finanziamenti agli oratori o dei buoni-famiglia» (Sorge B., ivi).

Quale rapporto tra fede e politica?

Il cristiano, sia esso vescovo o semplice credente, vive nella prospettiva del Regno di Dio e sa che nella gestione delle realtà terrestri deve essere «prudente», senza cercare scorciatoie e protezioni o favori e raccomandazioni perché il suo agire è prova diretta del suo essere e della sua fede. Mai deve dimenticare che ovunque egli sta, porta sempre con sé «l’immagine di Dio», di cui è custode e responsabile.

Nessun governo sulla terra potrà mai essere «adeguato» alle esigenze del Vangelo, per questo il credente starà a casa sua all’opposizione di ogni potere come coscienza critica del diritto dei poveri e degli emarginati a partecipare alla condivisione della mensa sociale e civile della «polis». Se il credente si schiera con il «potere», qualunque esso sia, finisce per essere complice delle sue scelte e delle conseguenze che esse comportano. Ciò esige, come dice padre Sorge, profezia e lungimiranza e comporta la rinuncia ai privilegi e ai vantaggi importanti o anche irrisori che lo stato può garantire. In altre parole la separazione totale: non può esserci commistione e confusione di sorta tra la fede e la gestione immorale del potere politico ed economico.

Credere in Dio esige integrità di vita e trasparenza di pensiero che devono vedersi negli atti quotidiani e nelle scelte della vita. Su questo punto anche il magistero supremo della Chiesa, che si esprime nel concilio ecumenico Vaticano II, è inequivocabile. Insegna il concilio (sottolineature mie):

«Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell’esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri della città terrestre… la Chiesa… tuttavia non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (Gaudium et Spes, n. 76).

Pronti a rinunciare anche ai diritti

Il concilio invita a rinunciare addirittura ai «diritti legittimamente acquisiti» per non dare motivo di nessun dubbio o parvenza di privilegio. Oggi, invece, il privilegio è la norma e la rinuncia una chimera.

«Sembra proprio venuto il momento che la Chiesa cattolica recuperi la propria dimensione costitutiva, la dimensione escatologica. E ritrovi la forza della profezia, del coraggio, sradicando per sempre dal suo corpo quel male micidiale, il clericalismo, che ne corrode l’anima» (Svidercoschi G. F., Il ritorno dei chierici. Emergenza Chiesa tra clericalismo e concilio, Dehoniane, Bologna 2012, 10).

Queste parole hanno un peso più grave perché sono scritte da un giornalista, Gian Franco Svidercoschi, già vicedirettore de L’Osservatore Romano, coautore con Giovanni Paolo II del libro «Dono e Mistero» (1966) e autore del libro «Verso il 2000 rileggendo il concilio», commissionatogli nel 2000 dalla Santa Sede. Egli arriva a parlare «del progressivo decadimento di una certa classe episcopale, tanto nella dottrina quanto nel governo della pastorale» (Id., 27). Gli scandali che hanno coinvolto il Vaticano in questi anni, dallo Ior alla pedofilia fino alle dimissioni di papa Benedetto XVI, non solo sono sintomi, ma anche causa del degrado ecclesiale giunto ormai a livelli insopportabili.

È in questo contesto che deve essere letta la scelta di papa Francesco, «il papa venuto dalla fine del mondo», il quale con i suoi primi atti e gesti è stato eloquente e dirompente, per non dire «rivoluzionario»: non ha mai usato la «mozzetta rossa», residuo della «clamide rossa» (mantello) dell’imperatore romano che la usava come segno del suo potere regale. Rinunciando a essa, papa Francesco ha voluto distinguere il servizio del vescovo di Roma da quello del capo di stato, cioè del politico. Con un solo gesto ha detto al mondo intero: Cesare è Cesare. Dio è Dio. Vengo a voi come «immagine di Dio» non come potente tra i potenti.

Il Vangelo di per sé non pone un’opposizione tra «Cesare» e «Dio», né determina i confini tra le due sfere, né tanto meno dice che c’è una sfera d’influenza di Dio e una d’influenza di Cesare. Questo ragionamento è estraneo al pensiero di Gesù perché illogico: il regno di Dio, infatti, pur non confondendosi con il regno di Cesare, non è fuori dal territorio e dall’umanità su cui governa Cesare. Gesù non parla di separazione tra «stato e Chiesa»: questa è un’indebita conclusione estranea al testo, come se vi fossero due autorità equipollenti, distinte, ma convergenti che si dividono la torta umana. La parte spirituale alla Chiesa e la parte materiale allo stato, come si è tentato di fare nel Medioevo attraverso le investiture dei re da parte del papa, fino a quando Bonifacio VIII, nel giubileo del 1300, non pretese di assumere per sé le due funzioni (la teoria delle «due spade»).

Questo ragionamento è tipico di una concezione della società come «cristianità», in cui la visione teologica e la morale di una confessione religiosa diventano patrimonio esclusivo di quella società che le impone anche con la forza o con la semplice legge. È la prospettiva cristiana della vita e del mondo applicate alle realtà terrestri senza distinzione di sorta; in questo senso la Chiesa detta le regole e i laici le applicano come «braccio secolare» come si è manifestato nel regime di «cristianità» di stampo medievale, quando il potere religioso appaltava al potere politico parte dei propri compiti scellerati. Poiché il comandamento ordina: «Tu non ucciderai» (Es 20,13), l’Inquisizione non si sporcava le mani, ma appaltava le uccisioni al braccio secolare, così si ammazzavano lo stesso le persone, quasi sempre innocenti, ma non erano i preti a farlo materialmente. È il vero regno della confusione tra stato e Chiesa che storicamente tanti guai ha portato e alla Chiesa e allo stato.

In quanto cittadini credenti, noi abbiamo diritti e doveri che sono sanciti dalla Carta costituzionale e li dobbiamo esigere non perché credenti, ma perché cittadini. Essi, infatti, non sono una concessione benevola del governo di tuo. Al di fuori di ciò, dobbiamo essere attenti, come esige il Vangelo: se ci avvaliamo di un condono, significa che abbiamo compiuto un illecito e quindi ci collochiamo dentro un clima d’immoralità. In secondo luogo, diventiamo complici del degrado ambientale o sociale, anche se ne possiamo avere un beneficio immediato. Di conseguenza, non possiamo contestare il governo per immoralità o, in caso di disastro ambientale, gridare contro Dio o la fatalità, se per esempio abbiamo costruito abusivamente, violentando ambiente ed equilibrio ecologico. Se frodiamo il fisco, noi riduciamo i benefici dello stato sociale, rubiamo a noi stessi, alla scuola dei nostri figli, eliminiamo risorse per la sanità, e di conseguenza perdiamo il diritto di parlare di poveri e di stato inadempiente, né possiamo andare in piazza a gridare contro gli evasori perché saremmo complici.

