Contadini con i piedi per terra

L’agricoltura comunitaria e famigliare

Nelle società africane e latino americane esiste un movimento di contadini. Identità e tradizioni, ma anche approccio comunitario, sono le loro armi. Per un’agricoltura al servizio dell’uomo (e della famiglia), e non dell’arricchimento di pochi. Ecco il libro, imperdibile, che racconta queste storie.

«Noi siamo le nostre  risorse, le nostre tradizioni» sostiene lo storico leader dei contadini senegalesi Mamadou Cissokho – nel suo libro intitolato «Dio non è contadino» – proponendo all’Africa e alla sua anima rurale un percorso di riappropriazione della propria identità, in un mondo globalizzato che tende ad utilizzare gli agricoltori per scopi economici, espropriando loro terre, risorse e conoscenze.
Comunità, contro individualismo
«La comunità è la dimensione centrale della società pre-capitalistica ed è esattamente la dimensione che ci è stata sottratta dalla modeizzazione, che ha messo al suo centro l’individuo. Le organizzazioni contadine riescono talvolta a recuperare la dimensione comunitaria e occorre quindi definire le strategie che accompagnano questo tipo di azioni…» scriveva qualche anno fa il professor Enrico Luzzati, scomparso nel 2008, promotore di ricerche e riflessioni sulle realtà contadine africane e latinoamericane, e grande sostenitore di un modello di sviluppo rurale che abbia al centro la comunità e una via cornoperativistica alla produzione e al commercio (il professor Luzzati è stato collaboratore di MC sui temi dell’economia alternativa, ndr).
Costruire relazioni
I contadini come soggetto centrale, la ricerca, la cooperazione sul campo fatta dalle Ong – in particolare dalla Cisv di Torino -: il libro «Con i piedi per terra. Lavorare con le organizzazioni contadine nei progetti di cooperazione allo sviluppo» coniuga questi tre elementi con un approccio di ricerca-azione.
«Accompagnare le organizzazioni contadine del Sud del mondo vuol dire costruire prima di tutto, insieme ai progetti e alle azioni concrete, una vera relazione di partenariato, basata sul rispetto e l’autonomia»: ricordiamo nel libro (vedi box).
Il testo ha come filo conduttore un’idea politica forte: l’agricoltura familiare e cornoperativa, e le organizzazioni e i movimenti contadini a essa legati, costituiscono una chance per il futuro dell’umanità, in particolare quella più povera, e per la sostenibilità del pianeta.
L’approfondimento teorico del tema è presentato in un excursus sulle categorie e caratteristiche delle organizzazioni di agricoltori e sui modelli di produzione utilizzati; inoltre si trovano in esso un’analisi ed esempi concreti di modalità, metodi e approcci di accompagnamento del mondo contadino e del lavoro comune, anche al fine di migliorare l’efficienza, l’efficacia, la partecipazione, la sostenibilità e l’impatto dei progetti.
Storie di vita contadina
Ma la forza del libro è soprattutto nella narrazione della vita dei movimenti, della storia dei suoi leader, delle relazioni di scambio e collaborazione tra persone e popoli diversi. Nel volume «Con i piedi per terra» possiamo leggere le vicende, le fortune e le traversie storiche di diverse organizzazioni contadine, e come esse si sono rapportate nel dialogo e nella collaborazione con le Ong nei progetti di cooperazione.
Veniamo a conosceza della storia di Djibril Diao, figlio di contadini diventato lui stesso imprenditore agricolo, produttore di riso del villaggio di Ronkh nel Nord del Senegal, rappresentante e animatore dell’organizzazione Asescaw, che è arrivato fino a presiedere una tavola rotonda mondiale di contadini all’incontro di Terra Madre, vivendo concretamente uno scambio tra piccoli produttori di ogni continente.
La lunga carriera di Beard Lédéa Ouedraogo (MC ha presentato la sua storia, luglio-agosto 2010), attivissimo ancora a 85 anni e leader storico del movimento Naam in Burkina Faso, organizzazione che è riuscita a valorizzare un territorio arido, a mantenere i giovani nei villaggi a trasformare la propria realtà. Ancora, la storia di Felicité passata in 15 anni da animatrice di progetto a presidente di una cornoperativa per lo stoccaggio e la vendita del riso. E di Nazaria Tum, che in Guatemala ha condotto le Comunità di popolazioni in resistenza (Cpr della Sierra) attraverso anni di difesa nonviolenta nelle selve montagnose del Quiché. Mentre oggi anima un’organizzazione di donne indigene che lotta per i propri diritti e per non farsi espropriare le terre dagli interessi delle multinazionali minerarie e idroelettriche appoggiate dai governi.
Storie «con i piedi per terra» che ci raccontano del mondo rurale povero e delle possibilità che esso ha di diventare sempre più un riferimento per un’umanità che sta rovinando le risorse ed i rapporti sociali sulla terra; storie di legami di cooperazione dalle quali si traggono strumenti di lavoro per collaborare e per crescere nell’ambito dei progetti di cooperazione e sviluppo.

Federico Perotti

Federico Perotti




Il paradiso degli orchi

Italiani e turismo sessuale

A Fortaleza e a Natal gli italiani sono disprezzati. E con ragione. I nostri connazionali hanno in mano il business sporco. Sono inoltre tra i turisti più assidui delle due città brasiliane. La stragrande maggioranza di loro non cerca però le spiagge, bensì la prostituzione, compresa  quella minorile. E, sull’aereo di ritorno a casa, se ne vanta. Senza neppure provare un minimo di vergogna…

Natal (Rio Grande do Norte). «Quella là non è il mio tipo: troppo bassa, troppo piatta». L’attenzione del gruppetto si concentra su una giovane brasiliana non molto alta e non troppo formosa.
L’autore dell’indagine anatomica è un italiano sulla sessantina, tracagnotto, dall’accento regionale marcato e dallo sguardo che saetta da una donna all’altra, tra le tante che affollano la sala d’attesa dell’aeroporto di Natal. Il resto dell’allegra brigata è formato da connazionali di varie età, tutti di ritorno da una «gita turistica» nel Nordest del Brasile.
Volano altri commenti e apprezzamenti per questa o quella, tra sgomitate e risate sguaiate.
Lo spettacolo è a tratti ridicolo, quando non del tutto indecente: il branco di italiani schiamazzanti e gesticolanti si racconta ad alta voce le prodezze sperimentate durante il viaggio alla scoperta delle bellezze locali, possibilmente giovanissime e a volte (o spesso?) minorenni, incuranti del fatto che qualcuno – italiano o brasiliano che sia – possa capire e scandalizzarsi. O, semplicemente, vergognarsi di loro e di condividere la stessa patria.
Ad un tratto, tra le sedie della sala d’aspetto, passa una bella ragazza dai capelli lunghi, in pantaloncini corti e maglietta aderente, e qualcuno della compagnia fa il gesto di tirare una manata sul sedere, ma è trattenuto dal vicino. «Ehi, vuoi che ti mettano dentro?», gli chiede ridacchiando il compagno.
Già, in Brasile la fama dei cacciatori di sesso facile italiani s’è ormai diffusa, e le misure contenitive e punitive si sono fatte sempre più severe, nel corso degli anni. Prostituzione, e droga, speculazione edilizia e altro ancora, in vaste aree del Nordest sono in mano ai nostri connazionali, che hanno pienamente contribuito a renderci odiosi alla popolazione locale. In certe città, dove essi si sono distinti per corruzione e sfruttamento, o utilizzo, della prostituzione, in particolare minorile, e spaccio di stupefacenti, il solo parlare in italiano può essere pericoloso, o, comunque, fortemente sconsigliato.
Il razzismo nei nostri confronti è, infatti, fortissimo, e motivato dalla diffusione delle attività sopracitate, in cui diversi nostri compatrioti si sono distinti particolarmente.

PARADISO PER CHI?
Fortaleza (Cearà), marzo 2012. Entriamo in un internet-caffè in una via a ridosso del lungomare, e ci sediamo nel dehors all’aperto. Ordiniamo dell’acqua di cocco e approfittiamo per chiedere, in portoghese, al proprietario come mai tutti i clienti, seduti a fumare e a bere caffè, parlino in italiano. Ci risponde che sono nostri connazionali – lui compreso – che lavorano in Brasile o che trascorrono qui le vacanze. «Questo Paese è il paradiso per noi – dice convinto -. Non toerei più in Italia, per nessuna ragione. Qui ho trovato la mia fonte di guadagno e di vita».
Ci guardiamo intorno: il locale è sgarrupato, fatiscente, con sedie e tavoli di plastica, sporchi, quattro o cinque computer vecchio modello, un bancone sovraffollato di cianfrusaglie e un cesso degno di questo nome… Possibile, ci chiediamo, che abbia trovato «l’America», con questo postaccio e vendendo connessioni internet lente, caffè, sigarette e acqua di cocco?
Mentre ci frullano in testa diverse domande che non osiamo rivolgergli, lui ci risponde da solo: intermedia l’affitto (a prezzi stratosferici, scopriremo dopo) di appartamenti per le vacanze – vacanze di tutti i tipi – per italiani che approdano in queste zone del Brasile, depresse, sporche ma dalle bellissime spiagge e con giovani donne povere e travestiti che si vendono in mezzo alla strada.
Da lì a poco, a foirci ulteriori risposte, arriva un gruppetto di nostri compatrioti accompagnato da un paio di rumorose ragazze locali, che salutano affabilmente il nostro ristoratore.
Non ci vuole molto a capire come Piero (nome di fantasia) abbia trovato il paradiso in Brasile. E come non sia il solo italiano ad essersi sistemato economicamente in questo modo, lo scopriremo nei giorni successivi, entrando in altri bar, ristoranti e internet-caffè, e osservando il traffico umano che vi si articola di giorno e di sera tardi davanti e all’interno.
Visitando altre zone della capitale dello Stato del Cearà, con minore presenza di italiani, e parlando con la gente, ci rendiamo conto di quanto siano disprezzati, se non addirittura odiati, i nostri connazionali che hanno fatto delle vacanze a scopo sessuale, o dello  sfruttamento stesso della prostituzione, il leit motif della loro vita. Ne arrivano a frotte, ancora adesso, nonostante i provvedimenti punitivi anche esemplari (nei casi di sfruttamento di minorenni), introdotti dalle autorità brasiliane. Semplicemente, si sono fatti più furbi… e spesso mascherano le loro avventure con lo sport – il surf va per la maggiore in spiagge da sogno o in altri paradisi naturali, così come il nuoto o le escursioni -, il business, i «fidanzamenti via internet».

ITALIANI, BRUTTA GENTE
Il quartiere degli italiani a Fortaleza si chiama Praia de Iracema: è un borgo degradato che l’amministrazione municipale sta ristrutturando, cercando di mandare via i nostri connazionali.
Gli italiani residenti nella città sono circa 20mila, ma altrettanti vivono in clandestinità.
La maggioranza è arrivata lì alla ricerca di sesso a buon mercato. Altri sono coinvolti nel giro della prostituzione, dello spaccio e degli affari loschi.
La nostra padrona di casa ci spiega che «forse tra gli italiani ci saranno anche persone oneste, ma non è questa l’esperienza che ci siamo fatti qua, con loro. Abbiamo incontrato solo gente terribile. Possiamo pensare, certo, che costoro appartengano alla fascia sociale più degradata del vostro Paese, ma qui essi rappresentano tutti voi, e lo fanno nel peggiore dei modi. Noi li evitiamo in tutte le maniere non vogliamo avere nulla a che fare con loro e con i loro traffici».
In un bar italiano sulla spiaggia e meta di nostri connazionali, apprendiamo che i proprietari e gli avventori residenti in città da tempo si ingegnano, con molta fantasia e astuzia, a frodare i nuovi arrivati in cerca di sistemazione abitativa, lavoro o, molto spesso, di sesso a pagamento. Questi confidano sul fatto che il locale è gestito e frequentato da italiani, che certamente offriranno aiuto e appoggio. Invece si ritrovano ingannati: vengono proposti loro appartamenti a costi altissimi, rispetto al mercato locale, e si ritrovano presto in giri illegali e di prostitute che cercano di spillare loro quanti più soldi possono.
Un italiano proprietario di una clinica e in Brasile da dieci anni ci spiega che, per non essere visto, tutte le mattine entra dalla porta di servizio, perché i pazienti – tutti della media borghesia brasiliana – non devono sapere di avere a che fare con uno che arriva dall’Italia. Smetterebbero, infatti, di fidarsi e sceglierebbero un altro centro medico.
Un altro nostro compatriota, con un’agenzia immobiliare, ci racconta che alcuni italiani andavano lì, compravano dei terreni, e facevano un progetto per la costruzione di un palazzo o di un grattacielo: i brasiliani, com’è consuetudine, acquistavano gli appartamenti sulla carta, dando una caparra e pagando delle rate fino alla fine della costruzione, ma si ritrovavano senza niente, imbrogliati e defraudati dei loro soldi. I costruttori, infatti, una volta vendute tutte le abitazioni, scappavano con il capitale raccolto facendo perdere le loro tracce.
Casi come questi – insieme a prostituzione, spaccio e altre illegalità – hanno contribuito a rendere il nostro popolo, la nostra lingua e cultura, oggetto di ostilità e razzismo.

