«Costruite il secolo del dialogo»

Il Dalai Lama a Trento e Bolzano


Coltivare la pace partendo da se stessi. È stato questo il
messaggio centrale del Dalai Lama durante la sua visita al Trentino Alto Adige.
Una terra di montagne e di frontiera proprio come il Tibet, nel quale però la
libertà, la cultura e la religione sono schiacciate dal pugno di Pechino. Con
pesanti conseguenze sul popolo tibetano.


Trento. Due terre
di autonomia, il Tibet e la regione Trentino Alto Adige. Il primo la chiede da
tempo, senza trovare ascolto presso il governo cinese, che sta conducendo una
sinizzazione forzata del «Tetto del mondo» nel nome dello sviluppo economico;
la seconda, invece, l’autonomia l’ha ottenuta alla fine della Seconda guerra
mondiale, sviluppandola progressivamente fino a diventare di fatto un
piccolo-grande modello di autogoverno, a cavallo fra Italia e mondo tedesco.
Sarà forse questo il legame fra le due terre di montagna, per altri versi così
distanti; un legame che ha spinto lo scorso aprile il Dalai Lama a venire in
visita per la quarta volta, in poco più di dieci anni, prima a Bolzano e poi a
Trento.

L’accoglienza della gente è stata come sempre molto
calorosa. Un segno anche questo, probabilmente, di come tante persone oggi
desiderino sentir pronunciare certe parole, indipendentemente dalle fedi e
dalle ideologie. Parole che invitano innanzitutto a coltivare la pace, partendo
da se stessi, dal proprio vissuto quotidiano, dalle proprie relazioni
familiari, e a superare la visione economicista della vita e del mondo che
sembra prevalere a ogni latitudine, tanto in Occidente quanto, ormai, in
Oriente.

Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, premio Nobel per la
pace 1989, è oggi di fatto solo un’autorità
spirituale. Il suo ruolo di massimo rappresentante del governo tibetano
in esilio (che ha sede in India, a Dharamsala) è passato infatti nel 2011 a un
laico, Lobsang Shangay, di formazione accademica, eletto dalla comunità degli
esuli tibetani. Tuttavia, il Dalai Lama continua ad essere un punto di
riferimento imprescindibile per i tibetani e non solo per loro. A Trento, dove
ha tenuto un incontro pubblico presso il locale palasport, si è concentrato in
particolare sul tema della felicità, ma naturalmente anche con molti excursus
sulla situazione attuale del Tibet. Dal Dalai Lama è venuto in particolare un
forte appello ai giovani: «Spetta a voi – ha detto – far sì che il XXI secolo
non sia uguale a quello che lo ha preceduto. Il XX secolo è stato il secolo dei
conflitti. Anche qui in Italia ne avete avuto esperienza. Adesso le cose devono
cambiare. Questo deve essere il secolo del dialogo. Aumento della popolazione,
fino a 10 miliardi di persone, riscaldamento globale, tensioni di ogni genere
create dai populismi, dai flussi migratori, dal crescere abnorme delle città:
le sfide che le nuove generazioni hanno di fronte sono molteplici. Il passato
non si può cambiare ma possiamo costruire il futuro. Saranno le nuove
generazioni a doverlo fare, la mia è già passata. Sono i quindicenni che devono
impegnarsi, ora. Dobbiamo usare i conflitti come un’opportunità per generare
nuove idee, nuove soluzioni. È, questa, una grande occasione ma anche una
grande responsabilità».

A colloquio con il Dalai Lama

Santità, lei sostiene la causa di un’ampia autonomia per
il Tibet. Su quali basi dovrebbe poggiare?

«Sin dal 1951, quando abbiamo firmato un accordo
in 17 punti, era iniziata una collaborazione col governo cinese. Infatti nel
1954, quando ho incontrato Mao Zedong di persona e abbiamo avuto diversi
colloqui, nel primo di questi lui aveva detto che, come definito nei 17 punti,
si sarebbe costituita una Commissione d’inchiesta sul tema. Successivamente ha
deciso di introdurre l’autonomia per il Tibet e questa proposta era stata
accettata da tutti noi presenti all’incontro. Perciò nel 1956, quando siamo
tornati in Tibet, abbiamo costituito il governo autonomo per il Tibet e io ero
il capo del nuovo governo. Quando si parla di autonomia si parla di
autogestione. È una cosa molto pratica, decisa da Mao stesso, e questo è stato
portato avanti in Tibet fino al 1959 (anno dei moti tibetani, della grande repressione
che ne è seguita e della fuga del Dalai Lama in India, ndr).

