Dalla Signoria di Dio alla Sudditanza a Cesare | Rendete a Cesare (3)

«Un servitore non può servire due padroni» (Gv 19,15; Es 20,3)

Durante la passione di Gesù, secondo la versione di Giovanni (cf Gv 18-19), gli stessi che presentano la moneta con l’effige dell’imperatore si trovano davanti a una scelta, come i loro antenati al tempo di Samuele: scegliere tra Dio e Cesare. Consapevolmente e senza esitazione essi rinnegano Dio come re e riconoscono Cesare come loro signore e padrone. Quando Pilato, in rappresentanza dell’imperatore, li obbliga a scegliere, essi non hanno esitazione:

«13Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare… 14Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,12.14-15).

Una questione antica

Nel secolo VI a.C., quando furono redatti i libri di Samuele, gli antenati degli scribi e dei farisei, agirono allo stesso modo, rinnegarono Dio come loro re e chiesero a Samuele un imperatore che li giudicasse: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). A Dio dispiacque questa richiesta perché «non si può servire due padroni» (Lc 16,13). Con quella risposta, essi annullarono la specificità d’Israele che fu scelto tra tutti i popoli, come «popolo di Dio»; essi invece vollero essere «come avviene per tutti i popoli».

In forza della Scrittura e in nome della loro storia privilegiata, storia di elezione e di alleanza sponsale, gli Ebrei dovrebbero farsi ammazzare piuttosto che contaminarsi con l’immagine dell’imperatore, che pretende di usurpare la regalità di Dio. Essi, al contrario, fanno una professione pubblica di fede davanti a Cesare: «Non abbiamo altro re che Cesare», che è l’opposto esatto del primo comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Ci troviamo in piena apostasia, allo stesso modo che nel deserto del Sinai, quando gli Ebrei sostituirono il Dio di Mosè con un vitello d’oro fuso, che invocarono come loro liberatore (Es 32,4.8).

Le parole dei suoi correligionari, per di più pronunciate davanti al rappresentante del potere romano, che era potere di occupazione, devono essere risuonate amare e scandalose nelle orecchie di Gesù. La questione era talmente delicata che al tempo di Gesù, lo stesso procuratore romano, Pilato, per non urtare la sensibilità degli Ebrei, la cui religione vietava le immagini sacre, aveva fissato la propria residenza a Cesarea Marittima, cioè lontano dal tempio, centro religioso della vita degli Ebrei. A Cesarea, egli può tenere le insegne con le effigi dell’imperatore, ma quando andava a Gerusalemme evitava di portarle con sé, per rispetto degli Ebrei, ma anche per paura di sommosse popolari.

Il rappresentante dell’imperatore ha, per la religione ebraica, quel rispetto che gli stessi membri del sinedrio dimostrano di non avere. Essi sanno bene che portare le monete romane significa macchiarsi di contaminazione e d’impurità, perché con le monete portano con sé l’effige di Cesare. Essi usano il denaro di Cesare nei loro traffici e con questo si dichiarano sudditi e schiavi, abdicando non solo dalla loro condizione di figli, ma anche dal loro ruolo di guide del popolo. Se l’autorità stessa rinnega il Dio della creazione, come può pretendere di guidare il popolo verso l’autorità di Dio? Gli stessi che portano con sé l’immagine di Cesare, proibiscono ai Giudei di entrare nel tempio con la moneta romana, proprio perché riproduce l’effige dell’imperatore romano che si considerava e veniva considerato «divino», cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto.

La questione è molto grave e lo si deduce anche da un altro fatto: poiché il denaro romano portava l’effige dell’imperatore, non poteva essere versato nel tesoro del tempio perché sarebbe stato un sacrilegio. Per ovviare a ciò nel portico del tempio vi erano i cambiavalute, che scambiavano la moneta romana con lo shèkel, la moneta ufficiale israeliana. È questo il motivo per cui Gesù nel tempio scaccia i cambiavalute e i venditori con l’accusa di avere trasformato la casa di preghiera di Dio in un covo di ladri (cf Gv 2,13-19): essi per interesse trafficano l’«immagine di Cesare» nel tempio di Gerusalemme, il trono della Gloria di Dio che aveva posto la sua «immagine» nella carne di ogni uomo e donna, sacramento della sua presenza nella storia.

La moneta romana, «sacramento imperiale»

Portando con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, cioè la gerarchia religiosa nel suo complesso, dichiarano pubblicamente di avere sostituito «l’immagine» di Dio (cf Gen 1,27), di cui erano custodi, con quella mercantile del re pagano che, come un novello faraone, tiene sotto sequestro il popolo eletto.

Per affermare la propria autorità, Roma aveva tolto al sinedrio il diritto di comminare la morte (ius gladii) e, contemporaneamente, custodiva le vesti solenni del sommo sacerdote, che erano consegnate ogni volta che servivano. I due fatti erano il segno clamoroso e umiliante della sottomissione totale, giuridica e religiosa. Doveva essere chiaro chi era «il re d’Israele».

La conseguenza logica che si deduce dai testi e dai fatti è semplice: i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo, quelli che hanno in mano i mezzi di governo e anche dell’economia, rinnegano Dio come loro Re e Signore. Essi si adeguano alle convenienze e vogliono essere «come tutti gli altri popoli»: cioè schiavi di un dittatore che li spreme come limoni, perché fa loro pagare le tasse per sé, per il senato e concede anche, bontà sua, che paghino una tassa supplementare per il tempio. Gesù aveva messo in guardia: «Coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni [perché] dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,41).

Senza rendersene conto, chi pone la domanda a Gesù se sia lecito pagare le tasse, mette in evidenza una questione che riguarda la persona di Dio e il rapporto che ogni Israelita ha con lui. Gesù, con la sua risposta, mette a nudo il loro dramma e li richiama alla responsabilità della «teshuvàh – conversione».

«Gesù il Nazareno, il Re dei Giudei» (Gv 19,19)

Utilizzare la moneta dell’imperatore significa riconoscerne formalmente l’autorità, in cambio della possibilità di usarne i benefici per il commercio, lo scambio economico e la vita quotidiana. In questo modo chi detiene la moneta porta con sé l’immagine dell’imperatore e ne favorisce il potere. Quando vivevo in Palestina, vedendo i miei amici palestinesi che spesso manifestavano contro Israele e gli Usa, facevo loro notare una contraddizione: non era possibile contestare gli Usa, bruciandone la bandiera, vestiti con i jeans americani e calzando le scarpe nike! Nemmeno potevano andare all’assalto d’Israele con in tasca lo «shèkel», la moneta ufficiale ebraica. La prima rivoluzione deve essere morale, rifiutando i simboli del nemico, specialmente se tornano utili.

La rivoluzione di Gandhi contro il dominio inglese cominciò dal rifiuto di indossare i vestiti confezionati in Inghilterra e dal rifiuto di usare la moneta con l’effige della regina. In pochi mesi crollò l’industria tessile inglese e con essa il protettorato sull’India.

Cesare: l’idolo dei capi dei sacerdoti

Nel rispondere che l’immagine   è «di Cesare», i capi religiosi si sono condannati da soli, svelando il loro doppiogioco, fatto di compromessi e interessi: da un lato difendono la «purità» della loro religione, il cui Dio non ammette «altri dèi di fronte a me» (Es 20,3); dall’altro, essi non esitano a contaminarsi nella vita di ogni giorno, corrompendosi con l’uso della moneta come strumento di scambio per l’acquisto di beni. Nel rispondere a Gesù, infatti, essi hanno dovuto prendere una moneta dalla loro sacca, testimoniando così che non solo accettano l’autorità di un re usurpatore, ma che usufruiscono anche dei suoi benefici, senza rendersi conto delle conseguenze: usare le monete coniate da un re straniero e invasore, significa legittimare anche l’invasione della loro terra, che è terra di Dio, e dichiararsi sudditi di chi li ha privati della libertà e della loro dignità. Il procuratore romano, infatti, per affermare la suprema autorità dell’imperatore «divus Caesar», su tutto Israele, teneva in custodia la veste solenne del sommo sacerdote, il quale la riceveva dalle mani imperiali tutte le volte che era necessario; alla fine del servizio liturgico la veste doveva essere riconsegnata. Un’umiliazione totale: anche il «dio straniero d’Israele» doveva inchinarsi davanti al «divino Cesare». La risposta di Gesù è duplice. «E pertanto/di conseguenza, restituite [una volta per tutte] le cose di Cesare a Cesare» (per la morfosintassi v. la 1a puntata in MC 3, 2013, 33-34): se accettate l’autorità di Cesare, pur essendo un usurpatore dei diritti di Dio e del popolo e se ne beneficiate perché trafficate con il suo denaro che utilizzate a vostro vantaggio per i vostri affari, è vostro obbligo obbedirgli, pagando anche le tasse che la sua autorità impone, perché non fate altro che restituire a Cesare ciò che gli appartiene. In altre parole, Gesù condanna scribi e sacerdoti che, servilmente e liberamente si sottomettono a un’autorità che hanno accettato, ben sapendo che essa non avrebbe potuto imporre tributi se non ai propri sudditi che controlla e domina perché li gestisce come estranei e non come figli: «I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei? Rispose [Simone]: “Dagli estranei”» (Mt 17,25-26).

Se i Giudei utilizzano i benefici di Cesare, non possono lamentarsi se pagano il pedaggio sui servizi che l’uso della moneta comporta. Fare pagare le tasse, infatti, è un diritto di Cesare perché esse sono il «prezzo» dei servizi esercitati. Gesù, in questo modo, con una risposta lapidaria, mette sul banco degli accusati l’autorità religiosa del suo tempo perché si è posta fuori dell’autorità di Dio per passare alla sudditanza di Cesare di cui accetta il denaro come strumento sociale e comunitario. Il possesso di «quella» moneta è un’apostasia perché contravviene il comandamento del divieto delle immagini: «Non vi farete idoli, né vi erigerete immagini scolpite o stele, né permetterete che nella vostra terra vi sia pietra ornata di figure, per prostrarvi davanti ad essa; poiché io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 26,1). La conseguenza è tragica: chi accetta l’autorità di un’immagine scolpita nel bronzo che raffigura l’«idolo» Cesare, significa che ha trasmigrato dal Dio che non può essere raffigurato e che «i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere» (2Cr 6,18). La conseguenza è logica: chi usa la moneta con l’immagine di Cesare rinnega la regalità di Dio perché «un servitore non può servire due padroni» (Lc 16,2).

Amare Dio con tutto il cuore

Gesù non si lascia scappare l’occasione per richiamare i capi religiosi alla verità della loro coerenza e li invita a ritornare «al principio», cioè all’autorità di Dio da cui si sono allontanati per sottomettersi a Cesare. Egli, infatti, con la seconda parte della sua risposta, li porta di peso nel cuore dell’Eden, quando Dio inventò l’umanità, costruendola «a sua immagine e a sua somiglianza» nella prospettiva di Genesi 1,27: «e [ridate/restituite] le cose [che sono] di Dio a Dio». Gesù non ha alcun orizzonte politico con questa frase, perché il contesto in cui si muove è solo ed esclusivamente religioso, anzi teologico. Qui si tratta di antropologia teologica e non di una banale distinzione di poteri tra «Chiesa e Stato», un concetto estraneo a Gesù, almeno nella portata che noi oggi attribuiamo a esso, alla luce dei concordati pattizi.

Quando si legge la risposta di Gesù, non bisogna correre, ma avere attenzione e fare una lunga pausa tra i due imperativi uniti e separati dalla congiunzione copulativa di valore avversativo «e»: rendete a Cesare quello che gli appartiene, perché è suo di diritto (la moneta con la sua effige), e/piuttosto… [lunga pausa] convertitevi/ritornate a Dio che vi ha creato a sua immagine e somiglianza perché siete voi l’effige che rende visibile il Creatore nel mondo. È un invito a ritornare alla dignità di figli di Dio da cui essi hanno abdicato perché si sono venduti come schiavi a un’autorità illegittima. È l’appello radicale alla conversione, spezzando la confusione tra un «Cesare», che pretende di essere di natura divina, e «Dio», che esige «l’immagine» del suo popolo come segno visibile della sua presenza nel creato. Cesare si faceva chiamare «Divus» per cui accettarne l’autorità e trafficare con il suo denaro che lo raffigura, è un atto di ribellione al Creatore perché pone Cesare sullo stesso piano di Dio. L’Ebreo che vi si sottomette contravviene al precetto tassativo di non farsi idoli (Es 20,4; Dt 4,16): «Gli idoli delle nazioni sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono; no, non c’è respiro nella loro bocca» (Sal 135/134, 15-17).

L’opposizione che Gesù pone tra Cesare e Dio è di natura religiosa, non politica. Si tratta di scegliere tra due regalità: quella del Dio creatore e liberatore oppure quella di Cesare imperatore. È una scelta tra due prospettive di vita: da una parte sta Dio che crea a sua immagine per la libertà e dall’altra sta Cesare che con la sua immagine conia un impero di schiavitù. È in gioco la scelta radicale della vita tra il Dio che regna in Israele e Cesare che occupa illegalmente la terra d’Israele. Cesare non può pretendere l’adesione interiore, che, invece, scribi e sacerdoti gli concedono, usando la sua moneta. Non si tratta della gestione del potere tra due ordini diversi, ma dell’opposizione radicale tra due irriducibili: o Dio o Cesare. Non è in gioco «una parte» ma «tutta» l’esistenza perché riguarda due mondi: quello di Dio che stipula l’alleanza con i figli di Abramo e Cesare che impone le tasse ai sudditi che vivono in Palestina.

Nota di attualità. Questo brano è un appello alla Chiesa in ogni tempo, e, nella Chiesa, specialmente a chi esercita il servizio dell’autorità perché stia sempre attento nella scelta delle cose che riguardano questo mondo. Il cristiano vive il mondo con distacco perché il suo cuore è teso al Regno di Dio. Ricchezza, potere, successo, denaro non sono obiettivi primari e nemmeno secondari, perché l’impegno del credente è di avere sempre coscienza di essere custode e garante del giardino di Eden che deve consegnare alle generazioni future, fino alla fine del mondo. Quando l’autorità religiosa si rapporta con i potenti della terra, mai deve dimenticare le parole di Gesù che mette sull’avviso di non tradire mai l’immagine di Dio per nessun interesse, perché Dio vien prima di tutto: è lui e solo lui che bisogna amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Il resto viene dal maligno.

Ritorno al principio: l’uomo «immagine di Dio»

Quella di Gesù è una risposta ad hominem, cioè puntuale, connessa alla domanda con cui argomentano «scribi e sommi sacerdoti» (cf Lc 20,19).

Nota STORICA. Gli scribi erano i letterati dell’epoca, coloro che spiegavano la Scrittura al popolo, che davano indicazioni di vita e di condotta, che dirimevano interrogativi d’interpretazione della Parola di Dio; cioè svolgevano la funzione di maestri. Il sommo sacerdote era uno solo e svolgeva il compito di capo del sinedrio, composto da settanta membri comprendenti sacerdoti, anziani e scribi. Il sommo sacerdote emerito vi partecipava di diritto. Al tempo di Gesù vi era il sommo sacerdote Caifa, eletto nell’anno 18 dal procuratore romano Valerio Grato e rimasto in carica fino al 36. Egli era subentrato al suocero, Anna (o Anano o Ananiah) che pertanto era membro attivo del Sinedrio. Per questo il vangelo parla di «sommi sacerdoti».