La fede è esigente, perché impone la coerenza. Nella prossima puntata, termineremo questa lunga digressione sul rapporto tra «Cesare e Dio», riflettendo sul testo fondamentale della distinzione «Chiesa e stato» e che è Gv 18,36: «Il mio regno non è di questo mondo».

(continua – 4).

Paolo Farinella




Pedro Claver

Missionario gesuita spagnolo
originario della Catalogna, è il santo che maggiormente ha impressionato per il
suo apostolato in mezzo agli schiavi africani deportati nelle Americhe. È una
delle figure più straordinarie della prima evangelizzazione del Nuovo Mondo. Si
calcola che nella sua vita abbia battezzato più di 300 mila africani che,
strappati dalla loro terra, erano stati brutalmente riversati sulle rive del
continente scoperto da Cristoforo Colombo.

Pedro, sei una persona
eccezionale, un santo unico nel tuo genere, uomini come te sono rari e preziosi
per la testimonianza che danno ai cristiani di ogni tempo. Parlaci un po’ di
te.

Sono
nato a Verdú, una cittadina vicina a Lérida nella regione catalana del Regno di
Spagna, il 25 giugno 1581, da una famiglia di modeste condizioni. I miei
genitori volevano che conseguissi un titolo di studio per poter emergere nel
contesto della società del tempo.

Che scuole hai fatto?

Mi
iscrissi alle scuole che i gesuiti avevano aperto in diverse città della
Spagna, studiai materie umanistiche a Maiorca e mi laureai all’Università di
Barcellona, approfondendo filosofia e psicologia. Poi fui conquistato dal
carisma del nuovo ordine fondato da Ignazio di Loyola e, sull’esempio di
Francesco Saverio che era andato in India e in Giappone, decisi di farmi
missionario anch’io e di partire per i Nuovi Mondi che iniziavano allora a
essere conosciuti dagli europei.

Hai un ricordo particolare di quel
periodo?

Mentre
studiavo a Maiorca il frate portinaio del convento, fra’ Alfonso Rodriguez, un
mercante di Segovia rimasto solo per la morte di tutti i suoi famigliari, mi
indicò quale doveva essere la mia missione specifica, ovvero partire per le
Americhe. Egli incise profondamente non solo nella mia vita: con il suo modo di
fare umile e servizievole, divenne un maestro di spiritualità per tanti giovani
aspiranti gesuiti. La sua stanza era un’altra aula scolastica dove imparavamo
la spiritualità del servizio verso i più poveri e più bisognosi.

Una bella lezione di vita… e poi
come andò?

Completati
gli studi ed emessi i voti religiosi, fui mandato in America: nel 1610 sbarcai
a Cartagena, nell’attuale Colombia, in piena crescita tumultuosa e caotica.
Quella fu la terra che mi accolse e dove svolsi il mio apostolato per 44 lunghi
anni.

Cosa ti colpì di più della nuova
realtà?

Una
cosa terrificante, come un tremendo pugno nello stomaco, fu constatare di
persona come erano ridotti gli uomini dalla pelle nera, catturati in Africa e
venduti come schiavi nelle nuove colonie. Colpito da questo fatto, capii che
dovevo impegnarmi a vivere solo per queste persone, un proposito condensato nel
motto: «Aethiopum semper servus», totalmente a servizio degli «etiopi»,
come venivano chiamati a quei tempi quelli che provenivano dall’Africa.

Saresti in grado di definire
quanti schiavi arrivavano in un anno a Cartagena?

Alcuni
storici calcolano che nei secoli segnati dalla tratta degli schiavi siano stati
deportati circa 15 milioni di esseri umani. Si può dire che ai miei tempi a
Cartagena arrivavano ogni anno migliaia di schiavi africani ed erano quasi
tutti giovani, perché i razziatori non catturavano invalidi o vecchi, ma i
sani, i robusti dell’uno e dell’altro sesso.

Il
«lavoro infame» di razziare e catturare le persone nell’interno del continente
era fatto dagli arabi, di religione islamica, mentre comandanti ed equipaggi
delle flotte che trasportavano quei poveretti lungo la tratta atlantica erano
cristianissimi e cattolicissimi… Quando si tratta di far soldi le coscienze
sporche dell’una e dell’altra religione non vanno per il sottile!

In che cosa consisteva la tua
azione in favore di questi poveretti?

Quando
veniva segnalato l’arrivo di un carico di schiavi andavo loro incontro con una
mia barca in mare aperto e portavo loro cibo, soccorso e conforto e mi
guadagnavo così la loro fiducia, una cosa che mi risultava preziosa una volta
sbarcati e ammassati a Cartagena, dove potevo continuare a incontrarli e a
offrire quel poco di consolazione che potevo dar loro.

E come facevi per la lingua?

Radunai
delle persone che parlavano dialetti diversi, facendo così un gruppo di
interpreti di varie etnie che con il tempo diventarono anche dei validi
catechisti. Alla domenica soprattutto passavo gran parte della giornata con
loro, specialmente con i nuovi arrivati, andando incontro alle loro necessità e
cercando di difenderli, come potevo, dai loro oppressori.

Nel prenderti cura di queste
persone, che cosa ti stava più a cuore?

In
un ambiente pieno di sofferenza e disperazione, io davo loro speranza,
presentando loro la figura di Gesù di Nazareth. A gente che non aveva più
nulla, che aveva perso tutto, specialmente il rispetto degli altri uomini,
facevo presente quanto fosse importante non perdere la propria dignità.
Acquistai quindi la loro fiducia e molta gente incominciò a confidarsi con me e
ad avvicinarsi al Vangelo di Cristo.

Io
non lo so di preciso, ma alcuni calcolano che abbia battezzato più di 300 mila
persone, una cosa impressionante per i miei tempi, soprattutto se si calcola
che a questa gente il battesimo veniva dato dopo un cammino catecumenale e non
imposto con metodi coercitivi, come facevano gli hacienderos con gli
indigeni.

Com’era vista dai conquistatori
spagnoli
e dalle famiglie creole la tua
azione a favore di questi sfortunati dalla pelle nera?