INTERNET: FIDANZAMENTI E  PROSTITUZIONE
Ci sono ragazze fidanzate a decine di italiani contemporaneamente, e tutto via Facebook, email, Skype. Ce ne sono tante che vivono così, accalappiando uomini di ogni età e ceto sociale – meglio se danarosi, però – con l’aiuto – il know-how – di chi vive, malavitosamente, in Brasile da anni.
La giovane adesca una preda su internet, cerca di avviare una relazione amicale o sentimentale virtuale: nel giro di qualche settimana, lei si trasforma nella «mia ragazza in Brasile». Lo scopo, ovviamente, è una trappola: attirare qui il malcapitato credulone o depravato e spennarlo per bene. Lei lo raggirerà dicendo di essere molto povera e di aver bisogno di soldi per la famiglia o per cure mediche per una zia inesistente.
Per scoprire questo traffico basta sedersi per qualche giorno in alcuni internet-point della città e, facendo finta di essere impegnati in conversazioni via Skype, o letture di quotidiani online, osservare ogni movimento e ascoltare le conversazioni di queste fanciulle: un mondo di oscuri traffici, di raggiri, imbrogli vi si dispiegherà tutt’intorno.
Dall’altra parte, a 10mila chilometri di distanza, ciascun fidanzato, collegato in chat su Messenger, Fb o Skype, è certo che la dolce ed esotica brasileira sia solo per «lui», non sapendo di far parte di un nutrito gruppo di aspiranti amanti e di essere cascato in una armadilha, una trappola ben programmata, con attori e comparse, e con collaboratori italiani che lucreranno sulle sue disavventure.
Gestendo bene i tui di viaggio in Brasile, ognuna di queste prostitute invita ciascun fidanzato a passare del tempo con lei. Dopo un paio di settimane a Fortaleza, essi ritornano in Italia con il portafoglio vuoto e, probabilmente, con la carta di credito azzerata dai debiti, ma racconteranno agli amici di avere una meravigliosa morosa innamorata e in attesa della prossima vacanza insieme.
Tali e altre pratiche criminali sono ben note alla polizia federale, che spesso esegue controlli e blitz per individuare gli italiani coinvolti in questi giri e senza permesso di soggiorno.

«PORTATORI DI CRIMINALITÀ»
Non sono pochi i fogli di via e i rimpatri forzati dati ai nostri connazionali colti in flagrante attività illecita e senza documenti.
Le nostre leggi sull’immigrazione e i nostri media ci hanno abituati a scene di espulsione coatta ai danni di disperati giunti nel nostro Paese a bordo di barconi scassati, che noi identifichiamo come «portatori di criminalità», facendo di tutta l’erba un fascio, e confondendo clandestini senza permesso di soggiorno e delinquenti.
Qui, sulle coste nordestine del Brasile siamo noi, spesso, i clandestini, gli spacciatori, gli sfruttatori della prostituzione, gli adescatori di altri italiani, gli imbroglioni. I disprezzati. Siamo noi ad apparire nella cronaca giudiziaria dei giornali o dei Tiggì, e motivo di vergogna per altri connazionali onesti.

Angela Lano e Feando Lattarulo

Angela Lano e Feando Lattarulo




La grande calamità

Stregoneria in Africa

Vero flagello dell’Africa bantu è la stregoneria: lo sostiene Gabriel Ruhumbika, scrittore tanzaniano di 73 anni, nel suo romanzo sociologico Janga Sugu la Wazawa (La piaga contagiosa degli indigeni). L’autore si addentra in uno dei meandri più affascinanti e inquietanti della cultura bantu: la stregoneria, appunto.
L’intera famiglia dell’anziano Ninalwo viene sterminata (misteriosamente) da eventi oscuri. A nulla servono i tradizionali riti propiziatori per arrestare un morbo crudele ed endemico come la peste. O le voraci cavallette.
«Stregoneria» è un termine astratto, dietro al quale si muovono, però, losche figure in carne e ossa, temute da tutti, eppure assai ricercate.
Eccolo «lo stregone» del romanzo di Ruhumbika. Non ha un nome solo, bensì tre: è nello stesso tempo padre Joni (prete cattolico), Alhaji Sheikh Isa (musulmano) e Simba Mbiti (presunto professore).
Joni è un giovane prete, troppo… disinvolto verso le donne. Però un giorno incontra una vergine che gli si oppone con veemenza, ferendolo in testa con la pietra con cui sta macinando la farina. Il prete, deriso da tutti, si vendica contro… la religione cattolica del papa di Roma: aderisce all’islam e si trasferisce in Senegal.
Nel nuovo contesto socio-religioso il personaggio non è più soltanto padre Joni, bensì il musulmano Alhaji Sheikh Isa. Gode di quattro mogli. La prima, la più importante, è ricca e bellissima. Però, con la menopausa, diventa brutta, cicciona e le spunta persino la barba. Il consorte si consola «passeggiando» con altre donne. Ma l’ex bella non accetta l’affronto: con l’ausilio di alcune esperte comari immobilizza il marito infedele, lo denuda e minaccia di castrarlo.
Padre Joni-Alhaji Sheikh, intimorito, abbandona il Senegal e ritorna in Tanzania, dopo aver derubato la facoltosa moglie di tutti i suoi quattrini. Ora padre Joni-Alhaji Sheikh è pure il professor Simba Mbiti, stregone potente, famoso e temuto, con un codazzo di manutengoli, assassini, che eseguono i suoi ordini malvagi. Ad esempio: attaccano la donna che, anni prima, ha svergognato il loro padrone; la uccidono e recano allo stregone, come trofeo, l’intero basso ventre della vittima. Misfatti del genere si susseguono a catena. Organi sessuali, cuori, nasi, orecchi e altre parti del corpo umano vengono venduti, a caro prezzo, dal losco stregone. Sono i suoi farmaci miracolosi, i suoi portafortuna infallibili, i suoi amuleti onnipotenti.
I clienti chi sono? Sono i pezzi da novanta del governo, della finanza, del commercio, delle miniere d’oro e diamanti, della polizia. Frequentano padre Joni-Alhaji Sheikh-Simba Mbiti per aumentare il loro prestigio: la loro ricchezza, soprattutto.

Il romanzo di Ruhumbika è anche uno specchio della società politica della Tanzania. Racconta che nel 1985 l’onesto Julius Nyerere lascia di sua volontà la presidenza della repubblica. Gli succede Hassan Mwinyi, proveniente dall’isola di Zanzibar. I tanzaniani del continente gli appioppano il termine ruksa (o rushwa): ossia «bustarelle», corruzione, denaro facile a palate. Chi è corruttore-corrotto affonda le mani nelle casse dello stato e le ritrae piene di bigliettoni. È anche così che sperpera il denaro pubblico. Al governo non restano che debiti.
Tra gli arricchiti spicca Joni-Alhaji Sheikh-Simba Mbiti, prete-musulmano-professore, che esercita «il commercio della stregoneria».  Questo traffico – scrive Ruhumbika – cresce nell’arricchire i personaggi del potere. Non sono molti, tuttavia determinano le sorti dell’intera comunità.
Però è un traffico molto rischioso. Tutto può repentinamente mutare: e si piomba nella povertà o si affoga in un mare di guai. A prescindere dal fatto che la stregoneria rappresenta una grave minaccia per la vita e la sicurezza della famiglia (Cf G. Ruhumbika, op. cit., p.187). Figli e figlie, mariti e mogli scompaiono «misteriosamente».
A lungo andare e dopo cocenti delusioni da parte dei clienti dello stregone, può scattare la caccia allo stesso stregone e la feroce vendetta.
Tale sorte non risparmia neppure padre Joni-Alhaji Sheikh-Mbiti Simba: stanato dal suo ufficio criminoso, viene linciato in pubblica piazza da alcuni suoi ex clienti, tragicamente delusi dal professore. Naturalmente gli astanti non vedono, non sentono, né sanno nulla (Ibidem, pp.173-175).
Contro il fenomeno della stregoneria – termina il romanzo di Ruhumbika – è in corso una lunga e complessa guerra psicosociale. Però la vittoria arriverà, perché il proverbio recita: penye nia pana njia (se c’è la volontà, c’è la strada). Così in Africa nascerà la famiglia della speranza. Ognuno potrà coricarsi alla sera e alzarsi al mattino senza il terrore dello stregone. Tutti potranno soddisfare il loro ideale di progresso: in pace, serenità e sicurezza.

Francesco Beardi

Francesco Beardi




A ognuno la sua sfida

Intervista a padre Francesco Beardi

A distanza di 35 anni, padre Francesco Beardi è tornato in Tanzania un anno e mezzo fa; dopo una breve esperienza pastorale è stato chiamato a lavorare nel Centro di Animazione missionaria di Bunju (Dar Es Salaam) e a dirigere la rivista in swahili Enendeni (Andate), un lavoro in cui è maestro e in una posizione privilegiata per osservare le sfide della società e della chiesa in Tanzania.

Che cosa hai provato tornando in Tanzania? Cosa ti ha sorpreso di più?
Risiedo in Tanzania da 15 mesi: troppo poco per esprimere giudizi e fare bilanci. Pertanto le mie considerazioni sono impressioni. Quanto scrivo oggi, domani potrebbe essere diverso, senza escludere che possa aver preso qualche grosso granchio…
Sono ritornato in Tanzania dopo 35 anni di assenza. Lasciai il paese nel 1976 e vi rimisi piede nel 2011. La mia prima presenza durò dal 1973 al 1976.
Sapevo che il reinserimento in Tanzania sarebbe stato complesso. Così è stato e così è: a cominciare dalla lingua swahili, che si è arricchita di tanti e nuovi vocaboli. Fra questi, changamoto (sfida). Per me tutto è «changamoto» a 360 gradi, perché il tanzaniano pensa, parla e agisce a «modo suo», in modo… sorprendente.
La prima sorpresa sono proprio i tanzaniani, oggi circa 44 milioni, mentre nel 1976 erano 14 milioni. Con loro ho la possibilità di «rinascere», passando però attraverso «le doglie del parto» dell’incontro-scontro culturale.
Sorprendente è il numero dei loro giornali quotidiani. Negli anni ‘70 erano due, oggi una ventina. Ma molto più sorprendente è qualche voce critica della stampa. «Ci siamo stufati della propaganda dei politici che non vogliono il cambiamento» titolava, il 23 marzo 2011, il quotidiano Mwananchi. The Citizen, il 12 dicembre 2011, stigmatizzava: 32 milioni di euro sono «sfumati» nella celebrazione del cinquantesimo dell’indipendenza della Tanzania (1961-2011). Le sorprese continuano: ad esempio, la pubblica denuncia di incesto subito da una figlia da parte del padre (programma radiofonico del 23-24 febbraio 2011). «Ai miei tempi» fatti del genere venivano sepolti nell’omertà generale.
Omertà che avvolge ancora l’aids. L’uomo della strada non ne parla. Qualcuno, incalzato da eventi tragici, incomincia ad alludervi come «malattia di questi giorni». La stampa si sofferma sulla vicenda di qualche sieropositivo, senza tuttavia raccontare come si contrae il virus. Però qualcuno incomincia a dire: «Sconfiggeremo l’aids se muteremo i nostri costumi sessuali».
Ricordo, infine, la nozione di «ovvio». Ciò che per me è «ovvio» non sempre lo è, e nella stessa misura, per il tanzaniano. L’«ovvio tanzaniano» è changamoto!
 
Come vedi il futuro della Tanzania?
Pensando al futuro, non bisogna avere fretta né, tanto meno, invocare colpi di bacchetta magica di fronte ai mali che affliggono la società tanzaniana. Ciò vale per tutti i paesi in ogni angolo del mondo. Chi può dire che la crisi economica italiana e mondiale finirà domani o dopo domani?
Personalmente scommetto nel futuro positivo della Tanzania. La buona volontà c’è; le risorse pure: gas naturale, ferro, oro, pietre preziose, uranio. Grandi le possibilità nel settore turistico. Per non parlare della risorsa di sempre: l’agricoltura, anche se in balia della pioggia. Però la ricchezza delle ricchezze sono i 44 milioni di tanzaniani e tanzaniane (soprattutto). Moltissimi sono giovani, che studiano.
Recita un proverbio swahili: elimu ni mali (la conoscenza è un capitale). Non basta il canto, il tamburo, la danza. Bisogna leggere, pensare, capire, scrivere e «formarsi»: soprattutto alla stregua del Vangelo. Carestie, guerre e aids sono emergenze crudeli. La «formazione» è prevenzione e cura di ogni miseria. Anche della «stregoneria».