Come massima autorità in Israele essi avrebbero dovuto avere il discernimento per valutare le «cose di Dio», avendone gli strumenti adeguati che sono la Scrittura e la tradizione dei padri. Invece, non solo inducono il popolo nell’errore, ma essi stessi si rendono colpevoli perché, contravvenendo agli insegnamenti della Toràh, si adeguano a portare monete con l’effige dell’imperatore. La risposta di Gesù non è pacifica e superficiale e tanto meno si può ridurre a una pronuncia sulla legittimità del potere o dell’autorità. Gesù non dice se l’autorità di Cesare è lecita o illegittima, se ha diritto o no. Egli si limita a prendere atto della situazione descritta dall’immagine della moneta: «Di chi è questa immagine»? La questione in gioco è molto più radicale e parte da un dato di fatto: scribi e sacerdoti sono coinvolti nel riconoscimento di un’immagine che non è quella di Dio. Di fronte all’inchiesta che fa Gesù, essi affermano e confermano che quella immagine è «di Cesare». Gesù non ha dubbi perché essi sanno quello che fanno: Preso atto che voi state parlando di Cesare, il romano, ebbene io vi dico: dategli quello che gli appartiene; ma a voi dico io, di mia iniziativa: ritornate a Dio che vi ha creato come sua immagine. Nelle parole di Gesù si trovano due risposte.

  1. a)    Una diretta (ad hominem) alla constatazione ovvia di scribi e sommi sacerdoti che l’immagine è di Cesare, per cui se essi stessi dicono che «è di Cesare», allora è giusto che la moneta sia restituita al legittimo proprietario perché è impropria nelle mani degli scribi e dei sommi sacerdoti.
  2. b)    La seconda parte della risposta è un’affermazione «teologica», autorevole e autoritativa di Gesù che richiama i suoi interlocutori alla «teshuvàhmetànoia» che non è solo un cambiamento di comportamento, ma un radicale capovolgimento del criterio di pensare e scegliere. La conversione cui si appella Gesù comporta una decisione esistenziale che parte dall’intimo per avviarsi verso una prospettiva di vita che abbia come orizzonte solo il Regno di Dio. È l’invito al ritorno al Dio della creazione di cui, essi, guide liturgiche e morali del popolo, hanno usurpato l’immagine rendendola impura. Usando il denaro con l’immagine di Cesare, essi hanno apostato dalla fede e hanno commesso un sacrilegio.

L’immagine e il progetto di Dio

Per comprendere la risposta di Gesù bisogna rifarsi a Genesi 1,27, secondo cui Dio «creò Adam (= genere umano) a immagine di Dio (ebr.: bezelèm ‘elohim)» che la Bibbia greca della Lxx, usata dalla prima comunità cristiana, traduce con il termine «èikon» (gr: κατ΄ εικόνα θεου – kat’eikòna theû; lett.: secondo l’immagine di Dio». Con questa espressione l’autore biblico, circa cinque secoli prima di Cristo, definisce il fondamento ontologico della consistenza di Adam, inteso come genere umano, composto di uomini e donne. La persona umana, in quanto natura relazionale, è «immagine» di Dio, nel senso che «uomo-donna» è intimamente legato non nell’apparenza, ma nella sostanza. In altre parole, è il genere umano come tale che è «immagine» e, in esso, ogni individuo in quanto persona, compresi gli scribi e i sommi sacerdoti. Da tale struttura antropologica esistenziale nessuno può abdicare, pena l’inconsistenza, la morte.

Nella cultura orientale (assira, sumera, babilonese, ecc.) ogni sovrano segnava i confini del proprio regno con «statue» raffiguranti la sua «immagine»: chiunque la vedeva doveva riverirla in segno di accettazione dell’autorità del re che rappresentava. Allo stesso modo, ogni sovrano incideva la propria immagine nelle monete di uso corrente sia per farsi meglio riconoscere da chiunque ne venisse in possesso, sia per affermare il diritto della propria autorità su chiunque le utilizzasse come moneta di scambio.

Anche il Dio biblico della creazione si comporta come un re orientale: in Gen 2, secondo il racconto jahvista, egli crea con la polvere del suolo, come un vasaio o un artista della creta, la sua «statua» bifronte, Adam ed Eva, che pone nel giardino di Eden come suo luogotenente e fiduciario, come sua «Presenza». La coppia è il rappresentante di Dio nel creato perché esso, guardando l’immagine del creatore, possa essere riportato al fondamento della propria esistenza. In Gen 1, il racconto sacerdotale lo afferma espressamente come «dottrina»: l’essere umano, in quanto sessuato, è «immagine» di Dio creatore. La terra e il cosmo, cioè l’ordine della creazione, sono lo scenario di sfondo, dove Dio colloca il riferimento alla sua autorità: l’uomo-statua, richiamo permanente alla «signoria» di Dio.

L’immagine di Dio posta sulla terra non ha un compito passivo, ma riceve il potere delegato di «dare il nome» agli animali; in oriente «dare il nome» significa avere il potere di vita e di morte su ciò di cui si conosce il «nome», cioè la natura intima e profonda (Gen 2,19-20). La statua/immagine, però, ha un limite strutturale: esercita solo un potere vicario che esige l’ascolto e la tensione all’altro. Gen 2,15 è esplicito a riguardo: «Dio pose l’uomo nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse» secondo la traduzione del greco della LXX. L’ebraico, invece, usa due verbi straordinari: «Dio pose Adam nel giardino di Eden perché lo servisse e l’osservasse/custodisse»1. Non padroneggio, ma dipendenza umile e attenta.

Il primo verbo indica il servizio liturgico, cioè la dipendenza affettiva e vitale, per cui l’uomo compie un atto sacro da cui dipende progresso o regresso. Il secondo verbo è squisitamente giuridico perché è riservato all’«osservanza» della Toràh e dei precetti. Il rapporto che c’è tra l’uomo e le realtà terrestri è un rapporto che lega giuridicamente e costringe l’uomo ad «ascoltare» il mondo e le cose (in ebraico c’è assonanza tra «shama’ – ascoltare» e «shamàr – osservare/custodire». Da ciò nasce l’unione indissolubile tra l’individuo e l’ambiente naturale.

Liberando Israele dalla schiavitù di Egitto, Dio è diventato l’unico re e la sola autorità da cui il popolo dipende, e in esso ogni Israelita. Mosè e i profeti sono luogotenenti, intermediari portavoce. Nulla di più. L’istituto del regno non è mai attecchito in Israele e, infatti, è durato solo due secoli. Israele ha Dio come re di cui è «immagine» rappresentativa o come si direbbe oggi, garante di credibilità. La credibilità di Dio, infatti, passa attraverso la «sua immagine» che è l’uomo non in quanto maschio, ma in quanto essere vivente in relazione. Il testo ebraico usa un’espressione forte, descrittiva della natura umana: «zakàr we neqebàch = pungente e perforata» che le traduzioni rendono più poveramente con «maschio e femmina»2.

È questo il contesto in cui si svolge l’intervista tra Gesù e «gli scribi e i sommi sacerdoti». Se Gesù avesse risposto che non è lecito pagare le tasse, lo avrebbero denunciato all’autorità romana e sarebbe stato messo a morte per insubordinazione e attentato allo stato; se avesse risposto che bisogna pagare le tasse all’imperatore e al senato di Roma, lo avrebbero denunciato al popolo che odiava i Romani e i gabellieri giudei che considerava alla stessa stregua dei pagani. Nell’un caso e nell’altro Gesù sarebbe stato comunque «morto», ma senza porre la questione teologica ed esistenziale di fondo: la natura dell’umanità e la sua funzione all’interno del creato e della società.

Riconoscendosi «immagine» dell’imperatore, di cui accettano la moneta simbolo della sua autorità, essi sconvolgono l’ordine del creato, capovolgendo la natura umana e il fine dell’esistenza. Non è solo una questione banale di separazione tra poteri politici, ma la questione radicale se Dio è il Creatore e se l’uomo, nella sua natura di «pungente e perforata», ne è il segno e la presenza di garanzia nel mondo.

(continua – 3).

 1 Sull’esegesi del versetto in tutta la sua valenza cf il nostro: Bibbia, parole, segreti, misteri, Gabrielli Editore, 2008, 67-75. 2    Sull’esegesi dell’espressione in tutto lo splendore del testo ebraico, cf Ibidem, 61-65.

Paolo Farinella

 




Cari Missionari

COSì STA SCRITTO

Cari
Missionari,
mi unisco a quanti hanno manifestato riconoscenza ed entusiasmo per il favoloso
lavoro di esegesi biblica svolto in questi anni da don Paolo Farinella sulla
parabola del figliol prodigo e sul racconto del miracolo di Cana.

Anche
la nuova avventura è iniziata alla grande e un risultato importante don Paolo
l’ha ottenuto già con la scelta del titolo. Infatti la famosa frase di Gesù a
torto continua a essere tradotta con «date a Cesare quel che è di Cesare»,
mentre la traduzione corretta è «restituite (o, appunto, «rendete») a Cesare
quel che è di Cesare».

Troppe
volte l’errata traduzione ha spianato la strada a spiacevolissimi equivoci,
tipo «l’ha detto anche Gesù che bisogna pagare le tasse anche se sono ingiuste»
o «lo dicono anche le Sacre Scritture che le tasse vanno pagate sempre anche se
chi le esige è un mascalzone» (erano questi i termini in cui nell’estate del
2007 si esprimevano l’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi e alcuni dei
suoi ministri).

Quando
raccomanda di non rubare, di non frodare, di non ingannare il prossimo e di
onorare quelli che oggi chiamiamo «obblighi fiscali» e qualche volta
addirittura «fedeltà fiscale», Gesù usa verbi (apodecatoo, didomi, ballo)
diversi da quello che usa nel momento in cui risponde ai farisei e agli erodiani
sulla questione del tributo a Cesare.

Sia
in Matteo, sia in Marco, sia in Luca il verbo usato da Gesù è apodidomi
che anche don Paolo ha ritenuto di dover tradurre con «rendete» non con «date».
Questo stesso verbo, apodidomi, è il verbo che ritroviamo in bocca
all’esattore Zaccheo (cfr. Luca 19,8) quando, divenuto consapevole degli abusi
compiuti ai danni dei contribuenti e desideroso di iniziare un cammino di
conversione, si impegna davanti a Gesù a «restituire» quanto ingiustamente
prelevato alla collettività. Un capovolgimento di prospettiva che don Paolo non
mancherà di approfondire con quei meravigliosi itinerari ai quali ormai ci ha
abituato. Grazie
per l’attenzione.

Francesco Rondina, Fano
23/03/2013 

Spett.le
redazione,
seguo già da tempo il vostro sito, in particolare la rubrica «Così sta scritto»
di don Paolo Farinella, le cui esegesi uso per il corso di cresima agli adulti
e per le giornate di ritiro spirituale che svolgiamo con il nostro gruppo
(R.n.S.). Sono felice che don Paolo continuerà la sua attività e, in modo
particolare, della scuola di Sacra Scrittura che inizierà nei prossimi mesi (la
aspetto come la «cerva che anela ai corsi d’acqua»). Volevo semplicemente
ringraziarvi per quello che fate. Cordiali
saluti,

Salvatore Di Peri
14/03/2013

Beneficenza  e Carità

Leggendo
le parole dell’editoriale di marzo, mi sono identificato nello «spirito» dello
stesso. Trovandomi da anni coinvolto in esperienze missionarie in Kenya e
Tanzania, ho organizzato incontri ove esponevo e condividevo ad amici, colleghi
ed estranei la mia, anzi la nostra (da quando ho conosciuto, in Kenya, mia
moglie) esperienza tra i missionari, non solo della Consolata ma anche di altri
ordini, e con la gente locale.

Quello
che vivi, provi, senti e ti entra dentro il cuore in Africa non puoi tenertelo
dentro e pertanto è di fondamentale importanza condividerlo, cercando di far
capire che non esiste solo il nostro «ego» ma esistono anche bambini e adulti
che, senza colpe, sopravvivono giorno dopo giorno, vedendo calpestata la propria
dignità di esseri umani. È difficile indovinare a fondo quanto prova la gente
di fronte alle immagini, ai filmati e ai racconti, ma si percepisce comunque un
certo distacco, una lontananza ancorata al proprio quieto vivere, seppur con il
sincero intento di voler fare qualcosa per aiutare. Solamente se stimolata ogni
volta la gente s’interessa nuovamente a queste problematiche, mentre pochi,
direi rari, si sentono così colpiti da fare proprio, dal profondo del cuore, il
concetto di carità efficacemente espresso nell’editoriale. La carità non è un
fare ma un modo di vivere e di condividere tra esseri umani, tra tutti.

Troppa
gente, come padre Gigi sottolinea, è superficiale ed emotiva di fronte alla
carità, agendo quasi per pagare dazio e lavarsi le mani, facendo i «buoni»
senza però essere «buoni» fino in fondo, senza cioè fare propria la profondità
della carità-amore. Una virtù che dovrebbe essere radicata nei credenti, nei
religiosi, negli uomini di buona volontà ma che purtroppo è spesso soffocata da
ben altre amenità ed è rispolverato a comando solo in talune occasioni.

La
carità non è un concetto astratto, semmai è di difficile attuazione, perché si
pensa che non sia possibile donare al povero se prima non si ha una propria
sicurezza; prima bisogna pensare a se stessi e poi agli altri, agli estranei,
seppur fratelli. Si rischia di passare per «folli» se si dona un paio di scarpe
nuove tenendo per sé quelle bucate. Figuriamoci poi se si arriverà a
condividere la povertà, calzando le malandate scarpe del povero stesso.

Padre
Bergoglio, alias papa Francesco, in poco tempo ha offerto al genere
umano delle occasioni di riflessione e, possiamo dirlo, condivisione. Speriamo
con questo che la sensibilità e attenzione verso taluni concetti come la povertà
e soprattutto la carità possano diventare patrimonio comune, educandoci dal
profondo del nostro cuore e spirito. Asante sana (tante grazie),

Vincenzo e famiglia
Email, 26/03/2013

a cura del Direttore




Perpetua e Felicita

Perpetua
e Felicita, nobildonna cartaginese la prima e schiava/amica fedele la seconda,
sono protagoniste di un evento straordinario di testimonianza della loro fede
cristiana nella città di Cartagine del III secolo. Durante la persecuzione
dell’imperatore Settimio Severo, invitate a bruciare incenso alla statua
dell’imperatore, esse risposero con un fermo rifiuto. Il loro processo è uno
dei rari documenti pervenuti fino a noi di condanna a morte dei cristiani. Esse
sono ricordate nel canone romano dell’Eucarestia.

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Carissime, di fronte a voi che avete saputo dare la vita per essere fedeli a Cristo Signore, mi sento piuttosto imbarazzato. Volete presentarvi?

Perpetua: Sono una giovane donna, di poco più di vent’anni, sposata e madre di un bambino. Appartengo al ceto sociale più alto della città di Cartagine. Nella mia casa vivono anche diverse persone che la logica del tempo considerava schiave, ma che, dopo aver incontrato il Vangelo di Gesù e la sua straordinaria prospettiva di vita, sono diventate per me come fratelli e sorelle, a cui è la mia famiglia che ha la responsabilità di garantire una vita degna.

Felicita: Io, che nella condizione di schiava vivo presso Perpetua, mia padrona, mi sento più una persona di casa che una serva sfruttata per fare dei lavori pesanti.

E com’è che nel III secolo dopo Cristo Cartagine è una delle città più importanti del Nord Africa, parte integrante dell’Impero Romano?

Perpetua e Felicita: La posizione naturale della nostra città ne fa un punto nodale dei traffici, sia per mare che per terra, nonché base di partenza per le carovane dirette verso Sud, verso il grande deserto e allo stesso tempo è un porto strategico per il commercio con Roma imperiale, «caput mundi».

Resto stupito nel vedere che una città dell’Africa lontana da Gerusalemme abbia fra le sue mura, nel III secolo dopo la nascita del Salvatore, una fiorente comunità cristiana.

Perpetua e Felicita: Una delle cose più sconvolgenti che anche a noi stessi causa meraviglia è il constatare come il messaggio di amore e tenerezza portato da Gesù di Nazareth si sia diffuso così velocemente in tutto l’Impero Romano e in modo particolare nell’area mediterranea. Per usare le parole di sant’Agostino, un padre della Chiesa che diede lustro alla nostra terra africana: «Tre sono le cose incredibili e tuttavia avvenute: è incredibile che Cristo sia risuscitato nella sua carne, è incredibile che il mondo abbia creduto ad una cosa tanto incredibile, è incredibile che pochi uomini, sconosciuti, inermi, senza cultura abbiano potuto far credere con tanto successo al mondo, e in esso anche ai dotti, una cosa tanto incredibile!». Difficile non scorgere in questi avvenimenti il piano di Dio.