Fui
accusato di tutto e di più: di azione incauta, di profanare i sacramenti, in
quanto li davo a creature che «a malapena possedevano un’anima» (sic!). Le
nobildonne di Cartagena si rifiutavano di entrare nelle chiese dove io riunivo
questi poveretti. Queste critiche, purtroppo, influenzarono anche alcuni miei
superiori. Ma io continuavo imperterrito per la mia strada, accettando pesanti
umiliazioni e aggiungendo penitenze rigorose per la buona riuscita delle mie
opere di carità. Sentivo dentro di me che quello che facevo rispondeva al piano
di Dio, che vuole la salvezza di tutti i suoi figli.

Nella tua azione in favore degli
schiavi eri solo o qualcuno ti aiutava?

Con
me c’era il padre Alonso de Sandoval, a cui va il merito di aver tenuto conto
per iscritto da quale porto dell’Africa erano partite le navi ed enumerato le
etnie che componevano il loro carico. Egli iniziò, e io continuai, a riscattare
alcuni schiavi di diverse lingue africane che furono di grande aiuto; un’azione
che oggi chiamano mediazione culturale.

Non ti venne mai in mente di
denunciare la schiavitù come qualcosa da abolire, perché contraria alla dignità
delle persone?

Questo
è un modo di travisare la storia: non si possono applicare i concetti di lotta
di classe agli schiavi dell’antica Roma; così pure non si possono applicare
alla mia epoca idee e concetti che sono andati maturando lungo i secoli
seguenti.

Durante
quel periodo non si facevano teorizzazioni dottrinali sul problema della
schiavitù, né denunce alle autorità per i soprusi che venivano compiuti. La
preoccupazione mia, di padre Sandoval e di altri missionari, era quella di una
totale dedizione nel quotidiano servizio agli schiavi, in un certo qual modo la
nostra era una vicinanza tesa molto più a ridare speranza e dignità che a
mettere in libertà gli schiavi.

Però in quel tempo si cominciò a
prendere coscienza dell’idea che nessun uomo potesse essere padrone di altri
uomini.

Altri
missionari avviarono il cammino della difesa giuridica degli schiavi e della
denuncia pubblica contro la schiavitù, Gesuiti, Domenicani e Cappuccini, a
Cuba, in Colombia e in Venezuela, cominciarono a denunciare con parole
durissime la schiavitù. Padre Francisco Josè de Jaca e padre Epifanio de
Moirans, scrivevano che «la schiavitù africana è ingiusta… i negri non
soltanto si rendono liberi ricevendo il battesimo; lo sono già prima per
diritto naturale. Non esiste solo l’obbligo di restituire loro la libertà, bensì,
in forza della giustizia, si deve pagare loro ciò che hanno perso durante la
schiavitù, il lavoro e i danni subiti…».

Queste prese di posizione che
influenza ebbero sulla società del tempo?

Il
Consiglio delle Indie ripudiò l’atteggiamento antischiavista dei due cappuccini
affermando che: «Senza la schiavitù dei neri le Americhe sarebbero condannate
alla rovina totale». Del resto negli Stati Uniti per abolire la schiavitù ci fu
bisogno di una guerra civile e l’ultimo paese latinoamericano che la abolì fu
il Brasile nel 1871, con la così detta «Lei do Ventre Livre», in cui non
si dava la libertà agli schiavi, ma a partire da quella data i figli degli
schiavi sarebbero nati liberi; successivamente, con la «Lei Aurea» del
1888, fu restituita la piena libertà a tutti.

Come sempre i privilegi dei più
forti prevalsero sui diritti e sulla dignità di milioni di esseri umani.

Una
logica ben radicata ai miei tempi ma non del tutto scomparsa nel vostro mondo:
con forme più sottili, la schiavitù sulle persone, la tratta degli esseri
umani, e purtroppo anche dei bambini, continuano ancora in questi giorni
nell’indifferenza generale di una società che si dice più avanzata, libera e
democratica di quella del mio tempo.

San Pedro Claver Corberó muore consumato dalla febbre e dalle
malattie l’8 settembre 1654, i suoi ultimi anni li vive offrendo la sua
condizione di persona debole e fragile al Signore per il riscatto dei suoi
figli africani. Viene canonizzato nel 1888 da Leone XIII insieme ad Alfonso
Rodriguez, il fratello portinaio di Maiorca che gli preconizzò il cammino che
doveva fare. È patrono delle missioni cattoliche tra i popoli dell’Africa nera
e degli afroamericani.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




«Lo hanno tradito un milione di volte»

Dopo la morte di Hugo Chávez e le elezioni del 14 aprile.
Il 5 marzo 2013 è morto Hugo Chávez.
Personalità forte e di enorme carisma, il presidente venezuelano ha segnato la
storia latinoamericana degli ultimi 15 anni. È stato un personaggio grandemente
amato e grandemente odiato. Dell’opera
di Chávez, della risicata vittoria del nuovo presidente Nicolás Maduro e dei
problemi del paese abbiamo parlato con padre Pablo Urquiaga, parroco in un
quartiere popolare di Caracas. Queste sono le sue risposte, appassionate e mai
banali.

Hugo Chávez Frias, presidente del Venezuela (Repubblica
bolivariana del Venezuela), è morto il 5 marzo 2013. È stato sconfitto da un
tumore all’età di 58 anni.

Personaggio unico e controverso, amato dalla maggioranza
del suo popolo, odiato dalle oligarchie di tutto il mondo, deriso e insultato
dai principali media inteazionali, Hugo Chávez si era imposto in tutte le
elezioni venezuelane a partire dal 1998. Nell’aprile del 2002 era stato deposto
da un colpo di stato guidato da Pedro Carmona Estanga, presidente di Federcameras
(la Confindustria locale), con l’appoggio di Washington e Madrid, delle
televisioni private del paese e della Chiesa cattolica venezuelana. A partire
da quegli eventi i rapporti del presidente Chávez, cattolico dichiarato, con la
gerarchia della Chiesa venezuelana sono sempre stati tesi, con vicendevole
scambio di accuse e parole forti.

Per discutere del ruolo avuto da Chávez nella storia
recente del Venezuela, dei principali problemi del paese e dei rapporti con la
Chiesa cattolica abbiamo conversato lungamente con padre Pablo Urquiaga Feández.
Nato nel 1945 a Pinar del Río, Cuba, dopo alcuni anni a Miami, nel 1968 Pablo
Urquiaga arriva in Venezuela. Conclude gli studi all’Università cattolica Andrés
Bello di Caracas. Nel 1975 viene ordinato sacerdote. Dopo 4 anni a Petare, nel
1980 diventa parroco della chiesa La Resurrezione del Signore, a
Caricuao, un quartiere di Caracas abitato da classi medio-basse.

