FRANCESCA SAVERIO CABRINI

Una santa nasce, cresce, si forma,
sviluppa la sua fede e scopre il suo carisma in terra lombarda; espressione
genuina di quella spiritualità dell’azione che diventa originale servizio per
gli emigranti italiani: erano i veri poveri del nostro paese. Negli anni
successivi l’Unità d’Italia, centinaia di migliaia di persone emigrarono alla
ricerca di un lavoro – specialmente in Nord e Sud America – per procurare da
vivere a sé e alle proprie famiglie. Per essere al loro fianco e per svolgere
meglio il suo servizio negli Usa, ella prende la cittadinanza americana, quindi
nella Chiesa è la prima cittadina statunitense a essere proclamata Santa.

Francesca, prova a presentare la
tua vita ai nostri lettori…

Sono
nata a Sant’Angelo Lodigiano il 15 luglio 1850, in una famiglia dalle solide
tradizioni cristiane. Durante la scuola per diventare maestra elementare, al
collegio del Sacro Cuore di Arluno in provincia di Milano, ho maturato la mia
vocazione religiosa, che ho coronato emettendo i voti di povertà, castità e
obbedienza nel 1874.

Fin dall’inizio, però, volevi
essere suora in un modo nuovo: consacrarti al Signore per rispondere alle
necessità dei poveri, con un carisma che rispondesse ai segni dei tempi, o
sbaglio?

No,
non sbagli. La mia giovinezza, per quanto vissuta interamente in Lombardia,
regione che oggi risulta essere il traino dell’Italia e certamente una delle
regioni dal reddito pro capite più alto del nostro paese, ai miei tempi era,
specialmente nelle campagne, una regione con una povertà diffusa e una forte
emigrazione. Vedevo giocare i bambini per strada nelle pozzanghere perché le
mamme lavoravano in filanda e i papà erano emigrati all’estero; decisi allora
di rispondere a queste sfide, fondando insieme ad alcune compagne la
congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù che si prendesse cura
di coloro che, a causa della miseria in cui vivevano, lasciavano il loro paese
alla ricerca di una vita più dignitosa. La congregazione delle Missionarie del
Sacro Cuore di Gesù è stata la prima ad affrontare l’impegno e il servizio
verso i nostri emigranti, un lavoro affidato sino ad allora a congregazioni
maschili.

Questa preoccupazione, però, non
l’avevi solo tu; altri nella Chiesa, proprio ai tuoi tempi, si aprivano al
servizio verso gli emigranti…

È
vero, mons. Giovan Battista Scalabrini vescovo di Piacenza, preoccupato dalla
partenza verso le Americhe di molte persone che svuotava intere comunità
parrocchiali, fondò più o meno in quegli anni la congregazione dei Missionari
di San Carlo Borromeo, conosciuti dal nome del loro fondatore come «Scalabriniani».
Così, per rispondere alle mutate esigenze dei tempi, nacquero in quel periodo
nuove congregazioni come quella delle Apostole del Sacro Cuore di Gesù, fondate
da suor Clelia Merloni di Forlì.

Al tuo nome, per essere
missionaria fino in fondo, hai aggiunto quello del patrono delle missioni:
Francesco Saverio…

Sì,
e ho voluto mantenerlo al maschile proprio per non togliere il copyright
di andare in tutto il mondo al servizio dei fratelli, del più intrepido e
valoroso dei missionari di tutti i tempi.

Qual è stato il tuo campo di
azione?

Nel
1889 mi recai negli Stati Uniti per prestare assistenza agli immigrati
italiani. A quei tempi il viaggio verso le Americhe durava qualche mese in nave
e confesso che l’aver attraversato l’oceano mi diede una carica indicibile:
sbarcai a New York, ma non mi fermai in quella che voi chiamate la «Grande mela»,
mi addentrai nell’interno, alla ricerca di comunità di emigranti italiani per
dare loro tutto il nostro aiuto. Devo dire che più le nostre attività si organizzavano
attorno alle comunità dei nostri emigranti, più le necessità di dare un
servizio accurato e di strutturare meglio il nostro lavoro mi portavano ad
attraversare l’oceano Atlantico: lo feci ventotto volte sui bastimenti di
allora. In più attraversai le Ande per raggiungere Buenos Aires, partendo da
Panama. Erano viaggi faticosi che avrebbero stroncato chiunque.

In un ambiente maschile come
quello dell’emigrazione italiana, qualche curiosità dovevano pur crearla delle
suore che a dorso di mulo si addentravano verso il selvaggio West di quelli che
sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America…

Non vi dico i commenti, che arrivavano specialmente dai Wasp
(White Anglo-Saxon Protestant, bianco anglosassone protestante). Però,
quando cominciammo a costruire asili, scuole e convitti per studentesse,
orfanotrofi, case di riposo, ospedali, il discorso cambiò radicalmente.
Cominciarono a rispettarci e ad aiutarci.

Con la lingua come te la cavavi?

Oltre
all’inglese, imparai anche lo spagnolo e gesticolavo una miriade di dialetti
italiani per poter comunicare con la gente della mia terra, che a mala pena
sapeva parlare l’italiano; ma nel 1909 proprio per affermare la mia
inculturazione nel nuovo continente, presi la cittadinanza americana.

Le tue iniziative benefiche e le
tue opere caritative, ben presto si svilupparono e divennero dei punti di
riferimento importanti per i nostri connazionali…

Certamente.
E mi è caro sottolineare che, dal punto di vista economico, mettevamo al primo
posto l’autogestione delle opere aperte, grazie agli aiuti che ci venivano
dati, oltre a una piccola quota, imposta a quanti tra i beneficiari lavoravano,
per il buon funzionamento di quanto avevamo realizzato per loro.

Immagino che la vostra azione
avesse molteplici sfaccettature, così pure le iniziative dovevano essere
diversificate per rispondere alle differenti esigenze legate ai problemi
dell’immigrazione.

Ti
dirò, la cosa più importante era dare ai nostri connazionali la possibilità di
esprimersi nella lingua del paese che li aveva accolti, per cui proponevamo
incessantemente corsi di lingua inglese, davamo assistenza burocratica ai nuovi
arrivati e curavamo la corrispondenza con le famiglie di origine rimaste in
Italia. Cercavamo poi di raggiungere i più emarginati e lontani logisticamente,
visitare gli infermi e quelli che finivano in carcere.

Certo che per gli americani
dell’Ottocento vedersi arrivare queste migliaia (col tempo milioni) di
disperati dall’Italia non doveva essere una cosa facile da ingoiare, seppur
bisognosi di mano d’opera, covavano in animo sentimenti di antipatia e
avversione non indifferenti, o sbaglio?

Guarda,
ti rispondo facendoti leggere una relazione dell’ispettorato per l’Immigrazione
del Congresso degli Stati Uniti d’America del 1912 che dice così:

«Generalmente
sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro
puzzano anche perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si
costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove
vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro
affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due
e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro,
sei, dieci, venti. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente
antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, ma
sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre
anziani invocano pietà, con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che
faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al
furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché
poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri
consumati dopo agguati in strade periferiche, quando le donne tornano dal
lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma,
soprattutto, non hanno saputo selezionare fra coloro che entrano nel nostro
paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura,
attività criminali. Propongo che si privilegino i lombardi e i veneti, tardi di
comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad
abitazioni che gli americani rifiutano purché le famiglie rimangano unite, e
non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di
questa relazione, provengono da altre regioni d’Italia. Vi invito a controllare
i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere
la prima preoccupazione».

Sembra di leggere un comunicato
che riflette sentimenti di rifiuto dello straniero, del diverso presenti in
certi ambienti nostrani…

È
proprio vero che la storia è maestra di vita, ma il più delle volte essa è
inascoltata; ai poveracci che,ancora oggi varcano i mari, intraprendendo veri e
propri viaggi pericolosi per sfuggire a guerre, violenze, calamità naturali o
più semplicemente per dare un futuro dignitoso ai propri figli attraverso il
lavoro che nei loro paesi non c’è, viene negata quella dignità insita in ogni
persona umana, creata a immagine di Dio, e questo dovrebbe far riflettere.

Ieri
io, Francesca Saverio Cabrini, insieme a donne che non avevano paura di
affrontare prove e sacrifici, ho cercato di dare una risposta ai segni dei
tempi, oggi mettetevi in gioco pure voi, le occasioni non mancano. Buon lavoro
ragazzi.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Mario Bandera




IL MONDO CATTOLICO E LA COOPERAZIONE

Nel
numero di dicembre
abbiamo raccontato il Forum Cooperazione che si è svolto lo scorso ottobre
a Milano, rilevando
fra l’altro l’assenza di una rappresentanza organizzata
e coesa delle Ong d’ispirazione cattolica e degli istituti missionari
all’evento. Eppure
il mondo cattolico s’interroga sulla mondialità e
fa cooperazione, eccome. Il «Forum Mondialità e pedagogia dei fatti in tempo di
crisi», organizzato
dalla Caritas Italiana a Roma il 14 e 15 novembre
2012, è stato anche un’occasione
per fare il punto della situazione.

«Operare
nella solidarietà internazionale per educare alla cittadinanza globale». Il
sottotitolo del forum sulla mondialità promosso dalla Caritas non lascia spazio
a dubbi: anche il modo di esprimersi testimonia l’interesse della Chiesa
cattolica per i temi affrontati dal Forum Cooperazione di Milano. La specificità
della Chiesa, dunque, sta nel trattare i medesimi problemi utilizzando
strumenti e linguaggio propri, perché quegli strumenti e quel linguaggio sono
il concretizzarsi di qualcosa di molto profondo che viene dall’umanità
realizzata nello «stare al mondo» di Gesù di Nazareth.

Che
i temi al centro del dibattito siano gli stessi rispetto al mondo «laico» lo si
è visto fin dalle prime battute del Forum Caritas, che si è aperto con la
presentazione del quarto rapporto di ricerca su finanza e povertà, ambiente e
conflitti dimenticati dal titolo «Mercati di guerra», realizzato da Caritas
Italiana
, Il Regno e Famiglia Cristiana e edito da Il
Mulino
. È un rapporto dettagliato e puntuale sui legami fra finanza,
mercati e guerra e va dritto al cuore del problema, a cominciare dal capitolo
sul cibo come elemento scatenante dei conflitti.

Che
Caritas sia una risorsa imprescindibile nell’analisi delle dinamiche odiee
non è un dato nuovo: come ha ricordato al forum don Antonio Sciortino,
direttore di Famiglia Cristiana, negli anni i rapporti Caritas sui
migranti sono stati fondamentali nel fare piazza pulita delle false
informazioni e privare di fondamento tanti pregiudizi sul fenomeno
dell’immigrazione in Italia. Semmai, aggiunge Sciortino, rivolgendosi a chi fa
informazione, è tempo di fare un passo oltre e di essere non più cronisti
distaccati ed equidistanti, ma coinvolti ed «equivicini».

Tanto
più che il cristiano, ha argomentato un altro dei relatori, Carmelo Dotolo
della Pontificia Università Urbaniana, è in una posizione privilegiata per
avvicinarsi a una realtà di crisi come quella di oggi: «Il cristianesimo»,
infatti, «è una religione della crisi»; vivere e produrre cambiamenti fa parte
del suo Dna, e far teologia è anche lo sforzo, la fatica di mettere in
relazione l’essere credenti con la realtà storico-culturale in cui si vive,
anche quando questo significa essere contro-culturali.

Un’analisi che annaspa

Nel
forum della Caritas, come in quello di Milano, non ci sono state grosse novità
per quanto riguarda l’analisi della globalità e del fenomeno della
globalizzazione: dai tempi di Dueling Globalizations, il celebre botta e
risposta fra il direttore di Le Monde Diplomatique, Ignacio Ramonet, e
l’editorialista del New York Times, Thomas Friedman – era il 1999 -,
l’acqua passata sotto i ponti del pensiero politico non ha portato con sé
intuizioni decisive, fatta eccezione per qualche elaborazione che ci ha messo a
disposizione aggettivi (come il «liquido» e il «glocale» di Zygmunt Bauman) con
cui definire in modo più immediato, quotidiano e fruibile i fenomeni
contemporanei. Mentre l’analisi annaspa nella difficoltà di immaginare il
domani, l’oggi ha visto realizzarsi le profezie nefaste dei primi anni Duemila:
gli effetti devastanti della tracotanza della finanza internazionale sono
evidenti a tutti. Questo rende ancora più urgente proporre soluzioni concrete
che implicano una traduzione in linee d’azione di quella innata vocazione del
cristianesimo al cambiamento che Dotolo sottolinea.

Dalle idee ai fatti

Ma
tradurre in pratica le conclusioni teoriche è questione molto complicata; al
forum Caritas è toccato ad Antonio Nanni (Centro di educazione alla mondialità
– CEM) misurarsi con l’ingrato compito di definire il che fare. In un lungo
intervento dal titolo «Educare alla cittadinanza globale oggi, in tempo di
crisi. Obiettivi, strumenti, linguaggio», Nanni ha descritto le difficoltà
dell’azione educativa a partire dall’analisi della crisi in cui versa
l’educazione stessa. Particolarmente interessante la riflessione sui valori:
appellarsi a essi, ha detto Nanni, è paradossalmente controproducente in un
contesto come quello contemporaneo, perché aumenta la frammentazione invece di
diminuirla. Come se l’appello ai valori, un tempo potente magnete in grado di
attrarre o respingere (e quindi riordinare) fenomeni, eventi e gruppi umani,
avesse perso il suo potere su una realtà che non reagisce più, o reagisce solo
in parte. Quell’appello non più un agente ordinatore ma un’ulteriore spinta
alla separazione.

Nanni
ha poi indicato una serie di obiettivi – formulazione di un nuovo pensiero,
solidarietà e giustizia sociale, integrazione, partecipazione, global
governance
– e proposto una vera e propria «cassetta degli attrezzi» per
raggiungerli. Fra gli strumenti, la Tobin Tax, la promozione del
servizio civile volontario, la partecipazione ai Gruppi di acquisto solidale
(Gas), la definizione e la difesa dei beni comuni, la diffusione dei contenuti
di diversi documenti di riferimento (raccomandazioni del Parlamento europeo,
documentari sull’integrazione, testi del Pontificio Consiglio della Giustizia e
della Pace, eccetera), la predisposizione di eventi e spazi di condivisione
come le feste dei popoli e i centri interculturali, e molto altro.

Rispetto
al Forum Cooperazione di Milano, dove le indicazioni sull’agire sono mancate
quasi del tutto, il Forum Mondialità registra certamente un passo in avanti
nella direzione di una maggior concretezza. L’intervento di Nanni, pur non
proponendo strumenti nuovi, rappresenta un’ottima – e necessaria – raccolta e
sistematizzazione di quelli esistenti, che vanno quindi potenziati e sostenuti.

Cooperazione missionaria

Attento
all’esigenza delle comunità cristiane di declinare in modo praticabile
l’educazione alla cittadinanza globale, il forum Caritas ha poi proposto gruppi
di lavoro tematici organizzati nei quali all’esposizione di un tema da parte di
un esperto (tecnico) seguiva l’intervento di un esponente di un organismo ecclesiale
che lo declinava in termini pastorali.

Il
gruppo di lavoro «Educare alla cittadinanza globale e agli obiettivi di
sviluppo del millennio» (Campagna Beyond 2015) ha visto dunque la
partecipazione di Andrea Stocchiero (Federazione Organismi Cristiani Servizio
Internazionale Volontario – Focsiv) in veste di esperto e di don Gianni Cesena
(direttore dell’Ufficio Nazionale Cei per la cooperazione missionaria tra le
Chiese) come referente pastorale. La relazione di Stocchiero ha evidenziato
come nei paesi che hanno ottenuto maggior successo nell’avvicinarsi agli
obiettivi del millennio l’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) ha avuto un ruolo
marginale. Quei paesi non stanno meglio grazie agli aiuti, ma grazie alla loro
capacità di attirare investimenti stranieri e alle rimesse dei loro cittadini
che lavorano all’estero (le rimesse sono pari a tre volte il totale dell’Aps).
Un dato, questo, che ha un peso evidentemente cruciale nel valutare l’efficacia
dell’aiuto.

L’intervento di don Gianni Cesena, infine ha proposto
riflessioni e dati sulla cooperazione missionaria e ha indicato una serie di
esempi concreti da applicare a livello di consigli pastorali parrocchiali per
valutare se e quanto i messaggi relativi all’educazione alla cittadinanza
globale sono effettivamente inseriti nelle attività delle comunità cristiane.

A proposito degli obiettivi del millennio, don Cesena ha
precisato che non sono stati formulati all’interno della Chiesa o con un suo
coinvolgimento e che pertanto traslarli nella pastorale sarebbe una forzatura.
Tuttavia, ha concluso, anche in essi è possibile riconoscere la «quota di
Spirito» che può giustificare l’impegno e la volontà di recepie alcuni
aspetti. Il suo intervento si è poi concluso con l’indicazione di due stili
missionari oggi superati: nella cooperazione missionaria, ha detto don Cesena,
non c’è più posto per «eroi e navigatori solitari» e il dono non può più essere
un gesto unilaterale ma uno scambio.

La «Quota di spirito»

Forse,
proprio a partire dall’espressione «quota di Spirito» si possono trarre lumi
per spiegare, almeno in parte, la partecipazione in sordina del mondo
missionario e delle Ong cattoliche al Forum Cooperazione di Milano. Le Ong
cattoliche sono molto spesso il braccio operativo della realtà missionaria che
le ha fondate, si tratti di un istituto, di un centro missionario diocesano o
di un gruppo di persone legate a un particolare sacerdote. Queste realtà vivono
la cooperazione allo sviluppo come uno dei tanti strumenti
dell’evangelizzazione e, in particolare, uno strumento per l’evangelizzazione
attraverso le opere sociali, che non sono le sole opere contemplate dall’agire
missionario. Per questo, l’ordine nella scala delle priorità che i religiosi
(e, di conseguenza, le loro Ong) attribuiscono a un evento come il Forum di
Milano dipende – per usare il linguaggio di don Cesena – dalla «quota di
Spirito» che i religiosi stessi scorgono nella cooperazione allo sviluppo. Se
questo è vero, rimane da chiedersi perché il mondo missionario ha giudicato la
quota di Spirito a Milano troppo ridotta per mobilitarsi e fare sentire la
propria voce.