Cos’ha di così affascinante la Buona Notizia di Gesù di Nazareth da coinvolgere così tante persone e far loro cambiare drasticamente il genere di vita che conducono?

Felicita: Per noi schiavi il messaggio di Gesù di Nazareth è qualcosa di sconvolgente e meraviglioso allo stesso tempo. Nella scala sociale siamo considerati all’ultimo posto e la nostra vita è legata agli umori dei nostri padroni. Venire a sapere che puoi rivolgerti a Dio chiamandolo Padre e scoprire che la tua dignità di persona vale tanto quanto quella dell’imperatore, è sufficiente perché questo nuovo stile di vivere ti conquisti e tu non desideri altro che vivere il Suo amore dando testimonianza di ciò che ha insegnato.

Perpetua: Lo stesso discorso, anche se in maniera diversa, vale per i nobili della società dell’Impero Romano. È straordinario scoprire l’umanità di chi ti circonda e scoprire che nel mondo non conta avere tanti benefici se si ha un cuore arido incapace di accogliere la tenerezza di Dio e l’affetto del prossimo. Il messaggio del Vangelo va ben oltre le aspettative esistenti di un cambiamento, in quanto ciò che viene realmente modificato è il proprio cuore e la propria coscienza, per cui anche coloro che possiedono molto, sentono impellente e bruciante il bisogno di condividere i propri beni con altri più sfortunati di loro.

Come avvenne il vostro arresto?

Perpetua e Felicita: Durante la persecuzione, scatenata contro i cristiani dall’imperatore Settimio Severo, venne emanato un editto in cui ai governatori delle province veniva data la possibilità di «stanare» i cristiani, obbligandoli a bruciare incenso alla statua dell’imperatore, ritenuto dalla religione pagana un dio in terra. Questo per la nostra fede è inaccettabile, quindi fummo fatti sfilare davanti alle autorità romane, le quali avevano messo un braciere acceso ai piedi della statua dell’imperatore e venimmo invitati a gettare un po’ di incenso nel fuoco, attestando così lo status di divinità dell’imperatore. Ovviamente noi ci rifiutammo e fummo arrestati.

E che successe dopo?

Perpetua e Felicita: Nella disgrazia fummo fortunate; in carcere c’erano dei cristiani che alimentavano in noi la speranza, non di essere esentati dai supplizi e dai tormenti, ma di incontrare presto il Signore nel suo Regno e di stare con lui per l’eternità. E siccome noi non avevamo completato l’iniziazione cristiana, essendo ancora dei catecumeni, con noi in carcere era finito anche Satiro, il nostro catechista, il quale provvide, nelle lunghe giornate in cui aspettavamo la sentenza, a completare la nostra formazione e a battezzarci, offrendoci così quella grazia santificante e quella fortezza di spirito più che mai necessaria per affrontare quelle terribili prove che ci aspettavano.

Quali erano le condizioni del carcere?

Perpetua: Terribili! In ambienti angusti, con poca aria e luce a disposizione, erano rinchiuse molte persone, anche se tutti si mostravano gentili e disponibili verso di noi, in quanto io avevo il mio bambino ancora lattante con me, mentre Felicita contava i giorni che la separavano dal lieto evento della nascita di una creatura che aveva in grembo.

Felicita: Pur essendo rinchiusi in celle umide e malsane e con numerosi compagni imprigionati come noi per la loro fede, la mia amatissima sorella Perpetua aveva delle visioni che prefiguravano la nostra entrata nel Regno dei Cieli dopo quella terribile prova, che è paragonabile a ciò che visse Gesù sul Calvario.

E il processo come fu?

Perpetua e Felicita: Fu una farsa, era già tutto stabilito. Gli atti dei nostri interrogatori sono una delle poche pagine giunte sino a voi di come procedeva la giustizia romana verso coloro che considerava dei nemici. Agli inviti che i giudici facevano a noi affinché - vista la nostra condizione - abiurassimo la nostra fede e così ci salvassimo per rimanere accanto ai nostri figli, rispondevamo che alle nostre creature avrebbero pensato i nostri familiari, a noi premeva restare fedeli a Colui che ci aveva dato il vero senso di vivere, il significato di un’esistenza la cui fedeltà a Lui nel momento della morte ci avrebbe spalancato la porta del Regno dei Cieli.

E come vi comportaste voi?

Perpetua e Felicita: Alle domande che ci venivano rivolte rispondevamo con libertà e franchezza, non temevamo affatto il confronto con i nostri persecutori. In alcuni momenti avevamo la sensazione quasi palpabile che a parlare non fossimo noi, ma prestavamo la nostra voce alle risposte che Gesù stesso dava ai nostri inquisitori. Scoprimmo quell’atteggiamento che va sotto il nome di «parresia», ovvero quella franchezza di linguaggio che ci permetteva di rispondere a testa alta e senza remore alle domande più subdole e ai tranelli più iniqui che i funzionari dell’impero romano, ci tendevano.

Come viveste la sentenza?

Felicita: Nel momento in cui veniva pronunciata la condanna a morte che per noi fu applicata nel modo più orribile che si immaginasse a quei tempi, cioè tramite bestie feroci che ci avrebbero sbranati, il marito di Perpetua, che era ancora pagano, proruppe in alte grida invitandola a rinnegare la propria fede, ma la mia padrona, o meglio mia sorella nella fede, rimase ferma nel suo proposito di essere fedele al Signore Gesù e quindi, deposto tra le braccia del marito il suo bambino, si avviò tranquilla verso la gloria dei martiri.

Perpetua: Dopo la sentenza, nei giorni passati in carcere, in attesa che arrivasse una festa in cui ci fossero dei giochi e tra questi lo spettacolo orribile offerto alla folla di belve scatenate che si avventavano contro i cristiani, la mia cara Felicita partorì una creatura che fu affidata a una sua parente. Dopo alcuni giorni, tenendoci per mano, insieme ad altri cristiani, cantando entrammo nell’arena. Lì, guardando con occhi solo umani, si sarebbe consumato il nostro sacrificio, che noi, invece, dal punto di vista della fede, consideravamo l’incontro con il Signore Gesù, questa volta per rimane accanto a Lui per sempre.

Perpetua durante il periodo del carcere mantenne un diario in cui annotò tutto quello che stava vivendo lei e la sua schiava Felicita, ma non poté narrare l’epilogo della loro vicenda. Altri cristiani che assistettero al loro martirio scrissero, descrivendo gli ultimi istanti della loro vita, completando così la loro testimonianza di fede. Ciò che restò come documento scritto divenne un punto di forza e di edificazione. Dalla semplicità dello stile si coglie una fede diamantina e un amore sconvolgente per Gesù, certezza assoluta dei primi martiri cristiani; c’è il coraggio e la fermezza con la quale seppero affrontare i patimenti e la morte nel nome di Cristo, che, gioverà ricordare, ha assicurato ai discepoli di ogni tempo, che i persecutori e gli aguzzini possono uccidere il corpo, ma non possono nulla contro le anime, le coscienze e gli ideali che essi incarnano. Le annotazioni di Perpetua furono poi raccolte nella «Passione di Perpetua e Felicita», opera - si dice - di Tertulliano, padre della Chiesa d’Africa dei primi secoli, per essere consegnati alla memoria futura delle generazioni cristiane.

 
Don Mario Bandera
Direttore Missio Novara
Mario Bandera




Processo di pace: facciamo il punto

In queste pagine offriamo un quadro sintetico della situazione
di conflitto endemico tra stato e guerriglia che da anni insanguina la
Colombia. In questo contesto nel Caquetá, sta nascendo il progetto «Centri
d’incontro e ascolto» da un’idea di p. Renzo Marcolongo, missionario della Consolata
e psicologo clinico con un’esperienza di 24 anni come terapeuta e moderatore di
seminari sull’ascolto empatico.

Colombia. Sviluppo rurale,
partecipazione politica, smobilitazione, narcotraffico e diritti delle vittime
del conflitto. Sono questi i cinque temi discussi dal governo colombiano
guidato dal presidente Juan Manuel Santos e dalle Farc (Fuerzas Armadas
Revolucionarias de Colombia
) nel corso delle negoziazioni lanciate
nell’ottobre 2012 a Oslo, in Norvegia, e continuate poi con i colloqui a
l’Avana (Cuba). I colloqui hanno avuto uno stallo dopo che un momento di
tensione a fine gennaio – il sequestro da parte delle Farc di due agenti di
polizia e l’uccisione di quattro militari – ha rischiato di far saltare il
tavolo delle trattative, ma a marzo il settimo round di negoziazioni si è
svolto regolarmente. Ognuno dei cinque punti nasconde un’insidia sia per il
governo colombiano, che non può permettersi di concedere troppo, sia per i
vertici delle Farc, che non possono permettersi di ottenere troppo poco.

I protagonisti

Il
governo di Santos ha nell’estate 2014 la scadenza per presentarsi al paese con
un successo in tasca: l’anno prossimo, infatti, si svolgeranno le elezioni
presidenziali e legislative e il partito del presidente, a prescindere dalla
decisione di Santos di correre o meno per un secondo mandato, avrebbe un
fondamentale punto a suo favore nella campagna elettorale se potesse affermare
di essere stato la forza politica capace di chiudere il conflitto armato che da
oltre mezzo secolo devasta il paese.

I
rappresentanti delle Farc, dal canto loro, devono fare i conti con
l’indebolimento ormai evidente della loro forza militare, che nel corso degli
ultimi anni ha visto ridursi il numero dei combattenti dai ventimila delle prime
negoziazioni con il governo (tardi anni Novanta) ai circa ottomila della fine
del secondo mandato del presidente Alvaro Uribe (2010). Sotto la presidenza
Uribe, le Farc hanno ricevuto duri colpi dall’esercito colombiano e hanno visto
decapitata la propria dirigenza. Il 2008 è stata l’anno della scomparsa, fra
gli altri, di Pedro Antonio Marín, alias Tirofijo, capo fondatore delle
Farc. Se Tirofijo è morto di infarto, il suo successore, noto come Alfonso
Cano, è caduto invece in seguito a un bombardamento da parte dell’esercito
nella regione del Cauca. Il capo supremo è oggi il cinquantaduenne Rodrigo
Londoño, detto Timochenko, cui spetta il difficile compito di
traghettare fuori dalla clandestinità una compagine in cui fra l’altro esiste
un forte scollamento fra vertici e retrovie.

Secondo
padre Feando Patiño, missionario della Consolata colombiano, una delle chiavi
di volta per i successi dell’esercito sulle Farc è stata la superiorità
tecnologica: «Basta pensare», spiega padre Feando, «a come hanno catturato el
Mono Jojoy, capo militare e secondo nella linea di comando delle Farc, tradito
da un paio di stivali nei quali l’intelligence era riuscita a infilare un
microchip prima della consegna a Jojoy, individuando così l’esatta posizione
Gps del campo nel quale lui si trovava».

Il fantasma del Caguán

Le
attuali negoziazioni non sono le prime nella storia del conflitto fra governo
colombiano e Farc. Il precedente è rappresentato dai colloqui intercorsi fra il
1998 e il 2002 durante la presidenza di Andrés Pastrana. In quell’occasione, il
presidente decise di smilitarizzare la zona del Caguán e di svolgere lì i
colloqui, ma il processo si concluse con un pesante fallimento e con un
rafforzamento delle Farc, che approfittarono dell’assenza di controllo militare
governativo nel Caguán per far entrare grandi quantità di armi. Oggi, però, ci
sono differenze rispetto ai primi anni Duemila, differenze che possono far
pensare a una conclusione positiva dei colloqui. Nel settembre 2012, il
settimanale colombiano La Semana sintetizzava così queste differenze: «Oggi
c’è uno stato più forte da un punto di vista sia politico che militare, mentre
la guerriglia ha vertici molto indeboliti; c’è una strategia chiara per porre
fine al conflitto, strategia che include un pre-accordo e delle regole di
funzionamento; i colloqui si svolgono all’estero e non esigono la sospensione
immediata delle ostilità; infine, pesano l’influenza del defunto presidente
venezuelano Hugo Chavez e dell’accompagnamento internazionale [di Norvegia, Venezuela,
Cuba e Cile, ndr] nei colloqui e il contesto interno colombiano, a metà
di una legislatura di un governo con prospettive di rielezione».

La
scomparsa del presidente venezuelano ha aperto qualche interrogativo sul ruolo
del Venezuela nelle negoziazioni. Il successore, Nicolas Maduro, da Caracas, fa
sapere che in ossequio al giuramento fatto al suo comandante (Chavez, appunto)
il Venezuela continuerà a impegnarsi nel processo di pace colombiano. Christian
Völkel, analista dell’Inteational Crisis Group, osserva poi che per
quanto il ruolo del Venezuela sia stato importante nella fase segreta dei
colloqui, ora le negoziazioni hanno abbastanza forza in se stesse per reggersi
senza bisogno di supporti estei.

I rospi da ingoiare

Bastano
alcuni esempi per farsi un’idea della complessità della situazione. A proposito
del primo punto, relativo alla distribuzione delle terre, secondo Marco Romero,
analista della Consultoría para los Derechos Humanos y el Desplazamiento,
i colloqui dovranno trovare un punto di convergenza fra il modello di sviluppo
agroindustriale, che pare più vicino alla linea politica del governo e agli
impegni che la Colombia ha assunto con i trattati inteazionali di libero
commercio, e l’appoggio al campesinado, cioè ai piccoli agricoltori, che
le Farc indicano come prioritario.

Altro
aspetto da affrontare sarà la partecipazione politica delle Farc: una prima
difficoltà sarà di natura legale, poiché in Colombia una legge impedisce
l’entrata in politica a chi ha pendenze con la giustizia. C’è poi la questione
dei diritti delle vittime del conflitto, a sua volta strettamente legata alla
distribuzione delle terre e alle modalità della partecipazione politica delle
Farc: secondo i critici del processo, una pace davvero sostenibile non può basarsi
sull’impunità dei perpetratori delle violenze.

In
nome della pace, avverte il presidente Santos, occorrerà comunque «ingoiare
qualche rospo». Resta da vedere se la digestione di questi rospi sarà
abbastanza indolore da tenere in piedi un processo di pace che, rispetto al
precedente, sembra avere davvero il potenziale per liberare la Colombia da uno
dei suoi conflitti più sanguinosi. Anche nell’ipotesi di successo resteranno in
Colombia molti nodi da sciogliere, relativi ad esempio alla presenza dei
paramilitari e al peso del narcotraffico. Ma nessun effetto domino di
pacificazione del paese sembra possibile senza la caduta della prima tessera,
rappresentata appunto dall’accordo fra governo e Farc.

Chiara Giovetti
__________________

Arturo
Wallace
di Bbc Mundo ha sintetizzato in modo molto efficace le sfide
connesse a ciascuno dei cinque punti sul tavolo delle negoziazioni: la sua
analisi è disponibile all’indirizzo web

http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2012/10/121006_colombia_proceso_de_paz_nudos_aw.shtml 

Chiara Giovetti




Gratta e Perdi: Il gioco d’azzardo (prima parte)

L’Italia è uno dei primi paesi
al mondo per i giochi d’azzardo, addirittura il primo in assoluto per quelli on
line. Nel 2012, la spesa pro-capite è stata di 1.450 euro. Le entrate per le
esangui casse pubbliche sono elevate, ma – una volta sottratti i costi diretti
e indiretti dovuti ai pesanti effetti collaterali per la collettività – lo
Stato-biscazziere non è un buon affare. Nel frattempo, i malati a causa del
gioco sono in costante aumento, e sempre di più giovani.