Padre Pablo, in Europa e in generale nel mondo
occidentale il Venezuela di Hugo Chávez ha sempre goduto di una pessima stampa.
Ad esempio, in occasione delle elezioni di ottobre 2012, i principali
quotidiani italiani – Corriere della sera, La Stampa, la Repubblica
hanno fatto a gara per scrivere editoriali (a volte per mano di persone che mai
sono state in Venezuela) contro il presidente Chávez. Qualche anno fa Missioni
Consolata
pubblicò una serie di reportage sul paese e ci furono proteste
perché non si parlava male di Chávez. Da prete cattolico, come spiega questa
nomea?

«La mia opinione è che tutte queste persone non hanno
conosciuto il presidente Chávez. Lo ripeto ogni volta anche alla mia stessa
famiglia: voi vi accanite contro un “mostro virtuale” – che non esiste e che
non è mai esistito – chiamato “Chávez”. Questo mostro è stato costruito
attraverso i media che io definisco “perversi” in quanto strumenti di
manipolazione e confusione sociale, sottoposti a precisi interessi economici e
politici. Media creati dalle oligarchie per opprimere e sottomettere la povera
gente. Media non interessati a fare conoscere la vera immagine di Chávez.

Il vero Hugo Chávez, profeta e martire, si è visto il 5
marzo 2013, giorno in cui il Dio di Gesù lo ha glorificato e milioni di persone
hanno reso gloria a Dio per la sua vita. Persone che hanno dimostrato il loro
apprezzamento e il loro amore formando lunghe processioni davanti al suo
feretro esposto nella Scuola militare di Caracas. Code che sono durate 10
giorni lungo le 24 ore senza mai fermarsi. Siamo stati testimoni in prima
persona di un evento che nessun mezzo di comunicazione ha potuto nascondere. Io
ne sono convinto: il Dio di Gesù lo ha glorificato attraverso il suo popolo,
quello più umile e semplice».

Quando una persona viene colpita da una grave malattia,
ci dovrebbe essere più rispetto, più umana pietas o – come dovrebbe avvenire
per i credenti – più carità cristiana. Con Chávez non è stato così. Al
contrario, avversari in patria e fuori ne hanno approfittato per chiedere il
suo allontanamento. Quando infine è morto, molti hanno trattenuto a stento il
proprio compiacimento. Perché?

«È vero. In Venezuela e nel mondo molti hanno pregato per
la sua morte, credendo che egli fosse un vero mostro. Altri perché lo odiavano
come fu odiato Gesù di Nazareth, per invidia, vendetta e sete di potere. Hugo
Chávez era venuto ad “aprire gli occhi dei ciechi”, per far prendere coscienza
a un popolo sottomesso. Il presidente ne ha risvegliato la dignità. Tutto
questo non poteva essere accettato dai potenti, vale a dire da quelli che si
ritengono “migliori di tutti gli altri”.

Era accaduto lo stesso per Gesù di Nazareth e per
l’arcivescovo Romero 33 anni fa in Salvador, e ancora per Gandhi in India e
Martin Luther King negli Stati Uniti. Non dimentichiamo che una parte degli
oppositori non credevano che il presidente fosse malato, ritenendo la malattia
un imbroglio come quelli di cui essi sono normalmente artefici. Senza accennare
al fatto che molti tra noi hanno forti sospetti che il cancro del Presidente
sia stato indotto dai suoi stessi nemici, stranamente sempre molto ben
informati sull’evoluzione della malattia».

In Occidente si contesta la lunga permanenza di Chávez al
governo del Venezuela. Non interessa il fatto che il presidente sia sempre
stato scelto tramite libere elezioni, strumento principe della democrazia. Si
parla senza mezzi termini di «caudillismo» e spesso di dittatura. Cosa pensa al
riguardo?

«Hugo Chávez è stato il più grande democratico che questo
paese abbia avuto in tutta la sua storia repubblicana. Un capo o un dittatore è
colui che si impone  contro la volontà
popolare. Hugo Chávez è stato rieletto molte volte dal suo popolo, con elezioni
limpide e certificate, con un Consiglio nazionale elettorale pulito.

Il contrario di quanto normalmente avveniva nei
governatorati di Miranda e Zulia (i due stati con il più vasto bacino
elettorale), vinti più volte dall’opposizione tramite frode e compravendita dei
voti. Il popolo non avrebbe mai prevalso, se non attraverso un numero enorme di
voti, assai più difficile da adulterare. Proprio ciò che accadde nel dicembre
1998, quando Chávez conquistò per la prima volta la presidenza della Repubblica
bolivariana del Venezuela».

Nel 2009 un referendum popolare approvò – con scandalo e
clamore mondiali – il cambio degli articoli della Costituzione che vietavano la
rielezione. Quella stessa Costituzione che, con l’articolo 72, consente di
revocare tutte le cariche elettive dopo metà mandato. Un esempio straordinario
di democrazia che i paesi occidentali e i media hanno quasi sempre
dimenticato…

«È così. Con la nuova Costituzione, voluta da Chávez nel
1999, siamo andati oltre la “democrazia rappresentativa” in cui un eletto, dopo
essere stato votato, fa quello che vuole, in cui occorre aspettare cinque anni
per “cacciare dal potere” un rappresentante inadeguato o indegno con il rischio
di votare un altro con le stesse abitudini del precedente. La Costituzione
bolivariana ha creato una “democrazia partecipativa e protagonista”, dove la
gente non soltanto vota ma il “prescelto”, una sorta di portavoce del popolo,
deve rendere conto del suo operato. E se, dopo due anni, questo viene giudicato
insoddisfacente è possibile revocare il mandato. L’opposizione vuole salvare la
sua “democrazia”, mentre la gente comune vuole difendee “una diversa”, quella
istituita con la Costituzione del 1999. Questa è la differenza».

Il Venezuela è uno dei principali produttori mondiali di
petrolio. Lei ritiene che il governo abbia utilizzato bene le grandi entrate
petrolifere?

«La società Petróleos de Venezuela (Pdvsa), una
delle aziende più ricche e importanti del mondo, era proprietà privata di circa
40.000 famiglie. Ovvero 200.000 venezuelani erano i padroni della sola impresa
in grado di produrre ricchezza per il paese. Peccato che il Venezuela abbia 16
milioni di abitanti. Prima di Chávez, soltanto una piccola percentuale della
popolazione si avvantaggiava del Venezuela saudita. Con i miei occhi sono stato
testimone di questa spaventosa ingiustizia. Venezuelani che arrivavano a Miami
per comprare edifici di quattro piani e venti appartamenti pagando tutto in
contanti. Gli statunitensi rimanevano stupefatti perché nessun’altro agiva così.
Pensavano che tutti i venezuelani fossero ricchi. Per decenni un’esigua
minoranza ha sperperato la ricchezza petrolifera del paese. Oggi il petrolio
appartiene a tutte e tutti i cittadini del Venezuela».