Della stregoneria che dici?
Qual è il flagello dell’Africa subsahariana? La povertà generalizzata o la ricorrente siccità? La corruzione politica o la mancanza di progettazione? Oppure l’aids? «L’aids» sembrerebbe la risposta più immediata e pertinente oggi. Invece no. La grande calamità dell’Africa (e della Tanzania) è la stregoneria. Oggi come ieri. Lo sostiene Gabriel Ruhumbika, scrittore tanzaniano in Janga sugu la wazawa (La piaga contagiosa degli indigeni), un romanzo in swahili sulla stregoneria nella Tanzania contemporaneo e nella società africana in generale (vedi pag. 24). Il fenomeno non riguarda solo la gente comune, i disperati che voglio allontanare dalla loro vita il malocchio e la sfortuna; ma a consultare gli stregoni sono gente istruita, persone responsabili del mondo politico e finaziario, e perfino preti e suore, in cerca di un futuro migliore, di prestigio e ricchezza.
Il libro di Ruhumbika è stato scelto dal ministro dell’Educazione in Tanzania come testo di letteratura swahili per la scuola secondaria: speriamo che, oltre a insegnare la lingua nazionale, contribuisca a sconfiggere questo fenomeno irrazionale, ma molto radicato nella cultura africana. Ma ci vuole pazienza e costanza, anche da parte della Chiesa.
Come si sta muovendo la Chiesa locale?
La Chiesa gode di prestigio e di autorevolezza. Però preti e vescovi sono troppo assillati dal problema «soldi» per le loro attività. Le collette di denaro diventano sempre più frequenti: anche tre in una sola messa. I cattolici capiscono e rispondono bene, ma incominciano a essere stanchi, perché la vita è costosa, dato il costante aumento del prezzo dei generi alimentari.
Pure le feste religiose (ordinazioni di sacerdoti, consacrazioni di vescovi, giubilei, ecc.) sono esageratamente dispendiose. Non mancano i fedeli che si indebitano per partecipare a una celebrazione. Tuttavia c’è un aspetto positivo: di fronte a un’iniziativa della comunità, i cattolici non si tirano indietro, perché sanno che «la chiesa siamo noi».
In genere i messaggi dell’episcopato cattolico sono incisivi anche politicamente. Nel presente dibattito per la nuova costituzione politica, i vescovi ammoniscono: «Alcuni leaders politici, invece di impegnarsi a scrivere una costituzione che difenda i beni e i diritti di tutti, specialmente dei bisognosi, cercano di tutelare solo il loro interesse; inoltre, introducono nella nuova costituzione idee contrarie al piano di Dio».

Cosa ne pensano il cardinale Pengo e padre Massawe?
Attento e critico verso le forze politiche è, soprattutto, il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam. Nel 2011, in occasione del cinquantenario di indipendenza del paese, dichiarò: «Durante questi 50 anni abbiamo ottenuto numerosi successi. Ora dobbiamo far sì che, quando celebreremo i 100 anni, non si dica: “Era meglio al tempo dei colonialisti!”. Oggi la nazione conta gruppi di traditori, egoisti, vanagloriosi, pronti anche a uccidere chi si oppone ai loro progetti» (cfr. Mwananchi 14-8-2011; MC. maggio 2012).
A proposito del cinquantenario, non meno forte è padre Lello Massawe, superiore dei missionari della Consolata in Tanzania, che dichiara: «In questi giorni, prima della festa dei 50 anni, sentiamo ripetere dalla radio e dalla televisione: “Abbiamo avuto coraggio, siamo capaci, andiamo avanti”. Sono parole frutto di una politica sporca. Io non vedo alcuna verità in esse. Abbiamo avuto il coraggio di far che cosa? Abbiamo avuto il coraggio di mungere la gente, abbiamo avuto il coraggio di rubare ai poveri più di quanto abbiamo loro dato per aiutarli ad uscire dalla povertà» (cfr. la rivista Enendeni, dicembre 2011).

Il rapporto con gli altri cristiani: luterani, anglicani, «salvati» (walokole)…
È un tema molto significativo per noi missionari. Cito ancora il cardinale Pengo, da me intervistato. Il presule ritiene che il rapporto fra cattolici, luterani e anglicani sia buono. Ad esempio, le «tre Chiese», nell’università di Dar Es Salaam, pregano nella stessa chiesa, come pure condividono la cappella dell’ospedale Muhimbili, sempre a Dar. Ma con il gruppo dei «salvati» (walokole) il discorso cambia: costoro vanno a caccia di fedeli dappertutto, da una chiesa all’altra, ingannando le persone. «Meglio il rapporto con i musulmani, perché sappiamo come sono».

Parliamo, allora, dei musulmani…
Molti musulmani rivendicano dallo stato la costituzione del «tribunale islamico» secondo la legge coranica. Però il presidente Jakaya Kikwestern, musulmano, ha risposto: «Se volete questo tribunale, costituitevelo voi stessi. Lo stato non può intervenire nei problemi religiosi delle varie religioni». Però tanti musulmani non accettano questa posizione e ritornano alla carica nello stesso parlamento.
Ciò che maggiormente preoccupa, secondo il cardinale Pengo, è il disprezzo verso i cristiani. Alcuni musulmani insultano i cattolici apertamente, anche di fronte alle forze dell’ordine, che fingono di non sentire. I cattolici, pro bono pacis, sopportano tutto in silenzio senza reagire. Fino a quando?

Che cosa fai a Bunju?
A Bunju opero nel Consolata Mission Centre, a metà strada tra Dar Es Salaam e Bagamoyo, con altri tre confratelli.
Il Centro viene additato come un faro che illumina presente e futuro, tutto e tutti. E veramente tutti ne usufruiscono: uomini e donne a livello personale o in movimenti, professori e studenti, catechisti e seminaristi, vescovi e preti. Tante le suore. Tantissimi i giovani, con prezzi scontati. La luce che il faro sprigiona è pure ecumenica, giacché il Centro ha aperto i cancelli anche a non cattolici: ai luterani, per esempio. Non mancano ambientalisti né leaders politici, tra cui musulmani.
Dopo una complessa gestazione, nel 2008 i missionari della Consolata diedero alla luce il Consolata Mission Centre: per pregare, pensare e cambiare. È un Centro che parla all’intera Tanzania, con la «missione» sempre protagonista.
Il Centro ospita pure la redazione della rivista Enendeni (Andate), di cui sono direttore. È modesta nella veste tipografica, ma si impegna ad essere propositiva nei contenuti, specialmente in tema di formazione evangelica, di giustizia e pace. L’editoriale di marzo scorso recita: «Se manchi di giustizia verso l’altro, le tue preghiere, i tuoi digiuni e le tue offerte della quaresima sono ipocrisia…».
È, però, paradossale che un mzungu (straniero), dallo swahili quasi indecente, diriga una rivista in tale lingua… Ancora una volta sono di fronte a un changamoto, una sfida: rinascere in Tanzania a quasi 70 anni, con i capelli bianchi e la schiena già incurvata dalle intemperie della vita.
Tuttavia ringrazio la Madonna Consolata.

Romina Remigio

Romina Remigio




Esodo di cristiani

Intervista a padre Artemio Vitores, custode in Terra Santa

I cristiani in Terra Santa sono passati dal 19,4% (nel 1948) all’1,4%
della popolazione. E l’esodo continua. Cosa succederebbe se anche l’ultimo cristiano lasciasse Gerusalemme? Qual è oggi il significato della Custodia dei Luoghi Santi?
Lo abbiamo chiesto al vicario della Custodia in Terra Santa, padre Vitores.

Artemio Vitores Gonzáles è padre francescano, ricopre la carica di Vicario Custodiale e fa parte della più antica istituzione cattolica di Gerusalemme, la Custodia di Terra Santa. Spagnolo, padre Artemio vive a Gerusalemme da più di quarant’anni e insegna alla facoltà di teologia della Città Santa.

Da quando i francescani sono presenti in Palestina? Come nasce la Custodia di Terra Santa?
«San Francesco arrivò in Terra Santa nel 1219. Si mise subito in contatto con i musulmani che controllavano l’area, considerati nemici dai cristiani. Era un periodo difficile, un periodo di guerra. Francesco venne ricevuto dal nipote di Saladino, che regnava sulla Città Santa dopo essere stata conquistata dallo zio nel 1187. Il sultano rimase colpito dal frate che rifiutò i doni in oro e argento e che, al contrario dei crociati, non veniva per far la guerra. Dopo quest’incontro il regnante permise ai frati della corda di rimanere in Terra Santa. L’ordine si stabilì a Gerusalemme dove sarebbe rimasto fino al 1291 quando, dopo la conquista di Akko, la situazione per i cristiani diventò troppo difficile, e furono costretti a lasciare la zona. Ma ben presto i francescani tornarono, questa volta con i crociati e con il beneplacito del re di Aragona e del re di Napoli, e da quel momento iniziò la Custodia di Terra Santa: prima al Santo Sepolcro e al Cenacolo, poi a Betlemme. Dal 1187, quando Saladino conquistò Gerusalemme, al 1555, gli unici cattolici in Terra Santa furono i frati, forse qualche pellegrino, qualche mercante, ma non una comunità».

Quindi la Custodia è quel che rimane delle crociate?
«In occasione della sua visita in Terra Santa, Giovanni Paolo II sintetizzò la presenza francescana con parole simili a queste: “In momenti difficili per la cristianità in Terra Santa, quando i cristiani erano simili a Cristo, cioè portavano una croce, la provvidenza ha voluto che ci fossero i figli di Francesco per interpretare in modo evangelico il loro desiderio di venire a vedere i luoghi fonte della nostra salvezza. I francescani sono venuti qui non come crociati, ma come crocifissi”».
Cosa rappresenta Gerusalemme? Perché da secoli i potenti del mondo se la contendono?
«Gerusalemme è il cuore del mondo cristiano, è il cuore del mondo ebraico e in parte anche di quello musulmano. Una città che attrae tutti. Il cristianesimo si riassume in due luoghi; alle mie spalle il Santo Sepolcro, dove Cristo è morto per i nostri peccati ed è risorto per la nostra salvezza, e un po’ più in là alla mia sinistra il monte Sion, il Cenacolo. Sono, per così dire, i due polmoni del mondo cristiano».

La presenza cristiana nella Città Santa è in diminuzione. È un fenomeno preoccupante?
«Per capire bisogna parlare di cifre. Nel 1948 fu fondato lo Stato d’Israele, in quei giorni i cristiani a Gerusalemme erano tutti palestinesi e rappresentavano il 19,4% della popolazione. Dopo 64 anni l’intera comunità cristiana rappresenta l’1,4% e i cristiani sono divisi in 12-13 gruppi. Se a questa percentuale di residenti si aggiungono i domiciliati stranieri, si può arrivare al 2,5%. Questo però non deve trarre in inganno, in quanto anche io dopo 41 anni devo rinnovare il permesso di soggiorno ogni anno. Vivo con una spada di Damocle sulla testa, in quanto da un anno all’altro possono non rinnovarmi il permesso senza alcuna motivazione. In Italia o in Spagna dopo 5 o 10 anni un lavoratore straniero ottiene la residenza. Gerusalemme deve essere una città aperta, la madre di tutti, non l’amante di uno. Gerusalemme è anche una città cristiana, soprattutto una città cristiana, perché Maometto non è nato qua, né c’è morto o vissuto. Neanche Mosè è mai stato qui, mentre Gesù è morto qui ed è risorto lì di fronte».

Come hanno fatto i francescani a mantenere nei secoli la loro presenza?

«I frati sono riusciti a restare qui seguendo quanto ha detto Gesù nel Vangelo, “siate semplici come colombe e astuti come serpenti”. Per aprire la stamperia che c’è sotto il nostro convento ci sono voluti 15 anni di pressioni dell’impero austro-ungarico nei confronti dei turchi, e anche solo l’ampliamento di una chiesa richiede 50 anni di attesa per ottenere i permessi necessari. Abbiamo aspettato 10 anni il via libera del governo israeliano per la costruzione di alcune abitazioni su un nostro terreno, e dopo ce ne sono voluti altri quattro per ottenee l’abitabilità. Qui anche un santo può perdere la pazienza, ma questo non ci scoraggia. Anche se la mia può sembrare superbia, posso dire che se qui sono passati gli imperi, i frati sono rimasti. Io sono qui da 41 anni e ho conosciuto sei guerre e due intifade».

È immaginabile la Terra Santa senza cristiani?
«Nel 1967 i cristiani a Betlemme erano il 70% della popolazione, oggi non sono che il 12%. Questo vuol dire che se non cambiamo qualcosa la Terra Santa rimarrà senza cristiani. È un’eventualità molto triste, sarebbe un disastro. Paolo VI ci ha ricordato che se sparissero i cristiani, i luoghi santi diventerebbero musei.
I musulmani hanno appoggi politici ed economici, che vengono dagli altri paesi arabi. Gli ebrei hanno l’appoggio politico del governo, senza dimenticare che Israele è lo Stato ebraico, uno Stato confessionale. Mentre noi cristiani non siamo sostenuti che dalle nostre comunità. Le nazioni cattoliche, come l’Italia o la Spagna, non ci aiutano, bensì sostengono i governi israeliano e palestinese. In particolare l’Europa aiuta i palestinesi, ma le istituzioni di Ramllah sono quasi tutte in mano a musulmani. I cristiani in questa terra sono arabi, parlano arabo, ma non sono musulmani, e questo agli occhi di alcuni li fa sembrare traditori, perché rompe l’unità del popolo palestinese».
Nonostante questi dati allarmanti, in Israele non ci sono persecuzioni nei confronti dei cristiani come invece avviene in Egitto.
«Peggio ancora dell’Egitto c’è stato l’Iraq, dal quale, si calcola, sono scappati 1,5 milioni di cristiani. Qui in Palestina dal 1948 sono 350mila i cristiani che sono scappati altrove. Non c’è mai stata persecuzione nel senso radicale del termine. Sono in atto, però, molte persecuzioni “burocratiche” e complicazioni economiche.
Dopo il 2000 la seconda Intifada portò un periodo di grave crisi: per 5 anni non si è visto un pellegrino. A Betlemme, dove il turismo è la prima fonte di occupazione, i palestinesi hanno sofferto una forte recessione, con tassi di disoccupazione superiori al 60%. Per questi la soluzione era venire in Israele per lavorare, ma il muro ha toccato ancora più profondamente la comunità locale. Se prima della costruzione del muro si poteva circolare con facilità, ora i permessi sono difficili da ottenere e possono essere revocati in qualsiasi momento. La scelta di lasciare questa terra è stata obbligata per molti cristiani».