Qualche settimana fa, mentre ero
ferma al rosso, l’occhio mi è caduto su una sala giochi, a pochi metri
dall’incrocio. Curiosamente accanto alla sala, c’era l’ufficio di una
finanziaria. Mi è venuto da pensare che quella vicinanza fosse tutt’altro che
casuale. Voltando lo sguardo ho pure notato un cartello pubblicitario che
reclamizzava una sala scommesse. Facendo un giro per la città, mi sono resa
conto che locali come questi sono sempre più diffusi e soprattutto molto
frequentati. Poi, entrata in una tabaccheria con terminale della Lottomatica,
per pagare il bollo dell’auto, mi sono ritrovata a fare la coda dietro a
diverse persone, tra cui alcuni anziani. Questi stavano scommettendo su dei
numeri (a loro dire sicuri) e poi – per non lasciare alcunché d’intentato –
prima di uscire hanno comprato anche alcuni «Gratta e Vinci». Scene sempre più
frequenti in un’Italia, che – nel giro di pochi anni – è diventata uno dei
paesi al mondo in cui si gioca di più. Basti pensare che in Europa ci
contendiamo il primato con l’Inghilterra per le giocate di tutti i tipi, mentre
siamo terzi al mondo tra i paesi dove si gioca di più e addirittura primi per i
nuovi giochi d’azzardo on line, quelli che chiunque sia dotato di un cellulare,
un computer o un tablet può fare.
Bastano una connessione ad internet, una carta di credito e la maggiore età, ma
attenzione: per attestare quest’ultima è sufficiente l’autocertificazione. Ciò
significa che qualunque minorenne può accedere a questo tipo di giochi,
dichiarando di avere 18 anni e magari usando la carta dei genitori.

NUMERI DA RECORD

Secondo un dossier sul gioco d’azzardo del mensile Valori
(febbraio 2013), nel 2012 il fatturato legale (raccolta) del gioco d’azzardo è
stato di quasi 90 miliardi di euro, con una spesa pro capite, neonati compresi,
di 1.450 euro. Si stima che in Italia circa l’80% della popolazione adulta
partecipi saltuariamente a lotterie ed a scommesse, mentre il 13% degli
italiani gioca alle lotterie ed alle slot machine quasi ogni settimana
ed il 5% due o tre volte alla settimana. Il gioco d’azzardo è diventato la
terza industria in Italia, con  5.000
aziende e 120.000 persone che vi lavorano. Visto che il gioco d’azzardo è stato
legalizzato dal governo italiano nel 1992 per risanare le casse dello Stato,
poi nel 2006 con la legge Bersani-Visco è stato concesso alle agenzie straniere
di entrare liberamente nel mercato italiano del gioco e che infine nel 2011 il
governo Berlusconi ha liberalizzato il gioco d’azzardo on line, si
potrebbe pensare che, con un fatturato del genere, ogni anno gli introiti in
tasse sui giochi siano per lo Stato una vera e propria panacea, ma non è così.
Negli ultimi otto anni infatti, il fatturato da gioco d’azzardo è
quadruplicato, mentre le entrate fiscali sono rimaste per lo più stabili, se
non addirittura in leggera flessione. Ciò è dovuto al fatto che la tassazione è
molto diversa per i vari giochi. Si va dal 44,7% per il superenalotto e dal 27%
per il classico lotto al 3% per le videolottery e allo 0,6% per i casinò
on line. Nel 2012 le entrate fiscali legate al gioco sono state di circa
8 miliardi. Nel 2004 a fronte di un fatturato di 24,8 miliardi (rispetto ai 90
attuali), le entrate fiscali da gioco furono di 7,3 miliardi. Questo fatto, se
da un lato si può spiegare con l’enorme diffusione dei giochi d’azzardo on
line, favorita da una tassazione veramente esigua, dall’altro si può spiegare
con un megabusiness legato alle macchinette dei videopoker delle
sale giochi e dei bar, che non sempre vengono collegate via modem con la Sogei
(la «Società generale di informatica», che presiede ai controlli sul pagamento
delle imposte), favorendo così i guadagni della criminalità organizzata.
Secondo il dossier «Azzardopoli» di Libera, l’associazione contro le mafie
fondata da don Luigi Ciotti, il fatturato illegale da gioco d’azzardo del 2011 è
stato di circa 10 miliardi di euro ed è stato spartito da 41 clan mafiosi.

Consideriamo inoltre che, se da un lato l’erario ha incassato 8
miliardi nel 2012, si stima che, tra costi sanitari diretti ed indiretti e
costi legati alla perdita della qualità della vita, la collettività nello
stesso anno abbia subito un danno compreso tra i 5,5 ed i 6,6 miliardi di euro,
a cui vanno aggiunti 3,8 miliardi circa per mancati versamenti dell’Iva.

IL GIOCO,
UNA DROGA SOTTOVALUTATA

È chiaro quindi che la legalizzazione del gioco d’azzardo non è
riuscita a contribuire al risanamento delle casse dello Stato. È invece
riuscita a fare aumentare enormemente i casi di ludopatia o «Gioco d’azzardo
patologico» (Gap), che colpiscono fasce sempre più estese della popolazione,
con punte di spicco soprattutto tra quelle più deboli e meno istruite. Sono
sempre più numerosi i casi di persone, che non riescono più a staccarsi dal
gioco e che arrivano a distruggere i rapporti familiari e di lavoro, perdendo
tutti i loro averi e finendo spesso col diventare vittime di usurai. Sempre più
spesso tra i malati di gioco d’azzardo si trovano persone anziane e giovani,
anche minorenni sebbene ad essi il gioco sia vietato. A questo proposito è
possibile vedere su Youtube un video del Secolo XIX, in cui è filmato un
ragazzino di 14 anni, che entra in diverse tabaccherie di Genova acquistando
dei «Gratta e Vinci» da 5 euro e sigarette, senza che i titolari delle
tabaccherie battano ciglio sulla sua minore età. Solo in un esercizio su 5 il
ragazzo non viene servito perché minorenne. Il ragazzo entra poi in una sala
giochi e riesce a giocare alle slot machine ed ai videopoker senza problemi.
Quanto visto a Genova non è certamente un caso isolato. La situazione è la
stessa in ogni angolo del nostro paese. I giovani rappresentano una categoria
particolarmente a rischio di cadere nella ludopatia, poiché tendono a misurarsi
con il mondo degli adulti per evadere dal proprio. L’opinione pubblica e i
genitori soprattutto sembrano non essersi resi ancora conto di questo nuovo
rischio, probabilmente perché pensano che i maggiori pericoli di dipendenza
possano derivare solo dal consumo di droghe, di alcolici e di tabacco. In realtà,
siamo di fronte ad un tipo di dipendenza senza droga e nel giro di pochi anni
l’aumento del gioco patologico tra i giovani ha assunto caratteristiche
allarmanti. La Polizia postale segnala un aumento delle scommesse on line
soprattutto tra i giovanissimi, tra i quali la comparsa di un comportamento
patologico nei confronti del gioco è favorita dalla facilità di accesso a
questo tipo di giochi in assoluta segretezza, dalla pubblicità che ne viene
fatta ormai su buona parte dei mass media e dalla fragilità insita nella
giovane età. Secondo Mark Griffiths della Nottingham Trent University,
la media europea dei giovanissimi giocatori è superiore a quella degli adulti
di circa 4 volte. Il motivo dell’aumento del gioco patologico tra i giovani è,
secondo Paolo Bagnare, psicologo e consulente del Tribunale di Milano,
un’espressione di disagio. Per gli adolescenti, che non si sono ancora lasciati
completamente alle spalle il pensiero infantile, la vincita facile ha effettivamente un aspetto magico. L’adolescenza è
un periodo di transizione caratterizzato da una forte fragilità, durante il
quale i giovani tendono a cercare un appoggio esterno, per supplire alla
carenza di definizione e di forza interiore. Inoltre, in questo periodo, i
giovani sono particolarmente inclini a sfidare il mondo degli adulti, ma non
sempre sono completamente consapevoli delle loro azioni. Purtroppo, in questo
caso, i giochi on line, che si trovano in internet consentono di entrare in
contatto con un’attività da adulti, che trasmette forte eccitazione e permette
di dimenticare i problemi della quotidianità, facendo entrare i giovani in una
dimensione illusoria. Scivolare nella dipendenza diventa perciò facilissimo.

INIZIATIVE CONTRO LA DIPENDENZA

Alcune associazioni cominciano a muoversi verso questa nuova forma
di dipendenza giovanile. Tra queste ci sono l’«Associazione And» di Varese,
rivolta ai giovani tra i 17 ed i 25 anni, la cornoperativa sociale «Pars» di
Civitanova Marche, per giovani maggiorenni e, nel torinese, la comunità
terapeutica «Lucignolo & Co.», struttura pubblica del Dipartimento di
Patologia delle dipendenze dell’Asl To3 di Torino.

Per valutare la diffusione del gioco d’azzardo tra i giovani in
Italia, è stato fatto uno studio esplorativo a livello nazionale secondo gli
standard adottati dall’indagine europea Espad1 (The European School Survey Project On Alcohol And Other Drugs), che
prevedeva la compilazione in forma anonima di un questionario distribuito nelle
classi di alcune scuole superiori selezionate casualmente. Nel 2000 i giovani
che hanno dichiarato di giocare con una frequenza tra «poche volte all’anno» e «quasi
ogni giorno» sono stati il 39% degli studenti italiani, ma la percentuale è
drasticamente salita nel 2009, raggiungendo il 51,6%. In generale sono i maschi
ad essere più dediti al gioco; nell’indagine condotta, pur essendo i
maggiorenni a giocare di più, tra i minorenni che giocano, quelli che hanno
riferito di avere giocato denaro almeno una volta nell’ultimo anno sono il
55,5% maschi ed il 34,6% femmine. Tra i giochi preferiti dai giovani di
entrambi i generi in pole position c’è
il «Gratta e Vinci», seguito dalle scommesse sportive e dal
lotto/superenalotto. Molto più diffuse tra i maschi sono le macchine da gioco
elettroniche. A differenza dei giocatori adulti, per i quali il denaro è quasi
sempre la molla, che spinge a giocare, per i giovani esso non è il fine ultimo
del gioco, ma il mezzo per potere continuare a giocare.

All’inizio del 2012, i Monopoli di Stato hanno intrapreso la
campagna «Giovani e Gioco», che prevedeva la distribuzione di un Dvd a 70.000
studenti, a partire da quelli della Campania, Puglia, Sicilia, Abruzzo e
Lombardia, per estendersi 
successivamente alle altre regioni italiane ed agli studenti di età
minore. Secondo diverse associazioni, tra cui Assoutenti, Libera,
l’associazione Giovanni XXIII, il Conagga (Coordinamento Nazionale Gruppi per i
Giocatori d’Azzardo), il Cnca (Coordinamento nazionale comunità d’accoglienza)
ed secondo il cardinale Bagnasco di Genova, sotto le mentite spoglie di una
campagna per insegnare ai giovani a giocare in modo responsabile, c’è una vera
e propria istigazione al gioco. In questo Dvd, un giovane – che non gioca, ma
anzi telefona all’Asl se il padre trascorre tutto il tempo alle slot – viene visto come un bacchettone.
Per non parlare della frase «Evolve chi si prende una giusta dose di rischio,
mentre è punito chi non rischia mai o chi rischia troppo» contenuta nel Dvd, la
quale lascia chiaramente intendere che, per essere Ok, bisogna giocare almeno
un poco.

SOMMERSI DAGLI SPOT

Come accennato, una delle cause che spingono verso la dipendenza
da gioco sia i giovani, che gli adulti è la pubblicità dei giochi d’azzardo
fatta ormai su quasi tutti i media. Si vedono spot e pubblicità di giochi
ovunque: al cinema, in Tv, in internet sotto forma di banner e di link,
sui giornali e nei cartelloni stradali, che sempre più spesso pubblicizzano i
casinò on line gestiti da aziende private. Il mondo del gioco d’azzardo
investe in pubblicità circa mezzo miliardo di euro all’anno. Per tentare di
porre un argine a questo fenomeno, il Consiglio nazionale degli utenti (Cnu),
organismo istituito presso l’Agcom (Autorità garante per le telecomunicazioni),
nel 2011 ha proposto al governo di equiparare la pubblicità dei giochi
d’azzardo a quella del fumo, da anni bandita da tutti i media per la sua
riconosciuta pericolosità sociale. Per tutta risposta l’8 novembre 2012 è stato
convertito nella legge n. 189 il decreto-legge n. 158 o decreto Balduzzi, che
proibisce gli spot dei giochi d’azzardo al cinema, durante la proiezione dei film
per i minori, sulla stampa per l’infanzia e durante le trasmissioni Tv per gli under 18 (anche mezz’ora prima e dopo).
Inoltre tale legge prevede l’obbligo per i gestori delle sale da gioco e di
tutti gli esercizi, in cui vi sia la possibilità di giocare d’azzardo, di
esporre all’ingresso ed all’interno dei locali il materiale informativo
predisposto dalle Asl, diretto ad evidenziare i rischi correlati al gioco ed a
segnalare la presenza sul territorio di servizi di assistenza pubblici e del
privato sociale per la cura e il reinserimento delle persone con patologie
correlate al gioco d’azzardo. È inoltre vietata la possibilità, in ogni
esercizio pubblico, di giocare d’azzardo nei casinò on line. È previsto
il raddoppio dei controlli annui (saranno 10.000) destinati al contrasto del
gioco minorile, negli esercizi dove sono presenti le slot machine.
Inoltre queste potranno essere collocate solo lontano da zone sensibili come
scuole, ospedali e luoghi di culto. La pubblicità dei giochi dovrà indicare le
probabilità di vincita. Questa legge ha inoltre riconosciuto la ludopatia come
una patologia da curare presso i servizi pubblici per le dipendenze. In realtà,
purtroppo l’inserimento della ludopatia nei livelli essenziali di assistenza
non è accompagnato da una copertura finanziaria. I limiti posti dalla legge
alla pubblicità dei giochi d’azzardo sono decisamente poco incisivi perché
riguardano solo i minorenni e solo determinate forme di comunicazione. Inoltre,
sotto la pressione delle lobby del
gioco, è stato anche diminuito il limite di distanza dai luoghi sensibili,
portato dai 500 metri previsti dal decreto Balduzzi ai 200 metri della legge.
Per non parlare del fatto che ora è possibile portarsi un casinò nel cellulare
o nell’Ipod, quindi in tasca.

I PADRONI DEL BANCO

A proposito di lobby, chi sono gli azionisti principali,
che alimentano il gioco d’azzardo in Italia e quindi guadagnano sulla pelle dei
giocatori? Ecco qualche nome: De Agostini, Mediobanca, Lottomatica, Snai,
Assicurazioni Generali, Toro Assicurazioni, Ina Assitalia, Intesa Vita,
Alleanza Assicurazioni, Generali Horizon, Fata Assicurazioni, Genertel, Banca
Generali ed Emilio Silvestrini. Dobbiamo ricordare che, in questi tempi di
crisi, i giocatori che arricchiscono queste compagnie sono sempre più spesso
disoccupati e pensionati, che sperano di migliorare la loro condizione
economica tentando la fortuna ma che invece si rovinano, perché è matematico
che «il banco vince sempre».

Nella prossima puntata cercheremo di capire chi è più a rischio di
diventare vittima di ludopatia, cioè quali caratteristiche biologiche e
psicologiche presentano i giocatori compulsivi.

 
Rosanna Novara Topino
(fine prima parte – continua)

Rosanna Novara Topino




Frutta, Verdura e Solidarietà: Nuove povertà e volontariato 

Anche a Torino si fruga nei cassonetti. Per mangiare, per
cercare qualcosa da rivendere. Come in tutta Italia, le famiglie che non
arrivano a fine mese sono sempre di più. In assenza di politiche pubbliche
tocca alle associazioni di solidarietà e volontariato intervenire per cercare
di alleviare la povertà. A questo scopo, nel 2011, è nata l’associazione «Terza Settimana»,
in cui oggi operano – tra gli altri – 120 ragazze e ragazzi delle scuole
superiori. Lo scorso anno questi volontari hanno consegnato a centinaia di
famiglie qualcosa come 70 mila chilogrammi di frutta e verdura. Una bella
lezione per tutti.