Chiara Giovetti

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Chiara Giovetti




Guatemala: Non è arrivata, la fine del mondo


Cosa
porterà la fine del 13mo b’aqtun.
Pace, armonia, giustizia, equilibrio
interiore. Tutto questo, dicono le guide spirituali, dovrebbe portare con sé
la fine dell’era prevista dal calendario Maya. Dipenderà però dalla nostra
coscienza.Perché il cambiamento deve essere dentro di
noi
.
(foto Simona Rovelli)

Mentre
gran parte del mondo attendeva con curiosità, trepidazione, speranza o terrore
(a seconda delle differenti visioni), il
21 dicembre 2012, in Guatemala – cuore pulsante dell’universo Maya, dove ancora
una maggioranza della popolazione, in particolare gli Ajq’ijab (le guide
spirituali, in lingua Maya K’iché) mantengono viva la millenaria
tradizione spirituale originaria – in realtà tutto taceva.

Ha
fatto eccezione l’industria del turismo che, in un paese splendido ma
zoppicante sotto moltissimi aspetti, ha cercato di sfruttare al meglio, in
termini di immagine e di business, il bonus piovuto dal cielo,
organizzando eventi in tema e sfoando i più disparati pacchetti turistici,
essenzialmente per stranieri e spesso escludendo dall’organizzazione e
partecipazione la stessa popolazione di etnia maya.

Si
è scritto e detto ormai di tutto circa questa fatidica data, citata come la
fine del «tredicesimo b’aqtun» del calendario Maya, a partire dalla
distruzione del mondo con o senza giorno del giudizio, passando per il
profetico arrivo di un fantomatico «Pianeta X», la caduta di una cometa o
asteroide che sia, il ritorno degli alieni, l’inversione dei poli magnetici e
svariati – nefasti o benefici a seconda delle interpretazioni – allineamenti
tra centro della galassia, Sole, Terra e alcuni pianeti. Ognuna di queste
teorie si basa, nella migliore delle ipotesi, su libere interpretazioni e
connessioni un po’ fantasiose e forzose tra gli elementi più disparati e, nella
peggiore, su un intenzionale desiderio di creare confusione e panico, per
trae svariati benefici.

La profezia

Ma cos’è un b’aqtun ed esiste davvero una profezia maya a
riguardo del tredicesimo?

I Maya nei secoli hanno sviluppato grandi doti di astronomi e,
studiando il movimento di diversi corpi celesti tra cui ad esempio Marte e
Venere, idearono almeno venti calendari che regolavano ciascuno diversi aspetti
della vita, dalla semina alla nascita di un essere umano. Il parallelismo tra «Cielo»
e «Terra» deriva dalla loro peculiare «cosmovisione» (ovvero come concepiscono,
percepiscono e vivono il senso dell’esistenza dell’intero universo, ne spiegano
la creazione e il funzionamento), per cui le energie che governano i corpi
stellari devono trovare il loro riscontro negli eventi terrestri.

Il b’aqtun è un periodo di tempo riferito a uno di questi
calendari, nella fattispecie quello denominato della Cuenta Larga,
ovvero il calendario che stabilisce il computo di tempi estremamente lunghi e
che sarebbe vigente, senza interruzioni, dai tempi della Creazione
(originatasi, come indicato nella stele 1 di Cobá, Messico, milioni di anni
fa). Per l’esattezza il b’aqtun è un multiplo di 20 (numero sacro per i
Maya, corrispondente al ciclo minimo del calendario Cholq’ij, che regge
il susseguirsi delle energie umane) secondo questo semplice schema:

-1 giorno è detto kin,
– 20 kines fanno un winaq (20 giorni),

– 18 winales sono un tun (che significa «pietra»:
360 giorni),

– 20 tunes corrispondono a un k’atun (7.200 giorni),

– 20 k’atunes un b’aqtun (144.000 giorni),

– 20 b’aqtunes un piktun (2.880.000 giorni). E così
via…

La prima osservazione è che il calendario maya, così come alcuni
erroneamente affermano, non termina affatto con il tredicesimo b’aqtun,
(periodo di 1.872.000 giorni), ma prosegue, ipoteticamente fino all’infinito.
Esiste per esempio una data scolpita nel tempio delle Iscrizioni di Palenque,
Messico, che daterebbe il 13 Ottobre 4.772 d.C., così come esistono date
antecedenti al b’aqtun 1 di questa era, come per esempio indicato in
Quiriguá, Guatemala, dove tra le tante date si può individuare l’8.238 a.C.

Termina un’era

Perché dunque tanto clamore rispetto al tredicesimo b’aqtun
e alla data del 21 dicembre 2012?

La data (4 Ajpu / 3 Kank’in, secondo il calendario
della Cuenta Larga) viene indicata in differenti steli di
svariati siti archeologici del Guatemala e del Messico, semplicemente come fine
di un’era, venendo maliziosamente strumentalizzata come data della fine del
mondo. Infatti, seppur considerando che i b’aqtunes arrivano fino a 20
formando un piktun, è doveroso ricordare che secondo i Maya ogni 13 di
essi si concluderebbe un ciclo completo, corrispondente a un’era del mondo, e
questo passaggio sarebbe segnato normalmente da un sostanziale cambiamento,
preceduto da eventi più o meno significativi. In questo caso si tratterebbe
propriamente della chiusura del terzo ciclo dall’inizio della creazione che,
stabilendo un parallelismo con il calendario Gregoriano, andrebbe dal 6
Settembre 3.114 a.C. (inizio del nuovo ciclo, con il primo giorno del primo b’aqtun),
al 21 dicembre 2012 d.C., ultimo giorno dell’attuale b’aqtun, appunto il
tredicesimo, iniziato nel 1.618. 
Inoltre, secondo vari studi compiuti in Guatemala da antropologi e Ajq’ijab,
la data indicherebbe sia la fine dell’era precedente che l’inizio della nuova,
indicando infatti il giorno 0 (zero) – concetto non contemplato nel calendario
gregoriano – del nuovo ciclo.

Evidenziamo che in nessun caso si parla di fine del mondo, ma di
alcuni eventuali cambiamenti importanti.

Altri citano erroneamente il Chilam Balam (uno dei
pochi testi profetici maya salvatisi dalla furia colonizzatrice), il quale però
descriverebbe alcune catastrofi durante il 13 k’atun Ajaw (e non
13 b’aqtun!). Per approfondimento, secondo la nomenclatura della tavola
degli Ajpú, definita dal missionario Diego de Landa nel libro «Relaciones
de las cosas de Yucatán» agli inizi dell’epoca coloniale, il 13 k’atun Ajaw
si sarebbe concluso il 2 novembre 1.539. Quale catastrofe peggiore, per i Maya,
della conquista spagnola? Attualmente, secondo la suddetta tavola staremmo tra
l’altro vivendo il b’aqtun 6, in numero cardinale, che sarebbe il
tredicesimo in numero ordinale. Il «nome» del b’aqtun (in questo caso
sei) viene infatti definito dall’energia iniziale (che accompagna sempre un Ajpú),
la quale di ciclo in ciclo non segue un ordine crescente. Per capire questo
concetto è necessario addentrarsi profondamente nella cosmovisione Maya e in
calcoli complicati, uscendo inoltre dalla logica calendarica occidentale.

La spiritualità viva

Ma una volta stabilito cosa indicano le steli
e i testi sacri Maya, è estremamente importante analizzare la spiritualità viva
e pulsante attraverso le parole delle guide spirituali (Ajq’ijab),
coloro che hanno la responsabilità di tramandarsi, per lo più oralmente, le
antichissime tradizioni.

Non esiste un consenso generalizzato a riguardo, se non nel deciso
rifiuto delle infondate posizioni catastrofiste. Molte «abuelas y abuelos»
Maya (nonne e nonni letteralmente, così come poeticamente vengono definite le
persone che hanno acquisito una certa saggezza) ritengono che energeticamente
si entrerà in una nuova era che favorirà pace, armonia, unione, giustizia,
equilibrio tra gli esseri umani e tra questi e Madre Natura (così come
profetizza anche il Chilam Balam, per il 4 k’atun che
inizierà questo dicembre). Il tutto si raggiungerà attraverso il ritrovamento
di un vero equilibrio interiore, che nella cosmovisione maya è fondamentale per
poter concretizzare i passi successivi. Alcuni si spingono a dichiarare che
tanta sarà l’armonia da permettere la comunicazione attraverso la trasmissione
del pensiero. Altri invece pensano che, nonostante l’energia propizia, il
cambiamento sarà molto più lento e graduale e dipenderà molto dal grado di
risveglio delle nostre coscienze. Per altri ancora, tutto risiede nel nostro
libero arbitrio e il destino del pianeta Terra, con i suoi equilibri e i suoi
abitanti, non è prestabilito.

Il cambiamento sta dentro di
noi

Cosa ne è della speranza nell’arrivo di alieni che spazzino via la
feccia dell’umanità, facendo piazza pulita delle negatività? Una visione troppo
comoda, che affida a un «miracolo» esterno e senza impegno il cambiamento che
ciascuno di noi, con coscienza e sforzo, dovrebbe intraprendere nel suo piccolo
per mutare radicalmente il corso della storia umana, piagata da tante
ingiustizie e prossima a subire e far subire, in particolare ai più deboli e
alle generazioni future, le conseguenze del cambio climatico. Tra quelli che
seguono la spiritualità maya, non vi è attenzione, né tantomeno preoccupazione
rispetto a una eventuale venuta, e piuttosto ci si concentra sulla propria
crescita personale e comunitaria.

E la paura di catastrofi naturali e dell’eventualità che la
popolazione umana possa essere decimata da eventi disastrosi (o dagli alieni
stessi)? Solo chi ha paura di vivere tutte le sfumature dell’esistenza, chi
sente di non aver tentato in ogni istante tutto il possibile per offrire il
meglio di sé, chi non accetta che vita e morte sono parte di una necessaria e
utile ciclicità, chi si attacca al proprio ego senza ricordare il senso del
passaggio sulla Terra, ha una profonda paura di morire, che sia in una
catastrofe o per mano degli alieni.

Nelle terre maya, dove si vive in ogni istante la precarietà della
vita, ci si concentra sul presente con umiltà, semplicità, intensità e
determinazione, consci di essere una goccia di Infinito nell’Universo.

Simona Rovelli

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Simona Rovelli




Haiti: La perla perduta

Incontro con il giornalista haitiano Gotson Pierre. A tre anni dal devastante
terremoto che sembrava cambiare le sorti del paese, la politica fa passi
indietro. Il presidente Joseph Martelly
governa con autoritarismo, senza curarsi della Costituzione. Mentre
clientelismo e corruzione sono in aumento.Ma il movimento sociale manifesta il suo malcontento e la tensione
cresce.Il punto di vista di un osservatore privilegiato.

(Foto Marco Bello e AFP)

Gotson Pierre, haitiano, fa il
giornalista da oltre 30 anni. Ha lavorato, tra l’altro, alla creazione di una
rete di radio rurali e nel 2001 ha fondato il Groupe Médialternatif,
un’associazione di media che vuole essere voce critica della società e dei
movimenti sociali. Tra le altre attività, Médialternatif gestisce
l’agenzia online altepresse.org che ha acquistato una grande
credibilità in patria e all’estero.

Da
maggio 2011 Haiti ha un nuovo presidente: il discusso cantante Michel Joseph
Martelly.
Quali
sono le caratteristiche del governo Michel Martelly?

«È un’amministrazione che cambia profondamente dalla
precedente. Un governo che comunica molto. Una comunicazione che invade tutto,
che quasi rimpiazza l’azione politica. Diventa l’azione politica. Ogni giorno
arrivano numerosi comunicati dal primo ministro, dai ministeri, dalla
presidenza. Una macchina di comunicazione efficiente in tutte le istituzioni
dello stato.

Però
è un flusso d’informazione governativa unidirezionale, che rende conto di
quello che vuole il governo. Il potere concede interviste a media selezionati.
Un’amministrazione che pare voler comunicare con il pubblico attraverso i
media, ma allo stesso tempo limita l’accesso dei giornalisti all’informazione.

È
una comunicazione persuasiva, per dire “vedete che le cose stanno cambiando”.
Martellano su alcuni concetti: siamo molto vicini alla propaganda.

Si
avvalgono di compagnie private di comunicazione. La società spagnola che ha
gestito la campagna elettorale di Martelly è ora al servizio della presidenza,
e ha messo un esperto latino americano a capo della comunicazione».

E
dal punto di vista politico?

«Non
è cambiato nulla in realtà. È un presidente che non vuole negoziare con
nessuno, si vuole imporre, anche se non ha i rapporti di forza che gli
servirebbero. Non ha i numeri in Parlamento dove è in larga minoranza. Martelly
spinge l’autoritarismo a un livello visto solo sotto la dittatura militare.

Lui
parte dal principio che il presidente può fare quello che vuole: è la
concezione del capo supremo della nazione, la stessa che avevano i Duvalier
(padre e figlio dittatori sanguinari dal ’57 all’86, ndr). Per lui il
presidente è a capo di tutti i poteri. Il principio di separazione tra
esecutivo, legislativo e giudiziario non esiste. Pensa di avere potere su tutto
quello che succede ad Haiti e vuole imporre le sue decisioni.

Ha
ricevuto le organizzazioni dei media per dire loro cosa devono fare. Ma il
Parlamento non ci sta e questo porta sempre a un braccio di ferro, a un blocco
istituzionale. Talvolta si risolve all’ultimo momento per le pressioni della
comunità internazionale o arriva a crisi di governo. È successo così con le due
nomine dei primi ministri.

Oggi
c’è in gioco la formazione del Consiglio elettorale permanente (Cep), organo
che organizza le elezioni e starà in carica nove anni. Influenzerà quindi la
dirigenza politica delle prossime due legislature.

Ma
i parlamentari vogliono far valere il fatto che oggi il Senato non può
scegliere i membri del Cep perché la Costituzione vuole due terzi dei senatori
presenti, ma oggi la camera alta ha un terzo scaduto, quindi è impossibile
avere il quorum.

Occorre
fare un Consiglio elettorale provvisorio per completare il Parlamento con
elezioni e poi passare al permanente.

Il
presidente ha influenzato il potere giudiziario imponendo la sua volontà, per
la scelta di tre membri per il Cep, poi Martelly ha scelto altri tre membri,
come esecutivo. In questo modo ha imposto un consiglio di sei membri, e gli ha
fatto prendere funzioni ufficialmente. Ma la Costituzione ne prevede nove:
mancano quelli nominati dal legislativo».

 C’è
un ritardo sulle elezioni?

«Le
elezioni senatoriali e municipali sono in ritardo di almeno un anno. E non si
sa cosa succederà, perché non si trova una soluzione.

È uno stile di funzionamento politico che non vuole
chiarire le cose, tanto meno rinforzare le istituzioni. Si pensava che fosse
incapacità, ma ora alcuni osservatori dicono ci sia dietro una strategia. Ad
esempio qualcuno ha paura di una volontà di sciogliere il Parlamento. I mandati
dei parlamentari vanno verso la fine, rimanderà ancora le elezioni? È un male
minore per Martelly.

Sono
a rischio anche il decentramento e l’autonomia dei poteri locali. I sindaci
hanno terminato il loro mandato, e malgrado avesse promesso di mantenerli fino
alle prossime elezioni, il presidente li ha rimpiazzati con persone nominate
dall’esecutivo. Sta centralizzando il potere.

Il
processo democratico è seriamente minacciato da questi comportamenti. Non
riconosce le organizzazioni politiche e non incoraggia la strutturazione
politica. È piuttosto il clientelismo che aumenta. Se non sei con lui, sei un
nemico della patria, come con il fascismo».

Ma
esiste una vera opposizione e da chi è costituita?

«C’è
un’opposizione che si mostra sempre più. Una critica all’azione del governo. Ma
la strutturazione e l’organizzazione di questa opposizione è ancora da farsi
nonostante esistano attori sociali capaci di condurre un insieme di azioni.

Le
debolezze e le derive di Martelly hanno alimentato l’opposizione e abbiamo
visto una serie di manifestazioni di protesta, con partecipazione di
organizzazioni della società civile e di partiti politici. Criticano questo
approccio politico e la gestione della cosa pubblica. Il cattivo uso dei fondi
pubblici è evidente anche per il posto occupato dalla sua famiglia nella
macchina amministrativa. Normalmente la moglie del presidente non occupa delle
funzioni. Invece la moglie di Martelly è stata da lui nominata a presiedere una
commissione di cui fanno parte rappresentanti di ministeri. Il figlio è
responsabile di una struttura al di sopra del ministero della Gioventù e dello
Sport e gestisce un programma di realizzazione di stadi o spazi sportivi nel
paese, con molti fondi a disposizione. Mentre il ministero non ha alcun
controllo su questo. Criticare Martelly, o rifiutare la sua pratica politica,
non vuole però necessariamente dire che si sceglie un’opzione in linea con la
rivolta del 1986 (quando fu cacciato Duvalier, ndr) e la partecipazione
popolare alla democrazia. Nel movimento sociale c’è molta gente critica verso
Martelly. Un certo numero di associazioni vogliono rompere con tutte le
esperienze di autoritarismo che lui rappresenta, altre no. Chi porta avanti
questo discorso sono piccole organizzazioni che non hanno ancora un rapporto di
forza favorevole a livello del paese. Possono avere un’alternativa da proporre,
ma non hanno peso per farla valere. Ad esempio sono nati due piccoli partiti
della sinistra popolare e democratica».