Come si può arginare questa diaspora cristiana dalla Terra Santa?
«Bisogna creare e sostenere la comunità, per noi frati la priorità è fornire ai cattolici un lavoro. I francescani hanno agito secondo l’idea che non bisogna dare il pesce al bisognoso, ma insegnargli a pescare. Quindi da decenni la comunità ha imparato a fare i souvenir di legno di ulivo o di madreperla, e iniziammo a esportarli verso l’Europa e l’America. Ma non basta riempire la pancia, bisogna pensare anche alla testa, quindi i francescani hanno istituito le scuole. Per quattro secoli i Turchi hanno dominato la Terra Santa e l’hanno fatto partendo dal principio secondo cui mantenere i popoli nell’ignoranza rende possibile dominarli.
Un problema importante rimane quello abitativo. Secondo la legge islamica, e questo vale anche per gli ebrei, quando un paese è conquistato dall’Islam è terra musulmana: non può essere abitato se non dai musulmani. Se noi apriamo la Bibbia, Jahvé dice a Israele: “Questa è la terra promessa, caccia via tutti gli altri, essa è soltanto per voi”. I cristiani si trovano quindi tra due fuochi. Nei secoli i frati hanno cercato di aggirare queste limitazioni, ad esempio acquistando casa per tramite di un amico musulmano, col pagamento di un sovrapprezzo».

Questa situazione è la conseguenza solo di un problema interreligioso?
«È un problema politico, quindi un problema reale: qual è la capitale dello stato israeliano? È Gerusalemme, su questo non si discute. Poco tempo fa alle Nazioni Unite si discuteva di fare uno Stato Palestinese, e quale sarebbe stata la capitale? Gerusalemme. Per decidere chi ha diritto ad avere la capitale a Gerusalemme si considerano il numero di case e quindi delle famiglie. Siamo qui in circa 750mila abitanti, dei quali 520mila sono ebrei, 220mila sono musulmani e 12mila cristiani. Quindi gli ebrei dicono che a loro spetta la capitale, perché hanno il maggior numero di case e se non fossero abbastanza potrebbero costruie altre da un giorno all’altro. La stessa rivendicazione è avanzata dai musulmani, che riconoscono Gerusalemme come incedibile in quanto città santa dell’Islam.
Poco tempo fa abbiamo seppellito un nostro confratello, Fra Ovidio, e durante il corteo funebre siamo stati fermati da un israeliano ebreo, che si è lamentato della nostra celebrazione. Ha usato due argomenti contro di noi; nessun non ebreo può essere seppellito a Gerusalemme e non avremmo dovuto portare la croce. Ma non pensate che questi siano atteggiamenti nuovi: al tempo dei turchi quando moriva un frate bisognava pagare per fargli il funerale, e sul permesso c’era scritto che si poteva dare sepoltura a un “buon cane”».

Cosimo Caridi

Cosimo Caridi




Questione di vita o di morte

La lotta per l’acqua nel semiarido Nordeste brasiliano

Con il termine sertão viene indicata una vasta regione semiarida, estesa su molti stati del nordeste brasiliano, battuta da un sole feroce e siccità cronica. Per rispondere a tale emergenza, un missionario della Consolata, da 20 anni, scava pozzi e costruisce cistee, lottando contro la rassegnazione della gente e la corruzione dei politici.

Le previsioni dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe) già diversi anni fa non erano affatto incoraggianti per il Nordeste del Brasile: la regione sarebbe stata colpita da una grande siccità, che si sarebbe estesa dal 2006 al 2011. Purtroppo tali previsioni si sono avverate e il periodo è già passato: dei 400 municipi della Bahia, 186 hanno dichiarato lo stato di emergenza.
Padre Moratelli Vidal, missionario della Consolata, da 20 anni affronta la questione dell’acqua nei municipi di Jaguararí e Monte Santo, a 300 km da Salvador, capoluogo dello stato di Bahia; egli è convinto che, per convivere nel territorio semiarido, prima di tutto sia necessario superare la mentalità della dipendenza tanto religiosa che politica.
lotta alla rassegnazione
«Dopo tante sofferenze e tanti fallimenti nelle semine e nell’allevamento del bestiame, ingannata dalle promesse dei politici, la gente del sertão si è rassegnata a subire la situazione: un’attitudine che toglie la forza per organizzarsi e protestare», afferma il missionario e fa notare come l’espressione più frequente della gente sia: «Se Dio vuole, pioverà». E continua: «Sarebbe più conveniente dire: aiutati che Dio ti aiuta, nel senso che Dio manda la pioggia, ma la gente deve usare il proprio cervello per sviluppare progetti e rivendicare i propri diritti, spronando l’amministrazione pubblica a fare il suo dovere».
La situazione è grave, ma non tragica come era anticamente, quando molti contadini dovettero abbandonare la campagna. Oggi ci sono molte più risorse che in passato, come la pensione, il sussidio mensile del governo per le famiglie più povere per l’acquisto di prodotti alimentari di base (bolsa família) e per la scuola (bolsa escola), assicurazioni e microcredito bancario per fattorie a conduzione familiare (bolsa safra), costruzione di cistee per l’acqua, estensione della rete elettrica con il programma «luce per tutti» e altre forme di aiuto.
Grazie a tali benefici la gente si sente soddisfatta e magari non esige più riforme strutturali per una soluzione definitiva. E per quanto riguarda la siccità, gli specialisti dicono che è quasi impossibile eliminarla. Allora non rimane altro che darsi da fare e imparare a convivere con il clima semiarido, caratterizzato da 300-750 millimetri di pioggia l’anno.
Chiesa e siccità
Ne è un esempio la parrocchia di San Giovanni Battista di Jaguararí, formata da 80 piccole comunità e, dal 1985, affidata ai missionari e missionarie della Consolata. In quella zona sono stati già perforati centinaia di pozzi artesiani e poste tubature per decine di chilometri. Oltre a questo, il Centro culturale della parrocchia ha già costruito più di 800 cistee per l’acqua potabile e per l’uso agricolo.
Il gruppo missionario è composto da tre padri e quattro suore. I progetti, iniziati dal padre Vidal, continuano con il sostegno del Centro culturale e del municipio e sono cornordinati da 45 associazioni locali, legate a una Associazione centrale con sede in Jacobina che assicura l’assistenza tecnica.
Un’altra zona in cui l’acqua è questione di vita o di morte è il territorio della parrocchia di Monte Santo con oltre 140 comunità, assistita dai missionari della Consolata dal 1987. Attualmente vi lavorano tre preti e un diacono. Uno di essi è padre Moratelli, specialista nella prospezione del sottosuolo (rabdomanzia), da tutti conosciuto come il «padre dell’acqua».
Egli spiega che la regione si trova in un sistema geologico semiarido causato dall’essere umano, che ha disboscato il suolo senza controllo. Il processo di desertificazione si trova in uno stadio tale che la natura non riesce a ricuperare da sola. Nonostante piova fino a 700 mm l’anno, il suolo non è in grado di trattenere l’acqua.
Secondo il parere del missionario è urgente «immagazzinare l’acqua nei periodi piovosi e costruire sbarramenti, una specie di piccole dighe per gli animali». Egli suggerisce ancora che in tutti i centri abitati «il governo investa in pozzi artesiani e trasformi l’acqua salata in acqua potabile, mediante strumenti desalinizzatori, con la partecipazione della comunità locale. Per tale collaborazione si potrebbe ricorrere a una tessera elettronica, con cui ognuno pagherebbe per la quantità di acqua processata». Inoltre, ogni fattoria dovrebbe avere il suo pozzo artesiano per il bestiame: «Tale investimento valorizzerebbe la proprietà e salverebbe il bestiame».
siccità è… potere
L’Aquifero Tucano, riserva d’acqua sotterranea, seconda per grandezza in tutto il Brasile, è a 100 km da Monte Santo. Le comunità chiedono al governo di fare investimenti in un progetto d’acqua potabile sicuro e permanente, con tubature che rifoiscano la città e i centri abitati. «Tale progetto eviterebbe che l’acqua, elemento vitale per l’essere umano e gli animali, diventi causa di malattie come sta capitando al momento. L’acqua che si utilizza attualmente non è adatta al consumo», ammonisce padre Vidal.
«La pubblicazione del numero dei municipi in stato di emergenza è stata accolta con esultanza, come un’occasione per ricevere molto denaro pubblico, invece di vederla come motivo di vergogna per il disinteresse e la mancanza di organizzazione nel superare tali situazioni critiche che si ripetono anno dopo anno. Mentre alcuni portano in processione immagini sacre sul santuario della Santa Croce, altare del sertão, altri, in città, rubano a piene mani» afferma indignato il missionario.
L’elettrificazione rurale è stata una grande impresa del governo. L’energia elettrica ha portato benefici alla campagna e aumentato il commercio. «Perché la questione dell’acqua non è trattata con altrettanto impegno e serietà?» domanda padre Moratelli; e commenta: «Il fatto è che la siccità continua a essere l’asse di briscola per la carriera dei politici che gestiscono autobotti in cambio di potere. L’intervento di un progetto governativo abolirebbe le autobotti, cosa che per i politici locali sarebbe un pessimo affare per tutto ciò che ruota attorno all’industria della siccità».
Tale tesi è convalidata dagli abitanti di Monte Santo. Una fonte, che preferisce non essere identificata, afferma che la regione è un’arena elettorale del deputato dello stato di Bahia; ogni potere è in mano sua. «Mentre era solo segretario del sindaco, questo deputato ha speso 5 milioni di reali per la campagna elettorale e dopo la sua elezione ha continuato ad arricchirsi: in 64 anni di vita, è stato il primo impiegato statale che ho visto diventare milionario» afferma e accusa: «La siccità è la situazione che permette maggiori guadagni. Le autobotti valgono voti; c’è un controllo integrato di tutti i poteri. Le denunce non vanno avanti e chi denuncia è intimidito. L’amministrazione è una fonte d’impieghi; chi non vi lavora, ha qualche parente impiegato e non vuole che perda il posto, per cui tace».
mistica dell’acqua
Un altro personaggio che si distingue nella lotta per l’acqua è il padre Nelson Nicolau, originario di Chapecó (Stato di Santa Caterina), che da 20 anni lavora nel municipio di Cansanção, 35 km da Monte Santo. «È necessario sviluppare e preservare la mistica dell’acqua – afferma -. Quando la vita è minacciata dalla siccità, la Chiesa deve agire per difenderla. Per questo i cristiani devono coinvolgersi nella lotta per l’acqua».
Grazie alla sua opera di coscientizzazione nelle comunità, negli anni ‘90 fu creata l’Arpa, (Associazione regionale pro-acqua), che riunisce quattro parrocchie (Queimadas, Cansanção, Nordestina e Monte Santo) e cornordina iniziative e progetti a tutto campo. Con l’aiuto della Caritas sono stati comprati i macchinari per la perforazione dei pozzi; per mezzo delle autorità regionali l’Arpa ha ricevuto una retro-scavatrice e un camion con cassone ribaltabile per la pulizia e costruzione di piccole dighe. Al tempo stesso si è riusciti a costruire una rete di tubi per portare l’acqua in città e a piccole comunità rurali.
acqua per tutti
La professoressa Maria da Gloria Cardoso, cornordinatrice della pastorale dell’infanzia e membro dell’Arpa, dice che «la questione dell’acqua è trattata con molta approssimazione: i politici non la prendono mai sul serio. Tutto diventa manipolazione politica. C’erano progetti per la costruzione di cistee e per macchine perforatrici, ma sono fermi. Il suolo ha una crosta dura e occorrono strumenti adeguati per perforarla. Venti anni fa con l’aiuto della Banca mondiale furono costruite molte cistee, ma fu un lavoro malfatto e la maggior parte è andata in rovina», ricorda.
A Monte Santo la Commissione dell’Arpa, che raggruppa rappresentanti della Chiesa, del Sindacato dei lavoratori rurali, dell’Asa (Organizzazione del semiarido) e dell’amministrazione pubblica, fa rilevamenti ed elabora progetti, ma il lavoro procede con lentezza. «Negli anni passati facemmo un progetto, chiedendo di destinare il 3% del bilancio municipale alle risorse idriche. Il progetto fu approvato nel consiglio comunale, ma al momento di elaborare il calcolo di bilancio, questa voce non comparve. La gente, poi, è anche molto passiva, aspetta sempre che Dio mandi la pioggia e la siccità continua ad apparire come un castigo meritato», lamenta Maria da Gloria.
Secondo Anna Maria Campos de Oliveira, assessore all’agricoltura di Monte Santo, municipio con 53 mila abitanti, la situazione si è aggravata negli ultimi sei mesi. La strategia del comune è pulire le fontane, perforare e ricuperare pozzi e distribuire «borse basiche» (alimenti di prima necessità) alle famiglie più bisognose. Per questo il sindaco ricevette l’aiuto del governo federale per il valore di 60 mila reali (25 mila euro).
D’altra parte ci sono molte critiche riguardanti le autocistee, che rappresentano la maggiore fonte di corruzione. Nel municipio ci sono 53 autobotti affittate e pagate dall’Esercito tramite il governo federale, al costo di 500 mila reali al mese (200 mila euro). Secondo alcune informazioni, ci sono camion che ricevono mensilmente da 12 a 17 mila reali (5-7 mila euro). La maggior parte è controllata dai consiglieri comunali. Oltre a ciò, l’acqua trasportata non è di buona qualità. La segretaria chiarisce che il prezzo mensile per camion varia da 3 a 10 mila reali (1.220-6.000 euro).
«Il prezzo è alto, ma il municipio non riceve alcun soldo; tutto è fatto attraverso l’Esercito», commenta Anna Campos e confessa, al tempo stesso, che è difficile controllare l’approvvigionamento. Essa stessa ha già sporto varie denunce. «Ma non posso portare le prove concrete, perché non ho informazioni esatte su queste autobotti».
Anna Campos osserva che nel municipio non c’è più posto da cui estrarre l’acqua potabile. Le autocistee dovrebbero trasportarla da Quinjigue, ma recentemente l’analisi di un campione ha rivelato che l’acqua portata a una comunità era inadatta al consumo umano. «Ho già ricevuto perfino minacce di morte per aver controllato l’acqua attinta a un deposito per il bestiame e distribuita per il consumo umano», rivela.
Evaristo Rodrigues de Lima, un rappresentante della Commissione dell’acqua, collabora con «Articolazione del semiarido-ASA», istituzione non governativa che lavora insieme alle diocesi e ad associazioni locali. Egli spiega che dal 2002 furono costruite nel municipio circa 3 mila cistee da 16 mila litri ciascuna. Si prevede che per il 2014 ne saranno costruite almeno altre 5 mila per portare a tutti l’acqua potabile. «Il lavoro è fatto in forma collettiva per non favorire nessuno. È una risorsa per tutti», sottolinea.
Inoltre, ci sono anche cistee riservate per gli allevamenti di bestiame e produzione di ortaggi. «Nel 2011 ne furono costruite 40, da 50 mila litri ciascuna. In questi progetti abbiamo coinvolto le famiglie. Ciò garantisce la produzione degli ortaggi. Li stanno ancora vendendo», commenta Evaristo con soddisfazione.
La signora Olivia Gonçalves de Carvalho della comunità «Fattoria vecchia» ha investito 7 mila reali (3 mila euro) in una cisterna per coltivazione, con recinto e aiuole per la produzione di ortaggi. «La cisterna è una terapia, perché per estrarre l’acqua devo azionare la pompa e col movimento fisico mi sento meglio; poi, con i miei ortaggi non mangio veleno. Gli animali non berranno più acqua sporca. È una benedizione! Magari ogni famiglia avesse una di queste cistee!» esclama.
La vita nel sertão gira attorno all’acqua, che normalmente è gestita dalla donna. Oggi la gente si rende conto che è importante avere una cisterna a portata di mano, per garantire la buona qualità dell’acqua e conseguentemente della vita. L’acqua accanto a casa risparmia lunghe camminate e allevia il lavoro della donna, che così può dedicarsi di più ai figli e alla propria casa.
I pozzi danno sicurezza alle famiglie nel lavoro dei campi e le cistee rendono possibile la coltivazione di piccoli orti familiari. Con tutto ciò si riscontra una diminuzione delle malattie nei bambini e anziani.
Jaime C. Patias