Gran parte dei profitti derivanti dal petrolio sono stati
utilizzati per finanziare le cosiddette «misiones». I critici – più o meno
attendibili – parlano di spreco e di occasione persa per far progredire
l’economia del Venezuela.

«I proventi del petrolio – pur in presenza della
corruzione – sono stati messi a disposizione dei più bisognosi, attraverso gli
investimenti nelle missioni sociali.

Pensiamo ai servizi per la salute della Missione Barrio
Adentro. O alle missioni nel campo dell’istruzione: la Missione Robinson
attraverso la quale milioni di persone analfabete hanno imparato a leggere e
scrivere; la Missione Ribas, con la quale chi già aveva un diploma di scuola
primaria ha potuto accedere alla secondaria e ottenere un diploma; e infine la
Missione Sucre, attraverso la quale molti sono stati in grado di studiare
all’Università e si sono laureati in diverse specialità. Sogni diventati realtà
per molti emarginati. E ancora ricordo la Missione Negra Hipolita, attraverso
la quale gente senza fissa dimora è stata recuperata a un’esistenza dignitosa.
E poi la Missione Vivienda, con cui migliaia di famiglie hanno beneficiato di
una casa dignitosa, soprattutto coloro che erano rimasti danneggiati da eventi
naturali. Le missioni hanno aiutato le classi più povere, ma ovviamente sono
costate un sacco di soldi. In esse è stata investita la maggior parte degli
utili di Pdvsa, utili che prima finivano nelle mani dei privilegiati di questo
paese.

Questa è la verità che l’opposizione e i media
occidentali non vogliono riconoscere. Per costoro investire nel sociale è un
assurdo economico. “Perché sprecare denaro con persone che non producono?”,
affermano».

Al successo delle missioni fanno da contraltare gli
insuccessi in materia di sicurezza. Leggendo i giornali e alcune statistiche,
parrebbe che il Venezuela sia un paese con alti o altissimi livelli di
criminalità comune. È così?

«Purtroppo è così. Il problema dell’insicurezza peggiora
ogni giorno. È una questione che non è nata con Chávez, ma che deriva dal
deterioramento di un sistema capitalista corrotto ereditato dal passato. Non è
un problema risolvibile con la bacchetta magica. Per affrontarlo seriamente
occorre cambiare la “cultura della corruzione” che ancora domina il nostro
paese e tutto il mondo. Giudici e avvocati corrotti sono ancora in vendita per
denaro, l”idolo” che occorrerebbe distruggere. C’è la polizia abituata a farsi
corrompere. C’è il narcotraffico, che si è infiltrato nel governo e
nell’opposizione. Ma anche all’interno delle classi popolari, dove spesso i
bambini vengono arruolati come “muli”, cioè come trafficanti di droga
che – in quanto minori – non sono imputabili per i loro reati. In questo modo i
“colletti bianchi” non vengono mai toccati.

Il problema è serio e complesso. Il governo sta facendo
molti sforzi per affrontare la questione, ad esempio con una campagna per il
“disarmo”. Ha già raggiunto alcuni risultati, ma non quelli che ci
aspettavamo. In verità, abbiamo bisogno di “disarmarci nella mente e nel cuore”,
perché qui sta il problema principale. Noi della Chiesa, in forza del nostro
ruolo, stiamo lavorando in questa direzione».

Altra accusa mossa al Venezuela riguarda la libertà di
espressione. I proprietari dei media venezuelani sostengono di essere
danneggiati dal governo bolivariano con la legge sulle Tv e con la «cadena
nacional», cioè l’obbligo di trasmettere programmi o messaggi delle autorità
governative. Cosa risponde a queste critiche?

«Le “catene televisive” del presidente – e in
particolare il suo programma “Aló, Presidente” – hanno rappresentato
l’unico modo che il governo di Hugo Chávez aveva per comunicare con veridicità
tutto quello che stava facendo la rivoluzione bolivariana. Una verità
completamente occultata dai media privati.

Prima della rivoluzione in questo paese tutti i mezzi di
comunicazione erano in “mani private” ovvero nella totale disponibilità delle
oligarchie che manipolavano (e continuano a manipolare) le persone con le loro
bugie o “mezze verità” per confondere e favorire i propri esclusivi interessi.
Senza dubbio, i media privati, molto più forti e potenti in termini di qualità
e portata rispetto alla televisione pubblica, sono perennemente “in catena
nazionale”, cercando di distorcere la realtà 24 ore al giorno. In Venezuela
dobbiamo affrontare una vera e propria “guerra mediatica”».

Una guerra che ebbe il suo apice durante il golpe
dell’aprile 2002 quando i canali televisivi privati ebbero un ruolo di primo
piano nella (temporanea) destituzione del presidente Chávez.

«Appunto per questo, nel dicembre 2004, è stata emanata
la “Legge di responsabilità sociale nelle radio e in televisione” (nota con
l’acronimo di Resorte), che regola l’uso dei mezzi di comunicazione di
massa.

Mi ricordo che, dopo averla tenuta tra le mani e averla
letta attentamente, andai a trovare un amico e fratello, “dottore in Teologia
morale”. Gli chiesi la sua opinione sulla legge. Egli mi rispose: è così buona
che l’unica cosa che manca sono le “citazioni bibliche” a margine. Al ché io
gli ribattei: e perché voi non lo dite in pubblico? Mi rispose: se lo
dicessimo, direbbero che siamo “chavisti”, cioè partigiani di Chávez».

Oltre a quella legge, i media e l’opposizione contestano
la chiusura – nel maggio 2007 – del canale privato Radio Caracas de Television
(Rctv).

«In Venezuela non si è mai chiuso alcun media
dell’opposizione. Per quanto riguarda il caso di Rctv, la sua cessazione fu
determinata dal mancato rinnovo della concessione. Questa non fu rinnovata a
causa della violazione della legge e dell’uso improprio dell’etere, uno spazio
pubblico di cui – è bene ricordarlo – non si è mai proprietari, essendo esso un
bene di tutti».

Il Venezuela di Chávez ha ottimi rapporti con Cuba. Ciò
viene preso a pretesto dagli Stati Uniti per attaccarlo. Tuttavia, alcune
relazioni con paesi come l’Iran e la Bielorussia sono effettivamente
discutibili. Che strategia segue il Venezuela nel campo delle relazioni
inteazionali?