Torino, la città che nel 2006 ha
ospitato le Olimpiadi invernali, vive oggi una profonda crisi condividendo la
situazione di molti altri grandi centri urbani italiani. Abbiamo cominciato ad assistere a episodi a cui non eravamo
preparati, come il rovistamento nei cassonetti per cercare qualche prodotto
commestibile o qualche «rifiuto» da rivendere o riciclare. D’altra parte, i
negozianti testimoniano che, prima del 20 del mese, le persone in difficoltà
economica cominciano a cercare prodotti in superofferta o le sottomarche. In
alcuni casi, quando i commercianti lo permettono, si acquista facendo debiti
anche per acquistare il pane.

Da alcuni anni i media hanno iniziato a commentare una nuova realtà
sociale: le difficoltà di un numero crescente di famiglie italiane a
raggiungere la fine del mese perché i soldi finiscono prima. Di povertà eravamo
abituati a parlare, ma non dell’indigenza di chi ha un reddito, la vera novità
di questi ultimi anni.

FAMIGLIE SENZA CIBO (A CASA NOSTRA)

Nel 2011, durante un incontro sulle nuove
povertà, con alcuni colleghi insegnanti di religione delle scuole superiori di
Torino abbiamo commentato con preoccupazione i dati sul fenomeno rilevati nel
nostro paese. A quel punto abbiamo deciso che dovevamo fare qualcosa. Abbiamo
così iniziato un dialogo con alcuni importanti centri torinesi che si occupano
di assistenza e sostegno dei più deboli: il centro «Due Tuniche» della Caritas
diocesana e l’«Ufficio Pio» della Compagnia di San Paolo. L’incontro ha
confermato i dati rivelando che molte persone si rivolgono ai centri di
assistenza anche per chiedere un aiuto in cibo. È emerso così come siano ormai
migliaia le famiglie che ricevono generi alimentari da parrocchie, enti,
associazioni di volontariato. Per soddisfare le richieste delle famiglie prese
in carico, i vari centri pagano le spese alimentari presso alcuni punti
commerciali. Dato che tra i prodotti più carenti spiccavano quelli freschi come
la frutta e la verdura, attorno a questi generi alimentari abbiamo avviato
l’attività dell’associazione «Terza Settimana».

L’«EMPORIO SOLIDALE»: GRATUITÀ E VOLONTARIATO

«Emporio Solidale» è il nome del primo progetto della notstra
associazione. Nasce a fine 2011 grazie alla Compagnia di San Paolo. Esso si
ispira alla legge n. 155, entrata in vigore nel luglio 2003, che disciplina la «Distribuzione
dei prodotti alimentari a fini di solidarietà sociale». L’iniziativa prevede la
distribuzione gratuita agli indigenti di prodotti alimentari ortofrutticoli.

La frutta e la verdura vengono foite gratuitamente, ogni
settimana, da un importante partner privato, specializzato nell’ortofrutta: la «Ortobra
srl». Con due furgoni ci rechiamo ai mercati generali per caricare patate,
carote, insalate, carciofi, pomodori, broccoli, cime di rapa, kiwi, meloni,
banane e quant’altro a seconda della stagione. I prodotti vengono quindi
scaricati nella sede dell’associazione dove i volontari provvedono a preparare
le cassette, riempiendole a seconda della consistenza numerica della famiglia
aiutata. Infine, le cassette di frutta e verdura vengono portate da altri
volontari al domicilio dei beneficiari. Nel 2012 i nostri volontari hanno
effettuato circa 6.020 consegne, per un quantitativo di circa 70.000 kg di
ortofrutta, a 450 nuclei familiari per un totale di circa 1.660 persone tra cui
più di 400 sono bambini di età inferiore ai 10 anni.

Le persone in stato di temporanea difficoltà
(chi ha perso il lavoro o coloro che sono stati colpiti da un evento spiazzante
come la malattia, la separazione,…) possono accedere alla spesa gratuita di
ortofrutta rivolgendosi direttamente ai centri (Caritas, Ufficio Pio della
Compagnia di san Paolo, Centri di ascolto parrocchiali…) che, attraverso una
piattaforma web, ci comunicano le informazioni necessarie.

Tutto avviene senza uso di denaro e senza commercializzazione dei
prodotti. I costi per lo svolgimento dell’attività sono sostenuti dagli enti
segnalanti. A ciascuna delle persone beneficiarie si assegna una particolare
card elettronica – foita gratuitamente dalla «Qui Foundation» – con la quale
si garantisce la tracciabilità del prodotto dalla nostra sede al beneficiario.

Con l’Emporio Solidale l’associazione Terza Settimana sperimenta
un percorso in cui privati e imprese affrontano insieme problematiche sociali.
E ciò nella convinzione che soltanto una responsabilità sociale condivisa a
ogni livello della società può elaborare risposte efficaci alla crisi, aprendo
nuove prospettive di collaborazione. In questo senso la crisi che stiamo
attraversando può essere vista come un’opportunità.

IL «SOCIAL MARKET»

La legge finanziaria del 2008 (all’art.1 c. 266-268) riconosce ai
cittadini la possibilità di creare dei «gruppi di acquisto solidali». Si tratta
di soggetti associativi senza scopo di lucro costituiti al fine di svolgere
attività di acquisto collettivo di beni e distribuzione dei medesimi – senza
applicazione di alcun ricarico -, esclusivamente agli aderenti, con finalità
etiche, di solidarietà sociale e di sostenibilità ambientale, in diretta
attuazione degli scopi istituzionali e con esclusione di attività di
somministrazione e di vendita.

Partendo da questa base normativa, nell’ambito
degli interventi messi in atto per arginare la povertà, a inizio 2013 abbiamo
aggiunto all’«Emporio Solidale» il progetto di un «Social Market», un gruppo di
acquisto collettivo denominato Rap, «Rete di acquisto partecipato».

Il Social Market è un esempio di quella che tecnicamente
viene chiamata Big society, che tradotto in slogan diventa «meno Stato, più
società» ovvero «fare di più con meno risorse e rendere i cittadini più
corresponsabili». Un supermercato solidale «fatto dalla gente per la gente».

La Rete di acquisto partecipato compera i prodotti attraverso
Terza Settimana presso le piattaforme da cui si rifoiscono i supermercati o,
quando possibile, direttamente dai produttori.

In questo modo abbiamo valutato che si può già ottenere un risparmio
medio complessivo del 20-30% rispetto ai prodotti venduti presso i supermercati
(dato ricavato dalla media dei prezzi di un paniere fisso confrontato con i
rivenditori più economici presenti sul mercato).

La filosofia del progetto dedica anche particolare
attenzione all’elaborazione di una forma di reciprocità proposta ai beneficiari
che, se lo vorranno, potranno «restituire» in termini di ore-volontariato da
effettuare nel supermarket o all’Emporio Solidale con un impegno di 4 ore al
mese. Naturalmente l’applicazione di questo principio avverrà qualora
disponibilità e condizioni dei beneficiari lo permettano.

Con il Social Market continua l’impegno di Terza Settimana per
camminare accanto alle persone che si trovano in difficoltà, sostenendole nella
loro situazione di riduzione del reddito con proposte che permettano loro di
non sentirsi escluse, anche se colpite dalla «trasformazione economica».
Insomma, il salto tra un reddito pieno e una sua diminuzione non deve essere
motivo di emarginazione sociale e disperazione.

LA CARICA DEI VOLONTARI

Il lavoro dell’associazione è reso possibile grazie a un folto
gruppo di volontari che fanno funzionare i due centri di Borgo San Paolo: 40
adulti e 120 ragazzi e ragazze delle scuole medie superiori nel 2012 hanno
svolto 4.800 ore di volontariato.

L’iniziativa ha raccolto intorno a sé un significativo numero di
persone che si sono presentate per offrire il proprio contributo.

Siamo poi rimasti favorevolmente stupiti dalla risposta ricevuta
dagli studenti delle scuole medie superiori. Tanti ragazzi e ragazze si
alternano – sono una ventina a settimana – per dare braccia e gambe al cuore:
preparano, caricano e scaricano, consegnano le derrate alimentari. Tutto con la
semplicità e l’allegria che li contraddistingue. Constatano direttamente i
frutti del proprio operato e questo li rende ancora più motivati.

Racconta Carlotta: «Quando prepariamo le cassette di frutta e
verdura per le famiglie, controlliamo quello che arriva selezionando un
prodotto da distribuire che sia il più possibile integro. Lo scarto che prima
gettavamo nei cassonetti della differenziata adesso lo appoggiamo all’esterno
del negozio e mi stringe il cuore quando si forma un silenzioso e costante
avvicinamento di persone che raccolgono quello che noi scartiamo».

Ed Eduardo: «Un venerdì pomeriggio ci fermiamo da una famiglia per
la consueta foitura di frutta e verdura. Una signora sola con quattri figli.
La signora ha cercato di mostrarsi non bisognosa di aiuti dicendo che se
avevamo qualcun altro a cui dare quei prodotti avremmo potuto farlo. La figlia
più grande da dietro le spalle della madre ci implorava a segni di non
ascoltarla perché ne avevano invece un’estrema necessità. Ho capito come sia
difficile accettare questa nuova condizione».

Tra gli studenti alcuni arrivano a causa di un provvedimento di
sospensione dalla scuola per motivi disciplinari. Arrivano spesso «imbronciati»,
forse per timore di vedersi giudicati, ma quando si accorgono di essere
considerati esattamente come ogni altro volontario sparisce la diffidenza e
inizia per loro la giornata di riscatto. Scoprendo qualcosa che non si
aspettavano.

Bruno
Ferragatta
docente di religione
presso il Liceo scienze umane Regina Margherita, a Torino. Nel 2011 è stato tra
i fondatori dell’associazione «Terza Settimana».

 
I dati del fenomeno

LA POVERTÀ
ARRIVA SENZA BUSSARE

In Italia, la povertà si sta
diffondendo a macchia d’olio. Pare incredibile, ma oggi milioni di persone
chiedono un pacco alimentare o un pasto gratuito.

Negli ultimi 3 anni, in tutti
i paesi ricchi le persone che non hanno disponibilità di cibo sufficiente per
alimentarsi correttamente sono aumentate del 7 per cento. Gli italiani poveri
che hanno chiesto un pacco alimentare o un pasto gratuito ai canali no profit
hanno toccato quota 3,3 milioni. È quanto emerge dai dati Agea, presentati in
occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione (16 ottobre), che
evidenziano una situazione allarmante anche sul territorio nazionale dove gli
effetti della crescente disoccupazione e delle difficoltà economiche si sta
facendo sentire anche a tavola.

La spesa alimentare è
diventata il problema principale che quotidianamente debbono affrontare le
famiglie povere in Italia. La stragrande maggioranza dei poveri (circa il 69
per cento) ha infatti modificato la quantità e/o qualità dei prodotti
alimentari acquistati.

Anche l’Istat, nel suo ultimo
rapporto sulla povertà in Italia, rafforza questo allarme parlando di 8 milioni
di poveri. Nel 2011 (ultimo anno con statistiche ufficiali), l’11,1% delle
famiglie è stato relativamente povero e il 5,2% lo è stato in termini assoluti.
La soglia di povertà relativa per una famiglia di due componenti è pari a
1.011,03 euro. La povertà colpisce quasi un quarto delle famiglie al Sud con un
tasso di povertà relativa pari al 23,3% di cui l’8% è povero tra i poveri.

La sostanziale stabilità della
povertà relativa rispetto al 2010 deriva dalla compensazione del peggioramento
della povertà per le famiglie in cui non vi sono redditi da lavoro o vi sono
operai – spiega l’Istat – con la diminuzione della povertà tra le famiglie di
dirigenti o impiegati.

In particolare, l’incidenza
della povertà relativa aumenta dal 40,2% al 50,7% per le famiglie senza
occupati né ritirati dal lavoro e dall’8,3% al 9,6% per le famiglie con tutti i
componenti ritirati dal lavoro, essenzialmente anziani soli e in coppia. Tra
quest’ultime aumenta anche l’incidenza di povertà assoluta (dal 4,5% al 5,5%).

Decine di migliaia di utenti
ogni anno popolano i servizi pubblici e privati per chiedere un aiuto
economico. Purtroppo dal 2008 il trend di crescita ha registrato un incremento
del 25% annuo.

Continua a crescere la quota
di famiglie che «si sentono indifese nel far fronte a spese impreviste» (dal
32,0% del 2008 al 33,4% nel 2009), con tassi di crescita omogenei, anche se su
grandezze differenziate sul territorio nazionale.

Sintomo di un permanente e
accentuato senso di vulnerabilità e di fragilità della propria posizione
sociale. Crescono anche – concentrate al Nord e al Centro – le famiglie rimaste
indietro con il pagamento dei debiti diversi dal mutuo (dal 10,5% al 13,6%) e
le famiglie del Centro e soprattutto del Nord (dove si registra in assoluto la
crescita più forte di questo tipo di disagio, dal 4,4% al 5,3%) che dichiarano
di non avere avuto sufficienti «soldi per acquistare cibo», sintomo
estremamente preoccupante dell’irrompere della crisi, nei suoi aspetti più
severi come l’impatto sul regime alimentare, in aree tradizionalmente «forti»
dal punto di vista economico. Al Sud d’Italia l’impatto della crisi è stato
meno evidentemente percepibile e anzi, grazie al raffreddamento dei prezzi,
l’incidenza presenta una flessione. Non va però dimenticato che, nelle regioni
meridionali, questo tipo di disagio ha assunto da tempo carattere endemico.

Bruno Ferragatta
 
Entrarenel Social Market

Le persone che vogliono far
parte del Rap nel «Social Market» debbono avere alcuni requisiti di fondo:

• assenza di reddito o
drastica diminuzione di reddito o reddito incapiente;
• essere segnalati da un Ente
convenzionato.

L’Ente inviante durante l’operazione
di filtro dovrà stabilire quale può essere la quota di partecipazione del
beneficiario.

 
Associazione «Terza Settimana»

Anno fondazione: 31 marzo
2011.
Sedi: due, in Borgo San Paolo,
a Torino.
Telefono: 011.7650229.
Sito web: www.terzasettimana.org.
Soci: Giovanni Biano
(presidente), Mario Panza (responsabile cornordinamento giovani), Gian Mario
Ruggeri, Meck N’Dongala (riferimento organizzativo progetto Rap); Bruno
Ferragatta.
Partners principali: Ortobra
srl, Compagnia di San Paolo, Qui Foundation, Azienda territoriale casa di
Torino.
Collaborazioni: associazione «Amici
Missioni Consolata» (ogni mese effettua una raccolta alimentare che va a
incrementare le disponibilità; la prof. Silvia Perotti, ex presidente
dell’associazione, partecipa anche in veste di volontaria); Scuola media Meucci
di Torino; Istituto superiore Norberto Bobbio di Carignano; Forum del
Volontariato (garante con le scuole per gli aspetti assicurativi riservati agli
studenti); Sportello Scuola Volontariato; Idea Solidale; Cooperativa Di
Vittorio.

Bruno Ferragatta




Celle senza finestre

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 09
Il tema della libertà religiosa è al centro delle preoccupazioni
della Chiesa. Lo ha ribadito mons. Mamberti, segretario vaticano per i Rapporti
con gli Stati, alla XXII Sessione del Consiglio dei Diritti dell’Uomo delle
Nazioni Unite. E intanto in diverse zone del mondo le violazioni di questo
diritto fondamentale proseguono con medesima se non aumentata forza, come
testimoniano le situazioni di alcuni paesi asiatici tra cui India, Pakistan,
Vietnam e Cina.



La situazione della libertà religiosa nel mondo è un fenomeno da
monitorare costantemente. Il quadro descritto dagli ultimi rapporti delle
organizzazioni che si dedicano allo studio delle violazioni delle libertà dei
credenti in tutto il pianeta è a tratti sconfortante, anche se non mancano
segnali di speranza.