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Dionisia: donna forte del sertão

Il giorno 8 marzo, Giornata internazionale della donna, gli abitanti di Barreira, Pedra Vermelha, villaggio della parrocchia di Monte Santo, si sono riuniti per celebrare i 112 anni della signora Dionisia, simbolo della resistenza del sertão. La nipote, Martinha das Neves Nascimento, racconta la storia della donna più vecchia della regione.
Dionisia Maria nacque nella fattoria Serra de Lopes, Monte Santo; fu registrata all’anagrafe l’8 marzo del 1900; si sposò con José das Neves dal quale ebbe 14 figli (due dei quali morti, una figlia in tenera età, un’altra da adulta).
Oggi Dionisia vive con una delle figlie: ha 102 nipoti vivi, circa 245 bisnipoti e 46 trisnipoti. Ebbe una vita molto difficile, arrivando fino a patire la fame con tutta la famiglia. Durante la grande siccità del 1932 aveva già tre figli ed era in attesa del quarto. Il marito andava a lavorare a giornata nei campi dei fazendeiros; con la paga giornaliera (2 reali, meno di un euro) poteva comprare due chili di farina.
Dionisia restava con i figli senza niente da mangiare. Allora prendeva i bambini, un machete, una zappa e andava nel campo; tagliava un licuri, palma tipica del sertão, ne estraeva il palmito (cuore di palma) e lo dava da mangiare ai bambini. Essi mangiavano il palmito, bevevano acqua e andavano a giocare, mentre essa puliva la piantagione della manioca. Alle 11 prendeva il machete, tagliava il tronco del licuri, lo portava su una lastra di pietra e lo batteva fino a ridurlo in polvere; poi tornava a casa, mescolava la farina in una padella e faceva una specie di focaccia. I bambini mangiavano fino a saziarsi e andavano a dormire tranquilli.
La sera, quando il marito tornava, le domandava:
– Dove sono i bambini? Sono già morti di fame?
– No, stanno già dormendo, rispondeva.
– Che cosa hanno mangiato?
– Palmito, focaccia di licuri e acqua: sono a pancia piena.

In quei tempi lunghi e difficili i fratelli di Dionisia se ne andarono in cerca di altre terre e di condizioni migliori, abbandonando i vecchi genitori; ma essa diceva fiduciosa: «Accada quello che deve accadere, io non abbandonerò mai i miei genitori». Li assistette fino alla fine. Dice che è viva perché non ha abbandonato i suoi genitori: i suoi fratelli sono già tutti morti; è rimasta solo lei per raccontae la storia.

Per la nipote Martinha, insegnante a Barreira, nonna Dionisia è una grande donna che si adattò a qualsiasi servizio per nutrire i suoi figli, fino a lavorare a giornata, ripulendo il terreno. «Con la sua forza d’animo, oggi, nonna Dionisa ci trasmette un’esperienza di vita, di amore e saggezza. Lo dico perché abbiamo imparato tanto dai suoi esempi; essa non ha mai frequentato la scuola, ma la scuola della vita gli ha insegnato molte attività. È stata una grande artigiana. Faceva reti di cotone: essa stessa filava gli spaghi e intrecciava le reti; era una delle sue specialità. Faceva oggetti di creta: pignatte, brocche, scodelle. Con le fibre della palma licuri confezionava stuoie, borsette, cappelli, cose che ancora oggi riesce a fare con maestria, magari solo per regalarle ad amici e parenti. Oltre a essere madre, nonna, bisnonna e trisavola, Dionisia è anche madre di tanti bambini che aiutò a entrare nella vita. Infatti, un’altra attività da lei svolta per molti anni fu quella di levatrice: migliaia di bambini sono nati con il suo aiuto; ci furono alcuni casi difficili, ma con l’aiuto di Dio, medicina naturale, orazioni e tanta fede nel Signore di Bonfim, nella Madonna Addolorata e nei santi protettori, le riuscirono tutti con successo. Fu anche un’eccellente santona: era ricercatissima per i casi di disgrazie e di malocchio».
Una volta, Dionisia con un bimbo in braccio andò a chiedere un po’ di latte a un vicinato; ma questi glielo rifiutò. Toata a casa, venne a sapere che la mucca gli aveva rovesciato il secchio con un calcio. Tale fatto segnò la sua vita e produsse in lei l’istinto della solidarietà. Contro una concezione banale del dono della vita, donna Dionisia è il simbolo della lotta per la sopravvivenza feconda di molte vite. Nel sertão, dove difficoltà e sofferenze sono maggiori, lei rappresenta la donna tenace, che non si arrende mai.

Jaime Patias

Jaime C. Patias




Cari missionari

ATTENTATI CONTRO I CRISTIANI IN NIGERIA E KENYA
Sono un’illusa?

Carissimo Direttore,
vorrei poterti scrivere in occasioni meno tragiche, ma i recenti fatti in Kenya, Nigeria e Mozambico mi hanno molto rattristato ed indignato. Mi ha colpito anche la quasi indifferenza dei media, che in altri casi avrebbero suscitato un vespaio di reazioni e di discussioni.
Solo nel quotidiano Avvenire ho trovato ampi e dettagliati servizi per cui mi sono sentita in dovere di scrivere una lettera che il Direttore ha pubblicato ieri nella rubrica delle «Lettere dei lettori».
Te l’allego. Dentro c’è tutto il mio sdegno ma anche la speranza che la gente possa capire, riflettere, risvegliarsi.
Sono un’illusa?

Grazie e … un minuto di silenzio!
Grazie «Avvenire», grazie per aver dedicato ampio spazio alle notizie e al commento degli attentati ai cristiani in Nigeria e in Kenya.
Grazie per il tentativo di risvegliare i lettori chiusi nell’immobilismo dei loro piccoli interessi, nel circolo vizioso delle vicende economiche a cui gli stati europei cercano invano di dare una soluzione quando sarebbe bastato, negli scorsi anni, non vivere al ritmo delle cicale, illudendosi di abitare nel paese di Bengodi mentre il terzo mondo arrancava, si arrabattava per sopravvivere, si affannava a chiedere visibilità ed aiuto ai gaudenti occidentali che esibivano dagli schermi televisivi il loro benessere di fronte a coloro che non potevano che raccogliee le briciole. Grazie per l’analisi seria ed impietosa delle motivazioni ideologiche ed economiche e delle cause pregresse.Grazie anche per le immagini, volutamente a colori perché meglio risaltassero le devastazioni, il sangue, il pianto delle vittime.
Ormai siamo diventati degli spettatori annoiati che solo immagini forti possono ridestare.
Fateci emozionare, fateci riflettere, fateci piangere con quelli che piangono a causa di un’insulsa violenza. Usate parole forti per farci capire l’ingiustizia di una libertà violata, di un diritto calpestato.
Amo l’Africa e mi sento particolarmente vicina agli stati del centro Africa, a questi popoli che chiedono acqua, istruzione, lavoro,che sanno pregare con spontaneità nelle loro chiese con i loro canti e le danze pittoresche.
Nella grande Chiesa della Consolata di Nairobi, nella cappella del SS. Sacramento gente di ogni ceto e di ogni età si alterna 24 ore su 24 nella preghiera di adorazione.
Una presenza continua e silenziosa. Forse anche noi dovremmo arrestarci e dedicare qualche minuto di silenzio a questi morti innocenti, nostri fratelli d’Africa che la Morte, per mano di estremisti fanatici, si è portati via in luoghi simbolo: una chiesa e un’università, luoghi da dove inizia il riscatto dalla povertà attraverso il contatto con Dio e il cammino della Conoscenza.
Giulia Borroni Cagelli
Via email, 06/05/2012

Cara Signora Giulia, innamorata dell’Africa, grazie per le tue parole scritte col cuore.
L’argomento che tocchi è molto delicato perché davvero ci si abitua ai disastri, ai drammi, alla sofferenza. Per restare ai fatti che citi, un missionario ha scritto dal Kenya che ha «saputo dell’attentato alla chiesa di una piccola “setta” protestanta da amici in Italia. A Nairobi, i problemi del vivere quotidiano sono molti e in una città di oltre 5 milioni di abitanti, anche piuttosto violenta, un morto non fa molta notizia». Un altro missionario, quando gli ho chiesto dei 3.000 e più sfollati di Camp Garba (di cui ho parlato nell’editoriale del mese scorso) mi ha detto che lui non ne sapeva niente, anche perché le situazioni di violenza lassù, nelle zone del nord e verso la Somalia, sono talmente tante da non far più notizia.
In Mozambico è stato necessario che ci scappasse il morto, p. Valentin Camale (MC 5/2012, p. 7), perché i religiosi che vivono a Maputo si svegliassero e trovassero il coraggio di denunciare la situazione di insicurezza cronica in cui vivono da mesi e coinvolgessero i vescovi nel fare una protesta ufficiale.
I missionari non sono molto capaci di denunciare violenze, ingiustizie e sopraffazioni. E quando lo fanno, si sentono a disagio, perché non amano apparire. Loro ci vivono dentro, insieme alla loro gente, condividendone anche il silenzio impotente e la fede grande. Vista poi l’inutilità di gridare per l’aiuto dei potenti, troppo indaffarati con le loro crisi fatte e disfatte sulla pelle dei poveri, forse l’unica cosa che rimane da fare è pregare, almeno quello cambia di sicuro in positivo il cuore di chi prega.