Allora
cosa stanno facendo i partiti politici di opposizione?

«Oggi
c’è un insieme di dodici partiti, alcuni storici e due nascenti, che hanno
fatto una convenzione e stanno portando avanti una riflessione su come fare
opposizione. Ci sono dentro anche i partiti degli ex presidenti Aristide (Fanmi
Lavalas
) e Préval (Inite). L’altro partito storico, l’Opl
(Organizzazione del popolo in lotta) non ne vuole far parte perché è molto
critico con queste ultime due formazioni. Sta puntando su una “terza via”.
Ricordiamo che Martelly ha pochissimi deputati dalla sua parte. Ha inoltre
fondato un suo partito: Parti tet kale (partito testa pelata, ndr)».

Che
peso ha nel gioco politico la comunità internazionale?

«Alla
comunità internazionale fa comodo la situazione attuale. Non vuole problemi:
meglio consolidare quello che c’è fino alle prossime elezioni presidenziali.
Martelly afferma che non ha paura di un colpo di stato perché la comunità
internazionale è presente e sorveglia la situazione attraverso la Minustah
(Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti, composta da
circa 10.000 uomini tra soldati e poliziotti, ndr). L’Onu lascia capire
che hanno bisogno di altri 4-5 anni affinché sia formata una forza di polizia
capace in Haiti.

La
comunità internazionale vuole che i termini delle elezioni siano rispettati: un
presidente sia eletto e sia al potere fino alle prossime elezioni. Il resto non
è un suo problema. Secondo loro un susseguirsi di elezioni porterà alla
stabilità, anche se le gravi questioni degli haitiani permangono irrisolte.

Se
Martelly non riesce a calmare la situazione, allora loro intervengono per
dirgli cosa fare. Ad esempio Usa, Francia e Unione europea vogliono sia formato
il Cep, nella logica della stabilità. Quindi sono intervenuti e hanno fatto
pressioni. La Minustah ha detto che il Parlamento si deve sbrigare a nominare i
tre membri di sua competenza. La comunità internazionale vuole che le
istituzioni esistano, per loro è un criterio importante di stabilità».

La
situazione rischia di esplodere a livello sociale?

«Il
movimento sociale organizzato non è forte, ma l’espressione del rifiuto, a
livello sociale, inizia a farsi vedere. Questo è sfociato nella serie di
manifestazioni in diverse città del paese, contro il carovita, la corruzione,
il traffico di droga. Fenomeni in aumento.

Abbiamo
assistito a manifestazioni organizzate, ma non c’è dietro necessariamente una
struttura sociale forte. Sono dei movimenti di protesta che si organizzano.
Un’esplosione non è da scartare.

Martelly
vuole fare di testa sua, ma su molti piani non è efficace, non riesce a dare
risposte ai problemi. La corruzione dilaga. Le persone che sono al potere,
prima di tutto vogliono guadagnare molti soldi. Al di là di mettere in piedi
dei programmi di ricostruzione o sviluppo.

Ho
raccolto testimonianze sul fatto che nell’esecuzione di un progetto
governativo, come quelli per la costruzione di case, occorre prevedere un 30%
in più per commissioni varie.

Inoltre
lo stato acquista servizi da persone nelle aree di influenza del presidente e
della sua famiglia. È scoppiato uno scandalo perché sono stati attribuiti
lavori di ricostruzione per 400 milioni di dollari a imprese che sono in buona
parte del senatore dominicano Bautista. Il fatto è che i lavori sono stati dati
senza alcuna gara d’appalto o controllo. E questo accompagnato con buone dosi
di tangenti.

Martelly
avrebbe ricevuto soldi da Bautista durante la campagna elettorale, ma anche
dopo aver prestato giuramento come presidente. Tutto ciò resta nell’impunità
totale».

Lo
Stato sta mettendo in opera dei programmi per migliorare le condizioni di vita
della gente?

«Un
primo problema nella messa in opera dei programmi è la corruzione e il
clientelismo. Questo fa sì che i beneficiari finali non siano numerosi, ma
diventino quasi il pretesto per fare il progetto.

L’altro
aspetto è l’orientamento dei progetti realizzati. Sono impostati per migliorare
la situazione nel breve termine ma non hanno un impatto sociale durevole. È il
caso dei programmi sociali governativi orientati alle famiglie. Alcuni si
ispirano ai programmi brasiliani contro la fame, ma ad Haiti sono gestiti dalla
presidenza ed è più un modo per acquisire seguaci.

È
difficile capire quali sono le realizzazioni e verificare i risultati di ogni
programma. Ce ne sono cinque o sei che fanno la stessa cosa: per ridurre la
fame danno cibo alla gente.

Si
tratta di fondi multilaterali, ovvero di cooperazione tra stati, e altri del
tesoro pubblico.

Ci
sono ancora i progetti di emergenza a tre anni dal
sisma?

«L’umanitario
è sempre presente ad Haiti. Ci sono, da un lato, le agenzie dell’Onu, che
tentano di lavorare con il governo, e dall’altro le Ong che fanno i loro
programmi. I progetti di emergenza hanno un limite: lavorano sull’immediato,
sulle conseguenze di un insieme di problemi, ma non sulle loro cause.

Purtroppo
neppure il governo ha messo in piedi un meccanismo per attaccare queste cause.

Ad
esempio gli interventi su bacini versanti, la pulizia dei canali, la
riforestazione non sono stati fatti. Così arrivano gli uragani come Sandy e
causano morte e distruzione.

Le
sfide della situazione haitiana attuale sono tante, e allo stesso tempo, la
gente che ha votato Martelly vorrebbe vedere qualche segno di miglioramento. Ma
non c’è nulla che si manifesta in questo senso, se non la comunicazione. Vedo
quindi una certa disillusione in una parte dell’elettorato di Martelly. Mentre
altri continuano a difenderlo strenuamente. Poi ci sono gli oppositori che lo
criticano alla radio e gli fanno perdere consensi. Alcuni analisti sostengono
che il presidente non vuole le elezioni adesso perché ha paura di perdere.
Mentre lui vuole avere tutti i dieci posti da senatore e tutti i sindaci».

E
questo programma di sviluppo del Nord?

«Nel paese ci sono ancora molti problemi e non si sente
la volontà a risolverli. Nonostante alcuni eventi spettacolari, come
l’inaugurazione del parco industriale di Caracol.

L’idea è di fare al Nord del paese un polo economico.
Questo tramite tre elementi: un aeroporto a Cap Haitien (seconda città del
paese, ndr), che è diventato internazionale, una zona industriale nella
baia di Caracol e il progetto di un porto non lontano.

Sviluppare l’economia nel Nord attraverso l’industria
manifatturiera e turismo. La zona industriale inaugurata dovrebbe impiegare
37.000 persone in 3 anni. Adesso sono 1.000 i posti di lavoro creati. Oltra a
tutto questo hanno attivato una sezione universitaria del Nord che dipende
dall’Università di stato.

Le critiche sono che l’opzione della manifatturiera per
sviluppare il Nord non può essere sul lungo termine. Inoltre per fare la zona
industriale sono state cementificate terre agricole, togliendole alla
produzione di cibo e, d’altro lato, non è stata presa alcuna misura sui rischi
sociali e ambientali che un’operazione di questa portata può avere. Ad esempio
la creazione di bidonville, che si sono sempre formate nei pressi di
queste strutture.

Quali
sono i punti deboli della classe politica haitiana?

«Uno dei problemi centrali ad Haiti è che uomini e donne
politici haitiani, al potere o all’opposizione, non riescono ad analizzare,
constatare e accettare i rapporti di forza. Ma questo è necessario per il
dialogo politico. Se si avesse questa coscienza, si potrebbero fare sforzi per
costruire qualcosa, anche negoziando. E si prenderebbero disposizioni per
migliorare la propria posizione di forza, facendo un lavoro sul terreno.

Anche per questo motivo i partiti politici ad Haiti non
si costruiscono alla base, ma tramite l’accesso ai media: parlando alla radio. Invece
il partito va costruito con un lavoro di militanti, mettendo in piedi le
strutture, organizzando la base. La comunicazione è qualcosa in più che
permette di esprimersi; non organizza, piuttosto anima».

Cosa
bisognerebbe fare oggi ad Haiti?

«Vedo
la via di uscita in questo senso: strutture che accettino di costruirsi con un
lavoro sul terreno, e solo in un secondo tempo sviluppare le influenze a
livello pubblico.

Un
leader carismatico non risolve i problemi. È vero, occorre una voce
credibile che abbia séguito, ma anche costruire una militanza dalla base.

Uno
dei ruoli essenziali per i partiti politici, movimenti sociali e le strutture
popolari, è riprendere il lavoro di educazione popolare e di educazione civica.
Quanto era stato fatto prima del 1986. Dopo le crisi tutte le risorse sono
andate perdute, in particolare con il colpo di stato del ‘91, buona parte dell’élite
popolare è stata uccisa o è andata in esilio. Possiamo dire che abbiamo perso
quel lavoro.

Bisogna
ricominciare a riorganizzare i contadini, i partiti popolari, a educare la
gente sulle ideologie politiche. Cos’è la destra, cos’è la sinistra. Perché sul
terreno oggi non c’è alcun riferimento ideologico o a dei valori.

È
un ruolo importante, alcune associazioni lo stanno assumendo, ma non è la
tendenza dominante. L’incertezza economica, la precarietà hanno influito sui
settori sociali, hanno fatto si che tutti siano preoccupati di cosa succederà
domani.

I
movimenti sociali continuano a esistere e vedo una nuova cornordinazione tra
organizzazioni contadine, tra quelle delle donne e tra sindacati. Anche la
nascita di questi piccoli partiti politici: sono tutti segnali interessanti».

Marco Bello

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Marco Bello




UNA STORIA AFFASCINANTE! 25 anni di presenza in Corea del Sud per gli IMC

I Missionari della Consolata celebrano 25 anni di presenza in Corea del Sud.
Arrivati in Corea del Sud il 20 gennaio 1988, i primi quattro
missionari della Consolata iniziarono l’evangelizzazione tra i ceti sociali più
poveri e l’animazione missionaria nella Chiesa locale.

Con  l’arrivo di altro personale la
loro missione si caratterizzò per
il dialogo con le grandi religioni e, da ultimo, per il lavoro tra gli
immigrati stranieri. Fiore all’occhiello sono i 6 coreani entrati nella
nostra famiglia missionaria e già operanti in altri continenti.


Per uno sciopero all’aeroporto di Roma, arrivammo a Seoul con un
giorno e mezzo di ritardo, di notte, senza nessuno che ci aspettasse. Eppure potemmo
fin dall’inizio assaggiare la gentilezza e l’organizzazione perfetta del popolo
coreano. La ragazza del Centro di Informazioni prese con un bel sorriso il
numero di telefono dei Francescani che le porgevamo, li chiamò per capire bene
la nostra destinazione, fece arrivare il taxi all’uscita dell’aeroporto e, in
meno di un’ora, eravamo alla casa dei frati in centro Seoul. Era mezzanotte. «Ben
arrivati in Corea – ci accolse padre Beitia, superiore spagnolo dei Francescani
-. Siete a casa vostra!».

Così cominciò, il 20 gennaio
1988, la storia dei missionari della Consolata in Corea. Guardandola
all’indietro, 25 anni dopo, si dimostra una storia «affascinante».

Coreano, kimchi e
fantasia

L’aria era
satura dei lacrimogeni che la polizia usava in dosi generose per fronteggiare
le dimostrazioni quasi giornaliere degli studenti contro un governo che si
dichiarava democratico, ma che della democrazia cominciava solo a balbettare le
prime sillabe; e noi, tappandoci la bocca con il fazzoletto e asciugandoci le
lacrime che ci inondavano gli occhi, raggiungevamo la nostra classe per la
lezione di coreano, all’Università Yonsei. Ci chiedevamo dove fossimo capitati.

Le speranze e le attese
dell’Istituto per l’inizio assoluto della sua missione in Asia erano grandi.
C’erano stati accesi dibattiti prima che il Capitolo Generale del 1987
decidesse l’apertura all’Asia e scegliesse la Corea del Sud.

La nostra preparazione, era stata
più spontanea che altro: due mesi nella casa generalizia a Roma per conoscerci
e frateizzare, leggere articoli sulla situazione sociale, politica, culturale
e religiosa della Corea, avviare contatti epistolari con il vescovo della
diocesi di Incheon che ci avrebbe accolti… in attesa del sospirato visto per
la Corea. Insieme alla Direzione Generale di allora, soprattutto, «sognavamo».

Sognavamo una chiara e decisa «scelta
dei poveri», per fare con loro e per loro grandi cose. Sognavamo di offrire
alla Chiesa locale la nostra bella testimonianza di vita consacrata, con uno
stile comunitario vero, intriso di comunione, preghiera e fratellanza.

Sognavamo l’incontro con le
grandi religioni dell’Asia, di cui avevamo qualche idea superficiale, ma i cui
nomi ci riempivano di misteriosa curiosità: buddismo, confucianesimo,
sciamanesimo. Sognavamo di diventare un possibile «ponte» verso la grande e, in
quel momento, inaccessibile Cina. Sognavamo, soprattutto, di dare una buona
mano alla Chiesa locale, che allora contava solo il 3% della popolazione, per
farla crescere in numero e qualità.

Sognavamo, ma ora, tra l’odore
acre dei lacrimogeni, ci chiedevamo dove fossero finiti i nostri sogni.

La lingua coreana si rivelò
subito un osso più duro del previsto; per sentirci sufficientemente a nostro
agio ci vollero 4-5 anni di sforzo costante. Anche l’adattamento a cibo, agli
usi e costumi coreani richiese molta buona volontà: dopo 25 anni posso dire che
è buono anche il kimchi (cavoli piccanti).

Il Paese era in pieno boom
economico e i poveri stavano «sparendo» velocemente dall’orizzonte. La Chiesa,
piccola ma ben strutturata e organizzata, contava già forze pastorali
sufficienti per le sue parrocchie, i laici impegnati erano numerosi e i
seminari erano strapieni di candidati. Non c’erano parrocchie da affidare a
missionari stranieri. Dove eravamo capitati? Qual era il nostro posto da
missionari in Corea? Missione in Asia sì, ma «quale» missione?

Noi siamo  per i non cristiani!

La nostra prima esperienza tra i
poveri fu a Man-sok-dong, un «villaggio della luna» di Incheon, come sono
chiamati in Corea i quartieri periferici delle città, specie di baraccopoli
dove si ammassavano i poveri; quartieri che già allora stavano sparendo,
inghiottiti dai grattacieli dei progetti di ri-costruzione delle città. Visto
che la Chiesa locale non aveva bisogno di noi come parroci (anche se aiutavamo
molto nelle parrocchie); dato che l’assistenza sociale nel paese era ben
strutturata ed efficiente (con suore in prima linea in un numero impressionante
di centri per portatori di handicap, orfanotrofi, ospedali, case per anziani) e
la società non aveva bisogno di noi per costruire scuole e ospedali, scavare
pozzi e fare opere di sviluppo… constatato che la nostra immagine tradizionale
di missione era impossibile da realizzare andammo in crisi!

Una crisi molto benefica,
peraltro; capimmo e accettammo che Qualcuno ci stava purificando, tagliando i
rami secchi: i «nostri» progetti e sogni, per renderci più liberi e disponibili
a seguire i Suoi! Privati del nostro stile classico di missione, riscoprimmo
tutta la bellezza e validità del carisma trasmessoci dal beato Giuseppe
Allamano: «Voi siete per i non cristiani».

Si trattava solo di cercare il «come»
essere per i non cristiani. E non fu facile. Lo Spirito Santo, però, al momento
opportuno ci venne in aiuto, come sempre ha fatto. Così il discernimento è
diventato il mezzo naturale per cercare di scoprire cosa e dove e come il
Signore volesse da noi nella missione. L’allora superiore generale, padre
Giuseppe Inverardi, ci offrì fino alla fine vicinanza e appoggio «affettivi»,
assieme a una preziosa libertà di pensiero e di opzione. La visita di uno dei
consiglieri di allora, padre Ramon Cazallas, ci aiutò a rompere gli indugi e a
decidere la nostra prima opzione missionaria: creare una «comunità
d’inserimento» nel quartiere di Man-sok-dong. Si trattava di «vivere assieme ai
poveri», più che fare qualcosa per loro.

Mentre Paco Lopez (spagnolo) e
Alvaro Yepes (colombiano) restavreno nella casa presa in affitto a Yok-kok,
nostro quartiere generale, Luiz Emer (brasiliano) e io ci spostammo, il
mercoledì delle ceneri del 1992, in una casetta esattamente come tutte le altre
di Man-sok-dong, dando inizio alla seconda comunità in Corea, dedita
all’evangelizzazione dei poveri urbani.

Angeli, amici e benefattori

L’arrivo nel quartiere di un
gruppo di preti stranieri (e la nostra presenza nelle parrocchie vicine) suscitò
molta curiosità nei cattolici. Le visite a casa si susseguivano: gruppi di
catechisti, donne della Legio Mariae; membri dei cori parrocchiali;
persone singole o gruppetti di amici. Quante volte dovemmo rispondere, nel
nostro coreano ancora incerto, a domande da interrogatorio di quarto grado: sì,
siamo ognuno di un paese diverso; sì, viviamo assieme e di solito non
litighiamo; sì, anche in Europa ci sono le quattro stagioni e le angurie; sì,
ci piace il kimchi (anche se allora era una bugia).

Monica, una signora della parrocchia,
si metteva spesso a nostra disposizione con la sua auto per fare le spese,
accogliere i visitatori all’aeroporto, per portarci nel luogo scelto per le
nostre vacanze comunitarie estive. Pundo, un signore che faceva il taxista, era
a nostra disposizione per i problemi tecnici concreti quotidiani. Francesca,
Sofia e tante altre catechiste, erano sempre a disposizione per correggere il
testo in coreano delle nostre omelie. E tante altre persone ci passavano
accanto: veri angeli del Signore per accompagnarci nel cammino e aiutarci a
credere che Lui non ci lasciava soli.