«La Repubblica bolivariana del Venezuela è una nazione
libera e indipendente e come tale ha il diritto di avere rapporti con tutti i
paesi che ritenga opportuno, senza alcun tipo di ingerenza straniera. Come
nazione noi desideriamo avere le migliori relazioni con tutti i paesi fratelli.
La sola cosa che pretendiamo è il rispetto per la nostra indipendenza e
sovranità. Condivido pienamente la politica internazionale esercitata dal
nostro presidente Hugo Chávez. Oggi il Venezuela è rispettato in tutto il mondo
anche per la sua capacità di aiutare i popoli più bisognosi. Ci siamo resi
conto che la nostra ricchezza – il petrolio – ci è stata donata dal Creatore
per servire le nazioni più povere e non per sfruttare gli altri o per regalarla
agli imperi di tuo, diventandone i servi. Abbiamo ottimi rapporti con paesi
di diverse culture e ideologie che ci rispettano e che non ci sfruttano come ha
fatto un tempo l’impero nordamericano. Ho la certezza che la politica
internazionale finora seguita continuerà anche con il nuovo presidente Nicolas
Maduro, che era stato cancelliere del presidente Chávez».

Nei suoi interventi pubblici, il presidente Chávez faceva
spesso riferimento alla propria fede, con citazioni dai testi sacri e
considerando Gesù Cristo un rivoluzionario ante litteram. Eppure, la
Chiesa cattolica, soprattutto la gerarchia venezuelana, è sempre stata un
durissimo avversario del presidente, tanto da dare il suo supporto al golpe
dell’aprile 2002. Come spiega questo atteggiamento?


«Io ho sempre creduto nella fede di Hugo Chávez, ma più
per quello che faceva che per quello che diceva. Ancora una volta mi permetto
di parafrasare il Vangelo secondo Matteo: “Dai suoi frutti l’ho conosciuto”.
Hugo Chávez, come un profeta, ha detto alcune verità a qualche alto esponente
della chiesa venezuelana (a volte io non ero d’accordo, non su quello che
diceva, ma come lo diceva). Costoro non erano abituati a sentirsi dire in
faccia, da qualcuno a quei livelli, alcune verità e ciò non è mai stato
perdonato. Il comportamento del presidente era interpretato come una “mancanza
di rispetto”. So che, in molte occasioni e in diversi modi, Chávez ha cercato
una riconciliazione o almeno un dialogo con loro. Inutilmente, in quanto alcuni
di essi si sono sempre opposti, trincerandosi dietro una posizione radicale
contro di lui, accusato di aver offeso la loro dignità. A quanto ho capito, è
questa la radice di un conflitto mai risolto».

Al di là delle sue personali speranze, secondo lei senza
Chávez la rivoluzione bolivariana potrà continuare?

«In varie occasioni il presidente Hugo Chávez disse: “Io
sono soltanto una semplice paglia mossa da questo uragano chiamato Rivoluzione
bolivariana”. Lui si considerava un servitore del popolo tanto da dire:
“Io non sono più Chávez. Chávez è tutto un popolo che grida: ‘Siamo tutti
Chávez’”».

Questo è lo slogan gridato dalla sua gente nei giorni
della morte…

«Questo non è un semplice “slogan”. È una realtà
diventata evidente in quelle lunghe file davanti alla sua bara di migliaia di
ammiratori che andavano a testimoniare la propria riconoscenza e le proprie
convinzioni. Il mondo ne è stato testimone. Sono convinto che lo spirito di Chávez
continuerà ad accompagnarci così come quello di Simón Bolívar che il presidente
seppe magistralmente “resuscitare dalla sua tomba”, dove i potenti
ipocritamente andavano a “onorare la sua memoria” e ad assicurarsi che l’eroe
continuasse “a riposare in pace e ben morto”. Vivo in questo paese da ben 45
anni e posso dire che questa rivoluzione si è generata nel popolo venezuelano
molti anni fa. Molti profeti popolari avevano già alzato la loro voce di
protesta (tra cui il famoso cantante popolare Ali Primera). Hugo Rafael, con molta
saggezza, ha saputo raccogliere l’ardore rivoluzionario del popolo venezuelano
e trasformarlo in un “potere sostanziale” attraverso un’assemblea costituente
(che funzionò da agosto a novembre del 1999, ndr) che ha prodotto la
migliore Costituzione delle Americhe (ma io direi del mondo)».

Le costituzioni sono fondamentali, ma spesso non si
traducono in fatti. Come vede il futuro del Venezuela, padre?

«Il futuro sarà l’occasione per approfondire
ulteriormente la nostra idea conosciuta come “Socialismo del Secolo XXI”».

Padre, lei vuole farmi licenziare! In questo mondo
parlare di socialismo è quasi una bestemmia, ancora di più se detto da un prete
cattolico…

«Ma è un socialismo molto diverso dagli esempi dei secoli
passati! Il passato è passato. Il socialismo alla venezuelana è più ispirato al
Vangelo di Gesù di Nazareth e alla spiritualità degli aymara della Bolivia; più
alle idee ecologiste e bolivariane che alle ideologie europee dalle quali
abbiamo comunque attinto alcuni elementi importanti e strategici. Questa è una
strada non soltanto per il Venezuela, ma per quella grande patria che è
l’America e per gli altri popoli del mondo, che desiderano unirsi. La
rivoluzione di Chávez, Bolívar, Martí, San Martín, Lincoln, Martin Luther King,
Gandhi continuerà con altri grandi spiriti che – io ne sono certo – sempre ci
accompagneranno. Il futuro è nostro finché non avremo bandito dalla terra la
fame, l’ingiustizia, lo sfruttamento e la malvagità».

Intanto, padre Pablo, nelle elezioni di domenica 14
aprile 2013 Nicolás Maduro ha vinto di stretta misura. Il nuovo presidente non
sembra avere né il carisma né la statura politica di Hugo Chávez.

«Non nego che quella del 14 aprile è stata una vittoria
amara. Mi sono venute in mente le parole di Gesù: “Io ti assicuro che oggi,
questa stessa notte, prima che il gallo canti due volte, tu mi avrai rinnegato
tre volte” (Mc 14,30). Chávez è stato tradito non tre, ma un milione di volte
(tanti sono i voti venuti a mancare, ndr). È stato un risultato doloroso
e triste, ma la rivoluzione non si ferma e la nostra democrazia ha vinto una
nuova battaglia. E tuttavia, se un milione di persone hanno tradito, sette
milioni e mezzo di venezuelani sono rimasti fedeli.