RICORDANDO SUOR AGNESE BEGLIATTI
Ci sono momenti di grande prova e di grande angustia in cui affronti il dolore per la perdita di una persona cara, momenti in cui ti lasci andare e ti lasci invadere dallo sconforto e dalla tristezza, ma che ti portano a parlare con Cristo, con Colui che per amore si è portato sulla croce tutti i peccati del mondo.
Stamane (18/4/2012) ho avuto la triste notizia della morte di suor Agnese Begliatti, conosciuta come sr. Costantina, missionaria della Consolata. Ho provato uno strappo emotivo di rara intensità e tanti pensieri hanno affollato la mia mente, riportandomi ad un periodo della vita incancellabile.
Di suor Agnese non dimenticherò mai l’entusiasmo, il dinamismo a fin di bene, la grande carica umana e simpatia, ma soprattutto la forte fede in Dio, la fede dei semplici.
Con lei e suor Clarenzia, Natalina e Franca, quando prestavano la loro opera alla clinica Solatrix di Rovereto, dove era ricoverata in agonia mia moglie Serenella, ho condiviso fede, preghiera e speranza. Sì, la fiducia illimitata in Cristo ha caratterizzato la nostra amicizia, quella fede che supera la ragione ed ogni barriera umana e che ci mette in rapporto con Dio, che consola, che da gioia e speranza, infine ci salva. Il Signore ci conduce con la Sua luce, ci genera ad una vita nuova e ci insegna che con la morte nulla è finito, anzi… l’amore di Gesù si è rivelato più forte della morte!
Gli uomini privi di fede affidano ogni evento al caso, alla fortuna o viceversa. L’uomo di fede, invece, è convinto di come il caso sia nient’altro che lo pseudonimo con cui si firma Dio! Tutto accade per un disegno immenso che soltanto con la vita oltre la morte si può capire.
Chi crede in Lui, lo ringrazia per tutte le cose buone della sua esistenza!
Davvero notevole la lezione di fede e di vita che ci ha regalato suor Agnese!
Eppure, tanti anni fa non volevo proprio sapee di Lui…

Gennaio 1989
“E Dio?”. La mia risposta immediata: “Non ne ho assolutamente bisogno”.
Mi sarebbe piaciuto che esistesse, ma se ci fosse stato non sarebbe stato di sicuro di questo mondo. Ero convinto che i problemi potessero essere risolti con la volontà e con il coraggio senza l’intervento di nessuno. Per di più, le religioni erano state artefici dei più grandi conflitti. In nome di Dio si erano compiuti i più crudeli massacri e i preti erano persone fuori dal tempo che vivevano in un mondo tutto loro, spesso mi erano insopportabili.
Io credevo che ogni essere vivente dovesse godere dei propri spazi di libertà, essere autonomo, capace di tutto e padrone assoluto della propria vita.  
Spesso mi trovavo in contrapposizione con pensieri diversi, con chi pensava che l’uomo avesse nel profondo di sé un innato desiderio del ‘divino’, perché è bello pensare che continueremo ad esistere oltre la morte e che c’è qualcuno che ci protegge e ci ama. Ma io non ne avevo proprio bisogno, non cercavo una vita di speranza, tanto meno rincorrevo un percorso di immenso amore, ma soltanto forti emozioni. Tuttavia, ero sensibile al dolore degli altri e sentivo forte il desiderio della solidarietà. La mia vita era passione. Mi fidavo della gente, amavo l’umanità e chi camminava con me; amavo aiutare il mio prossimo e non per il Paradiso, ma soltanto perché era giusto farlo. Tuttavia, mi domandavo se chi credeva in Dio non lo facesse solo perché ne aveva bisogno ma sentisse qualcosa che a me sfuggiva.
Un giorno incontrai Serenella e ci sposammo. Lei aveva una grande fede. Non potevo fare a meno di osservarla quando, raccolta nell’angolo più intimo della casa, volgeva una mano in alto. Mi colpiva l’intimità con il suo Dio, traspariva con intensità e sentimento, attraverso gesti impercettibili. Era come se stesse semplicemente parlando e comunicando con qualcuno realmente presente.
Nonostante ciò il mio modo di vedere e giudicare le cose era lontano dal suo, continuavo a vivere con le mie idee ed opinioni.

Febbraio 1989
… E giunsero anche per me i così detti anni che nessuno vorrebbe mai vivere: mia moglie, nel periodo più bello della gravidanza, si ammalò e di un male incurabile.
La sofferenza la senti solo quando la provi sulla pelle e ti sconvolge, si impossessa di te e della persona che ami. Per la prima volta mi resi conto che forse l’unica possibilità che avevo per salvare mia moglie era quella di rivolgermi a quel Dio che avevo sempre rifiutato.
La grande spiritualità di mia moglie, mi portò a pensare a Cristo, venuto per annientare tutte le barriere, un Dio fatto uomo per abbracciare i lebbrosi. Un Dio degli ultimi, che non chiede la nostra purezza per avvicinarsi e tanto meno la nostra rettitudine, ma soltanto la nostra umiltà, le nostre povertà, i nostri peccati. Ed è nell’umiltà che Lui manifesta la Sua potenza. Inspiegabilmente cominciai a sentire dentro qualcosa, avevo la sensazione che ci fosse qualcuno che ci guidava, ma soprattutto che ci consolava ed aiutava, insomma non eravamo più soli!

Per un grande miracolo nacque Chiara.
Con la nostra piccola accanto, ritoò la luce abbagliante di un mattino fresco e luminoso, il buio pesto dei giorni precedenti sembrava un lontano ricordo. Così, tutti e tre cominciammo a frequentare dei luoghi dove si erano verificati eventi, grazie e guarigioni prodigiose. Stavamo facendo un cammino spirituale, con un Cristo che ci conosceva e ci amava tanto, che si era fatto uomo per noi. Gesù che a tutt’oggi tocca gli ammalati.
In quel periodo conobbi suor Agnese: una persona speciale, un’amica umile, buona, leale e generosa, che non mi ha chiesto nulla, ma dato tanto.
è per me difficile descrivere i momenti tanto intensi condivisi con lei: tanti gli incontri in sana allegria,  altrettanti quelli di preghiera, i pellegrinaggi, l’ultimo lo scorso anno a Medjugorje. Non dimenticherò mai più la sua testimonianza sul pulmann, quando ha raccontato di Serenella, di Chiara e di me. Tanto meno mi rimarrà fisso nella mente l’espressione del suo volto al ritorno della via Crucis sul Krisevac, dopo una discesa avventurosa lungo un ripido sentirnerino tra piante e salti rocciosi. Mi ha commosso ed emozionato vederla stanchissima alla base della collina, ma tanto felice. Sono convinto che proprio la Regina della pace l’abbia voluta con sé in Paradiso.
Mi ritornano altri ricordi, sensazioni, emozioni, e il mio cuore si fa triste. Tuttavia, la fede mi sussurra che suor Agnese è in Paradiso, ha soltanto cambiato vestito e ancora mi aiuterà, ancora mi guiderà e mi amerà. Ancora ci benedirà e ci indicherà un cammino che termina nel cuore di un Dio papà, perché lei è nello Spirito e lo Spirito di Dio è ovunque!
Grazie di cuore suor Agnese per la tua amicizia
Giuliano Stenghel (Sten)
Via email 25/04/12

Occhi e cuore
Sono molto devota alla Madonna Consolata e mi rincresce molto di dovervi pregare di non inviarmi più la rivista missionaria. Il motivo è che non posso più leggerla. Ho perso la vista all’occhio sinistro per la macula, malattia inguaribile, non ci sono rimedi né con farmaci né chirurgici. Con un occhio solo, anche un po’ malato, mi stanco e devo smettere. Siamo in tempo di crisi, tutto costa caro e sprecare la rivista mi rincresce. Se volete farla avere a qualche persona sola, la gradirà certamente. L’offerta per i missionari ve la farò sempre avere. Pregate per me la Madonna Consolata, perché mi aiuti e mi sostenga a sopportare questi momenti difficilissimi
Maddalena A.
Villafranca, 20/04/2012

Gentile Signora Maddalena, grazie per le sue delicate parole che ci fanno bene. L’affetto e il rammarico che le sue parole rivelano ci compensano ampiamente di altre parol(acc)e che invece ci feriscono. Non è raro che nipoti o figli mandino messaggi irritati e scortesi per disdire la rivista che un loro genitore – già sincero amico delle missioni della Consolata – ha ricevuto per anni con «devozione». Anche a loro rispondiamo ringraziando per la segnalazione. Ovviamente ci dispiacerebbe di più se la rivista fosse semplicemente cestinata, anche se nel bidone della carta da riciclare. Grazie a lei, allora e tanti auguri e benedizioni nel Signore. Sono sicuro che la Madonna Consolata avrà un occhio di riguardo per lei.

Ricordando
P. Peppino
è passata da poco la Pasqua ed è un’ottima occasione per ricordare padre Peppino Maggioni (1934 Ceusco Montevecchia, Como – 29/7/2009 Alpignano, Torino) che quasi tre anni fa è «andato a stare meglio» (come ultimamente diceva, durante la sua malattia).
La sua figura piena di vita è impressa in modo indelebile nella nostra memoria, lo vediamo ancora vigoroso, instancabile, nelle missioni del Meru dove abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo.
Eravamo una ventina di giovani (…allora), inesperti in quasi tutto – figuriamoci dell’Africa – ma con il suo fare apparentemente burbero, Peppino ci trasmetteva sicurezza. Alla sera, alla fioca luce del generatore, dopo una giornata di lavoro, trovava ancora l’energia per raccontarci le sue esperienze e con dispiacere arrivava l’ora di andare a dormire.
Ricordiamo con nostalgia le messe domenicali celebrate spesso all’aperto, all’ombra di un grande albero (chiamato albero sacro da quelle parti) e della durata media di tre ore! I canti, le danze e soprattutto le omelie di Peppino in lingua locale. Quando lui parlava pareva che il tempo si fermasse: lo spazio si dilatava e tutti ascoltavano interessati senza fatica e senza segni di impazienza. Ci sentivamo, neri e bianchi insieme, parte di una stessa famiglia, a condividere un’unica esperienza.
Il trascorrere degli anni ci ha consentito di conoscere meglio Peppino, ma mai di capirlo fino in fondo – perché ci riservava sempre qualche bella sorpresa. Ci sembra ancora di vederlo venirci incontro ad Alpignano con il suo passo affaticato, ma sempre sorridente, pronto ad ascoltare ed incoraggiare.
Dopo la sua morte il gruppo dei Chukini (così ci battezzò nel 1982 al nostro primo incontro a Chuka) si è rinsaldato, cerchiamo di realizzare qualche piccolissima iniziativa per essere  d’aiuto ad altri missionari e ogni anno a settembre ci ritroviamo in corso Ferrucci per una messa che dedichiamo a Peppino.
Non è una messa per un morto, siamo sicuri che Peppino è più vivo che mai e con la messa vogliamo incontrarlo, ringraziarlo ed ascoltarlo perché lui continua a parlarci del suo amore per Gesù e per gli uomini e a suggerirci che è questa l’unica strada per vivere!
Ciao Peppino.
Roberto Rivelli e gli amici di p. Peppino di Torino




(Cana 37) Cana di Galilea e i luoghi del cuore innamorato

«Mio Signore e mio Dio!»
(Gv 20,28) Gv 2,11: «Mentre faceva questo principio dei segni Gesù in
Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e credettero in lui i suoi
discepoli» (Tàutēn
epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs
en Kanà tês Galilàias kài ephanèrōsen
tên dòxan autoû kài epìsteusan eis autòn hoi mathētài
autoû
).

Tecnicamente, Gv 2,11 conclude il racconto del «segno di
Cana», anzi del «principio dei segni in Cana della Galilea», il racconto delle
nozze dove i personaggi svolgono ruoli che hanno significati «altri», rispetto
a una lettura superficiale. Manca la sposa, mentre lo sposo appare solo per
essere rimproverato; assume una funzione importante, anche se negativa,
l’architriclino che pur partecipando a una occasione unica (kairòs), non è in
grado, come spesso accade all’autorità ufficiale, di cogliere la portata
profetica e cristologica dell’evento: è presente «fisicamente» alle nozze, ma
il suo cuore è distratto dalla differenza superficiale tra i «due vini». Con
questo versetto redazionale, prima conclusione del narratore, veniamo a sapere
qual è stato lo scopo del racconto, perché è l’autore stesso che ce lo comunica
affinché possiamo custodirlo come un momento importante.

Il testo difficile

Dal punto di vista della critica testuale, cioè della ricostruzione
del testo greco attraverso i papiri e gli altri manoscritti più antichi, il
versetto ha tre varianti importanti: il testo che noi riportiamo è attestato
dalla maggioranza dei manoscritti sia maggiori che minori. Considerata la
natura divulgativa del nostro studio tralasciamo le due varianti che hanno un
cambiamento di posizione tra le prime due parole (prima variante) e la
sostituzione di un aggettivo con un altro (seconda variante) che ci
porterebbero a considerazioni troppo tecniche per chi non è attrezzato
scientificamente. Ci limitiamo a dire che le due varianti, anche se la seconda
è molto antica, sono «miglioramenti stilistici» e quindi cercano di
«aggiustare» il testo.

Noi scegliamo, secondo la migliore regola esegetica, il
testo più difficile, certamente più vicino all’originale. Per capire il senso
di questo versetto, che, a nostro parere, è il più importante di tutto il
brano, bisogna soffermarsi sulle singole parole, dove sono collocate, e,
infine, sul loro significato nel contesto di tutto il vangelo di Giovanni prima
e di tutta la Bibbia in secondo luogo.

Abbiamo già anticipato che il versetto è di mano del
redattore finale, che così rivela il suo pensiero sul significato di quanto
precede: solo ora veniamo a sapere che nel racconto di Cana vi è un concentrato
fantastico di teologia giovannea. In questo versetto, infatti, troviamo cinque
parole che esprimono cinque temi che attraversano tutto il vangelo di Giovanni,
costituendone la spina dorsale: «Principio (richiama l’archètipo)/segno-segni/manifestare/gloria/credere».

Centellinare la Parola respirandola

Chi pensava di leggere un racconto edificante, arrivato al
versetto 11 deve ricredersi e ricominciare daccapo, centellinando parola per
parola, respiro per respiro. Normalmente le traduzioni vanno per le spicce,
come la Bibbia-Cei (1974): «Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di
Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui»; la
nuova edizione (2008) cerca di aggiustare, ma senza osare troppo: «Questo, a
Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua
gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Si vede dietro la fatica di fare
concordare il testo greco con un significato accessibile a prima vista, ma non
sempre è possibile. Tentativi lodevoli, ma insufficienti.