Tale situazione offriva una
preziosa opportunità per l’animazione missionaria. Cominciammo con un incontro
mensile di formazione per chi lo volesse; poi qualche ritiro spirituale; incontro
mensile missionario per gli alunni del catechismo delle elementari e medie.

Il «Gruppo amici» era fondato!
Quel fenomeno di Alvaro, destreggiandosi nei meandri della burocrazia locale,
riuscì a ottenere un numero di conto corrente «ufficiale», con grande sorpresa
di altre comunità religiose che non c’erano ancora riuscite. Così anche le
offerte degli amici cominciarono ad affluire costanti e generose.

Da quel momento le cose si sono
molto evolute; prima di tutto costruimmo la nostra casa-madre a Yok-kok. In
questa circostanza l’angelo inviato da Chi continuava a purificarci ma sempre
con un occhio di riguardo, rispondeva al nome di Kim Joseph. Questi, esperto di
costruzioni, si fece carico di «sorvegliare» la costruzione al posto nostro.
Essa ci pareva enorme a quei tempi, mentre adesso è diventata un nanerottolo,
schiacciato dai grattacieli nel frattempo sorti accanto.

Fin
dall’inizio ci preoccupammo di avere gli spazi necessari per l’animazione
missionaria e per altre eventuali attività non ancora previste. C’era infatti
un giovanotto che ci si era avvicinato e ci «annusava» con curiosità e
interesse, finché un giorno prese il coraggio a due mani e ci chiese se fosse
potuto anche lui «diventare come noi». Iniziò così anche il discorso del
discernimento vocazionale e quello più complesso della formazione. A quel Paolo
ne seguì un altro, poi altri giovani ancora. Purtroppo, in fasi diverse della
loro formazione, quei primi candidati coreani missionari della Consolata
uscirono tutti, ma ebbero il merito di aprire il cammino, di farci riflettere
su come agire con gli studenti coreani, quale formazione attuare con loro, come
meglio proseguire con le attività di formazione e animazione missionaria.

Il discernimento, illuminato
anche da padre Piero Trabucco, l’allora superiore generale, ci convinse a
pubblicare una rivista missionaria ad gentes per la Corea. Essa sarebbe
stata di forte aiuto per la nostra cerchia di amici, un prezioso mezzo di
animazione vocazionale, per attirare altri giovani alla bellezza della
vocazione missionaria, e un forte stimolo per la Chiesa coreana, molto attiva
nell’annunciare il Vangelo ai vicini, ma molto meno nel farlo ai lontani.

«La Consolata» in coreano

Anche questa
volta il discernimento ci spinse a lanciarci in una nuova avventura. Era il
1995. Nel frattempo erano arrivati altri missionari: Gianpaolo Lamberto,
italiano, e Antonio Domenech, spagnolo, nel 1992; Rafael, argentino, e
Benjamin, colombiano, nel 1994; per il 1996 era previsto l’arrivo di Alvaro
Pacheco, portoghese, e Juan Pablo, colombiano. Crescendo il nostro numero,
aumentava anche la capacità di lavoro. L’angelo di tuo questa volta si
chiamava Choi Marino, giornalista di professione; era seriamente ammalato, ma
ci diede ugualmente un aiuto decisivo, insieme a Shin Ki-jin, protestante, ma
amico fedelissimo, che da quasi 20 anni continua ad essere l’editore della
nostra rivista «La Consolata», naturalmente con caratteri coreani.

L’esperienza di Marino, mancato
purtroppo nel gennaio del 2000, si dimostò utile per indurci a pubblicare,
accanto alla rivista, una serie di sussidi di formazione missionaria che ebbero
il loro momento di gloria, e per riorganizzare il Gruppo degli Amici, secondo
la classica struttura coreana.

Grazie a questo, abbiamo iniziato
a organizzare «pellegrinaggi di esperienza missionaria», prima alle radici
dell’Istituto in Italia, poi alle missioni in Kenya, alle nostre presenze in
Spagna, in Portogallo e in Mongolia.

A tali iniziative si aggiungono i
problemi per trasmettere un autentico spirito missionario ad gentes alle
persone, per accrescere il numero dei benefattori, per diffondere la rivista…
ed altri ancora. Nonostante gli enormi sforzi fatti dalla nostra équipe
di Animazione missionaria vocazionale, non siamo ancora riusciti a formare un
gruppo giovanile missionario stabile. Anche in Corea le vocazioni alla vita
religiosa e missionaria sono drasticamente scese di numero. Eppure siamo
convinti che il Padrone della Vigna sia ancora al lavoro, magari sotto traccia,
per noi.

Finalmente, gli «altri»

«Mi rifugio nel santo Buddha, mi
rifugio nella santa dottrina, mi rifugio nella santa comunità dei monaci». È la
classica «professione di fede» buddista, cantilenata al ritmo del mok-tak
(un tamburello di legno concavo) dalla monaca che guida la solenne
celebrazione, mentre l’intera assemblea si profonde in rispettosi inchini a
ogni invocazione. Sono alla cerimonia pubblica per la festa della nascita di
Buddha; vi partecipo su esplicito invito del vescovo di Tae-jon, mons. Ryu
Lazzaro, che porta alla comunità buddista gli auguri della Chiesa cattolica. I
molti monaci, di vari ordini buddisti, e la grande folla ascoltano con
attenzione quando il vescovo legge loro il messaggio augurale ufficiale,
pubblicato ogni anno per l’occasione dal Pontificio consiglio per il dialogo
interreligioso.

Già ai tempi di Man-sok-dong
avevo avuto la possibilità di avvicinare qualche mu-dang (donna
sciamana) e di assistere a qualcuno dei loro rumorosissimi riti. Così pure, fin
dal nostro arrivo in Corea, avevamo visitato numerosi templi buddisti,
meravigliandoci al vedere una religione «viva» che guidava la vita di milioni
di persone.

Il grande sogno d’incontrare le
religioni non cristiane del paese, coltivato ancor prima di arrivare in Corea,
pur sempre vivo, era stato a lungo dilazionato a causa di altre necessità della
nostra missione, così come si stava sviluppando. Solo padre Antonio, arrivato
con la seconda ondata, dotato di sensibilità particolare in questo campo,
intrecciava le prime relazioni con monaci buddisti e membri di altre religioni.
Ma a dare la carica fu la visita di padre Alberto Trevisiol, allora vice
superiore generale: in un nuovo discernimento fu deciso di assumere il dialogo
interreligioso come dimensione costitutiva della nostra missione in Corea,
espressione chiara del nostro essere «per i non cristiani». Correva l’anno di
grazia 1995.

La decisione formale, però, prima
di diventare effettiva, ebbe bisogno di un lungo iter di preparazione.
Accompagnando Antonio, che aveva cominciato a studiare Religioni Comparate
all’Università cattolica di So-gang, cominciai anch’io a frequentare gli «altri»,
a partecipare a seminari di presentazione delle varie religioni per capire
meglio la loro fede e vita, a «pellegrinaggi interreligiosi» per visitare i
loro luoghi sacri, a tessere relazioni con i fedeli delle «religioni dei nostri
vicini», come si chiamano in Corea le «religioni non cristiane», espressione
molto significativa.

Fu costruito un piccolo centro
per il dialogo interreligioso a Ok-kil-dong, non lontano dalla base di Yok-kok,
completato e inaugurato nell’aprile del 1999 dal nostro vescovo, mons.
McNaughton, alla presenza del nunzio, mons. Morandini, con la partecipazione di
amici di diverse tradizioni religiose e di un buon numero di Amici Imc. Era
nata la terza presenza della nostra missione in Corea.

Dopo un primo periodo esaltante,
pieno di incontri e attività, grazie anche alla «Catena della pace», gruppo di
dialogo di candidati leaders religiosi, che aveva preso il nostro centro
come loro base di operazioni, seguì un periodo di delusione e fatica: la Catena
della pace sciolta, ci fu qualche crisi vocazionale intea… ma non abbiamo
mai mollato! Fin dal 2002 fummo chiamati dalla Conferenza episcopale coreana a
far parte della Commissione per il dialogo ecumenico e interreligioso; più
tardi entrammo nella Commissione per il Dialogo della Conferenza coreana delle
religioni per la Pace (Kcrp), partecipazioni «ufficiali» ci diedero molta
visibilità nel campo del dialogo interreligioso, anche perché ero l’unico
partecipante «straniero».

Con alcuni dei nostri cattolici
facemmo molte visite a gruppi e centri delle «religioni dei nostri vicini»;
eravamo riusciti a creare relazioni stabili con un gruppo di fedeli buddisti di
un tempio vicino (2005-2006), grazie all’interesse e accoglienza del loro
monaco guida; ma quando questi fu spostato in un eremo sulle montagne, tutto il
processo fu interrotto. Poi intervenne il Padrone della vigna, tramite il
governo coreano questa volta: per fare spazio a un complesso di case popolari,
espropriò tutti coloro che vivevano nell’area dove c’era il nostro centro.

Nuova crisi e nuovo
discernimento. Ma l’esperienza accumulata ci permise di costruire un nuovo
centro in un’altra zona, più adatto al tipo di dialogo che nel frattempo
avevamo maturato: un dialogo di base tra fedeli di varie religioni, da
prolungare nel tempo e non ridotto a qualche sporadico incontro; un dialogo
fatto attraverso lo scambio dell’esperienza religiosa, che fosse di
arricchimento per tutti.

Nella nuova zona, nella diocesi
di Tae-jon, nel centro della Corea, il vescovo ci accolse a braccia aperte,
esclamando: «Anche noi a Tae-jon abbiamo bisogno di consolazione! E in quanto
al terreno, non preoccupatevi. Dio ha già scelto il luogo adatto per voi: si
tratta solo di trovarlo!».

Era vero. Il Padrone della vigna
ci aveva riservato un bel posto, e il solito angelo delle nostre costruzioni,
il signor Kim Joseph, accompagnato dal figlio Matteo, provvide a completare la
costruzione in tempo per celebrare i 25 anni di nostra presenza in Corea.

Burroni e vette

Dopo vari
anni di presenza a Man-sok-dong, dove l’ammodeamento dell’area diventava
sempre più concreto, cominciammo a riflettere sul senso, stile e forma di presenza
in quel «quartiere della luna», finché la comunità decise che era ora di
cambiare. Nel 2001, una comunità di tre missionari, si stabilì in un altro
quartiere di poveri, a Ku-ryong-maul, nella stessa capitale Seoul. Lo spazio
della nostra abitazione era limitatissimo, ma trovammo un’altra casetta accanto
e l’adibimmo a doposcuola per i ragazzi del quartiere e per altre attività.

Della
comunità di Ku-ryong-maul faceva parte anche il keniano Joseph Otieno. Ci
viveva felice, facendo, secondo le sue stesse parole, «le piccole cose che
c’erano da fare»: riparazioni nella casa di alcune nonnine del luogo, fare la
spesa e altri servizi per le stesse nonnine, assistenza e pratica dell’inglese
per i ragazzi del doposcuola… Era anche un vero atleta, tanto da iscriversi a
un gruppo sportivo che partecipava alle corse amatoriali. Il 18 dicembre 2005,
stava partecipando con il suo gruppo sportivo a una mezza maratona, organizzata
per raccogliere fondi a favore dei bambini sofferenti di cuore… quando il suo
cuore si fermò nei primi chilometri della corsa. Aveva 31 anni. Lo shock fu
tremendo e la crisi altrettanto dura. Non ci restava che aggrapparci alla fede
con tutte le forze. Anche perché, all’inizio dello stesso anno orribile, in un
incidente d’auto, avevamo perso David, seminarista di 29 anni. Dopo questi
fatti si prospettava una nuova evoluzione: anche la nostra presenza a
Ku-ryong-maul stava perdendo un po’ di significato. Avevamo scoperto che, da
qualche anno, i «più poveri dei poveri» in Corea erano gli immigrati stranieri,
entrati nel paese, spesso illegalmente, in cerca di lavoro. Inizialmente la
Chiesa coreana stentò a rendersi conto del fenomeno, ma poi rispose con grande
generosità e organizzazione, tipiche del popolo coreano.

Anche noi decidemmo di collaborare
con la Chiesa locale nell’opera di assistenza e accoglienza dei lavoratori
stranieri. Nell’ottobre 2007 ci siamo stabiliti anche a Tong-du-cheon, città a
nord est di Seoul, diocesi di Ui-jong-bu. Ben presto la nuova casa diventò un
punto di riferimento sicuro per i molti immigrati stranieri che vivevano nella
zona. Ed è l’espressione attuale dell’evoluzione che la famosa «opzione per i
poveri» ha avuto nella nostra storia. 

Tra avvicendamenti e nuovi arrivi
di missionari il lavoro continua, grazie anche agli «angeli», moltiplicati e
diversificati, mandati dal Signore per accompagnare il nostro cammino.

«Non vi sembra un caso
straordinario che i due primi missionari della Consolata coreani ad essere
ordinati sacerdoti abbiano tutti e due lo stesso nome: Han Gyeong-ho?» proclamò
estasiato il vescovo di Incheon, all’ordinazione di Pietro e Martino, l’8
ottobre 2009; e la numerosissima assemblea rispose con un «oh!» di meraviglia,
stretta con affetto attorno ai due novelli sacerdoti. «Sono destinati uno al
Brasile e l’altro alla Spagna – proseguiva il vescovo – inviati anche dalla
nostra Chiesa coreana come missionari ad gentes».

Sì, il Padrone della vigna, oltre
a farci sperimentare la sofferenza dei «burroni», ci dava finalmente anche la
gioia di gustare l’ebbrezza delle «vette». E il dono si è ripetuto più volte.
Nel gennaio 2011 fu la volta di Kim Joseph (ora in Colombia) e nel gennaio 2012
quella di Lee Benigno (ora in Kenya). In occasione della festa della Consolata
2012 è stato ordinato diacono Kim Giuseppino, che riceverà la consacrazione
sacerdotale all’inizio del 2013, in concomitanza con il 25° della nostra
presenza in Corea.

In dirittura di arrivo c’è anche
Marco, per ora in formazione in Argentina. Intanto continuiamo a sperare che il
Padrone della vigna mandi altri giovani decisi a offrire generosamente la loro
vita per la missione ad gentes.

Conclusione

Lunga e
affascinante la nostra storia in Corea. Molte altre cose sono successe in
questi 25 anni, ma non sono state scritte, perché ci vorrebbero troppi libri
per contenerle. Posso però affermare con certezza: è affascinante scoprire che,
dietro a ogni avvenimento, grande o piccolo che sia, c’è la mano di Colui che è
«protagonista» della missione a pieno titolo. È Lui che guida la storia e le
storie, che dà significato agli eventi, che attira tutto a Sé, in maniera a
volte evidente, a volte nascosta e discreta, come sotto traccia, ma sempre
certa.

È
affascinante scoprire come la missione non la facciano gli eventi o i momenti
importanti, che pure ci sono ogni tanto, ma le piccole cose, la vita d’ogni
giorno, che sembra non dire e non fare niente di eccezionale, ma poi si scopre
essere il tessuto di una storia intera che, vista globalmente e da giusta
distanza, si rivela come un arazzo bellissimo.

È affascinante, infine, scoprire
come la missione, l’annuncio della Buona Notizia agli altri, diventi esperienza
personale di vangelo, di fede autentica nel Signore, che di giorno in giorno si
va purificando, approfondendo, diventando linfa vitale.

A risentirci per il 50°!
 
Diego Cazzolato

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Diego Cazzolato




USATE LA TESTA! (Malattie sessuali – 2)

LE «MALATTIE SESSUALMENTE TRASMESSE»
(seconda parte)
Per
evitare i seri problemi connessi alle malattie sessualmente trasmesse (Mst)
basterebbe tenere comportamenti prudenti e
conoscere le varie patologie.
Il tutto, come ricorda anche il nostro titolo, è riassumibile in una semplice
esortazione: «Usate la testa!».

Nel nostro precedente articolo abbiamo visto che la
diffusione delle «infezioni sessualmente trasmesse» sta assumendo proporzioni
preoccupanti a livello mondiale e che le loro conseguenze possono compromettere
seriamente la qualità della vita, se non addirittura la vita stessa. Le sequele
di alcune di queste patologie possono – inoltre – portare a sterilità. È perciò
indispensabile prevenire queste malattie, soprattutto perché non per tutte
esistono cure efficaci. La prevenzione si basa sull’adozione di comportamenti
prudenti, nonché sulla conoscenza di queste infezioni e delle loro conseguenze.
Pertanto, in questa seconda parte e nella prossima saranno descritte le
principali malattie sessualmente trasmesse.

Premetto che le malattie causate da batteri e da protozoi
sono curabili mediante antibiotici, che invece non agiscono sui virus, per
alcuni dei quali vengono utilizzate combinazioni di farmaci antivirali, che,
allo stato attuale, riescono a contenere l’infezione, ma non a guarirla
definitivamente. La cura va estesa alla coppia, per evitare possibili
reinfezioni. Nel caso di persone con rapporti promiscui, bisognerebbe risalire
a tutte le persone potenzialmente contagiate.

Cominciamo con il descrivere le malattie di più vecchia
data.