Da tanti anni in Europa e anche qui in
Italia è praticata molto bene una autonomia “completa”. Anche noi tibetani
chiediamo una autonomia completa però rimanendo insieme: non stiamo chiedendo
la separazione dalla Cina. Sicuramente sarà molto utile imparare dalla vostra
esperienza (del Trentino Alto Adige, ndr), però la cosa importante da
considerare è che i cinesi vivono sotto un governo totalitario, senza la
democrazia, la libertà e la giustizia, mentre l’Italia è un paese democratico.
Per questo motivo anche l’autonomia in Italia è espressione di democrazia, e
questo fa la differenza».


Quali speranze ci sono quindi che la Cina
accetti di negoziare un’autonomia per il Tibet?

«I problemi del Tibet non si possono
risolvere nella maniera con cui si cerca di risolverli oggi. Sono un problema
anche per il governo cinese. Per esempio, diversi anni fa il ministro degli
Affari esteri del governo cinese aveva chiesto all’esecutivo di impegnarsi a
risolvere la questione tibetana a causa delle critiche che continuava a
ricevere dagli altri governi, che creavano disagio nelle relazioni
inteazionali e un ostacolo alla creazione di legami profondi e duraturi.
Questa è la realtà. Quindi i problemi del Tibet si devono risolvere in qualche
modo. Ma sicuramente questo modo non può essere la violenza, come pensano un
paio di ministri cinesi. Usando la violenza verso i tibetani non ci sarà mai
una soluzione.

Per questo motivo noi stiamo proponendo una
soluzione vantaggiosa per entrambe le parti, che consenta da un lato al governo
cinese di avere la pace in Tibet e dall’altro ai tibetani di non soffrire e di
assumersi le loro responsabilità in ordine alla preservazione della  nostra religione, della nostra cultura e del
nostro ambiente.

Si creerebbe una situazione “vincente” per
entrambi i lati. Una cosa importante da dire è che tanti cittadini cinesi –
soprattutto quelli con istruzione più alta – hanno sostenuto la posizione di
un’autonomia che consenta ad entrambe le parti di essere vincenti, coloro che
lottano per la giustizia e coloro che “cercano la realtà nei fatti” come ha
detto una volta Deng Xiaoping».

Nel frattempo l’esasperazione del popolo
tibetano cresce, e molti tibetani stanno scegliendo come estrema forma di
protesta la strada della autornimmolazione con il fuoco. Lei cosa ne pensa?

«È una cosa molto triste e che ti fa perdere
il cuore, un’azione causata da difficoltà estreme e dalla disperazione. Viene
da pensare come possano farlo e soprattutto cosa li spinga a un gesto tanto
estremo. Però questa azione estrema  non
garantisce che si possa risolvere il nostro problema. Sicuramente indica il
fallimento assoluto del governo cinese, della sua gestione della situazione
politica tibetana con il ricorso alla violenza per continuare a mantenere il
controllo. Devono pensare loro, innanzitutto, quelli che hanno creato il
problema, a come risolverlo. Noi da fuori comunque possiamo soltanto pregare».

Il mondo sta attraversando una fase di
grande incertezza, causata dalla crisi economica ma anche dall’assenza di punti
di riferimento stabili. In questo contesto, qual è la sua idea di felicità?
Quale insegnamento ci può dare riguardo all’essere felici?

«In generale si è puntato su uno sviluppo “esteriore”,
materiale. Anche i sistemi scolastici sono basati sul come sviluppare le cose
materiali o come curare le malattie del corpo, non viene mai data importanza
alla crescita mentale o alla felicità interiore. Sembra di fatto che non si
sappia proprio da dove viene questa sofferenza mentale, da cosa sia causata. Da
quando c’è l’ idea che tutte le cose possono essere risolte per la via
economica e che la felicità sia basata sulla crescita dell’economia, anche
affrontare una crisi come questa, non avendo un punto di riferimento stabile a
cui chiedere aiuto, causa molta sofferenza e tristezza.

In senso religioso il problema può essere
risolto tramite la fede. Ma quando parliamo di fede parliamo di fiducia senza
ricorrere alla ragione. Come ha detto il Papa precedente, dobbiamo cercare
anche di portare avanti la fede assieme alla ragione.

Questo può aiutare a trovare una strada “stabile”
per la mente e sconfiggere la sofferenza interiore. Un esempio può essere
questo: con l’attuale crisi economica le persone che hanno pensato solo ai
soldi stanno ovviamente soffrendo molto, però le persone che hanno amici o
buoni conoscenti dai quali si sentono amati o sostenuti moralmente e le persone
che hanno dato una certa importanza all’amore e alle relazioni umane
soffrono  di meno, anche se hanno gli
stessi problemi economici delle altre».