La Bibbia-Cei (2008) aggiunge anche una nota al versetto per
spiegare ulteriormente che: «Questo… fu l’inizio dei segni: non solo il primo
dei segni, ma il modello di tutti (questo è il significato della parola greca
tradotta con inizio). Difatti il miracolo di Cana ha rivelato la divinità (gloria)
di Gesù e ha aperto ai suoi discepoli il significato delle opere prodigiose
(che Giovanni preferisce chiamare segni)».

Tutte le traduzioni, anche in altre lingue, che qui
risparmiamo, si fermano alla grammatica tradizionale greca secondo la quale il
primo verbo, «epòiēsen –
fece», essendo un tempo aoristo, deve tradursi con il passato remoto o in
alcuni casi anche con il passato prossimo.

Verbi e traduzioni «diaconi» della Parola

Le versioni Cei rendono «fece» con «fu» e «diede», sempre al
tempo aoristo/passato remoto, esattamente come gli altri due verbi: «ephanèrēsen-manifestò» (Gesù) ed «epìsteusan-credettero»
(i discepoli). Noi invece pensiamo che sia meglio applicare la linguistica
testuale che guarda la funzione dei verbi (la parte più importante in un
testo), scopriamo allora che il loro significato dipende dal posto in cui essi
sono collocati e quindi bisogna valutare di volta in volta. Nel nostro caso,
vediamo che «epòiēsen –
fece», il primo aoristo, è preceduto da un pronome dimostrativo «tàutēn – questa», il quale a sua
volta è riferito a «archên – principio» che in greco è femminile: «Tàutēn epòiēsen archên».

Abbiamo quindi la seguente costruzione greca: «Tàutēn epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs» che tradotta, fuori dal contesto, in se
stessa, alla lettera e mantenendo le stesse posizioni delle parole che hanno in
greco, suona: «Questo fece (il) principio dei segni Gesù in Cana di Galilea».

La parola «inizio», usata dalla traduzione della Cei, è
fuorviante perché esprime un valore temporale, mentre al contrario «principio»
richiama una prospettiva globale e senza tempo. Le nozze di Cana non sono solo
il «primo» segno cronologico, ma il «segno fondamentale», quello che apre gli
occhi della fede verso ciò che accadrà da cana a Gerusalemme.

Il versetto 11 è composto da tre frasi o proposizioni,
perché vi sono tre verbi, che però non sono sullo stesso piano: il primo «epòiēsen – fece» è preceduto da un
altro termine, cioè dal pronome dimostrativo «tàutēn questa/questo», per cui il verbo, pur essendo
al tempo aoristo, che è il tempo primario della narrazione, è declassato a
tempo secondario. Gli altri due, invece, mantengono la struttura narrativa primaria,
che è propria del greco, e infatti sono preceduti tutti e due dalla
congiunzione «kài – e», che è uno dei segnali greci per indicare il verbo
aoristo nella posizione importante e quindi deve essere tradotto con il passato
remoto: «kài ephanèrēsen…
kài epìsteusan – e manifestò/rivelò… e cominciarono a credere». Alla luce di
queste osservazioni, la traduzione del versetto «deve» essere la seguente:

«Mentre faceva questo principio dei segni,
manifestò Gesù in Cana di Galilea la sua gloria
e cominciarono a credere in lui i suoi discepoli». 
La fede ha un principio e un inizio

L’autore intende porre l’accento su «manifestò» e
«cominciarono a credere»: le due informazioni che vuole comunicare al lettore,
perchè le più importanti e fondamentali di tutto il racconto. A differenza
dell’architriclino, rappresentante della religione ufficiale, che è cieco e
sordo, il lettore deve essere pronto a cogliere e «vedere» la manifestazione,
cioè la rivelazione di Gesù nella trama degli eventi ordinari che in se stessi
possono apparire insignificanti, mentre sono portatori di un senso nascosto e
nuovo che solo chi è predisposto sa cogliere. Per questo, ed è il secondo
messaggio, i discepoli «cominciarono a credere», perché la fede è conseguenza
di una visione e di una esperienza.

Traduciamo il terzo verbo «kài epìsteusan» con «cominciarono
a credere» e non con «credettero» perché pensiamo che l’aoristo greco, qui,
abbia valore «ingressivo», cioè descrive l’inizio di un’azione che è in cammino
e che sarà lungo prima di giungere al suo compimento. D’altra parte Gv parla di
«l’inizio dei segni» e ci sembra esagerato dire che i discepoli «credettero» al
primo colpo, senza alcun processo o elaborazione. Anch’essi si aprono al «vino
nuovo» interrogandosi sui fatti, come Cana, e si affidano all’alleanza del
Sinai che ritrovano e rinnovano nella persona di Gesù. D’altra parte, in
Giovanni, la figura del «discepolo/discepoli» oltre al significato dei seguaci
«storici» di Gesù, ha il significato del «discepolo-tipo», cioè del credente di
ogni tempo che s’incontra con la personalità di Gesù di Nàzaret il «rivelatore»
del Padre.

Non miracolo, ma segnale per non smarrirsi

Nello studio della Bibbia nel suo insieme o di un brano o di
un versetto non si può andare subito al significato «spirituale» per cogliee
subito il frutto. La Parola di Dio rifugge dalla fretta, pressappochismo,
superficialità e spiritualismo. Essa esige spazio, tempo, studio prolungato,
sapore, gusto… in una parola, la Bibbia esige «perdere tempo» come l’amore.

Come i nostri lettori avranno percepito, se hanno avuto la
pazienza di arrivare a questo punto, la riflessione sul versetto undici non è
conclusiva, ma è tutta centrata sulle questioni letterarie e in parte anche
sintattiche. Qualcuno potrebbe dire che sono superflue; se così fosse, passi
pure avanti, anzi ad altro, perché la Bibbia non fa per lui: legga fumetti o
faccia enigmistica. Noi riteniamo che la Bibbia debba essere assaporata nella
sua struttura letteraria, grammaticale e sintattica: più l’approccio è
scientifico e più si riesce a penetrare, attraverso il significato ordinario
delle parole comuni, il senso nascosto che lo Spirito può svelare a coloro che
lo cercano per le vie indicate dall’autore e quindi dallo stesso Spirito, e più
nutre l’anima.

Quando «si legge» la Bibbia o si riflette su un brano della
Scrittura, alla fine bisogna essere «stanchi» perché ascoltare, studiare e
vivere la Parola è lavorare nel e per il Regno di Dio. Altre volte abbiamo già
detto che per i rabbini ebrei, lo studio della Parola di Dio equivaleva al
sacrificio compiuto nel tempio di Gerusalemme. Sarebbe lo stesso per noi dire
che equivale alla celebrazione comunitaria dell’Eucaristia. Ecco perché è
necessario «stare sul» versetto 11, perché da esso dipende la comprensione di
tutta la narrazione. Vogliamo evidenziare la grandezza e la lungimiranza del
redattore finale che, scegliendo le frasi e mettendole in un certo ordine, ha
pensato a noi che le avremmo lette oggi, domani, sempre. Prendiamo in esame la
frase in se stessa, fuori del suo contesto, per approfondie il senso
cristologico. L’autore ha posto in greco il pronome dimostrativo «questo»
all’inizio di frase, cioè in posizione enfatica, di rilievo, addirittura prima
del verbo che così è relegato in seconda linea. Il pronome dimostrativo «tautēn – questa/questo» concorda per
attrazione con «principio» che in greco è femminile e in italiano è maschile.
In questo modo, l’autore ingloba tutto ciò che precede e comprende l’intero racconto.
Tutto quello che è avvenuto a Cana di Galilea è «un principio», cioè il
fondamento, la prospettiva, la chiave di lettura di tutto ciò che segue.

Non è casuale che l’autore nel IV vangelo non usi mai il
termine «miracolo», ma sempre e solo il lemma «segno». Non si tratta, infatti,
di descrivere interventi superiori, ma di indicare la direzione della fede
verso cui incamminarsi: bisogna stare attenti ai «segni» e i «miracoli» sono
«segnali» per non smarrirsi.

Anche la geografia segna la via di Dio

Quanto abbiamo appena detto, lo constatiamo anche dalla
citazione geografica «in Cana di Galilea». L’espressione nella morfologia greca
si analizza come due complementi: a) di stato in luogo (in Cana) e b) genitivo
corografico (di Galilea). Questo genitivo, in greco, vuole sempre l’articolo «della
Galilea», che in italiano però non si mette e quindi non diciamo, alla lettera,
«in Cana della Galilea», ma correttamente traduciamo con «Cana di Galilea».

L’espressione «Cana di Galilea» l’abbiamo già incontrata nel
primo versetto, Gv 2,1, quando l’autore ci ha dato la prima informazione: «Nel
terzo giorno uno sposalizio avvenne in Cana di Galilea». Se la stessa frase è
all’inizio e poi anche alla fine, concludiamo che l’intero racconto è uniforme;
esso, infatti, è contenuto – si dice tecnicamente – in una «inclusione», cioè
tra due espressioni uguali che formano una specie di cerchio che racchiude
tutto l’insieme. Siamo partiti da Cana di Galilea e siamo arrivati a Cana di
Galilea e andando avanti nella lettura del vangelo, la incontriamo ancora in Gv
4,46, all’inizio del racconto della guarigione a distanza del figlio del
funzionario regio. È lo stesso autore che connette i due racconti di Cana per
cui è evidente che c’è un legame profondo che bisogna rilevare: «Venne quindi
di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua (in) vino. E c’era un
funzionario regio il cui figlio era malato in Cafàao». La stessa espressione
ritroviamo alla conclusione del vangelo (Gv 21,2): «Erano insieme Simon Pietro
e Tommaso, detto “gemello”, e Natanaele, che era di Cana di Galilea e i figli
di Zebedeo e altri due dei suoi discepoli». La vita pubblica di Gesù si apre a
Cana, passa per Cana e termina a Gerusalemme, ma con la citazione di Cana di
Galilea: un modo letterario per dirci due cose.

La prima riguarda il «segno» di Cana che così riguarda tutto
il vangelo: in altre parole, non si può capire il vangelo in tutta l’integrità
se non si capisce «il principio dei segni» avvenuto a Cana. Il secondo riguarda
noi, lettori: la geografia è parte integrante della salvezza e della fede. I
luoghi, infatti, e i posti dove avviene ciò che ci riguarda non sono
indifferenti ed è nostro obbligo ritornare, come in pellegrinaggio, ai luoghi
dove abbiamo vissuto e «visto» e «manifestato» a noi e ad altri ciò che abbiamo
capito, intuito, desiderato, promesso.

Un pellegrinaggio giornioso

Spesso noi andiamo in pellegrinaggio ai santuari, a volte
con l’illusione di incontrare Dio, senza renderci conto che vi sono anche altri
«luoghi» importanti e altri «santuari» necessari per noi:

dove abbiamo incontrato l’amore,
dove abbiamo dato il primo bacio,
dove abbiamo concepito il figlio/a,
dove abbiamo sognato un ideale,
dove abbiamo percepito la chiamata,
dove abbiamo fatto la promessa di fede o matrimonio,
dove abbiamo pianto,
dove avremmo voluto morire,
dove abbiamo riso spensieratamente,
dove abbiamo incontrato un amico/amica,
dove abbiamo preso qualcuno per mano,
dove abbiamo asciugato lacrime di dolore,
dove abbiamo condiviso lacrime di gioia,
dove ci siamo abbandonati alla pateità di Dio,
dove abbiamo ricevuto un regalo inatteso,
dove abbiamo spezzato il pane dell’amicizia,
dove abbiamo ritrovato quanto avevamo smarrito,
dove abbiamo mutato la disperazione in pacificazione,
dove abbiamo vissuto la Shekinàh come Abramo,
dove abbiamo assaggiato il vino nuovo di un nuovo progetto
di vita con Dio,

dove abbiamo deciso di dare la nostra vita a perdere senza
chiedere in cambio nulla. Sorge spontanea una domanda: «Qual è la mia Cana di
Galilea dove ho visto e vissuto le nozze dell’alleanza?». Ritornare «al
principio» significa ritornare ad assaporare «il vino messianico», quello che
porta con sé il sapore dell’eternità e resta per sempre. Da principio alla
fine.

(37 – continua)

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Paolo Farinella




(Cana 34) Sapere dove si sta

«[L’architriclino] non sapeva di dove è [il vino] … Gesù, sapendo che era venuta la sua ora» (Gv 2,8; 13,1)

Gv 2,9: «Come poi l’architriclìno gustò l’acqua divenuta vino – e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori …».