È passato inosservato, in questo tempo eccezionale di cambiamenti
pontifici, un intervento della diplomazia della Santa Sede in seno alle Nazioni
Unite. «La Santa Sede continuerà a dare il suo contributo ai dibattiti in sede
internazionale, per proporre una riflessione essenzialmente etica ai processi
decisionali, e per aiutare a tutelare la dignità della persona umana». È quanto
affermato a Ginevra da monsignor Dominique Mamberti, segretario vaticano per i
Rapporti con gli Stati, alla XXII Sessione del Consiglio dei Diritti dell’Uomo
delle Nazioni Unite. Mamberti ha citato le parole della Caritas in veritate
(n. 43) di Benedetto XVI riguardo ai diritti individuali: «Si è spesso notata
una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla
trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di
acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe
regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli»,
e ha esortato gli Stati a lavorare insieme, in uno spirito di dialogo e
apertura, per adottare le risoluzioni in modo consensuale, auspicando che «l’imposizione
di nuovi diritti e principi [venga] rimpiazzata dal rispetto e dal
rafforzamento di quelli già approvati». Tra le preoccupazioni della Santa Sede
al primo posto si colloca il destino delle minoranze religiose e in generale la
libertà di credo. «Il diritto internazionale – ha detto Mamberti – è piuttosto
sostanzioso a questo riguardo. Allora perché continua a essere uno dei diritti
più frequentemente e più diffusamente negati, limitati nel mondo?». Tra le
cause delle violazioni Mamberti elenca «una legislazione statale carente, la
mancanza di volontà politica, il pregiudizio culturale, l’odio e l’intolleranza»,
e infine sostiene che la chiave fondamentale per promuovere la libertà di
religione è riconoscerla come radicata nella dimensione trascendente della
dignità umana: la libertà di religione promuove l’idea di una libertà che non
si riduce all’esclusiva dimensione politica o civile, ma si pone al di là di
essa, in quanto mette un limite allo stesso stato e costituisce una protezione
della coscienza dell’individuo dal potere statale. «Quando uno stato la tutela
in modo adeguato, la libertà di religione diventa una delle fonti della sua
legittimità, e un indicatore primario di democrazia».

Pakistan: leggi blasfeme

Pakistan, India e Cina, ma anche paesi meno rappresentati sui
media inteazionali come Birmania, Myanmar, Vietnam e Cambogia, presentano
limitazioni molto pesanti alla libertà di religione.

Alessandro Speciale di vaticaninsider.lastampa.it ci
informa che «in India, continuano a crescere le leggi anticonversione, con una
lunghissima lista di attacchi alle minoranze, spesso perpetrati da gruppi
appartenenti al movimento nazionalista indù del Sangh Parivar», mentre
leggendo il rapporto 2012 di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) constata che «per
il Pakistan, il 2011 è stato un “anno terribile”, cominciato con l’omicidio a
gennaio del governatore del Punjab, Salman Taseer, proseguito il 2 marzo con
l’uccisione del ministro federale per le Minoranze, il cattolico Shahbaz
Bhatti, e passato per l’incriminazione di 160 persone in base alla famigerata
legge antiblasfemia, con casi antichi come quello di Asia Bibi […], e nuovi
come quello di Rimsha Masih che sono saliti tristemente all’onore delle
cronache mondiali».

«Prega il Signore e scrivi al presidente del Pakistan per
chiedergli che mi faccia ritornare dai miei familiari»: Asia Bibi, detenuta da
oltre mille giorni nel carcere pakistano di Sheikhupura perché cristiana, ha
scritto una lunga lettera dalla sua cella «senza finestre». Pubblicata
integralmente da «Avvenire» nel dicembre scorso, essa ha dato il via a una
campagna di raccolta firme per chiedere al presidente del Pakistan, Asif Ali
Zardari, la liberazione della donna. «Un appello – ci informa Ilaria Sesana di “Avvenire”
– cui, in queste settimane, hanno aderito più di 30mila persone. Un risultato
straordinario – prosegue Ilaria Sesana -, che ha visto coinvolti uomini e donne
di ogni età e di ogni ceto sociale. Dal Nord al Sud dell’Italia (e persino
dall’estero) sono arrivati migliaia e migliaia di messaggi per chiedere al
presidente Zardari di intervenire in favore di Asia Bibi […]. Intere famiglie
si sono mobilitate per questa iniziativa, con raccolte di firme tra amici,
familiari, nelle scuole e sul luogo di lavoro. Un grande contributo è stato
dato da decine di parroci che, oltre a impegnarsi nella raccolta di firme al
termine delle funzioni religiose, hanno portato avanti un’attenta opera di
sensibilizzazione tra i fedeli».

VIETNAM: CONTRO LE «CHIESE IN CASA»

Raccogliendo testimonianze tra la folla di piazza San Pietro il
giorno prima delle dimissioni di papa Ratzinger Asianews ha riportato le
parole di alcuni sacerdoti asiatici, tra cui quelle di p. Giuseppe, originario
di Hue, nel Vietnam centrale: «”La Chiesa del Vietnam ha bisogno di
testimonianze di vita e di fede” e Benedetto XVI è stato “un modello
e una guida” in una nazione governata da un “regime comunista che
ancora oggi limita la libertà religiosa”. È questo il primo pensiero di un
sacerdote vietnamita, confuso fra la folla che gremisce piazza San Pietro in
attesa di salutare per l’ultima volta il suo “amato Papa” che da
domani lascerà il soglio pontificio. […] “Nella nostra società –
aggiunge il sacerdote – la fede non è ancora così radicata e sviluppata, per
questo è importante promuoverla e diffonderla con l’opera di annuncio”. Il
sacerdote ricorda inoltre il notevole contributo fornito dal papa per la
ripresa dei rapporti diplomatici fra Santa Sede e Hanoi, ma resta ancora molto
da fare e “guardiamo al futuro speranzosi, mettendoci nelle mani di
Dio”».

Da un focus di Porte Aperte sul paese indocinese apprendiamo che «dal
gennaio 2013 il Vietnam ha aggiornato la propria legislazione in materia di
libertà religiosa attraverso il Decreto sulla Religione ND-92 lanciando un
messaggio molto chiaro: lo Stato ha intenzione di controllare da vicino la
diffusione della religione, in particolare del cristianesimo. Questo decreto di
fatto completa quello emesso nel 2005 e – sostiene Porte Aperte – […] se
applicato interamente […] potrebbe criminalizzare il movimento di comunità
cristiane familiari (o chiese in casa, house church), una rete di chiese
che esiste da oltre 25 anni. Anche se venisse applicato irregolarmente comunque
potrebbe rappresentare una minaccia per l’esistenza di questa importante rete
di cristiani vietnamiti». Inoltre «il decreto giustifica la pesante burocrazia
relativa alle pratiche religiose, che di fatto dimostra di considerare la
religione come una minaccia alla sicurezza nazionale e culturale».

Cina: il bastone e la carota

«ChinaAid, una grande organizzazione statunitense di
sostegno ai cristiani perseguitati – ci informa Marco Tosatti di vaticaninsider.lastampa.it
-, ha reso noto [di recente] il suo rapporto annuale sulla situazione della
libertà religiosa nelle terre governate da Pechino. E la conclusione è che la
situazione si sta deteriorando per il settimo anno di seguito. Il rapporto [sul
2012] si basa su 132 casi di persecuzione, cha hanno coinvolto 4.919 persone.
Il numero degli individui giudicati in tribunale è cresciuto del 125 per cento,
rispetto all’anno precedente; e il “tasso” di persecuzione, secondo quanto
sostengono a ChinaAid è cresciuto del 41.9 per cento se paragonato al
2011. Come è ormai triste tradizione, sono soprattutto le “chiese domestiche”,
meno controllabili, a essere nel mirino delle autorità cinesi. Ma c’è anche un
fattore congiunturale, che ha reso più dura la situazione, e cioè una volontà
precisa da parte del governo e del Partito».

«ChinaAid – prosegue Marco Tosatti – prende in esame sei
elementi: il totale delle cifre sulla persecuzione, il numero delle persone
colpite, il numero degli arrestati, il numero dei condannati, il numero dei
casi di violazioni dei diritti e il numero delle vittime di questi abusi.
Rispetto al 2011, il totale delle cifre relative alle sei categorie è cresciuto
del 13.1 per cento. E se si considerano i sette anni precedenti, si osserva che
il trend di peggioramento persiste, sulla base di un incremento annuale del
24.5 per cento per tutte e sei le categorie considerate. Secondo gli analisti
di ChinaAid, la persecuzione del 2012 non è stata solo una prosecuzione
della pratica, presente nel 2008 e nel 2009 di “prendere a bersaglio le chiese
domestiche e i loro leaders nelle aree urbane”, o di quella del 2010 di “attaccare
i gruppi di legali difensori dei diritti umani cristiani, e di usare
maltrattamenti, tortura e tattiche mafiose”, e neanche della strategia del 2011
di aumentare di intensità gli attacchi contro i cristiani e le chiese
domestiche che hanno un impatto sulla società. C’è stato un cambiamento di
strategia, e la sua ragione può essere trovata in un documento emanato dai
Ministeri della Sicurezza Pubblica e degli Affari Civili, che affrontava il
tema del completo sradicamento delle Chiese domestiche. Il documento, curato
dall’amministrazione statale per gli Affari Religiosi, indica grosso modo tre
fasi dell’operazione. La prima, dal gennaio al giugno del 2012, prevedeva
intense, complete e segrete indagini sulle chiese domestiche, in tutto il
paese, e la creazione di archivi su di esse. La seconda fase dovrebbe durare
dai due ai tre anni, e basarsi sull’eliminazione graduale delle Chiese
domestiche che sono state schedate, per giungere, in un periodo decennale, alla
completa cancellazione del fenomeno. E in effetti a questo scopo sono stati
usati vari sistemi di bastone e carota; chiusura delle chiese, invio nei campi
di lavoro dei leaders, e nello stesso tempo tentativo di convincerli a
entrare nel sistema di chiese controllato dallo Stato e dal Partito».

«Il rapporto – conclude Tosatti – si chiude però su toni
lievemente ottimistici. Il 18mo Congresso nazionale avrebbe chiuso un’epoca di
ideologia di estrema sinistra. “ChinaAid è prudentemente ottimista,
scrive il Rapporto, perché a dispetto della crescente persecuzione e dei
cambiamenti politici del 2012, la Chiesa rimane ferma, e fiorente come i cedri
del Libano e gli alberi piantati vicini alle correnti, che al tempo stabilito
danno frutti abbondanti”».

Non a caso uno degli ultimi appelli di Benedetto XVI prima della
sua rinuncia è stato in favore della Chiesa cattolica in Cina: «Raccomando alle
preghiere vostre e dei cattolici di tutto il mondo la Chiesa in Cina, che come
sapete, sta vivendo momenti particolarmente difficili».

Luca Rolandi
Gioalista di Vatican Insider

Luca Rolandi




Nella rete col Vangelo

XLVII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali
I nuovi media e i social networks modificano la vita quotidiana
dei singoli e del mondo intero, spesso entusiasmando, spesso intimorendo. Come
ogni realtà «rivoluzionaria» essi presentano molti rischi e grandi opportunità.
Soprattutto su queste ultime si sofferma il messaggio del papa per la giornata
mondiale delle comunicazioni sociali 2013 partendo da una considerazione
fondamentale: «Le reti sociali sono […] alimentate da aspirazioni radicate
nel cuore dell’uomo».

Se mai ci fosse qualche dubbio sull’importanza crescente che i
cosiddetti «nuovi media» hanno nella nostra vita, basterebbero due fatti per
eliminarlo. La sera dell’elezione del nuovo papa Francesco, il cardinale
protodiacono fa precedere la benedizione urbis et orbis dalla formula
con la quale è concessa l’indulgenza plenaria dicendo: «A quanti ricevono la
sua benedizione a mezzo della radio, della televisione e delle nuove tecnologie
di comunicazione…». Il secondo fatto, tratto da quella stessa sera, è piazza
San Pietro che diventa una distesa di punti luminosi per le fotografie scattate
a milioni con macchine digitali, tablet e smartphone: una scena
impensabile otto anni fa, all’elezione di papa Benedetto XVI. Otto anni
soltanto, che sembrano secoli.

Se la tecnologia avanza a passi da gigante, da sempre la Chiesa è
attenta alle sue ricadute sulla comunicazione, perché il Vangelo va comunicato
a uomini di ogni epoca e cultura.

Benedetto XVI e internet

Lo stesso Benedetto XVI, nel messaggio intitolato «Reti sociali:
porte di verità e di fede; nuovi spazi di evangelizzazione», reso noto lo
scorso 24 gennaio per la 47ª Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali, in
programma il 12 maggio, si soffermava sullo «sviluppo delle reti sociali
digitali che stanno contribuendo a far emergere una nuova “agorà”, una piazza
pubblica e aperta in cui le persone condividono idee, informazioni, opinioni, e
dove, inoltre, possono prendere vita nuove relazioni e forme di comunità». E
osservava: «Lo sviluppo delle reti sociali richiede impegno: le persone sono coinvolte
nel costruire relazioni e trovare amicizia, nel cercare risposte alle loro
domande, nel divertirsi, ma anche nell’essere stimolati intellettualmente e nel
condividere competenze e conoscenze. I network diventano così, sempre di più,
parte del tessuto stesso della società in quanto uniscono le persone sulla base
di questi bisogni fondamentali. Le reti sociali sono dunque alimentate da
aspirazioni radicate nel cuore dell’uomo».

L’ambiente digitale è ormai «parte della realtà quotidiana di
molte persone, specialmente dei più giovani. I network sociali sono il
frutto dell’interazione umana, ma essi, a loro volta, danno forme nuove alle
dinamiche della comunicazione che crea rapporti: una comprensione attenta di
questo ambiente è dunque il prerequisito per una significativa presenza
all’interno di esso. La capacità di utilizzare i nuovi linguaggi è richiesta
non tanto per essere al passo coi tempi, ma proprio per permettere all’infinita
ricchezza del Vangelo di trovare forme di espressione che siano in grado di
raggiungere le menti e i cuori di tutti. […] Una comunicazione efficace, come
le parabole di Gesù, richiede il coinvolgimento dell’immaginazione e della
sensibilità affettiva di coloro che vogliamo invitare a un incontro col mistero
dell’amore di Dio». Per questo, papa Ratzinger concludeva: «Quando siamo
presenti agli altri […] siamo chiamati a far conoscere l’amore di Dio sino
agli estremi confini della terra», anche e sempre di più, quindi, nel mondo di
Inteet.

Un nuovo assetto di uomo

Non a caso, lo scorso gennaio, mons. Cesare Nosiglia, Arcivescovo
di Torino, incontrando i giornalisti in occasione della festa di San Francesco
di Sales, loro patrono, ha ricordato che «anche i media entrano ormai
prepotentemente nella questione antropologica e dunque in quel nuovo assetto di
uomo che si sta delineando mediante la scienza e la cultura».

Chiunque accede ai social networks può aumentare le sue
conoscenze e migliorare la sua posizione all’interno di un gruppo (ci asteniamo
dal considerare qui la possibilità che qualcuno si presenti non per quello che è,
ma secondo quello che vorrebbe essere). Così, da un lato, queste tecnologie
rivoluzionano la comunicazione e la vita in tutti i settori, rendendo
possibili, ad esempio, lo scambio di informazioni e cultura, l’acquisto di
beni, o addirittura interventi chirurgici a migliaia di km di distanza. Ai
giovani, in particolare, i nuovi media consentono di «frequentare» corsi di
lingue, di fotografia e altro, di condividere gratuitamente la loro passione e
le loro competenze con altri «utenti», di scoprire (in mezzo a tanta «spazzatura»)
nuovi talenti musicali, artistici, culturali… Al punto che, soprattutto per
loro, i social networks sono non uno strumento, ma un’estensione delle
loro relazioni, «territori» sempre presenti, quasi una quarta dimensione della
vita. Dall’altro lato, questi media fanno nascere problemi sociali in milioni
di persone, ancora una volta soprattutto giovani, perché ne modificano la vita
e quindi la personalità. In un numero crescente di ragazzi la «dipendenza» dai social
networks
è paragonabile a quella creata dalla droga: quando non possono
collegarsi alla «rete», hanno «crisi di astinenza». I giovani (e non solo) si
imbevono, credono a quanto conoscono sui social networks, e le fonti non
sempre sono nitide. Occorre così aiutarli a disceere e abituarli a relazioni
personali reali: qualcuno fa persino l’amore in webcam.