In quanto Premio Nobel per la pace, può
dirci come il cittadino comune può dare il suo contributo alla costruzione di
un mondo più pacifico?

«Ho sempre detto che la pace può essere
realizzata solo tramite la pace interiore. Siamo noi uomini che eliminiamo la
pace dalla nostra vita, non sono la natura o gli animali che distruggono la
pace. Per questo motivo le persone stesse devono prendersi la responsabilità di
creare la pace, eliminando cose come gelosia, cattiveria, pensiero negativo o
avidità dalla loro mente, che possono distruggere la pace interiore. Quando la
pace interiore è stata distrutta a causa di qualcosa si creano tutti i tipi di
litigi e di violenza tra le persone. Per avere la pace esteriore bisogna dunque
iniziare dalla pace interiore e per questa ragione è importante capire le cause
negative che possono disturbare la nostra mente. Questo può essere anche
raggiunto grazie alla religione, con la credenza nel paradiso o, nel buddismo,
coltivando la pace interiore al fine della liberazione dalla rinascita.

Comunque dobbiamo innanzitutto guardare ai
fatti di questo mondo e di questa vita, dove, grazie alla pace mentale,
possiamo aiutare e amare la nostra famiglia. Questo amore passa da una famiglia
all’altra e da una comunità all’altra, aumentando sempre, e alla fine si
espande in tutto il mondo.

La pace, comunque, non ha nessuna speciale
relazione con nessun tipo di fede o di religione. Se c’è la fede ben venga però
anche un ateo può capire l’importanza della gelosia e della cattiveria, e il
valore del buon cuore e della pietà verso gli altri.

Non avere la pace mentale può anche causare
molte malattie e non dà nessun frutto positivo. Per questo motivo la pace deve
essere oggetto di studio e di ragionamento. Come noi curiamo le nostre malattie
fisiche, dobbiamo curare anche i nostri problemi della mente». 

Marco
Pontoni

L’autore – Marco Pontoni è caporedattore all’Ufficio stampa
della Provincia autonoma di Trento. Ha realizzato reportages e documentari in varie parti del mondo, documentando
soprattutto iniziative di cooperazione allo sviluppo. Con Massimo Zarucco è
autore di Mozambico, l’orgoglio di un
popolo
, Valentina Trentini ed., 2005.
Ringraziamenti – L’autore ringrazia Tenzin Khando per la
traduzione dal tibetano.

Web Tv – I video dell’incontro con il Dalai Lama sono
visionabili sul sito: www.webtv.provincia.tn.it.

L’archivio
Sul Tibet si legga: Contro Pechino, a
costo della vita
, di Mauro Crocenzi (China
files
), MC, dicembre 2012.

 
Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama


Compassione e Reincarnazione

Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, è nato nel 1935 a Taktser,
un villaggio dello sterminato altopiano tibetano, in una famiglia contadina. In
tenera età è stato riconosciuto come la reincarnazione del Dalai Lama, massima
autorità spirituale del buddismo tibetano, ovvero come la manifestazione
terrena di Avalokitesvara o Chenrezi, spesso definito in Occidente «il Buddha
della compassione». Nella religione tibetana questa carica (analogamente a
quella di altri Lama) non è elettiva né ereditaria, ma si basa appunto su un «riconoscimento»,
ovvero sull’individuazione di un bambino nel quale lo spirito del Dalai Lama
defunto si è reincarnato, perché mosso da compassione nei confronti degli
uomini e dal desiderio di aiutarli. Dopo il riconoscimento, Tenzin Gyatso ha
vissuto la sua giovinezza nella capitale del Tibet Lhasa, dimorando nel Potala,
il palazzo reale e venendo educato dai suoi precettori (come in parte
testimoniato da Heinrich Harrer nel suo fortunato libro di memorie Sette anni
in Tibet). Vive in esilio dal 1959, quando – in seguito all’occupazione cinese
del Tibet, e alla successiva repressione delle rivolte scoppiate nel «Paese
delle nevi» – molti tibetani hanno lasciato la loro terra stabilendosi un po’
ovunque nel mondo, in massima parte in India, dove, nella cittadina di
Dharamsala, è nato anche il governo tibetano in esilio. Premio Nobel per la
pace 1989, il Dalai Lama ha già visitato molte volte l’Italia (e quattro volte
il Trentino: nel 2001, 2005, 2009, 2013), portando il suo messaggio permeato
dai principi della nonviolenza, ma anche le ragioni di un popolo che continua a
rivendicare con determinazione un’autonomia per la sua terra. (Ma.Po.)

Marco Pontoni