Quanto al carisma e alla statura di Maduro, il problema
non sussiste. Egli non deve inventare nulla dato che il presidente Chávez ha
lasciato il programma di governo per i prossimi anni (Piano della patria).
Il neo presidente dovrà soltanto metterlo in pratica, aiutato da una compagine
governativa di sicuro valore e dalla nostra democrazia partecipativa».

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Henrique
Capriles, candidato dell’opposizione e governatore di Miranda, non ha
riconosciuto la vittoria di Maduro (50,78% contro 48,95%), fomentando un clima
di violenza che ha provocato morti e feriti. Confermando la propria serietà
(certificata dal Centro Carter), il Consiglio elettorale (Cne) ha accettato il
ricorso e ha ordinato il controllo dei voti espressi elettronicamente. È infine
interessante ricordare che, nel referendum del 2007, la proposta di riforma
costituzionale presentata da Chávez venne bocciata con il 50,7% di «no». Il
presidente riconobbe subito quella sconfitta, prima ed unica della sua storia
politica.

Paolo Moiola

Paolo Moiola




La verità sono io

Libertà di stampa a rischio


Dopo 15 anni di guerra civile,
dal 2005 il potere è in mano a una fazione di ex guerriglieri hutu. E da subito
si nota una tendenza alla deriva autoritaria. Ma è nel 2010 che le cose si
complicano. Il partito del presidente Nkurunziza occupa quasi totalmente il
potere. E tende a restringere ogni spazio di espressione.

Il Burundi, piccolo paese
dell’Africa centrale, schiacciato tra i due giganti Congo (Rd) a Est e Tanzania
a Ovest, e il fratello-gemello scomodo a Nord, il Rwanda, che da sempre ne
influenza la storia. Con una superficie pari a quella della Sicilia e 10
milioni di abitanti soffre di sovrappopolamento e, di conseguenza, di una
progressiva mancanza di terra per sfamare i suoi abitanti.

«Le
sue colline verdi, il clima ideale. Il Burundi è sempre un paese molto bello,
soprattutto adesso che non c’è più la guerra» ricorda una volontaria di vecchia
data. Vero, la guerra non c’è più. Si può dire che sia finita con gli ultimi
accordi di pace, quelli tra Cndd-Fdd (Consiglio nazionale per la difesa della
democrazia – Forze per la difesa della democrazia) e Fnl (Fronte nazionale di
liberazione). L’Fnl è stato l’ultimo gruppo armato a deporre le armi nel 2008
(si veda MC maggio 2011). Da alcuni anni però, la situazione dei diritti
umani nel paese è in rapido peggioramento.

Giro di vite sulla stampa

Il 3 aprile scorso è stata approvata dall’Assemblea Nazionale
(camera bassa del parlamento) la nuova legge sulla stampa che sostituirà, una
volta passata al Senato, quella del 2003. Una legge che Reporter senza
frontiere
, organizzazione per la difesa dei giornalisti, definisce «liberticida»
lanciando un appello: «Chiediamo al Senato di non votare questo testo, che
porta il marchio della frangia più dura del partito al potere e riduce molto il
margine di manovra dei giornalisti e dei media» dichiara. «Minacciata da questo
testo (…) la stampa burundese rischia di non poter giocare il suo ruolo nel
dibattito democratico».

Anche l’Unione burundese dei giornalisti (Ubj), per nome del
presidente Alexandre Niyungeko, denuncia una «volontà di chiudere i media
indipendenti».

La nuova legge pone restrizioni all’accesso alla professione
(occorrerà avere una laurea); obbliga il professionista a rivelare le fonti
d’informazione nei casi di «sicurezza dello Stato e difesa» e limita la
diffusione di informazioni o documenti sugli stessi temi e sulla moneta o il
sistema del credito pubblico. Aumenta, inoltre, il valore delle multe fino a
3.000 euro per diffamazione (un giornalista in Burundi ne guadagna da 80 a 150
al mese). E potenzia le prerogative del Consiglio nazionale delle comunicazioni
(Cnc) – il nemico numero uno dei giornalisti – che può rilasciare o ritirare
(temporaneamente o definitivamente) la tessera stampa ai professionisti anche
in casi di «ingiuria e diffamazione».

Ma questo è solo l’ultimo duro scontro tra il regime al potere in
Burundi e i media del paese.

Un conflitto lungo 15 anni

L’inizio della guerra civile in Burundi si
può datare con l’ottobre 1993, quando il neo eletto presidente Melchior
Ndadaye, di etnia hutu, voluto dalla maggioranza della popolazione, viene
assassinato. All’epoca le leve del potere, e soprattutto l’esercito, sono
saldamente in mano ai tutsi. Gli accordi di Arusha (2000) e di Pretoria (2003)
portano, non senza difficoltà, alla pace e a una nuova Costituzione. Le
elezioni generali con «il nuovo corso» si tengono nel 2005, quando l’Fnl tende
ancora imboscate e uccide all’interno del paese. Il Cndd-Fdd (movimento ribelle
hutu) vince e Pierre Nkurunziza, diventa presidente della Repubblica. Ma i veri
problemi sorgono alle elezioni del 2010. Dopo la prima tornata di maggio
(amministrative), i partiti di opposizione accusano brogli e si ritirano dalla
competizione. Intanto la tensione aumenta. Il Cndd vince in solitaria e
ottiene, questa volta, un controllo quasi totale di parlamento, governo e
presidenza della repubblica. La deriva autoritaria è garantita.

Diritti umani, no grazie

Nel 2010 si registra una «forte riduzione
dello spazio democratico» denuncia l’associazione statunitense Human Rights
Watch
(Hrw), che osserva il forte aumento di violenza politica tra fine
2010 e il 2011, con decine di assassini politici, impunità quasi totale dei
responsabili, atti di intimidazione e molestie verso militanti della società
civile e giornalisti. Il sistema giudiziario resta molto debole.

Già in campagna elettorale aumentano arresti
arbitrari e torture. Il partito Fnl si spacca, e il presidente Agathon Rwasa
fugge all’estero. Molte personalità politiche e giornalisti scelgono la stessa
via dell’esilio.

«Lo stato non riesce a proteggere i propri
cittadini e non reprime violazioni e crimini» incalza Hrw e si assiste a un «impasse
politico tra partito al potere e partiti di opposizione».

È di questo periodo la comparsa di nuovi
gruppi armati: alcuni membri del Fnl riprendono le armi e iniziano a fare
attacchi contro i membri del partito al potere e autorità locali. Il timore del
ritorno alla guerra civile è palpabile. Nel 2011 si assiste a un picco di
assassini. Molti sono gli scontri tra Cndd-Fdd e gruppi sedicenti alleati del
Fnl. Il potere utilizza a questo scopo polizia, servizi segreti e anche la sua
lega dei giovani, gli Imbonerakure.