LA SIFILIDE

La sifilide (detta anche lue) è una malattia
batterica, il cui agente eziologico è il Treponema pallidum, una
spirocheta (vedi Glossario) molto sensibile alle condizioni ambientali,
per cui normalmente viene trasmessa da persona a persona attraverso un rapporto
sessuale. Talvolta avviene la trasmissione simultanea di sifilide e di
gonorrea, che vedremo successivamente. Delle due sicuramente è più pericolosa
la prima, che ogni anno uccide circa 100.000 persone al mondo, contro le 1.000
della seconda. Negli ultimi anni, l’incidenza della sifilide è aumentata a
livello mondiale. Basta pensare che solo negli Stati Uniti è passata da circa
6.000 nuove infezioni nel 1997 alle attuali più di 10.000. Troviamo un’analoga
situazione nel Regno Unito, in Australia, in Europa (specialmente nell’est
Europa ed in particolare in Russia), in Cina. Nell’Africa sub-sahariana, la
sifilide è responsabile del 20% delle morti perinatali. Si ritiene che circa 12
milioni di persone siano state colpite dalla sifilide nel 1999, con più del 90%
dei casi registrati nei Paesi in via di sviluppo. Si stima inoltre che questa
malattia colpisca tra le 700.000 e 1,6 milioni di donne gravide all’anno; in
questo caso è possibile la sua trasmissione transplacentare con aborti
spontanei, bambini nati morti e neonati con sifilide congenita. Le spirochete
della sifilide vengono trasmesse attraverso microlesioni, che possono
facilmente trovarsi sulle mucose genitali (nel 10% dei casi la sifilide è
extragenitale, di solito localizzata nella regione orale). Se non curata, la
sifilide si sviluppa in tre stadi successivi, l’ultimo dei quali può
concludersi con la morte del paziente per interessamento dei sistemi
cardio-circolatorio e nervoso. Il decorso della malattia, in assenza di cure,
può essere di svariati anni (fino a 20). Nel primo stadio, o sifilide primaria,
dopo un periodo di latenza variabile da 2 settimane a 2 mesi, compare nel luogo
d’infezione (di solito nelle mucose coinvolte in atti sessuali) una lesione
caratteristica detta sifiloma primario, una sorta di papula non dolorosa, che
produce un essudato contenente i batteri attivi ed infettivi.
Contemporaneamente si verifica il rigonfiamento dei linfonodi vicini. Questa
sintomatologia dura circa un paio di settimane, per poi risolversi spontaneamente.
Questo fatto spesso induce il paziente a sottovalutare le conseguenze: in
assenza di cure antibiotiche, ciò comporta la possibilità di diffusione delle
spirochete dal sito iniziale a varie parti del corpo tra cui le membrane
mucose, gli occhi, le articolazioni, le ossa, il sistema nervoso. A distanza di
diversi mesi (fino ad un paio d’anni) dalla lesione iniziale, compare quindi la
sifilide secondaria, caratterizzata inizialmente da un esantema (Glossario)
diffuso, detto roseola, seguito dalla comparsa di numerosissimi sifilomi simili
a quello primario, distribuiti ovunque e anch’essi contenenti treponemi
infettivi, con linfoadenopatia (Glossario) diffusa. Circa un quarto dei
pazienti in questo stadio va incontro a guarigione spontanea, un altro quarto non
procede verso un’ulteriore evoluzione della malattia, ma cronicizza in
un’infezione permanente, mentre la metà dei pazienti giunge al terzo ed ultimo
stadio, o sifilide terziaria, caratterizzata da iniziali lesioni cutanee
simil-psoriasiche ed eczematose, che possono trasformarsi in gomme luetiche (Glossario)
distribuite in tutto il corpo e da infezione dei sistemi cardio-circolatorio e
nervoso. L’interessamento di quest’ultimo porta spesso alla cecità, alla tabe
dorsale (Glossario) ed alla follia. La penicillina G benzatina è uno dei
più efficaci antibiotici contro la sifilide, quindi la malattia può essere
curata, a patto di una diagnosi tempestiva effettuabile mediante test di
laboratorio come il Vdrl e il Tpha.

LA GONORREA

La gonorrea o blenorragia è anch’essa una
malattia batterica causata da un diplococco, la Neisseria gonorrhoeae,
un patogeno molto sensibile alla disidratazione, alla luce solare ed
ultravioletta, che normalmente non riesce a sopravvivere lontano dalle mucose
del tratto genito-urinario. Questa malattia è molto più diffusa della sifilide,
poiché spesso si presenta in forma asintomatica, specialmente nelle donne,
quindi non viene riconosciuta. La sintomatologia della gonorrea è diversa tra
donne e uomini. Nelle donne si presenta con una vaginite spesso lieve, con
leucorrea (Glossario), non dissimile da quelle causate da altri
microorganismi, per cui può essere sottovalutata dalla donna, oppure con una
cervicite, poiché uno dei primi siti coinvolti è la cervice uterina. È però
temibile una sua complicanza, la malattia infiammatoria pelvica (Mip), che può
portare a sterilità. Si stima che circa 1/3 di donne infette vada incontro alla
Mip. Il diplococco della gonorrea può facilmente interessare anche le mucose
oculari e condurre a gravi infezioni oculari neonatali, che possono portare
alla cecità. L’infezione del neonato avviene alla nascita, durante il passaggio
nel canale del parto. Per prevenire questo pericolo, alla nascita gli occhi di
tutti i neonati vengono trattati con un unguento contenente eritromicina. Negli
uomini i sintomi più frequenti sono le uretriti ed i disturbi alla minzione, ma
possono verificarsi complicazioni per l’estensione dell’infezione batterica
all’epididimo ed alle vescichette seminali, con conseguente sterilità maschile.
In entrambi i sessi possono inoltre verificarsi proctiti e faringiti, poiché il
gonococco può colpire le mucose delle sedi anale e faringea. Inoltre le
complicanze da gonorrea non curata possono comprendere danni alle valvole
cardiache ed alle articolazioni. Fino agli anni ’80 il trattamento con
penicillina è stato il metodo d’elezione per curare la gonorrea, ma negli anni
successivi sono comparse forme resistenti a tale antibiotico (per mutazione
batterica), soprattutto a partire dal 2006, quando si è giunti al 14% di ceppi
di Neisseria resistenti, per cui si è dovuto ricorrere ad antibiotici diversi,
come il cefixime ed il ceftriaxone. Il problema della resistenza agli
antibiotici è di particolare gravità per tutte le patologie batteriche, perché c’è
il rischio (molto concreto ed attuale purtroppo) della diffusione o della
ricomparsa di malattie, che con la scoperta degli antibiotici erano state quasi
debellate o almeno curate agevolmente. Questo è il motivo per cui si raccomanda
di assumere gli antibiotici soltanto in casi di effettiva necessità ed
esclusivamente sotto il controllo medico, per scongiurare il rischio di
ritrovarsi infetti da un ceppo mutato, verso il quale non esistono cure. La
diffusione di questa patologia nel mondo rimane molto elevata per i seguenti
motivi: (1) non esiste una valida immunità acquisita, poiché vengono prodotti
anticorpi, che verosimilmente sono ceppo-specifici, quindi sono sempre
possibili nuove infezioni con altri ceppi di Neisseria nel corso della vita;
(2) l’uso dei contraccettivi orali favorisce l’attecchimento di questo
batterio, poiché riduce enormemente la produzione del glicogeno vaginale, con
conseguente aumento del pH vaginale e repentina scomparsa del lattobacillo di
Doderlein, un batterio commensale, la cui assenza favorisce l’infezione da
parte dei ceppi patogeni; (3) la possibilità che la malattia si presenti in
forma asintomatica nella donna favorisce enormemente la sua trasmissione nei
rapporti non protetti, specialmente nel caso di promiscuità sessuale.

INFEZIONI DA CLAMIDIA

La Chlamydia trachomatis (o più
comunemente clamidia) viene spesso trasmessa contemporaneamente alla gonorrea
(si stima nel 50% dei casi di gonorrea), oppure da sola e rappresenta una delle
più diffuse patologie a trasmissione sessuale. Si tratta di un microorganismo
intracellulare obbligato (che cioè svolge il suo ciclo vitale all’interno delle
cellule, comportamento tipico dei virus, piuttosto che dei batteri, che
normalmente stanno al di fuori delle cellule ed esplicano la loro azione con la
produzione di tossine). Tuttavia non è un virus, poiché presenta
contemporaneamente entrambi gli acidi nucleici (Dna ed Rna) ed inoltre risponde
agli antibiotici, a differenza dei virus. Si stima che le infezioni da clamidia
restino asintomatiche nel 70% delle donne contagiate e nel 50% degli uomini, il
che spiega l’enorme diffusione di questa patologia. Quando i sintomi sono
presenti, molto spesso si manifestano sotto forma di uretrite non gonococcica
in entrambi i sessi. In certi casi l’uretrite da clamidia può evolvere con
edema testicolare ed infiammazione della prostata nell’uomo e con infiammazione
della cervice e malattia infiammatoria pelvica (Mip) nella donna. Nelle donne
possono verificarsi gravi danni alle tube di Falloppio (vedi Glossario),
che portano alla sterilità in percentuale variabile tra il 10-40%. La clamidia
può essere trasmessa ai neonati al momento del parto ed essere causa di
congiuntivite e di polmonite neonatale. Alcuni ceppi di clamidia (in questo
caso non trasmessi con i rapporti sessuali, ma con l’acqua contaminata) sono
responsabili di una gravissima patologia oculare, il tracoma, spesso causa di
cecità. Questa patologia è diffusa in tutto il mondo, ma soprattutto in Africa,
Medio Oriente, Australia e parte dell’Asia. Il Paese più colpito è la Nigeria
(quasi metà della popolazione a rischio). Una patologia piuttosto insidiosa
data dalla clamidia è il linfogranuloma venereo, più diffuso tra gli uomini,
che tra le donne. La sintomatologia compare a circa un mese dal contagio e
consiste nella formazione di dolorose ulcere a livello degli organi genitali o
del retto, talvolta con formazione di fistole. Normalmente c’è rigonfiamento
dei linfonodi inguinali. In assenza di cure adeguate possono verificarsi
complicazioni per diffusione dell’infezione alle articolazioni, al sangue o al
cervello, con la comparsa di setticemia o di meningite. Il linfogranuloma
venereo è raro negli Stati Uniti ed in Europa (nel 2011 tuttavia è stato
registrato un focolaio di 72 casi a Barcellona soprattutto tra omosessuali già
contagiati dall’Hiv), mentre è più diffuso in Sud America ed in generale nei
Paesi tropicali. Questa patologia è curabile con antibiotici come la
doxiciclina, l’eritromicina e la tetraciclina.

ULCERA MOLLE E TRICOMONIASI

Tra le malattie batteriche sessualmente
trasmesse c’è anche l’ulcera molle o cancroide, data dall’Haemophilus ducrey,
molto raro nei Paesi temperati e frequente invece nei Paesi tropicali e
sub-tropicali, soprattutto in Africa, Sud America e Asia. La malattia è molto
contagiosa e l’infezione può propagarsi da un punto all’altro del corpo, ma non
costituisce una minaccia per la vita. Anche in questo caso possono esserci
persone del tutto asintomatiche, ma infettive e chi è contagiato da questo
batterio presenta un rischio sette volte maggiore di contrarre l’Aids. Anche in
questo caso si formano ulcere a livello dei genitali, con ingrossamento dei
linfonodi, fistole e perdite sierose o purulente.

Il Trichomonas vaginalis è un protozoo
responsabile della tricomoniasi. Esso si localizza prevalentemente nella
vagina, ma può interessare anche altri organi dell’apparato urogenitale e può
colpire sia donne che uomini. A livello vaginale provoca un innalzamento del
pH, poiché inibisce il lattobacillo di Doderlein, che invece acidifica
l’ambiente vaginale proteggendolo dai batteri provenienti dall’esterno. Nella
donna la sintomatologia va dalla vaginite con leucorrea all’alterazione del
ciclo mestruale, ai disturbi urinari, accompagnati da nausea, irritabilità,
dimagrimento, pollachiuria. Possono esserci manifestazioni emorragiche dovute
all’indebolimento dell’epitelio vaginale per carenza di estrogeni e per la
presenza del Trichomonas ed inoltre può esserci un rapporto tra questa
infezione e la sterilità poiché l’innalzamento del pH vaginale non è idoneo
alla sopravvivenza degli spermatozoi. È stata inoltre riscontrata una
correlazione altamente significativa tra la tricomoniasi vaginale e gli stati
precancerosi e cancerosi osservati nella citologia vaginale. Negli uomini il Trichomonas
provoca uretriti acute o croniche. Nel secondo caso possono esserci anche
balanite, prostatite ed epididimite. La terapia si avvale di antimicotici sia
per uso topico, che per via orale, come l’imidazolo ed il metronidazolo. La
percentuale di donne colpite varia tra il 9-20% nelle donne di origine
asiatica, tra il 20-30% in quelle di origine europea e tra il 40-70% in quelle
di origine africana. La percentuale di uomini colpiti si aggira intorno al 10%.
È opportuno ricordare che il Trichomonas vaginalis può sopravvivere 1-2
ore su superfici umide e 30-40 minuti in acqua, per cui può essere acquisito,
oltre che con i rapporti sessuali, anche attraverso l’uso di servizi igienici,
panche, saune ed asciugamani contaminati.

Le malattie viste finora sono tutte di tipo
batterico o protozoario, di solito controllabili con antibiotici. Negli ultimi
tre decenni si sono però diffuse infezioni sessualmente trasmesse – provocate
da virus come quello dell’Aids, delle epatiti virali, dell’herpes genitale e
del papilloma umano – molto più difficili da affrontare e responsabili di
milioni di decessi. Le scopriremo nella prossima puntata.

Rosanna
Novara Topino

(fine seconda parte –
continua)

GLOSSARIO

Balanite:
infiammazione della testa del glande spesso estesa anche al prepuzio. In questo
caso si dice balanopostite.

Cervicite:
infiammazione della cervice uterina.

Citologia
cervico-vaginale
(Pap Test): studio delle esfoliazioni dell’epitelio vaginale
altrimenti conosciuto come Pap Test, dal nome del suo ideatore George
Papanicolau. L’esame serve ad evidenziare lesioni citologiche precursori di
neoplasie cervicali, in modo da effettuare sia la prevenzione che la diagnosi
precoce dei tumori del collo dell’utero. Permette inoltre di evidenziare le
lesioni cervico-vaginali virali, batteriche, micotiche o protozoarie e di
valutare il clima ormonale.

Diplococchi:
tipi di batteri sferici od ovoidali (cocchi) riuniti in coppie, come il gonococco
(gonorrea) ed il meningococco (meningite).

Epididimo:
è una parte dell’apparato genitale maschile. Si tratta di un dotto di piccolo
diametro più volte ripiegato, che collega i dotti efferenti dal retro del
testicolo al dotto deferente.

Esantema:
qualsiasi eruzione cutanea con alterazione del colore della cute.

Glicogeno:
è un polimero del glucosio di origine animale analogo all’amido di origine
vegetale. Funziona da sostanza energetica di riserva.

Gomma
luetica
: processo patologico caratteristico del periodo terziario della
sifilide che si manifesta con lesioni singole o multiple, costituite da nodosità
piuttosto grosse localizzate agli arti, alla cute, alle mucose, al fegato, alle
ossa e ad altre parti del corpo. Dopo un primo periodo detto di crudezza, in
cui le lesioni si presentano dure, queste nodosità si rammolliscono e
successivamente si ulcerano liberando una sostanza filante costituita da
residui necrotici dei tessuti caduti in disfacimento.

Fistola:
comunicazione patologica tubulare tra due strutture o tra due cavità
dell’organismo o tra esse e l’esterno.

Leucorrea:
secrezione vaginale abbondante.

Linfoadenopatia:
tumefazione, cioè ingrossamento dei linfonodi. In genere si manifesta nel
collo, nelle ascelle, nell’inguine, nel torace e vicino alle clavicole. Può
manifestarsi in concomitanza di processi infiammatori, linfomi, infezioni
virali o batteriche, alterazione della produzione endocrina, neoplasie o
patologie del tessuto connettivo.

Pollachiuria:
emissione con elevata frequenza di piccole quantità di urina. Può essere
correlata a malattie della vescica, dell’uretra e della prostata di tipo
infiammatorio o neoplastico.

Proctite:
infiammazione dell’intestino retto.

Setticemia:
detta anche sepsi, è una complicazione potenzialmente letale di un’infezione.
Si verifica quando le sostanze chimiche, che entrano in circolo per combattere
l’infezione, scatenano un’infiammazione diffusa in tutto l’organismo.
L’infiammazione crea trombi microscopici, che possono impedire alle sostanze
nutritive e all’ossigeno di raggiungere gli organi. È così possibile il
verificarsi dello shock settico, con improvvisa diminuzione della pressione e
decesso del paziente.

Spirochete:
batteri a forma di spirale e dotati di flagelli alle due estremità.

Test
sierologici:
per l’identificazione della sifilide, Tpha (Treponema Pallidum
Hemoagglutination Test) e Vdrl (Venereal Disease Research Laboratories).

Tabe
dorsale:
malattia del midollo spinale conseguente all’infezione sifilitica,
dopo 5-15 anni. Rappresenta una delle manifestazioni più importanti del periodo
terziario. Questa malattia produce lesioni ai nervi radicolari, provocando la
distruzione progressiva delle radici posteriori. Prevalgono gravi disturbi
della cornordinazione dei movimenti, diminuzione o abolizione della sensibilità
profonda o tattile, con conservazione di quella termica e dolorifica.

Tube
di Falloppio:
dette anche salpingi o ovidotti, sono due organi tubulari che
collegano le ovaie alla cavità uterina, permettendo il passaggio dell’ovocita e
la sua fecondazione.

Uretrite:
infiammazione dell’uretra.

(RNT)

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Rosanna Novara Topino




CARLO E GERY, CUORE ASHÁNINKA

Lui è un prete e missionario, lei un’infermiera. Arrivarono in Perú dalla provincia di Caserta rispettivamente 32 e 25 anni fa. Lui opera nella selva
centrale, tra le popolazioni indigene (shipibo, asháninka ealtre) calpestate dallo stato e dalle multinazionali. Lei
lavora nella periferia urbana di Lima con la popolazione a rischio, bambini e
adolescenti soprattutto.Si chiamano Carlo e Geremia (Gery) Iadicicco, fratello e sorella. Questa è la
loro storia. Piena di sorprese.