Nello stesso tempo, la diffusione di commenti, notizie e
fotografie personali, talora all’insaputa del diretto interessato, porta anche
a epiloghi drammatici. Paradigmatico della fragilità e del cinismo spietato che
talvolta caratterizzano il vivere di tanti giovani è stato, alcuni mesi fa, il
caso di Amanda Todd, un’adolescente di Vancouver, Canada: un amico più grande di
lei la convince a inviargli una sua foto a seno nudo. Lei, all’epoca dodicenne,
non sa opporsi. Salvo accorgersi, tempo dopo, che la sua foto osé è diventata
di dominio pubblico: agli immancabili insulti si aggiungono perfidi consigli.
Alla fine lei, quindicenne, dà addio alla sua esistenza. La sua morte crea
un’ondata di moralismo ipocrita: si accusano la famiglia, la scuola, i
compagni, ma alla fine tutti ne escono (auto)giustificati.

Più chat meno
sentimento

Già nel «lontano» 1995, lo psicologo americano Daniel Goleman
parlava di «analfabetismo emotivo», intendendo con questa espressione da un
lato la mancanza di consapevolezza delle proprie emozioni e dei comportamenti a
esse associati, dall’altro l’incapacità a relazionarsi con le emozioni altrui e
con i relativi comportamenti, non riconosciuti e compresi. L’uso crescente dei
nuovi media favorisce la diffusione di relazioni mediate, e quindi la difficoltà
a riconoscere e capire le emozioni proprie e dell’altro. In ogni caso, «svelarsi»
in un social network non può appagare il desiderio di una relazione
personale «reale». Lo conferma Chiara Micheletti, psicologa e psicoterapeuta
del Centro di Sessuologia medica dell’Ospedale San Raffaele-Resnati di Milano: «Il
rapporto prolungato con lo schermo e la tastiera, le risposte telegrafiche,
superficiali, spesso schematiche e prive di contenuti, sono di ostacolo alla
riflessione e all’espressione delle proprie emozioni. La fretta della
comunicazione via chat toglie tempo al sentimento. È la solitudine,
l’insicurezza, la paura che inducono i ragazzi a preferire questo genere di
comunicazione “virtuale”. “Socializzare” via chat è molto più asettico e
meno impegnativo che incontrare [fisicamente] una persona, guardarla negli
occhi, relazionarsi con lei. E poi si può tranquillamente “bleffare” sulla
propria identità, inventarsi uno status sociale, far credere di essere diversi
da ciò che si è, per sentirsi grandi, affermati e gratificati».

L’americano Andy Braner, esperto di adolescenti, ritiene che
nonostante Facebook, Twitter, ecc., sostengano di rendere le
persone più unite, «se si chiede a un ragazzo chi veramente potrà essere vicino
a lui nei momenti difficili della sua vita, faticherà a dire il nome di
qualcuno».

Vita accessibile e
archiviabile

Come ha scritto Chiara Giaccardi su «Avvenire» (6.2.2013), «certamente
i giovani hanno poca consapevolezza degli effetti di ciò che scrivono, postano,
pubblicano in rete e di come queste informazioni siano accessibili,
archiviabili, conservabili e utilizzabili a scopi diversi. Aumentare il grado
di consapevolezza è opportuno e doveroso. Ma i rischi più gravi non sono tanto
quelli più comunemente paventati (l’abboccamento a scopo sessuale da parte di
singoli malintenzionati), quanto la raccolta di dati che possono essere
aggregati, rielaborati e venduti per la produzione di comunicazioni
pubblicitarie mirate e subdole o per forme di controllo sociale o censura
politica. La rete è un gigantesco sistema di produzione di dati, a cui ciascuno
di noi collabora spontaneamente, e quello dei “Big data” è uno dei temi più
caldi, e più interessanti per il business e la politica del futuro. Il
lupo cattivo è tanto più pericoloso perché indossa giacca e cravatta, e non è
interessato alla singola Cappuccetto Rosso».

Rischi, ma anche opportunità

Se i social networks presentano rischi per i giovani e per
gli adulti meno esperti, non bisogna demonizzarli. Un esempio. Padre Antonio
Spadaro, direttore de «La Civiltà Cattolica», studioso ed esperto della
comunicazione digitale, ha osservato che «le parole, i gesti e il magistero di
Ratzinger sono stati presenti nella vita dei fedeli in parte anche perché sono
stati condivisi – e non solo trasmessi – attraverso i media digitali. La sua
figura era già argomento della discussione sociale nei media digitali.
L’apertura di un suo profilo su Twitter ha poi dato forma a una sua
presenza diretta nella conversazione». E mons. Paul Tighe, segretario del
Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, ha osservato che «i nuovi
mezzi ci consentono di mantenere rapporti che, in altri tempi, non sarebbe
stato possibile mantenere. E questa è una benedizione. Ci permettono anche di
essere molto più informati sulle cose che accadono nel mondo, e questa è una
potenzialità importante. Nel suo messaggio per la Giornata mondiale delle
comunicazioni di quest’anno, papa Ratzinger ha parlato in termini molto
positivi della potenzialità dei mezzi per creare comunità e per aiutare i
giovani a mantenere e sviluppare amicizie. Mi sembra importante non dimenticare
questo aspetto, che è facile dare per scontato… Ma il papa ha anche detto loro
quanto sia importante non trascurare i loro valori personali, tra cui la fede.
Ha detto che questi mezzi possono essere usati per condividere la fede e altro,
sempre rapportandosi con rispetto alle persone con cui si sta dialogando».

Livio Demarie
Sacerdote salesiano, direttore dell’ufficio
per le comunicazioni sociali della diocesi di Torino.
 
CYBERTEOLOGIA
 

La
«Cyberteologia» è «l’intelligenza della fede al tempo della rete», il tentativo
di capire non tanto come usare bene la rete – anche col fine
dell’evangelizzazione -, quanto come vivere bene il nostro tempo impregnato
della «vita digitale».

È
un libro positivo quello di Antonio Spadaro, gesuita che, tra le altre cose, è
autore del blog cyberteologia.it, direttore de «La Civiltà Cattolica», docente
universitario e consulente dei Pontifici Consigli della Cultura e delle
Comunicazioni Sociali. Avviando la sua riflessione dalla constatazione che le
tecnologie digitali sono divenute presenti nella vita quotidiana di molti tanto
da essere oramai parte integrante, non separata, dell’ambiente di vita, Spadaro
sostiene che esse stiano cambiando il nostro modo di pensare, di conoscere la realtà,
di vivere le relazioni, e quindi anche di vivere la fede.

L’autore
illustra con la sua scrittura limpida e scorrevole come si possano trovare
punti di contatto fecondi tra la rete e la fede. La rete offre alla fede degli
spunti inediti per comprendere in modo più profondo Dio. Ad esempio illuminando
il tema del perdono che in un’epoca in cui tutto ciò che viene pubblicato su
Inteet non può essere cancellato, deve prescindere dall’oblio del male
commesso, e quindi porre l’accento sulla gratuità dell’amore che non dipende da
comportamenti giusti o sbagliati. Allo stesso tempo la fede può offrire
all’uomo in rete nuovi strumenti per dare senso alla sua vita, per camminare
verso Dio, anche nell’ambiente digitale.

È
contagiosa la speranza con cui padre Antonio Spadaro parla dei profondi
mutamenti dei nostri tempi. Non ignora i rischi, ma decide, come ha fatto il
papa nel suo messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni, di dare
ragione della speranza che Dio è presente e liberatore in ogni ambito della
vita dell’umanità, anche quando essa si sviluppa e spende nell’ambiente delle
nuove tecnologie digitali.

Luca
Lorusso

Livio Demarie




Bolivia 2: «Non c’è razzismo, soltanto diversità»

Intervista a Mons.
Julio María Elías Montoya.
Nelle
pianure amazzoniche del Beni, gli indigeni costituiscono una minoranza. Forse
anche per questo i candidati dell’opposizione prevalgono sempre nelle elezioni
per il governatore del dipartimento. Di
questo e altro ancora abbiamo parlato con il vicario apostolico della regione,
mons. Montoya.

Trinidad. La cattedrale sorge davanti alla piazza Generale José
Ballivian, cuore della città. La piccola facciata ha un grande rosone ed è
racchiusa ai lati da due solidi campanili a base quadrata. Gli uffici del vicariato
sono proprio a fianco, ospitati in una casa di cui s’intuisce l’antica ma
perduta bellezza. Il vicariato apostolico del Beni, creato nel 1917 da papa
Benedetto XV, include 6 delle 8 province che formano il dipartimento
amazzonico. Il vescovo si chiama Julio María Elías Montoya, francescano
spagnolo. Sacerdote dal 1968, l’anno seguente arriva in Bolivia. Nel 1974,
viene spostato dal Lago Titicaca a Trinidad. Nel 1987 è
promosso a vescovo. Mons. Montoya ha 67 anni, ma in testa ha meno capelli
bianchi del giornalista. Glielo facciamo notare e lui – divertito – ribatte con
una battuta: «Quando entrai nel noviziato, il superiore mi disse: “Vieni per
ricevere la prima comunione?”».

Monsignor Montoya, in Bolivia circa il 60 per cento della popolazione è
indigena e sono riconosciute almeno 36 differenti etnie. Com’è la situazione
nel Beni?

«Il vicariato
di cui sono responsabile ha una grande estensione territoriale ma una densità
abitativa molto bassa. Premesso questo, la maggioranza della sua popolazione è
composta da mestizos. I popoli indigeni sono una minoranza che penso non
raggiunga il 30 per cento del totale. Ci sono parecchie comunità, ma tutte
molto piccole. L’etnia più numerosa è quella dei moxeños, chiamati moxos ai tempi delle riduzioni gesuitiche».

A proposito di indigeni, nel confinante dipartimento di Santa Cruz, le
ex «riduzioni» dei gesuiti, sviluppatesi tra i chiquitos, sono molto conosciute, anche a livello turistico. Qui
cosa ha lasciato la storia delle missioni?

«Avrete
certamente notato che nel Beni tutte le cittadine hanno nomi di santi. La
ragione è che nel secolo XVII arrivarono qui i missionari gesuiti. Quasi tutti
i centri abitati sono nati dalle famose riduzioni. La prima missione gesuitica
fu fondata nel 1682 con il nome di Nuestra Señora de Loreto. Nel 1696 nacque
Trinidad e di seguito tutte le altre cittadine. Dopo la espulsione dei gesuiti
(nell’anno 1767), gli indigeni furono dispersi, ma sono loro ad aver preservato
le tradizioni cattoliche. Basti pensare alle celebrazioni durante le feste
religiose (Natale, settimana santa o feste patronali), celebrazioni attese da
tutti gli abitanti».

Raggiungere Trinidad e il Beni non è facilissimo, soprattutto nella
stagione delle piogge. Come giudica la situazione di questo dipartimento?

«Il
Beni è un po’ isolato rispetto a La Paz, Santa Cruz e Cochabamba, le principali
città del paese. Tuttavia, vivendo a Trinidad dal lontano 1974, posso dire di
aver visto progressi, anche se le difficoltà non mancano. Qui non ci sono
industrie. La nostra sola ricchezza è stata – almeno fino ad oggi –
l’allevamento di tipo estensivo».

A parte le condizioni del Beni, a suo giudizio, quali sono i principali
problemi della Bolivia?

«Al
primo posto c’è certamente la povertà. Mi spiego meglio: nella Bolivia di oggi
non manca da mangiare, ma si tratta sempre di un’economia di sussistenza. E poi
siamo carenti in tema di salute e educazione. Se ci si ammala, non è facile
curarsi. Allo stesso tempo manca anche un adeguato sistema educativo».

Nel 2014 ci saranno le elezioni presidenziali. Quando Evo Morales venne
eletto per la prima volta, nel dicembre 2004, c’erano molte aspettative.
Viaggiando per le pianure orientali abbiamo notato molta ostilità nei confronti
del presidente. Come lo spiega, monsignore?

«Con
l’elezione di Evo Morales c’è stata una grande speranza, che permane tuttora,
anche se la si trova soprattutto tra le popolazioni degli altipiani. Allo
stesso tempo, è vero che i cittadini di qui si sono sentiti un po’ colonizzati
dalla gente dell’Occidente».

Lei ritiene che ci sia una componente di razzismo in questa contesa tra
dipartimenti dell’Oriente (a maggioranza bianca e meticcia) e il resto del
paese (a maggioranza indigena)?

«No,
non credo che ci sia razzismo. Per esempio, il Beni è sempre stato aperto a
ricevere. Qui ci sono persone provenienti dagli altipiani e personalmente non
vedo razzismo nei loro confronti. D’altra parte, è altrettanto vero che
l’Oriente boliviano è diverso, culturalmente diverso dal resto del paese». 

Una diversità che è stata confermata anche nelle recenti elezioni per il
governatore del Beni. La candidata del presidente e del Mas è stata sconfitta –
per la seconda volta – dal candidato dell’opposizione. Che succederà ora? 

«Dopo il voto,
io ho detto pubblicamente che occorre collaborare tutti per l’interesse comune
del Beni. Con verità, giustizia, libertà, amore».

La sua è una visione carica di speranze…

«Passeremo per
crisi, per momenti dolorosi come la croce, ma io certamente rimango un uomo di
speranza. Sono – come diceva il papa Paolo VI – per costruire una civiltà
dell’amore».

La bellissima Costituzione boliviana del 2009 parla di «sagrada Madre
Tierra». Purtroppo, anche in questo paese, come nel resto del mondo, i problemi
ambientali stanno avanzando a un ritmo impressionante…

«È così vero
che, nel marzo 2012, i vescovi boliviani hanno presentato una lettera pastorale
– dal titolo El Universo, don de Dios para la vida – dedicata proprio
alle tematiche ambientali, al modello consumistico e alla crisi ecologica. Come
francescano, io ricordo che San Francesco parlava non soltanto di “Madre Terra”
ma di “Sorella Madre Terra”. Alla base del problema ambientale sta il fatto che
non si può pensare soltanto a noi stessi, ma occorre pensare a quelli che
verranno dopo di noi».

A proposito degli interventi della Chiesa boliviana, ritiene che
l’istituzione cattolica sia ancora ascoltata?

«Abbiamo voce
nella società boliviana e siamo rispettati dal popolo, che ci sente vicini.
Certi politici e governi pensano che vescovi e sacerdoti si debbano dedicare
soltanto alla salvezza dell’anima. Però non è così. L’evangelizzazione non è
soltanto per l’anima, ma per tutta la realtà della persona umana. Come
sacerdoti e vescovi non dobbiamo guardare al denaro, al potere o al piacere, ma
dobbiamo realmente metterci al servizio del prossimo».

Paolo
Moiola

Paolo Moiola




Bolivia 1: L’altra faccia della luna

Da Puerto Quijarro a Desaguadero (prima puntata)
La nuova Costituzione boliviana, in vigore dal 2009, parla – con
ragione – di un paese plurale. Su un territorio diviso tra pianure (llanos) e
altipiani (altiplanos) vivono popolazioni indigene e «bianche». Una convivenza non sempre facile a causa delle
grandi diversità culturali e materiali. Abbiamo viaggiato da Puerto Quijarro
(al confine con il Brasile) a Desaguadero (al confine con il Perù), dalle
pianure amazzoniche alle montagne andine, cercando di capire dove va la Bolivia
di Evo Morales, il presidente aymara eletto nel 2005.