Il 18 settembre 2011, domenica sera come tutte le altre. Un gruppo
di armati scatena l’inferno nel piccolo bar a Gatumba, località nei pressi
della frontiera con il Congo. È un massacro: 39 morti e 40 feriti. I colpevoli
restano sconosciuti. Fnl e servizi di sicurezza si accusano a vicenda. Il
governo applica una pressione mai vista affinché i media non parlino
dell’accaduto e nessuna inchiesta sia svolta. Hrw riporta che nel 2012 il
numero di assassini politici è sceso.

Media sotto tiro

Il «nuovo potere» in Burundi (Cndd-Fdd)
eredita dai precedenti regimi il cattivo rapporto con la stampa privata.

La radio è il principale mezzo
d’informazione per un paese in cui l’analfabetismo è ancora molto diffuso. Dal
1992 con la liberazione della stampa, si moltiplicano le radio private a fianco
di quella pubblica già esistente da tempo. Per i politici diventano il mezzo
per raggiungere le masse, fare propaganda, distruggere (verbalmente) i propri
nemici. «Ma è anche una tribuna di rivendicazione della società civile, in
particolare delle associazioni di difesa dei diritti umani, dell’opposizione e
della popolazione confrontata quotidianamente con problemi di ingiustizia»
scrive Gabriel Nikundana, giornalista radio e direttore del Centre de
formation des média
di Bujumbura. «Da qui il tentativo del potere attuale
d’imporre il silenzio a tutte le radio private che denunciano corruzione e
assassini selettivi. (…) Da quando i principali partiti di opposizione hanno
boicottato le elezioni nel 2010, il partito presidenziale ha occupato tutti gli
spazi di espressione. Le radio sono rimaste l’unica voce critica».

Il giornalista burundese, lui stesso
arrestato diverse volte e sottoposto a campagne denigratorie in passato per
aver dato voce a personaggi «scomodi» come i leader di diverse fazioni ribelli,
ha realizzato uno studio: «La repressione dei media in Burundi: deriva
professionale o deriva del potere attraverso il Cnc?». Nel lavoro Nikundana
analizza la repressione di radio e giornalisti negli ultimi anni ma cerca di
stabilire la correttezza deontologica di testate e giornalisti.

In Burundi la Radio Nazionale (Rtnb) è veicolo di propaganda
governativa. Nel variegato panorama delle radio private nascono tra fine anni
’90 e inizio 2000 tre importanti emittenti, che contendono alla Rtnb il livello
di ascolto: Radio Isanganiro, Radio Pubblica Africana (Rpa) e Radio Bonesha Fm.
Secondo Nikundana queste tre costituiscono un vero «contro potere», ed è per
questo che si innesca quella che lui chiama «la guerra dello stato ai media».

L’anno di tutte le
persecuzioni

Durante tutto l’arco del 2011 la Rpa, Isanganiro e Radio Bonesha
sono particolarmente colpite dalla Cnc e dai ministeri dell’Inteo e della
Comunicazione che sanzionano ripetutamente le tre radio. Molteplici i casi di
giornalisti e direttori convocati per spiegazioni, sia sui contenuti delle
trasmissioni, sia di carattere amministrativo. Molti reporter sono costretti a
mesi di reclusione senza processo nelle famigerate carceri burundesi.

Emblematico è il caso di Hassan Ruvakuki di Bonesha FM. Il
giornalista, anche corrispondente di Radio France Inteational, viene
arrestato il 28 novembre 2011. Dapprima accusato di «collaborazione con i
ribelli» durante il processo l’accusa diventa «partecipazione ad atti di
terrorismo». È quindi condannato all’ergastolo il 20 giugno 2012. Avrebbe
partecipato in Tanzania a riunioni di un nuovo movimento ribelle. In appello
gli viene ridotta la pena a tre anni di prigione (8 gennaio 2013). Ma il 6
aprile, pochi giorni prima della visita di Nkurunziza in Francia, Ruvakuki
viene improvvisamente scarcerato. Rsf, che ha condotto una campagna per la sua
liberazione, parla di «liberazione precaria, ufficialmente per “ragioni di
salute”». Mentre l’inquietudine resta perché: «Il giornalista è tutt’oggi
condannato a tre anni di prigione. Può essere ripreso in qualsiasi momento».

La Rpa resta la radio che ha avuto più problemi con il governo.

Molto gravi sono le accuse del ministro dell’Inteo, Eduard
Nduwimana in una lettera del 14 novembre 2011: «Lungi da essere uno strumento
di coesione sociale come dite, la vostra associazione utilizza la radio per discreditare
le istituzioni, delegittimare il potere giudiziario, condannare gratuitamente
gli individui, incitare la popolazione all’odio e alla disobbedienza, favorire
il culto della menzogna». Accuse non circostanziate, non viene segnalata la
trasmissione incriminata né le violazioni della legge. Il ministro chiede una
serie di controlli amministrativi, ma, di fatto, non da seguito alla vicenda.

Errori professionali?

«Molto spesso – ricorda Gabriel Nikundana – i richiami del Cnc o
dei ministeri sono imprecisi e non identificano chiaramente i passaggi o le
trasmissioni e impongono sanzioni non conformi alla legge». Inoltre: «Le
convocazioni a raffica di direttori e giornalisti hanno creato una forte
tensione nelle redazioni. Questo ha portato a considerare il governo come un
nemico. Ogni pretesto per discreditarlo era diventato valido, mentre
l’accuratezza nel verificare le informazioni è stata meno rigorosa. Così è
successo che l’informazione diventasse tendenziosa». I tre direttori,
intervistati da Nikundana, si difendono: sono consci di qualche bavure e
di mancanze al codice deontologico, ma dichiarano di aver punito loro stessi i
propri giornalisti.

«Abbiamo verificato alcuni errori professionali non sanzionati –
conclude Nikundana -. Questo a nostro parere dimostra che le intimidazioni
delle autorità pubbliche spingono i media all’errore. Il Cnc inoltre non è
neutro, in quanto i suoi membri sono nominati per decreto ministeriale. I
giornalisti spesso commettono degli errori, o non distinguono la militanza
politica dal giornalismo. Ma proprio questi sbagli non sono sempre identificati
dal Cnc che si concentra là dove vede un’opposizione politica al regime.

Marco Bello
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MC ha trattato la libertà di stampa in Burundi nei servizi:
Va in onda la speranza, Marco Bello, maggio 1999;
Un mondo a misura di radio, dossier, Aa.Vv., settembre 2009;
Radio Incontro
, Marco
Bello, maggio 2011.


Marco Bello