Villa El Salvador. 
Sulla maglietta bianca scende un rosario di fattura indigena, sul viso
forte un vecchio paio di occhiali a goccia. Carlo Iadicicco, prete e missionario fidei donum, ha 67
anni, ma mette in mostra un fisico sportivo e un’energia coinvolgente che esce
prepotente dalla voce e dalla gestualità. 
Padre Carlo è di passaggio a Villa El Salvador, periferia di Lima. 

«Sono in Perú da 32 anni. A parte qualche
capatina in Italia, un breve periodo sulla costa e qui a Villa, la metà di
questi anni li ho trascorsi nella Cordigliera centrale delle Ande, in Ancasch.
Dal 1995 vivo invece nella selva subtropicale, conosciuta come bosco umido
amazzonico o selva bassa. Però, in quanto “missionario itinerante”, mi muovo in
un territorio vasto quanto l’Italia meridionale». Quell’Italia meridionale da
cui padre Carlo proviene: Bellona, provincia di Caserta. Mamma Anna e papà Ciro
Iadicicco hanno fatto le cose in grande: undici figli, di cui due emigrati in
Perú. Qualche anno dopo la sua partenza per il paese andino, Carlo è stato
infatti seguito dalla sorella Geremia detta Gery, maestra e infermiera, che a
Villa El Salvador vive e lavora.

DA GUSTAVO
GUTIÉRREZ AGLI INDIOS

«Erano gli anni Settanta ed io – racconta padre Carlo – ero
un giovane di belle speranze dentro il contesto della Chiesa. Ci fu un
terremoto devastante, che fece oltre 80 mila vittime. Io però cominciai a
interessarmi di Perú non soltanto a causa di quel tragico evento, ma anche
perché vi operava una Chiesa che faceva un cammino molto interessante,
capeggiata dal vescovo di Chimbote, mons. Bambarén1. A Chimbote c’erano le
prime conferenze di Gustavo Gutiérrez sulla teologia della liberazione2. Io ne
ero affascinato sia dal punto di vista intellettuale che umano. Qualche anno
dopo questi eventi, riuscii a farmi mandare in Perú».

Oggi padre Carlo lavora nel dipartimento di Ucayali, nella
zona centro-orientale del Perù, al confine con il Brasile. Ha una parrocchia
nella cittadina di Bolognesi, provincia di Atalaya. Tuttavia, egli si descrive
come un «missionario itinerante».

«La maggior parte della mia quotidianità la passo andando di
comunità in comunità. E ciò mi impedisce di avere una équipe pastorale, con la
quale sarebbe difficile muoversi. C’è stata anche una circostanza scatenante
che mi ha fatto pendere per questo stile di vita. È stato quando ho cominciato
a seguire un gruppo di indios – un sottogruppo di Nahua – che erano stati
cacciati dai luoghi dove vivevano da un’invasione di madereros (tagliaboschi).
Il mio primo contatto è stato invece – era il 1995 – con gli indigeni della
famiglia asháninka del Basso Urubamba e del Tambo. Da allora ho scoperto che io
potevo dare senso alla mia vita di missionario e di uomo sposando la causa
indigena». 

Per raggiungere i diversi villaggi, si muove specialmente
via lancia o canoa, percorrendo il grande Ucayali e i suoi affluenti. Oltre che
con gli Asháninka, padre Carlo lavora con gli Shipibo-Conibo, ma ha contatti
anche con gruppi di Yaminahua, Amahuaca e Cashinahua.

Spesso, almeno per le persone estranee alla tematica, gli
indigeni sono un’entità unica e omogenea. Non è così.

«Quello indigeno – spiega il missionario – è un mondo di
straordinaria ricchezza e varietà. Tuttavia, esiste una matrice comune che lo
attraversa e che lo rende differente dal nostro Occidente. Il mondo indigeno
non prevede un’esistenza fatta di accumulazione di beni. In secondo luogo, noi
occidentali, a partire dalla cultura greca e dalla filosofia socratica in
particolare, abbiamo diviso il mondo in Dio, uomini e natura. I popoli indigeni
non prevedono una divisione tanto meccanica. Al contrario, cercano una vita di
armonia con se stessi, con la natura e con gli spiriti».

Padre Carlo ha idee sue. Come quando nega l’esistenza dei
popoli isolati («un’esagerazione di etnologi e antropologi», sostiene) o quando
contesta il sistema delle Nazioni Unite sulla riduzione delle emissioni dovute
alla deforestazione3. Ma diventa serio e perentorio quando spiega le emergenze
attuali.

IL VIRUS E L’UTOPIA

«Il primo problema è il collasso dell’Amazzonia. Io non mi
iscrivo dentro il grande, rispettabile e ammirevole movimento ambientalista. Né
voglio fare del terrorismo ecologico. Io sono semplicemente un prete che vede
nella natura e nell’Amazzonia una creazione di Dio. A me interessa la vita, sia
essa umana, animale o vegetale. Il fatto certo è che la sopravvivenza delle
popolazioni indigene è legata in maniera indissolubile all’ambiente in cui esse
vivono. Tre quarti del territorio amazzonico del Perú è in concessione a
compagnie straniere che vanno ad operare direttamente su terre, territori e
risorse dei popoli indigeni».

Dal punto di vista dello sfruttamento petrolifero, la vasta
zona geografica dove opera padre Carlo corrisponde al Lotto 1264. Titolare
della concessione è la True Energy, società petrolifera a capitale canadese. «Si
sono piazzati con alcuni pozzi anche se il petrolio è di pessima qualità e
molto profondo. Con un prezzo oltre i 100 dollari al barile anche un prodotto
scadente genera profitti. Questi stanno rovinando tutto e non hanno nessun
contatto con le popolazioni indigene del luogo. Arrivano con l’elicottero,
usato per portare di tutto, fin’anche l’acqua in bottiglia per gli operai. La
mia avversione non è soltanto verso l’inquinamento ambientale, ma anche verso
un inquinamento che è etico, morale e civile».

La tracotanza delle compagnie minerarie è conosciuta. In Perú,
nulla è cambiato dopo i fatti di Bagua (i tragici scontri tra indigeni e
polizia)5 e dopo l’approvazione della legge di consultazione preventiva delle
popolazioni indigene6. Nel Perú della crescita economica su base estrattiva, il
«pericolo-tenaglia» è concreto: nel sottosuolo ci sono le risorse petrolifere,
sopra c’è il legname pregiato, in mezzo i popoli indigeni.

«Purtroppo – spiega padre Carlo -, si è diffuso un virus che
vede l’Amazzonia come un magazzino di beni da depredare. L’utopia è sempre
migliore della realtà. L’utopia ha mosso i grandi uomini, da san Francesco al
Mahatma Gandhi. La soluzione utopica sarebbe di rendere l’Amazzonia off-limits».

LA PASSIONE PER IL POSSIBILE

Se l’utopia non è praticabile (almeno per il momento), la
domanda è: cosa si può e deve fare?

«Facciamo un esempio – spiega -, comparando la situazione
del Canada e della Svezia a quella dell’Amazzonia. Da secoli il Canada e la
Svezia riescono a vendere i propri pini senza compromettere i loro boschi,
perché il Perú non potrebbe vendere il cedro e il mogano senza distruggere le
proprie foreste? Ecco, almeno uno sviluppo sostenibile di questo tipo andrebbe
perseguito. Certamente non è facile, considerando che queste imprese
transnazionali sono più forti degli stati, soprattutto di stati come il Perú».

Padre Carlo è un uomo di cultura: sa spaziare con cognizione
di causa dalla Bibbia a Gramsci. Ma è anche e soprattutto un uomo pratico che,
al cospetto della realtà, vuole poter agire concretamente. «Con Gery, ho sempre
sostenuto che la nostra filosofia deve essere dettata dalla “passione per il
possibile”. Che significa: facciamo quello che possiamo fare, partendo da
relazioni microsociali. Se cerchiamo lo scontro, dobbiamo sapere che
storicamente i poveri e dunque anche gli indigeni hanno quasi sempre perso.
L’importante è ricordare che gli indigeni non sono relitti storici. Né sono
quelli descritti da Rousseau con il mito del buon selvaggio7. Faccio un esempio
banale: se dai a un indigeno un cellulare, puoi essere certo che non se lo
scollerà dall’orecchio finché vive. Oppure si guardi ai giovani indios che
studiano in città. Quando tornano al villaggio, passano con totale disinvoltura
dall’indossare scarpe e occhiali a camminare a piedi nudi e con le frecce in
mano. Io li chiamo “pendolari della cultura”».

LA CAUSA INDIGENA È CAUSA DELL’UMANITÀ

Chiediamo a padre Carlo se, a suo parere, la causa indigena
non finisca per interessare soltanto a ristretti gruppi di persone come, ad
esempio, antropologi, etnologi e ambientalisti.

«Non lo credo. Gli indigeni sono essenziali per il mondo non
soltanto a motivo dell’ecosistema in cui essi si muovono ma anche per le
alternative di vita e di modello economico che portano avanti. Per questo ne ho
la certezza: la causa indigena non riguarda soltanto i popoli indigeni ma tutta
l’umanità».

Geremia detta Gery ha ascoltato in rispettoso silenzio la
nostra conversazione con il vulcanico fratello missionario. Ma anche lei ha
molte cose da raccontare (la sua storia qui sotto)8. Una, la più
bella tra tutte, le siede accanto. Sono Shany e Gery, sorelline asháninka, che
lei ha adottato e che ora si stringono attorno allo zio Carlo. Prete italiano
dal cuore asháninka.

Paolo Moiola
 

Note

1 – Sulla figura di mons. Bambarén si legga l’intervista La
vita prima del debito (MC, maggio 2000), a cura di Paolo Moiola.

2 – Su Gustavo Gutiérrez si leggano le interviste Gli esclusi
non si arrenderanno (MC, febbraio 1998) e Ma i giovani statunitensi mi dicono
che… (MC, dicembre 2003), entrambe a cura di Paolo Moiola.

3 – Si tratta del programma delle Nazioni Unite denominato «Redd».
Il sito ufficiale: www.un-redd.org.

4 – Sulla questione dei lotti in cui è stato suddiviso il
Perú, si legga: Paolo Moiola, Splendori e miserie del lotto 122, MC, novembre
2011.

5 – Gli scontri avvennero il 5 giugno 2009. Lasciarono sul
terreno almeno 33 morti, tra indigeni e poliziotti. Il numero reale di vittime
potrebbe però essere stato maggiore.

6 – Si tratta della Legge 29785, del 6 settembre 2011, dal
titolo di: «Ley del derecho a la consulta previa a los pueblos indígenas u
originarios, reconocido en el convenio 169 de la Organización inteational del
trabajo (Oit)».

7 – Secondo il «mito del buon selvaggio», in origine l’uomo è
un animale buono e pacifico, corrotto successivamente dalla società e dal
progresso.

8 – Le foto di questo reportage e la foto della copertina
del numero sono di Annalisa Iadicicco e Marlon Krieger:  www.annalisaiadicicco.com.

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }


Box:

Geremia Iadicicco
A VOLTE, LE FAVOLE SI AVVERANO

Dagli ospedali dell’Italia ai centri di salute della selva
amazzonica. Dalle scuole italiane a quelle di Villa El Salvador. Un percorso professionale
ma soprattutto di vita.

Villa El Salvador. Non diremo l’età di Geremia detta Gery
perché non sta bene. Diremo soltanto che porta benissimo i suoi anni. Quando ha
poco meno di 18 anni, parte da Bellona, provincia di Caserta, per andare a lavorare
al Nord, in Liguria, con il suo diploma di maestra sotto il braccio. Lavora
come maestra-educatrice per 5 anni in vari istituti dove, prima della riforma
della scuola, si tenevano i bambini con qualche problema. Dopo la riforma,
questi istituti vengono chiusi e Geremia decide di frequentare una scuola per
infermieri professionali all’ospedale Galliera di Genova. Ottenuta la
qualifica, per 13 anni rimane fedele al suo ruolo di infermiera-caposala. Poi
la svolta.

«In quegli anni – racconta – maturai il desiderio di
viaggiare e inserirmi in un altro contesto sociale e politico, per darmi
l’opportunità di vivere, in una forma più coerente e autentica, i miei ideali
cristiani, politici e sociali. Scelsi il Perú perché lì viveva da molti anni
mio fratello Carlo, sacerdote e missionario, con cui condividevo molti di
quegli ideali».

Gery parte da Genova 25 anni fa con la Ong Mlal (Movimento
laico America Latina), inserita in un progetto di «Salute comunitaria», che si
svolge alla periferia di Lima, in una città in costruzione chiamata Villa El
Salvador, dove tuttora vive. Negli anni successivi, lavora per diversi progetti
sociali e di sviluppo, sempre all’interno di gruppi  professionali impegnati con i settori della
popolazione più a rischio, come bambini e adolescenti. Trova aiuto e supporto
in molte persone: «Sono stata costantemente accompagnata – ricorda lei con
riconoscenza – da persone di alto valore morale e grande sensibilità sociale,
sia peruviani che italiani. Mio fratello Carlo, la mia famiglia, amiche e amici
inseparabili hanno fatto e fanno il possibile per aiutarmi – non soltanto dal
punto di vista economico – nella realizzazione dei progetti a cui mi sono
dedicata e ancora oggi mi dedico».

Gery trascorre tre dei suoi venticinque anni in Perú nella
selva amazzonica, accompagnando il fratello nella sua missione dedicata ai
nativi di varie etnie. Lavora in un piccolo progetto di salute, con i promotori
di varie comunità indigene, asháninka soprattutto. Condivide le proprie
conoscenze della medicina occidentale, ma impara anche i fondamenti della
medicina indigena.

«Questi anni vissuti nella selva furono per me i piú
significativi, soprattutto sul piano umano e personale. Dalla selva infatti
portai a Villa El Salvador il regalo più bello: una bimba asháninka a cui demmo
il nome di Shany. Aveva solo un anno, ora ne ha 16 ed è stata raggiunta dalla
sorellina Gery di 11 anni, che vive con noi da 6».

A vivere con loro c’é anche la nipote Paola, che collabora
nel programma di cui Geremia Iadicicco è responsabile. Si tratta di un progetto
educativo che si svolge nella periferia di Villa El Salvador. «Circa 13 anni fa
– racconta -, al ritorno dalla selva, insieme ad un gruppo di persone iniziammo
un lavoro con bambini e adolescenti della zona periferica della città. Era la
zona più povera, abitata da una popolazione emarginata ed esclusa. Creammo due
programmi. Il primo è formale: una scuola matea, “Arenitas del Mar”, che
adesso è anche elementare. Il secondo è invece un doposcuola comunitario –
l’abbiamo chiamato “Escuela Deporte y Vida” (Scuola sport e vita) -, aperto a
tutti i bambini, bambine ed adolescenti, che cercano uno spazio dove poter
risolvere le loro necessità: fare i compiti, stare insieme facendo sport, arte,
manualità, così come dice il nome». Questi programmi sono gestiti dal Cedec («Centro
de educación y desarrollo comunitario»), un’associazione senza scopo di lucro
di cui Gery è presidente. 

I progetti di Geremia Iadicicco e del fratello Carlo hanno
trovato l’entusiastico appoggio di molti abitanti di Bellona, loro paese
natale. Tanto che, nella cittadina casertana, sono nate due associazioni di
supporto, la recente «Pachacamac» e soprattutto «Alas de Esperanza»1.
Quest’ultima è nata come gruppo musicale che suona musica andina con strumenti
tipici della tradizione musicale latinoamericana. Quando una favola diventa
realtà, anche la musica deve essere all’altezza.

Paolo Moiola
 
Nota:1 – Il sito ufficiale dell’associazione e gruppo musicale «Alas
de Esperanza» (Ali di speranza): www.alasdeesperanza.it. Sul sito è possibile
ascoltare brani della loro musica.

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Paolo Moiola




Cari Missionari

Normal 0 14 false false false IT JA X-NONE

FILATELIA
Rev. p. Direttore,
ho letto, con piacere,
sul n. 11 di novembre 2012 che avete riesumato un’attività morta da molti anni:
la filatelia. Congratulazioni! Sono un vecchio abbonato e, in passato,
attingevo volentieri alle vostre offerte filatelico-numismatiche. So che un
tempo, con il ricavato dei francobolli, sostenevate i vostri seminaristi, sia
in Africa che in America Latina. Sarebbe bello poter continuare quell’opera
meritoria.
Mi piacerebbe anche
sapere se tra le donazioni che ricevete avete anche cartoline e buste, antiche
e modee; e i santini delle nonne, roba dell’800, e cartamoneta fuori corso.
In attesa di una sua risposta, la ringrazio per la sua attenzione. Preghiamo a
vicenda.
Gian Carlo Alessandri


Piacenza, 11/11/2012

Gentilissimi della Redazione,
nella pagina 5 della
rivista del novembre scorso ho letto la lettera di nonno Ludovico che vi fa
dono delle sue raccolte di francobolli a lui tanto care. Non sono per niente
d’accordo con le vostre risposte in merito. Pare che nonno Ludovico vi faccia
un dispiacere e che consideriate nulla la sua offerta. Se volete trasformare in
«polenta» la sua collezione dovrà essere polenta molto ma molto «biologica». Se
questo è ragionare da sacerdoti, allora! Penso che non pubblicherete questa
mia. A me basta che ci riflettiate sopra.
Bottoni Elena


Roletto, 08/11/2012

Sig. Gian Carlo,
è vero, un tempo su
questa rivista c’erano sempre delle pagine dedicate alla filatelia. Io stesso,
da studente di teologia, agli inizi degli anni settanta, cornordinavo il gruppo
filatelico del seminario attraverso il quale ci autofinanziavamo per procurarci
materiale audiovisivo per la catechesi. Poi i tempi e le regole sono cambiate,
ma l’attività filatelica non è mai morta sia perché ci sono sempre dei
benefattori che ci fanno dono delle loro collezioni, sia perché, anche tra i
missionari, chi è filatelico rimane filatelico per sempre. Noi siamo grati,
veramente, a chi ci aiuta anche attraverso i francobolli o tutti gli altri
oggetti da «mercatino» che lei menziona. Se sul numero di novembre e qui scrivo
alla sig. Elena ho dato l’impressione di disprezzare il dono del sig. Ludovico,
me ne dispiace. Non era certo mia intenzione, anzi. La mia risposta rifletteva
solo una po’ di amarezza circa la situazione della filatelia che, pubblicizzata
per anni anche come investimento sicuro per il futuro, si sta invece rivelando
un grande imbroglio ai danni degli appassionati.