Puerto Quijarro. Come accade spesso, il posto di frontiera è brutto, confuso e
disorganizzato. I controlli sono lenti e il personale addetto non fa nulla per
rendere meno spiacevole l’attesa delle molte persone in coda. La lentezza poi
non va a beneficio dell’accuratezza. Che probabilmente sarebbe necessaria,
considerando che da qui transita molta droga diretta verso le ricche piazze
brasiliane.

Il confine è quello tra Corumbà, in Brasile, e Puerto
Quijarro, in Bolivia. Il posto di controllo boliviano è in un minuscolo
edificio posto al centro della strada. La gente, quella che esce dal paese e
quella che vuole entrarvi, forma un’unica cola (fila) che si dispiega
all’esterno dell’edificio.

Per ingannare l’attesa, scattiamo qualche foto, ma senza
esagerare perché, dove ci sono militari e forze dell’ordine, è meglio non
attrarre troppo l’attenzione. Iniziamo allora a parlare con il signore che ci
precede. Eduardo Mejia, questo il suo nome, è un medico di Cochabamba, in
viaggio per il Brasile con la moglie biochimica e la figlia studentessa. La
conversazione si fa subito interessante.

Eduardo è deluso da Evo Morales, il
presidente aymara eletto nel 2005. Spiega: «La classe media pensava che
ci sarebbe stato un cambio, però non è stato così. I poveri non stanno meglio
di prima e neppure la classe contadina. Io ho votato per Evo, ma nel 2014 non
lo farò».

Eduardo si lamenta soprattutto della
corruzione diffusa a tutti i livelli, ma anche della grave impreparazione
culturale del presidente. «Evo non è Correa»1,
chiosa. Essendo il nostro interlocutore un medico, gli domandiamo se la sanità
funziona. «Nella mia città, Cochabamba, c’è un solo ospedale pubblico che deve
servire un milione di abitanti. La gente è ospitata nei corridoi e la poca
strumentazione esistente è obsoleta».

Nel frattempo siamo arrivati davanti ai
funzionari della frontiera. Salutiamo il dottor Mejia. Dopo le formalità
doganali, ognuno andrà per la sua strada.

Con il timbro sul passaporto e la targhetta
d’entrata, ci dirigiamo verso la stazione ferroviaria di Puerto Quijarro, che
si trova alla fine di una strada polverosa. Mentre la struttura è modea, i
treni della Ferroviaria Oriental, la compagnia (privatizzata nel 1996)
che gestisce la linea, lo sono molto meno. In compenso si parte in perfetto
orario. Non facciamo a tempo a trovare il nostro posto che tre donne, vedendoci
con la telecamera in mano, ci chiedono cosa facciamo. È un’altra buona
occasione per parlare e registrare qualche opinione della gente comune. Le
donne – tutte bianche di Santa Cruz – sono come un fiume in piena, quando
rovesciano accuse sul presidente Morales. «Fa soltanto gli interessi della
parte occidentale» dicono all’unisono. «Io – spiega una di loro – sono
funzionaria pubblica, ma il presidente non mi piace». Per quale motivo?,
domandiamo. «Perché ha molto risentimento verso chi possiede denaro. Vuole
danneggiare le persone che hanno di più». La signora ha (almeno) il dono della
chiarezza. Chiediamo che cosa succederà nelle elezioni del 2014. «Sfortunatamente
– risponde – in Bolivia c’è troppo indigenismo e quella gente voterà per lui,
mentre noi siamo divisi». 

SANTA CRUZ E I «CIPPI» DELL’AUTONOMIA

Il treno della Ferroviaria Oriental
procede lentissimo. Prima che cali l’oscurità, dal finestrino riusciamo a
vedere quanto il disboscamento sia avanzato. E quanto, identicamente ai paesi
confinanti (Brasile del sud, Paraguay e Argentina), si sia diffusa la
coltivazione della soia (oramai quasi tutta di tipo transgenico, anche se una recente
legge vieta gli Ogm2). 

Dopo un’intera notte di viaggio, il mattino
seguente arriviamo a Santa Cruz de la Sierra, capitale dell’omonimo
dipartimento. Una città dal clima caldo umido e con un centro formato da viuzze
strette in cui (purtroppo) convergono un numero esagerato di auto. Santa Cruz
non ha alcuna attrattiva particolare, ma è economicamente e politicamente
importante. Le fortune economiche della città dell’Oriente boliviano sono nate
prima con l’allevamento (introdotto dai missionari gesuiti nel XVII secolo) e
poi con l’agricoltura estensiva (piantagioni), che hanno beneficiato di una
terra e di un clima favorevoli. Entrambe le attività poi si sono avvalse dei
vantaggi del latifondo. Un latifondo che ancora esiste e prospera, nonostante
l’articolo 398 della nuova Costituzione boliviana lo proibisca o, per meglio
dire, lo consenta soltanto all’interno di precisi (e condivisibili) limiti3.

Politicamente Santa Cruz è parte e fulcro
della cosiddetta Media Luna, la regione orientale della Bolivia che,
oltre a Santa Cruz, comprende a Nord i dipartimenti di Pando e Beni e a Sud
quello di Tarija, disegnando appunto una «Mezza Luna». Per ragioni etniche (la
maggioranza degli abitanti – conosciuti anche come camba – sono bianchi
o meticci) ed economiche, questa regione ambisce all’autonomia dal resto del
paese a maggioranza indigena.

Il cuore di Santa Cruz è la verdissima Piazza
24 di Settembre, dove si trova anche la cattedrale di San Lorenzo. La piazza
non è soltanto un luogo piacevole, ma anche il simbolo dello spirito che anima
la città. Per capire di che si tratta, è sufficiente guardarsi attorno.

Su un lato della piazza c’è un gazebo sotto
cui è ospitato un grande pannello a colori con le foto dei prigionieri e dei
perseguitati politici in Bolivia. I più conosciuti sono Leopoldo Feández, già
governatore del Pando, e Branko Marinkovic, imprenditore di Santa Cruz. Secondo
gli autori della protesta (sei tra partiti dell’opposizione e associazioni), la
Bolivia sarebbe una vera dittatura. La frase finale incita ad agire: «Non
essere indifferente, il prossimo potresti essere tu!».

La tenda è mobile e dunque levabile in
qualsiasi momento, ma il concetto di autonomia viene ricordato anche
dall’arredo urbano. Nella piazza, accanto alle panchine, trovano posto delle
piccole colonne di legno massiccio a memento della richiesta di autonomia. Incisa hanno
una semplice scritta: mojón autonomia, cippo dell’autonomia.

Domandiamo spiegazioni a un vigile urbano
che, tranquillamente (pur essendo un impiegato pubblico in servizio), ci
conferma l’anelito autonomista e si presta per una foto accanto al cippo.

Se le idee autonomistiche meritano attenzione
(fintantoché rimangono nei binari della legalità)4, è però altrettanto doveroso non chiudere gli occhi
davanti a una Bolivia divisa dalle ingiustizie fondate su base etnica e dalla
povertà. Contro queste ingiustizie e contro questa povertà si batte il governo
centrale. Una lotta tutt’altro che facile. 
Nei dintorni della piazza centrale di Santa Cruz a chiedere le elemosine
sono soltanto persone indigene. Sedute sui marciapiedi o a lato delle
gelaterie, trascorrono le giornate chiedendo un’obolo donne piccole e un po’
tozze, con i capelli neri raccolti in due trecce, le grandi gonne che
ingrossano più del reale e 2 o 3 figlioletti nelle immediate vicinanze.

IL BENI NON VUOLE LE MODELLE

Dal dipartimento di Santa Cruz ci sposteremo a quello del Beni,
anch’esso a maggioranza non-indigena e politicamente avverso al governo di Evo
Morales.

Toiamo al Terminal bimodal della
città cruseña per prendere un bus alla volta di Trinidad, capitale del
dipartimento, circa 500 chilometri in direzione Nord. La signora seduta accanto a noi è al
telefono e non possiamo non sentire. «Di quanto abbiamo vinto? Sono sicuri i
risultati?». Il Beni ha appena eletto il nuovo governatore e la lotta era tra
il candidato locale e quello del Mas, il Movimiento al socialismo che
governa il paese.

Il partito di Evo Morales aveva proposto e
sostenuto la giovane e attraente Jessica Jordan, già modella e Miss Bolivia. La
Jordan ha perso (per la seconda volta). La gente del Beni le ha preferito
Carmelo Lens, esponente dell’alleanza di centrodestra. Arriviamo nella vecchia
e malconcia stazione dei bus di Trinidad al mattino. Quando – era il 1686 – il
gesuita Cipriano Barace la fondò con il nome di La Santísima Trinidad ,
la città era sulle sponde del Rio Mamoré. La collocazione si rivelò presto
sbagliata a causa delle periodiche inondazioni. Trinidad venne quindi spostata
a 15 chilometri dal fiume, nella posizione dove oggi si trova.

La piazza centrale – abbellita da un
giardino tropicale e dalla cattedrale – 
si chiama Plaza General José Ballivián.

Su lati diversi della stessa ci sono due
grandi cartelloni raffiguranti Evo Morales, da una parte sconfitto, dall’altra
vincitore. L’Evo sconfitto è quello che lo vede in compagnia della bella
Jessica Jordan, la candidata battuta nelle elezioni dipartimentali. L’Evo
vincitore è invece sul cartellone che celebra il 22 gennaio, festa nazionale
dello Stato plurinazionale di Bolivia. Una pluralità sancita dal primo articolo
della nuova Costituzione del 2009, un testo di altissimo valore, approvato a
larga maggioranza da un referendum popolare.

Sul manifesto celebrativo compaiono soltanto
volti indigeni, dando forse motivo ai bianchi e ai meticci quando parlano di un
«razzismo al contrario»5. Ne sono convinte, ed esempio, le bionde
signore che lavorano alla Paraiso Travel, un’agenzia di viaggi del
posto.

Insomma, anche a Trinidad il presidente aymara
è poco popolare, pur in assenza di segni visibili come a Santa Cruz. La Mezza
Luna boliviana rimane dunque antigovernativa, anche se lontana dagli eccessi
del 2008, quando dai quattro dipartimenti orientali furono indetti dei
referendum autonomisti illegali e ci fu un tentativo di colpo di stato.

DALL’AMAZZONIA AI 4.000 METRI DI EL ALTO

La strada che da Trinidad porta a La Paz è
una via brutta. Nella stagione delle piogge è anche molto pericolosa. Le
compagnie di bus preferiscono non percorrerla. Per raggiungere la capitale,
occorre allora tornare a Santa Cruz e passare per Cochabamba. In alternativa,
si può prendere un aereo. I voli della Tam, la compagnia aerea dei militari,
sono di gran lunga i meno costosi.

Nell’ora di volo che separa Trinidad da La
Paz si può apprezzare chiaramente il cambio orografico, dalle pianure
amazzoniche del Beni agli altipiani andini. Il velivolo della Tam atterra sulla
pista dell’aeroporto militare de El Alto, nome più che appropriato per una città
cresciuta a 4.000 metri sopra il livello del mare.

Fa freddo. Dopo aver contrattato il prezzo,
ci infiliamo velocemente in un taxi. El Alto ha soltanto 80 anni di vita, ma ha
già superato il milione di abitanti, in maggioranza di etnia aymara,
come il presidente. Si racconta che nella città transiti molto denaro del
narcotraffico e che una parte di questi capitali si trasformi in edifici. La
circostanza non è però verificabile. Quello che invece si può notare è un
numero importante di case dall’architettura molto particolare (qualcuno direbbe
kitsch).

Nel frattempo, il nostro taxi è arrivato al
casello dell’autostrada, che scende dai 4.000 metri di El Alto ai 3.600 di La
Paz. Rispetto a Santa Cruz e Trinidad notiamo subito una novità. L’autopista
è disseminata di cartelloni e soprattutto di murales che esaltano
l’opera del presidente.

Paolo Moiola

(fine prima puntata –
continua)

 
Note

1 – Rafael Correa, presidente dell’Ecuador (riconfermato
nel febbraio 2013), è dottore in economia con studi in Ecuador, Belgio e Stati
Uniti.
2 – Legge 300 del 15 ottobre 2012: Ley marco de la Madre Tierra y desarrollo integral para vivir bien.
3 – Il divieto è stato confermato dall’articolo 19 della
citata legge 300.
4 – Il separatismo della regione della Mezza Luna può
raggiungere livelli aggressivi e razzisti. Si visitino, ad esempio, i seguenti
siti web: www.nacioncamba.net; www.historiacamba.com
5 – Nell’ottobre 2010, il governo di Evo Morales ha
emanato una norma antirazzismo particolarmente severa: Ley contra el racismo y toda forma de discriminacion (Ley 045).

 
Archivio

Sulla Bolivia, sempre a firma Paolo Moiola, Missioni
Consolata ha pubblicato:
Evo, il presidente
aymara, Incontro con Evo Morales
, marzo 2006;
Se i popoli tornano
proprietari, Intervista con il presidente Carlos Mesa
, dicembre 2004;
L’utopia infranta
dei gesuiti, Dossier sulle riduzioni
, giugno 1999;
Lontani dal mondo, Viaggio tra i mennoniti, maggio
1999.

 
Il ritratto
INDIO, SINDACALISTA, «cocalero»

Le tappe fondamentali del cammino di Evo Morales Ayma da campesino a
presidente del paese.

Evo Morales Ayma nasce nel 1959 nel piccolo villaggio di Orinoca, sugli
altipiani di Oruro. La famiglia, di origine aymara, abita in una casetta di
adobe e tetto di paglia. I Morales vivono di agricoltura e allevamento di lama.
Nel 1982, a causa di una grave siccità, la famiglia Morales Ayma emigra nel
Chapare (Cochabamba), provincia di coltivatori di coca (cocaleros). Evo
entra nel sindacato (Confederación de trabajadores del Trópico de Cochabamba),
divenendo ben presto segretario generale.

Nel 1997, l’organizzazione di Morales si unisce al Mas, Movimiento
al socialismo, per potersi presentare alle elezioni. Pochi mesi dopo, Evo
Morales entra in Parlamento come deputato. Nelle elezioni presidenziali del
2002, si presenta come candidato e supera il 20% dei voti, poco meno del
vincitore, Gonzalo Sánchez de Lozada detto «Goni». Il Mas entra in parlamento
con 36 congressisti.

Nel 2003, diventa leader dell’opposizione contro i provvedimenti
neoliberisti del presidente. In ottobre, la «guerra del gas» degenera in
scontri cruenti e Sánchez de Lozada è costretto alle dimissioni. Dopo la breve
presidenza di Carlos Mesa, nel dicembre 2005 il paese torna a votare.

Al secondo tentativo, Morales viene eletto con il 53,7% dei voti,
divenendo il primo presidente indigeno nella storia della Bolivia.

Il 6 agosto 2006 si installa un’Assemblea costituente, formata da 255
membri eletti, che ha il compito di redigere una nuova Costituzione. Dopo vari
conflitti, nell’ottobre 2008 la Magna Carta (di ben 411 articoli) viene approvata
dal Congresso boliviano e nel gennaio 2009 da un referendum popolare.

Fin dal suo esordio, il presidente pone in essere una politica di ri-nazionalizzazione
delle imprese strategiche, in particolare di quelle energetiche (gas e
petrolio), dell’acqua e delle telecomunicazioni.

Il 10 agosto 2008 Morales vince il referendum sulla revoca del proprio
mandato. Nel 2009 viene rieletto presidente della Bolivia con il 64% dei
suffragi.

Nonostante alcuni scandali, le accuse dell’opposizione (soprattutto nei
dipartimenti della Mezza Luna), la brutta vicenda del Tipnis e le ambiguità
sulla coca, alle elezioni del 2014 Evo Morales sarà il candidato di gran lunga
favorito.

Pa.Mo.

Paolo Moiola