Non voglio fare delle
polemiche sterili. Quanto sta succedendo ci dimostra ancora una cosa
importante: la filatelia si pratica solo per passione, non per lucro. Se poi
questa passione può aiutare chi è nel bisogno, tanto meglio. I francobolli
donati dal sig. Ludovico e da tanti altri ancora, attendono di essere
trasformati in «polenta biologica». Se qualcuno fosse interessato può scrivere
alla nostra email oppure direttamente a filatelia@missionariconsolata.it, e il
«padre filatelico-numismatico» sarà ben lieto di dare tutti i chiarimenti
necessari.

DOSSIER CONCILIO VATICANO
II

Caro p. Gigi,
uno, quando si alza il
mattino, dovrebbe iniziare la giornata con le Lodi. Io oggi ho iniziato col tuo
editoriale e ti scrivo subito. Vi ho trovato tutte cose che in teoria sapevo
già, ma il vederle lì belle, chiare, nette ecc. mi ha riempito di gioia. Il
constatare che tanti si sentono a posto, perché fanno le cose bene (preghiere
alle ore giuste, astensione dalle cai nel giorno stabilito, messa la domenica
sempre, l’elemosina quel tanto per sentirsi a posto), alle volte mi fa nascere
un po’ d’invidia. Anch’io infatti vorrei sentirmi tranquilla dentro per una
rigorosa osservanza dei precetti e essere felice e a posto davanti al Signore.
Una vita ricca di religione! Invece mai che mi riesca: le cose bene non le
faccio, e per di più la fede ogni giorno mi mette davanti delle scelte, anche
alla mia non più giovane età. Anche con i figli sovente too su questo
argomento e dico: io, come ho saputo e potuto, vi ho dato l’esempio; ora (da
tempo, perché i figli sono tutti negli “anta”) tocca a voifare prevalere la
fede sulla religione, ma non dimenticate la religione, perché, se praticata
bene, aumenta la fede e viceversa. Con i nipoti faccio lo stesso, ma è ben più
difficile. Continuo a seminare e mi dico: «Signore, io cerco di seminare al
meglio, ora irriga tu e fa’ crescere la pianta, se vuoi». Quel «se vuoi» mi
mette allegria, perché so che anche Lui è coinvolto nel mio lavoro di
educatrice, e io sono coinvolta nel Suo di creatore e redentore. Che ne dici?
Sono fuori strada?

In quanto al Vaticano II,
iniziò pochi giorni dopo il mio matrimonio ed ero alle prese con la tesi di
laurea che conseguii a febbraio mentre ero incinta della nostra prima figlia,
felice più per la creatura che portavo dentro di me che per aver raggiunto la
tanto agognata meta. Leggevo sui giornali del Concilio (ero fissa a quello di
Trento che «mi aveva opposto» ai miei compagni di scuola valdesi e al Vaticano
I che aveva proclamato ancora una volta l’infallibilità del papa), ma ero
talmente presa dal lavoro tra casa e scuola che non mi rendevo conto di quel
miracolo che stava succedendo. Papa Giovanni lo amavo molto, ma al momento non
capii la portata del suo gesto. Ma don Domenico Mosso, che allora era
viceparroco a Santa Teresina in Torino, nella seconda metà degli anni ’60, un
bel giorno ci spiegò la Messa: le parole in italiano e il significato
dell’essere rivolto verso di noi da un altare quasi circolare; ci fece cantare
e ci disse che potevamo anche mangiarci una caramella di menta per cantare
meglio e che avremmo potuto fare lo stesso la comunione (il digiuno dalla
mezzanotte era finito e ci si poteva pure lavare i denti senza timore di
ingerire l’acqua) e masticare (sic!) l’ostia! Fu allora che mi si aprì nel
cuore un canto di gioia: era finita la religione, per me cominciava la Fede.

Negli anni seguenti
tornai sui banchi di scuola, mi iscrissi all’Istituto Superiore di Scienze
Religiose, frequentai per quattro anni i corsi e la ricchezza dei testi del
Vaticano II insieme a quella delle Scritture mi riempì la vita. Imparai a
lavorare e ricercare con battisti, valdesi e metodisti, e pure con quelli della
Comunità ebraica. Allora abitavamo in San Salvario e la vicinanza di sinagoga,
chiesa di San Pietro e Paolo e tempio valdese, tutti racchiusi in un piccolo
spazio, fu di grande aiuto al lavoro insieme. Hai ragione, quando sottolinei
«l’universale e fondamentale chiamata alla santità come pienezza della vita
cristiana e perfezione della carità». è su questo punto che dobbiamo lavorare.

Bene, incomincio l’anno
sociale nella mia parrocchia piena di questa pagina/editoriale che tu mi hai
personalmente regalato. Grazie.

Paola Andolfi – email, 29/09/2012

Caro p. Gigi,
ho ricevuto tre giorni or
sono il numero di ottobre: visto il tema del dossier, mi ci sono buttato a
capofitto. Per coloro che hanno la nostra età, o giù di lì, il Concilio
Ecumenico Vaticano II ha rappresentato e rappresenta uno spartiacque tra il
prima e il dopo. Questo noi, vecchietti, lo sappiamo. Senza ulteriormente
dilungarmi, desidero esprimere a te personalmente e ai tuoi collaboratori il
mio grandissimo plauso. Una citazione particolare va a Mario Bandera: mai era
successo di leggere scritto da un altro il mio preciso e circostanziato
pensiero. Non c’è da modificare una virgola: ciò che espone nel suo contributo…
è come l’avessi scritto io! Grazie.
Ezio Venturelli – email, 30/09/2012


ESTREMISMI

È molto interessante la
rivista Missioni Consolata di novembre, soprattutto l’editoriale, il dossier
Jihad africana ed Armi low cost al suo interno. I nemici più pericolosi della
democrazia e del benessere sono i diversi gruppi estremisti, che possono
danneggiare la società. La violenza usata per promuovere la falsa democrazia,
il falso bene e il falso bene comune, corrompe dall’interno. Oggi, il mondo sta
subendo grandi movimenti di popolazioni, cambiamenti radicali, e l’assenza di
buon senso e di virtù morale e generosità, sta facendo prosperare l’egoismo e
la violenza. Il Novecento è stato il secolo del terrore e degli orrori, per
questo c’è la necessità di creare sistemi di valori forti e radicati,
altrimenti gli esseri umani vivranno in una società sempre più simile alla
distopia di «1984» di George Orwell.

Ci troviamo in una
situazione di limite, perché stiamo consumando le risorse del pianeta in modo
esponenziale. La vita è vissuta consumando e non elevando la cultura, la
spiritualità e la moralità. Per questo motivo ci sono sprechi, guerre, persone
che muoiono per fame e malattie facilmente curabili (se ci fossero farmaci a
basso costo e non ci fosse corruzione). Ci troveremo a vivere in un pianeta
ridotto a un’enorme struttura semi artificiale per creare cibo, per ospitare
edifici e per avere sistemi di mantenimento delle poche risorse che rimarranno.
Stiamo sfruttando al massimo il suolo, esaurendo il petrolio e i luoghi dove è
relativamente facile estrarre i minerali, stiamo cambiando il clima del pianeta
e avvelenando la terra, il mare e l’atmosfera in modo assai pericoloso.
Distruggendo le risorse al ritmo attuale stiamo preparando i conflitti futuri,
che si innescheranno per la sopravvivenza dei popoli e delle nazioni più forti,
quando il più spietato e il più progredito tecnologicamente sarà il vincitore.
Cosa faremo fra trent’anni quando la popolazione mondiale raggiungerà i 10
miliardi?

La cultura dello spreco,
del consumismo e dell’arraffa quello che puoi e disinteressati delle altre
nazioni e popoli, è arrivata alla fine. Se non si farà il necessario, ci
saranno eventi disastrosi per l’umanità. Cosa accadrà alla dignità umana,
quando ci saranno problemi come il poter vivere dignitosamente, quando ci saranno
grandi distese di case e catapecchie che non avranno i servizi igienici,
l’acqua potabile e non ci sarà cibo a sufficienza per tutti? Ci ridurremo come
nel film “2022, i sopravvissuti” (Soylent Green, di Richard Fleischer, 1973)?
Cordiali saluti.

Paolo Sanviti – email, 09/11/2012

STRAGE DI INNOCENTI IN
AFRICA

Si dibatte sempre sulla
morte di tanti bambini africani innocenti, ma vorrei far presente: Non esiste
la famiglia africana (le tribù sono quasi scomparse). Gli uomini africani, dopo
avere generato, lasciano la donnache si sobbarca l’allevamento dei figli come
può. L’occidente, dopo aver dato ai paesi africani i vaccini, gli antibiotici e
le medicine salvavita, doveva dare anche i profilattici; se li ha foiti,
perché non sono stati distribuiti? Non credete che le organizzazioni religiose
presenti in Africa si debbano assumere le loro responsabilità? Tuttavia, non è
troppo tardi per cambiare atteggiamento e affidarsi al buon senso! Grazie
dell’ascolto.

Elvira, email – 05/11/2012

Credo che su questo
argomento abbiamo una visione ben diversa. Il suo giudizio sulla famiglia
africana è tranciante, e se può corrispondere a molte delle situazioni che
dominano nelle periferie disumanizzate delle grandi città, non rispecchia la
realtà. La famiglia è ancora un’istituzione solida in Africa. Quanto alle
tribù, fosse vero che sono scomparse. Purtroppo il tribalismo è sempre forte ed
è ancora una delle cause di tanta violenza. In più sono arrivate anche delle
nuove tribù: i wazungu (europei), gli asiatici, i cinesi, che hanno introdotto
nuovi fattori di tensione.


L’occidente ha certo
delle responsabilità, ma di sicuro non quella di non aver dato profilattici;
anzi ne ha dati in quantità industriali. E non ha fornito solo condoms, ma
anche le cliniche per l’aborto, la sterilizzazione forzata delle donne,
l’imposizione di legislazioni contro le tradizioni e culture africane
riguardanti la famiglia, e il traffico di persone per sesso.


Quel che non ha dato,
invece, è giustizia, commercio equo, lavoro, dignità, rispetto e speranza. Si
sono «rubati» campi e acqua per fiori e ortaggi da esportazione, per cereali
destinati a bestiame da macello e i biocombustibili, per la produzione di cibo
per nazioni potenti e danarose. Si cacciano tribù dalle loro terre ancestrali per
far posto a impianti estrattivi, per costruire grandi bacini idroelettrici, per
sfruttare e distruggere foreste antichissime. Si sono imposti prezzi tali sulle
materie prime, minerali e prodotti agricoli, che i lavoratori sono ridotti a
livelli di schiavitù, obbligati a lavorare per sopravvivere senza avere le
risorse per curare le proprie famiglie: casa decente, scolarizzazione dei
figli, assistenza sanitaria e tempo libero.


Si continuano ad
alimentare guerre e violenze locali (vedi la situazione della zona dei Grandi
Laghi che, forse, ha fatto ancora notizia a fine novembre) per mantenere lo
sfruttamento selvaggio di minerali preziosi e strategici (come il coltan dei
nostri telefonini). Si dirà che è la corruzzione caratteristica dell’Africa che
causa tutto questo. Ma chi sono i corruttori? Chi davvero ci guadagna? Le
organizzazioni religiose, come i missionari della Consolata, sanno che la prima
risposta al problema della morte di «tanti bambini africani innocenti» non sono
i profilattici o l’aborto (che invece hanno un’efficacia letale nell’aumentare
le vittime innocenti), ma l’investimento nell’educazione (scuola per tutti),
nella promozione della giustizia e della pace (no alle guerre, al tribalismo,
al razzismo, sì al commercio equo), nella prevenzione sanitaria (difesa della
salute e del diritto alla vita) e nella creazione di posti di lavoro dignitoso
giustamente pagato (diritto al lavoro). Una coppia che abbia un’educazione di
base forte e un lavoro stabile su cui contare e la prospettiva di una pensione,
cercherà di farsi una casa che sia casa, non catapecchia, di mandare i propri
figli a una scuola di qualità, e, dovendo fare i conti con le proprie forze e
le proprie ambizioni, pianificherà anche il numero dei figli, che non saranno
mai più di tre o quattro.


Questa non è teoria. Sono
fatti osservati sul terreno in 21 anni di Kenya, vissuti a contatto con le
realtà più contradditorie: dalla vita tribale del Nord agli slums di Nairobi,
dai quartieri bene della nuova borghesia africana alle periferie rurali delle
regioni centrali e della Rift Valley.


Vogliamo davvero dare un
futuro ai bambini africani? Vogliamo tolglierci la paura di diventare troppi (o
meglio, che diventino troppi!) e di non aver più risorse per tutti? La
soluzione c’è: equa distribuzione delle risorse; rapporti inteazionali
controllati dalla politica e non dalle multinazionali del profitto; educazione,
salute e lavoro per tutti; meno condoms e più libri; meno armi e più medicine;
meno cliniche abortiste e più medicina preventiva; meno schiavitù e più fiducia
nelle responsabilità delle persone; meno farci giudici degli altri e più senso
di appartenenza paritaria alla stessa famiglia umana.


Il bello di tutto questo?
Che il futuro, lo vogliamo o no, appartiene agli africani che ancora credono
nella vita e nei bambini, non a noi che ci stiamo eutanasiando nel nostro
sterile benessere. Peccato che anche per l’Africa il nostro modello di vita
consumistico ed egoista sia una tentazione a volte irresistibile.

VOLONTARIATO
Buongiorno,

io mi chiamo Giulia e
sono un’assistente dentista professionale di Savona. So che non sono un medico
e non sono laureata ma mi piacerebbe comunque sapere se fosse possibile poter
dare il mio contributo. Attualmente lavoro in uno studio dentistico di Savona.
Io ho circa due mesi di ferie libere l’anno e vorrei davvero poter fare
qualcosa.

Giulia S. Savona,
30/10/2012

Ho già risposto a Giulia,
grazie alla rapidità della rete. Riceviamo spesso richieste d’informazioni da
parte di persone desiderose d’impegnarsi come volontari al servizio degli altri
nei paesi più poveri. Ci scrivono medici, infermieri e professionisti vari; ci
scrivono giovani come Giulia e pensionati che sentono di avere ancora tanta
energia e competenza professionale da condividere. Le richieste variano
dall’impegno «mordi e fuggi» del tempo delle ferie, a quello più stabile di un
servizio a tempo indeterminato o di alcuni anni. Questo è un tipo di
volontariato che è diverso da quello dei gruppi o persone singole che vanno per
un breve periodo in una missione a dare una mano per costruzioni, animazione o
altre attività spicciole. Oggi, tutte le attività «professionali», anche
volontarie, sono bene regolamentate in ogni paese del mondo, forse con
l’eccezione del Sud Sudan, per cui sono necessari permessi di lavoro e
riconoscimento locale dei titoli professionali. Per questo è importante
appartenere a organizzazioni di cooperazione internazionale competenti nel
settore. Ce ne sono tantissime in Italia. Esistono anche i laici Fidei Donum
cornordinati dalla Chiesa Italiana, e i missionari hanno i «Laici degli Istituti
missionari», il cui primo convegno si è effettuato all’inizio dello scorso
dicembre.


Non so se esista un
vademecum del volontariato missionario (tema di uno dei nostri prossimi
dossier?). Intanto continuate a scriverci, faremo del nostro meglio per
offrirvi delle risposte precise.

/* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin-top:0cm; mso-para-margin-right:0cm; mso-para-margin-bottom:10.0pt; mso-para-margin-left:0cm; line-height:115%; mso-pagination:none; font-size:11.0pt; mso-ascii- mso-ascii-theme- mso-hansi- mso-hansi-theme- mso-ansi-language:EN-US; mso-fareast-language:EN-US;}

Risponde il Direttore




(Cana 38 – ultimo) DAL MIRACOLO AL SEGNO

«Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra» (Gen 9,135)
Gv 2,11: «Mentre faceva questo principio dei segni Gesù in Cana di Galilea,
manifestò la sua gloria e credettero in lui i suoi discepoli».
(Tàutēn epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs en Kanà tês Galilàias
kài ephanèrōsen tên dòxan autoû kài epìsteusan eis autòn hoi mathētài autoû).

Ci fermiamo ancora su Gv 2,11 perché è un versetto inesauribile e pregnante. Nella puntata precedente lo abbiamo tradotto mettendo in seconda linea l’aspetto «miracolistico» (mentre faceva questo principio dei segni) e ponendo in risalto «la rivelazione» della gloria di Gesù che suscita la fede dei discepoli (cominciarono a credere in lui). Se questo, come crediamo, è il punto focale di tutto il racconto di Cana, significa che la narrazione ha come scopo e obiettivo due momenti: la manifestazione della gloria e la fede, come conseguenza della rivelazione. Di nuovo siamo proiettati nell’esodo, ai piedi del Sinai, dove il popolo per mezzo di Mosè «vide» la Gloria di Dio che suscitò la fede che si espresse nella professione: «Quanto il Signore ha detto, noi faremo e ubbidiremo» (Es 24,7).
Il Sinai è il monte principe, anzi «il principio» della rivelazione, la prima manifestazione «spettacolare» di Yhwh a cui partecipa tutta la natura con «tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno» (Es 19,16). Cana è un villaggio anonimo, dove Gesù pone «il principio» della sua personalità che si manifesta come ripresa del tema dell’alleanza che deve essere rinnovata. Sul Sinai Dio espose il suo Nome attraverso la Toràh; a Cana Gesù toglie il velo alla sua «Gloria», cioè alla sua personalità e consistenza ed esige un’adesione di fede.

Il «principio» dalla Genesi a Cana
A conclusione del racconto di Cana, quasi a darcene la chiave, Gv presenta il primo gesto pubblico di Gesù come «principio dei segni» (archên tôn sēmèiōn), cioè fondamento, radice, profondità di quanto segue. La conclusione del racconto di Cana richiama l’inizio del IV vangelo: «In principio era il Lògos» (en archêi ên ho Lògos) che a sua volta richiama il «principio» assoluto della Bibbia, la prima parola della Scrittura, in Genesi 1,1 nell’atto di Dio creatore: «Nel principio del “Dio creò il cielo e la terra”…» (ebraico: bereshìt barà ‘èlohim hashammàim we’et ha’arez; greco: en archê1 epòiēsen ho thèos ton ouranòn kài epì ghên).
Ci troviamo di fronte a tre «principi»: al fondamento della creazione, all’origine del Lògos e sua relazione col Padre, alla svolta della vita di Gesù che inaugura il Regno. Il primo «principio» genera la vita, il secondo «principio» svela la natura di Dio, il terzo rivela la persona di Gesù.
Nel primo «principio» Dio fa alleanza con il creato e il cosmo, umanità compresa; nel secondo «principio» è Dio stesso che prende dimora nella caducità creata (il Lògos carne fu fatto di Gv 1,14); il terzo «principio», di Cana, riporta il creato e l’umanità, attraverso il Lògos, all’«origine» della vita di relazione: all’alleanza garantita dalla Toràh del Sinai. Il creato fa da sfondo superbo all’azione di Dio, Israele fa da sfondo all’ingresso del Lògos nel tempo, l’anonimato di un comune sposalizio a Cana, villaggio senza storia, fa da sfondo alla rivelazione di Gesù, che inaugura, come è suo costume, la nuova logica di Dio, il quale sceglie «quello che è stolto per il mondo… quello che è debole… quello che è disprezzato… quello che è nulla» (1Cor 1,27-28).
A Cana, forse, la madre ha appreso l’esultanza dello spirito perché vi ha trovato «il principio» dell’umiltà della sua serva (Lc 1,47-48). La logica dell’incarnazione porta inevitabilmente il Figlio ad accettare radicalmente la prospettiva umana fino al punto di «svuotare se stesso» (Fil 2,7) della divinità, cioè della sua natura. Paolo infatti usa il verbo «ekènōsen» che ha il senso della privazione/mancanza/impoverimento. Nel momento in cui Gesù mette piede a Cana e dà inizio al «principio dei segni», Dio rinuncia per sempre alla sua onnipotenza per essere il Dio svuotato che può essere conosciuto solo nella rivelazione del volto del Figlio, volto umano e non più divino, volto opaco che bisogna indagare, scrutare, riconoscere e amare.

Dio è «pesante»
La «Gloria» che egli manifesta a Cana è solo un altro «principio» che si compirà alla fine del suo percorso, sulla croce, dove l’impotenza di Dio diventerà il fondamento della salvezza universale, quando Dio rinuncia per sempre a dare «spettacolo» a buon prezzo, scendendo dalla croce, per essere per sempre «uomo tra gli uomini», umano tra gli umani con la fatica di sopportare il limite, la ricerca e la morte. La «Gloria» che comincia a manifestarsi a Cana si compirà a Gerusalemme, cuore della fede e dell’alleanza di Israele che è il tempio della Città Santa.
In ebraico «Gloria» si dice «kabòd» (in greco dòxa) e l’idea originaria di fondo è «il peso», cioè la consistenza, la stabilità. Una persona è «gloriosa» se ha «peso», cioè se ha un essere consistente e solido; per questo l’orientale ama il «grasso»: la persona grassa è più pesante e ha più consistenza e quindi è più «gloriosa». La persona mingherlina è senza valore perché non ha «peso/essere», o quanto meno ne ha poco.
Gesù a Cana manifesta per la prima volta il suo «peso», cioè fa intravvedere la sua profonda personalità, che è solida e stabile perché suscita la reazione dei discepoli, che a loro volta si mettono in moto perché «cominciarono a credere».
La Gloria del Dio dell’alleanza nuova non può non manifestarsi sulla croce, quando l’ora di Gesù segna il tempo di Dio, perché «bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria» (Lc 24,26). Mosè visse per poter vedere la Gloria del Dio del Sinai: «Mostrami la tua gloria» (Es 33,18), ma dovette accontentarsi di sentire Dio di striscio, anzi per «intuizione» perché non era ancora arrivata «l’ora della croce» che è la sola che segna la Shekinàh nuova di Dio in mezzo all’umanità:

«19Rispose: “Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te… 20Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. 21Aggiunse il Signore: “… 22quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. 23Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere”» (Es 33,19-23).

Da Cana alla Croce, il desiderio di Mosè è compiuto perché, nel suo abitare in mezzo a noi, il Lògos si rende sperimentabile e palpabile (1Gv 1,1-4) e si offre alla nostra contemplazione: «…e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno della grazia della verità» (Gv 1,14). In altre parole, Cana è «il principio», cioè il punto fondamentale e iniziale della nuova rivelazione, che non si sostituisce a quella del Sinai, ma la riprende per portarla a compimento (Mt 5,17).
Si potrebbe dire che Cana è la chiave di lettura di tutto il vangelo e senza Cana non si può comprendere quello che segue. Tutte le parole, i discorsi, le azioni di Gesù riportate dal IV vangelo devono essere lette alla luce di quanto avviene a Cana dove Gesù apre la cantina del monte Sinai che custodisce il vino messianico e lo distribuisce a quanti sono disponibili per la purificazione e ricevere la nuova Toràh che non è più una coppia di pietre scritte, ma la persona stessa del Figlio che abolisce la distanza che impediva a Mosè di vedere la Gloria.
Ora chiunque può vedere la Gloria e misurae la consistenza e il peso, basta che «cominci a credere», cioè si apra all’incontro che segna «il principio» dell’alleanza nuova per dare inizio a un nuovo esodo che porterà non tanto a una terra da possedere, ma al Calvario, a un Dio che offre la sua vita come «principio e fondamento» del nuovo tempio di Dio: l’umanità stessa di Dio e di ogni creatura.

Il «segno» non è un miracolo
Abbiamo tante volte fatto riferimento al termine «segno», distinguendolo dal termine «miracolo» per evitare confusioni. Oggi, nonostante siamo nel terzo millennio, indugiamo facilmente al miracolistico, spesso banalizzando anche il comportamento di Dio che viviamo come proiezione del nostro agire. Per la nostra cultura, «miracolo» è qualcosa che avviene contro o almeno superando le leggi di natura e quando non abbiamo risposte immediate a situazioni o eventi, diciamo con superficialità «è un miracolo», per dire di cosa inattesa, improvvisa, impossibile.
Non solo, usiamo il «miracolo» e lo esigiamo come «prova». Per la beatificazione o la santificazione di qualcuno, si chiede «un miracolo» come prova che Dio è dalla sua parte. Se vogliamo entrare nella mente dell’autore del vangelo, dimentichiamo questo modo di ragionare «ragionieristico» che appartiene alla religione dell’efficienza e siamo disponibili a entrare nel mondo della fede che non chiede prove o miracoli da mostrare, ma cerca il Volto da contemplare.
L’autore del IV vangelo usa il termine «sēmèion» che vuol dire «segno», dove ricorre 17 volte: 8 volte nel racconto dell’evangelista che narra (Gv 2,11.23; 4,54; 6,2.14; 12,18.37: 20,30), 7 volte lo usano i Giudei per giustificarsi nella loro incredulità verso Gesù (Gv 2,18; 3,2; 6,30; 7,31; 9,16; 10,41; 11,47) e 2 volte soltanto lo usa Gesù (Gv 4,48; 6,26). Se osserviamo bene, escluso uno (Gv 20,30), tutte le altre 16 volte il termine è utilizzato solo ed esclusivamente nella prima parte del vangelo, quella che appunto viene chiamata e distinta come «Vangelo dei segni», mentre la seconda parte è detta «Vangelo dell’ora». La prima parte del vangelo è propedeutica, è introduttiva alla seconda e ci aiuta a penetrare il momento drammatico della «morte di Dio», che paradossalmente diventa la vita degli uomini: è un atto creativo del nuovo Adam ed Eva che è il Regno di Dio, la Chiesa, la nuova Umanità.
Il «segno» non è un miracolo, tanto meno un gesto con cui si vuole dimostrare qualcosa. Se Giovanni avesse voluto parlare di dimostrazione avrebbe usato un altro vocabolario, come «dýnamis – potenza» o «tèras – miracolo/prodigio», anche perché in Gv 4,48 è Gesù stesso che rimprovera questo tipo di religiosità: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» e usa i due termini «sēmêia kài tèrata», distinguendo così le due parole anche da un punto di vista semantico.
Il «segno» è un indirizzo, un’indicazione, una direzione, un simbolo, una prospettiva, un modo di vedere e di pensare. Esso esige attenzione più che meraviglia, perché l’attenzione prestata al «segnale» deve condurre eventualmente a scelte di vita.
Se il «miracolo» ha l’obiettivo di colpire l’immaginario e lasciare storditi, per cui è indirizzato all’emotività, il «segno», al contrario, si rivolge alla coscienza e alla ragione, cioè al pensiero e quindi alla decisione.

Il segno, il segnale, la contemplazione
Il «segno di Cana» ci svela l’inganno delle apparenze: quello che sembrava non è e quello che non appariva si manifesta: lo sposo non è il malcapitato del racconto che resta senza vino, ma lo «Sposo» è Gesù, che dà inizio al tempo delle nozze dell’umanità sulla scia dell’alleanza incompiuta del monte Sinai.
Nel secondo «segno» che Gesù compie (Gv 4, 46-54) e cioè la guarigione del figlio del centurione romano «il segnale» sta nel fatto che Gesù si presenta non più come sposo, ma come il Dio creatore che dà la vita. Le nozze e il figlio del centurione sono i primi due «segni» e avvengono tutti e due «a Cana di Galilea», cioè nella regione che era considerata pagana. Un «segno» (le nozze) si compie in ambito ebraico e uno (guarigione) in ambito pagano.
Lo stesso paradigma avremo ai piedi della croce, dove «stanno» quattro donne ebree/credenti e quattro soldati romani/non credenti (Gv 19,23-25). È evidente che l’evangelista vuole mandarci «un segnale» di grande valenza: Gesù non è venuto solo per i Giudei, ma per tutti, e fin dal primo momento (Cana) nessuno ha escluso dalla sua prospettiva e dalla sua azione. Si afferma così il principio della fede universale.
«I segni» che Gesù compie hanno il compito di rivelarci le diverse angolature della complessa personalità di Gesù. Si potrebbe dire che «i segni» sono il nuovo monte Sinai che «svela» la vera natura di Gesù, il volto nuovo di Dio divenuto accessibile; per renderci più facile il cammino ci lascia indizi e segnali perché non ci smarriamo.
Un segno infatti rimanda sempre a una realtà ulteriore che non è sperimentabile e quantificabile. Nel vangelo di Giovanni sono riportati solo «sette segni», più uno verso cui convergono i primi sette, quasi a dire che essi sono sufficienti a esprimere la totalità (= il numero 7) della personalità del Signore. Basta avere la pazienza di «ascoltare» i segni e di seguie le tracce per imparare a conoscerlo.

Sette segni più uno
Il primo segno, l’acqua/vino delle nozze di Cana, è il «prototipo» di quelli che seguiranno e ci presenta Gesù come sposo nella nuova alleanza (cf Gv 3,29). Non ha ancora finito di porre «il primo segnale» del nuovo tempo nuziale, che già lo stesso Gesù sente l’esigenza di anticipare l’ultimo segno, «il segno dei segni»: la morte e risurrezione; scacciando i venditori del tempio che avevano trasformato la casa di preghiera in spelonca di latrocinio, Gesù sfida: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,18-19). Il segno/tempio di cui parla Gesù è il suo corpo, il luogo dove Dio viene annientato e dove l’umanità viene fecondata. Per questo possiamo dire che la morte e risurrezione di Gesù sono «il segno ottavo», l’ultimo, il compimento della storia della salvezza o meglio della salvezza che si è fatta storia.
Il secondo segno che svela Gesù è la guarigione del figlio del funzionario regio (Gv 4,46-54). Lo sposo ha fecondato la sposa e dona la vita al figlio che ne era privo.
Il terzo segno è la guarigione del paralitico, compiuta di sabato (Gv 5,1-9), atto sacrilego e bestemmia per la religione. È il segno che Dio si riappropria della sua prerogativa di creatore e non esita a sconfinare i limiti della religione.
Il quarto e il quinto segno sono la moltiplicazione dei pani e Gesù che cammina sulle acque (Gv 6,1-12). Il segno è duplice: per un verso Gesù si presenta come il creatore che nutre Adam e domina le acque della creazione, e dall’altra è colui che dà la nuova manna discesa dal cielo e attraversa il nuovo Mare Rosso per l’esodo verso il Regno di Dio. È per noi il segno dell’Eucaristia che è la sintesi dell’esperienza dell’esodo, ma anche l’anticipazione del Regno che viene.
Il sesto segno è la guarigione del cieco nato (Gv 9,1-41); siamo invitati a vedere in Gesù la «luce del mondo» per non fare la fine «dei suoi» che come le tenebre lo hanno rifiutato (cf Gv 1,3-5).
Il settimo segno è l’anticipo dell’ottavo: la risurrezione di Lazzaro dopo la sua putrefazione; erano infatti trascorsi quattro giorni dalla sua morte (Gv 11,17-44). È Gesù stesso che ne spiega il significato nel dialogo con Marta: «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?» (Gv 11, 25-26).
Alla fine della prima parte del vangelo (Gv 1-12), se abbiamo seguito i «segni» senza sperperarli in miracoli e prodigi, giungiamo a scoprire che «l’uomo che si chiama Gesù» (Gv 9,11) è lo stesso che sulla croce, morendo, «chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30), riportando l’umanità «al principio» della creazione, quando Adam ed Eva offuscarono lo spirito insufflato da Dio. Ora tutto è ripristinato, lo Spirito di Gesù anima ogni Adam perché scende da quella croce sulla madre e sul discepolo, su un uomo e una donna, sui soldati romani e sugli Ebrei, sull’umanità tutta. Ora veramente la nuova storia può cominciare. 

Paolo Farinella




BAHRAIN: REPRESSIONE IGNORATA

Abbiamo incontrato Jasim
Husain e Hadi al-Mosawi, deputati del maggiore partito di opposizione del
Bahrain, al-Wifaq.

72

On. Husain e al-Mosawi, quali sono le richieste che il
vostro movimento e la piazza del Bahrain fanno al regime?

Al-Mosawi: «La nostra è
una domanda di democratizzazione intea, di partecipazione alla gestione del
Paese e della politica. Non stiamo chiedendo la fine della monarchia degli
al-Khalifa, ma un sistema parlamentare vero e un governo che sia
rappresentativo del popolo e dei partiti, e la fine della presenza saudita, a
livello politico e militare. Vogliamo che le discriminazioni religiose, sociali
e professionali finiscano. Vogliamo media liberi e una società attiva. E la
liberazione dei prigionieri politici.

La rivolta è iniziata il
15 febbraio 2011, chiedendo riforme. Noi abbiamo sempre organizzato
manifestazioni pacifiche, non-violente, in stile gandhiano, ma il regime ha
risposto subito reprimendo, uccidendo».

Husain: «Siamo convinti
che il Bahrain sia pronto per la democrazia. Il paese ha un alto livello di
scolarizzazione. Ci sono tante persone colte, preparate, anche se molti
intellettuali sono in esilio. La democrazia arriverà, ne siamo sicuri. Il
regime attacca i manifestanti, pacifici, distrugge le moschee: ne abbiamo perse
35. Dove s’è mai visto un governo musulmano che abbatte le moschee? Le autorità
non vogliono che la nostra rivoluzione popolare continui in modo pacifico,
vogliono la violenza, così da poterci reprimere più duramente, ma noi siamo
non-violenti. Possono testimoniarlo le tante delegazioni parlamentari e
diplomatiche che arrivano in visita in Bahrain».

Qual è la situazione dei
diritti umani nel vostro paese? Husain: «Il regime si sta vendicando della
rivoluzione in corso. Un’ondata di licenziamenti ha colpito i manifestanti, sia
nel settore privato sia in quello pubblico: 4.400 tra bancari, insegnanti,
impiegati, medici, operai, poliziotti, ecc., sono stati mandati a casa per aver
partecipato alle rivolte. Licenziare come rappresaglia non è etico. Le autorità
non capiscono che ciò non è più concepibile nel mondo contemporaneo. Sono
rimaste indietro, sono arretrate, mentre la gente non lo è affatto, è colta e
non sopporta più un sistema dove un capo di governo è al potere da 40 anni e
dove le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno».

Al-Mosawi: «Il 23
novembre del 2011, il Bici (www.bici.org.bh), Commissione indipendente
d’inchiesta del Bahrain, che monitora la situazione dei diritti umani, ha
stilato un rapporto di centinaia di pagine, evidenziando una politica settaria
e discriminatoria e un uso eccessivo della forza da parte del regime nei
confronti dei manifestanti. La situazione sta peggiorando: all’inizio, le
proteste di piazza avevano motivazioni politiche. Ora sono contro le violazioni
dei diritti umani. E poi?».

In Occidente, certi media
hanno scritto che la rivolta in Bahrain è incoraggiata dall’Iran. Cosa
rispondete?

H. e M.: «Nel rapporto
del Bici non emerge questo. L’Iran non era dietro allo scoppio della rivolta
popolare. Noi portiamo avanti la nostra lotta per il cambiamento interno, senza
ingerenze estee: vogliamo democrazia, diritti e il rispetto di principi
universali, giustizia per tutti». (fine)

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Angela Lano