Qualunque sia la simbologia dell’architriclino, che abbiamo trattato nella puntata precedente, la figura non è superflua, ma ha un significato nell’economia del racconto giunto a conclusione. è strano, infatti, che il quadretto nuziale non si chiuda in un clima festoso «in cui vissero tutti felici e contenti», ma resti nella perplessità del responsabile delle nozze che constata, anche se solo superficialmente, la diversità del vino perché non sapeva che veniva dall’acqua trasformata: «e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori, loro che avevano attinto l’acqua» (Gv 2,9).
Tra banalità e kairòs
Questo personaggio che l’evangelista cita ben tre volte in appena due versetti, è chiuso nello sbalordimento del suo stesso stupore e, pur provenendo dalla tradizione giudaica, non si accorge di nulla, «non sa» il «dove» del «vino bello». L’unica cosa che sa fare è confabulare umoristicamente con lo sposo, chiamato in causa solo a questo scopo. Al contrario «lo sanno» i diaconi/servitori», cioè coloro che erano alle dipendenze dell’architriclino. Egli rappresenta i responsabili della religione, l’autorità, e senza esagerare, possiamo anche dire, il sinedrio, cioè coloro che formalmente rappresentavano la volontà di Dio. «Tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo» sanno tutto sull’arrivo del Messia, sanno perfino che deve nascere a Betlemme, lo annunciano a Erode e ai magi (cf Mt 2,4-6), ma sono estranei ai movimenti di Dio, come se vivessero in un altro mondo. Sono talmente abituati a praticare la religione del dovere che si dimenticano della vita dove Dio esplode e si rende presente. Si ribaltano veramente i ruoli: quelli che dovevano sapere non sanno e quelli che non erano obbligati, invece, sanno: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52).
Un nuovo mondo sta cominciando, il mondo di Dio, capovolto in rapporto a quello della religione ufficiale che si ferma alle apparenze, alle convenienze, agli usi e tradizioni e perde di vista il cuore degli eventi, la loro origine, ma anche il loro senso. Chiusi nel principio uterino del «si è sempre fatto così» (per cui non c’è altra novità che il proprio passato), chiudono anche Dio nella prigione della propria mentalità meschina e retriva e lo incatenano alle micro prospettive della loro gretta vista che non sa mai oltrepassare il confine dell’ovvio e del consueto. Se l’architriclino fosse stato permeabile al dubbio o quanto meno all’interrogativo, di fronte a un fatto nuovo, qui «il vino bello» dato alla fine del banchetto, si sarebbe domandato come ciò potesse accadere e perché. Non si sarebbe semplicemente rassegnato, limitandosi a dare un buffetto allo sposo, ma avrebbe indagato fino a incontrare il «kairòs» della sua vita, fino a incontrare l’evento nuovo per eccellenza, Gesù, lo Sposo atteso che ha mutato l’acqua in vino.
Il povero sposo, vera figura occasionale e insignificante, colui che sarebbe dovuto essere insieme alla sposa, il protagonista della festa, invece, interpellato sembra di stare lì «a sua insaputa», in funzione pleonastica alla dinamica del racconto: c’è solo per permettere all’architriclino di stupirsi, banalizzando se stesso e la stessa figura dello sposo. La sua presenza fugace nel finale ha quasi lo scopo di mettere in risalto la sua assenza che ha dominato tutto il racconto. Lo sposo è altrove, anzi è un Altro.
Sapere, conoscere e vedere
L’evangelista sottolinea in un inciso che l’architriclino «non sapeva da dove» venisse il vino «bello». Il tema «sapere/non sapere» è caratteristico di Gv e ha sempre attinenza con la personalità di Gesù, la sua missione, la sua natura e il suo rapporto con il Padre, che diventa la discriminante della sua relazione con la religione ufficiale e con il «sapere» comune della religione che si ferma alla superficialità.
Per almeno 121 volte ricorrono nel IV vangelo il verbo «òida – conosco/so» e derivati. A questo verbo bisogna prestare attenzione perché esprime un universo semantico di straordinaria portata anche teologica.
Si tratta di un verbo irregolare perché nel NT si trova solo in alcuni tempi: il perfetto secondo indicativo (che ha valore di presente: «conosco/so»); il piuccheperfetto secondo indicativo (che ha valore di imperfetto: «conoscevo/sapevo»); l’imperativo nelle sole seconde persone («sappi – sappiate»); il congiuntivo presente, escluse le terze persone («che io sappia»); l’infinito («sapere») e il participio (sapendo).
Il verbo si forma dalla radice «[e]id-» da cui proviene il tempo aoristo del verbo «horàō – io vedo», da cui deduciamo che c’è corrispondenza tra «sapere/conoscere» e «vedere». La conoscenza, cioè la sperimentazione di un fatto, di una persona, di un evento, di un sentimento è la visione di essa a un livello profondo: contemplare e sperimentare, vedere e toccare sono la stessa cosa perché procedono dalla stessa fonte che è la conoscenza vissuta, la sapienza. Mai, infatti, nella Bibbia la conoscenza e la sapienza sono eventi astratti, avulsi dall’esperienza, al contrario, essi sono la centralità dell’esistenza che si snoda tra visione e sperimentazione, tra contemplazione ed evento visibile. Conoscere è vedere la realtà nella sua essenza interiore e intima. Non a caso in ebraico il verbo «yadàh – conoscere» indica anche l’atto sessuale tra uomo e donna: la sperimentazione vitale che è l’amore vissuto è l’atto di conoscenza più profondo della esperienza umana.
L’architriclino «non sapeva» perché era perduto nella superficialità di un evento nuovo che non ha saputo leggere, gustare, vedere e assaporare in tutta la sua pregnanza e sapienza. Egli si limita ad assaporare il gusto ovvio, ma non riesce ad andare al «senso» di quel gusto «bello» che avrebbe dovuto aprirgli le porte del cuore alla comprensione della storia antica che pur conosceva, come vedremo. Egli è fermo all’epidermide di ciò che appare e non s’interroga sul gusto interiore che quel vino porta in sé come messaggio-anticipo di un tempo nuovo. Non sapendo gustare la novità che cambia il corso di quello sposalizio, egli perde di vista e gusto anche il suo passato e la storia da cui proviene. Le apparenze non solo spesso ingannano, ma sovente, molto sovente, sono la negazione della verità e della stessa realtà che vorrebbero svelare.
«Sapere», discriminante della salvezza
Due capitoli più avanti, al bordo del pozzo di Giacobbe, una donna di Samaria, estranea e nemica, pur nella diffidenza del momento si lascia interrogare dall’uomo nuovo che le sta di fronte e accetta di dialogare con lui, lei samaritana con un giudeo e per giunta uomo: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa» (Gv 4,25). La donna considerata reproba è proietata verso il Messia che ancora non vede, è pronta ad accoglierlo, a differenza dell’architriclino, emblema dei responsabili della religione ufficiale, che invece si ostina nella sua chiusura: «Non sapeva di dove veniva». Anche il paralitico alla porta delle Pecore, guarito sulla parola di Gesù «non sapeva chi fosse» (Gv 5,13); ma quando, poco dopo lo incontra e lo riconosce, corre dai capi Giudei a riferire di «sapere chi è» ed essi invece di cogliere l’evento di novità, tramano persecuzione contro di lui perché si fermano a difendere «il sabato» (Gv 5,14-18). Gli uomini di qualsiasi chiesa sono più interessati a salvare lo «status quo» delle loro istituzioni che generalmente si identificano con i loro privilegi, piuttosto che aguzzare la vista per cogliere «i segni» di un tempo nuovo che avanza e non torna mai indietro.
Pure il cieco nato dapprima non sa di dove sia Gesù che lo ha guarito (cf Gv 9,12), ma di un fatto è certo: egli ha sperimentato, ha visto che prima «ero cieco e ora ci vedo» (Gv 9,25). I capi vorrebbero convincerlo che Gesù è un peccatore, ma egli sta fermo sull’unica conoscenza di cui dispone: la sua esperienza contro la quale nessun ragionamento, nessun principio religioso può avere la meglio perché egli da quaranta meno un anno era cieco e ora ha di nuovo la vista. Egli stesso è la prova che la sua conoscenza di Gesù non può fermarsi all’apparenza e alle esigenze della religione, ma va oltre l’inimmaginabile: se lo ha guarito ci deve essere qualcosa di grande che sfugge a lui, ma sfugge in modo drammatico anche «ai Giudei», a coloro cioè che avrebbero dovuto indirizzarlo a leggere l’evento vissuto e a dargli un nome. Essi invece, che si credono sapienti perché «gestiscono Dio» e s’illudono di conoscerlo solo perché conoscono a memoria i passi della Scrittura, «non sanno» nulla di Dio: si può essere efficienti uomini di religione ed essere al tempo stesso lontani da Dio perché religione e Dio sono incompatibili. La religione esige la pratica, Dio richiede la fede. La religione si nutre di rituali ripetitivi e morti, la fede vive di conoscenza e gusto dell’esperienza di Dio. La religione è esteriore, Dio vive e si rivela solo nell’intimità del profondo. Lo stesso avviene per Marta di fronte alla morte del fratello Lazzaro (cf Gv 11,22.24).
a) Frequenza e pratica non danno garanzie
«Anche Giuda il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli» (Gv 18,2). La consuetudine non è motivo sufficiente di conoscenza: si può frequentare lo stesso luogo per una vita, si può «andare» sempre in chiesa, si può «dire» da una vita il breviario, si può stare da una vita e oltre in un monastero, in un convento, in una parrocchia, si può essere cioè consuetudinari abituali e fedeli, praticanti a orario fisso, ma ciò non significa che si sperimenta colui che «sta in quel luogo». Per conoscere «quel luogo» come «tòpos», cioè come spazio di incontro e di esperienza bisogna aprirsi all’inverosimile e all’imponderabile, essere disposti a lasciarsi abitare dal «kairòs – evento propizio» per potere assaporare la Shekinàh che viene a posare la sua dimora in mezzo a noi. In questo contesto, pregare è illimpidirsi lo sguardo per vedere e vedere è abituarsi a sperimentare per giungere a una comunione fisica che immerga nella contemplazione di eventi e fatti inauditi e anche sperimentati. Se davanti a noi passa il calice del vino «bello» e ci limitiamo a dire che è «molto buono», senza cogliee la personalità di chi quel vino ha portato, allora possiamo anche essere specialisti, tecnici della religione, senza necessariamente sapere cosa significhi essere credenti nel e col cuore. Si può essere religiosi aridi, ma mai credenti senza sentimento.
b) Il desiderio del «mio Signore»
Maria di Màgdala è un esempio della fede che si consuma nell’esperienza/conoscenza: ai due personaggi misteriosi che stanno a guardia del sepolcro vuoto, confessa «non so dove l’hanno posto … il mio signore» (Gv 20,13). Il suo desiderio di conoscenza del «luogo» non è legata al «posto», ma esclusivamente alla sua relazione con il «mio Signore». In questa affermazione affettiva c’è l’esperienza di un’intimità assoluta che esprime lo strazio di non sapere dove sia l’amato. Maria è la donna del cantico che cerca disperata il suo amato e impazzisce finché non lo avrà trovato. è il suo cuore a essere senza «luogo» perché privo del suo amore: «Il mio Signore». Il dolore è così intimo e profondo che anche la presenza di Gesù «in piedi» dietro di lei non è sufficiente perché, quando il cuore è desolato dall’assenza dell’amato o dominato dal desiderio di trovarlo perché carico di paura per averlo perduto, si perde la cognizione del tempo e della conoscenza, della speranza e della stessa esperienza: «Non sapeva che fosse Gesù» (Gv 20,14).
c) Non rassegnazione, ma pienezza di vita
Anche Gesù nel quarto vangelo è esperto di conoscenza/sapienza perché il fondamento della sua esperienza e della sua visione è il Padre che testimonia per lui (cf Gv 5,32; 8,14), essendo «il luogo» fondamentale e intimo della propria identità. Il Padre è «il dove» del Figlio (cf Gv 7,28) che non ammette menzogna perché la relazione di vita è fondata sulla verità e sulla Parola (cf Gv 8,55; 12,50) che si esprime nella missione (cf Gv 7,28). Gesù, sapendo ciò che c’è nel cuore di ciascuno (cf Gv 2,25) sa anche chi è aperto alla fede che porta al discepolato e chi si chiude in sé fino al tradimento che oscura ogni conoscenza perché accentrato sull’interesse proprio (cf Gv 6,64; 13,11.18).
Egli conosce/sa anche riconoscere i figli di Abramo (cf Gv 8,37) in vista della conoscenza delle necessità del popolo di Dio che ha fame e deve essere sfamato (cf Gv 6,6), pur conoscendo la possibilità dello scandalo che non elimina, ma mette in conto perché lo conosce e quindi lo previene (cf Gv 6,61).
Egli conosce/sa anche l’ora suprema della sua morte che s’identifica nel tempo dell’unità col Padre che esprime la totalità dell’amore «fino alla fine», per cui conoscenza e sapienza s’identificano nell’amore e nella relazione esperienziale col Padre (cf Gv 13,1.3).
Gesù conosce gli eventi della sua vita e non si lascia vivere da ciò che accade, ma ciò che avviene diventa il teatro della sua coscienza e della sua consapevolezza: è lui che guida gli avvenimenti che accadono e non li subisce mai passivamente (cf Gv 18,4). Anche in punto di morte, egli non perde la sua consapevole conoscenza, ma proprio per questo «sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura» (Gv 19,28), effonde il suo Spirito come in una nuova creazione (cf Gv 19,30). La sua conoscenza/sapere qui raggiunge il suo vertice e spalanca le porte alla Scrittura, cioè al criterio di valutazione della vita e degli eventi che la costellano. Anche la morte acquista senso perché sottomessa alla conoscenza del compimento della Scrittura, diventando così «pienezza» di vita.
L’acqua vino di Cana
e l’acqua sangue del Nilo
C’è un abisso con l’atteggiamento dell’architriclino che, se si fosse lasciato interrogare dal «vino bello» giunto sulla sua tavola, avrebbe scoperto che esso portava «il vangelo» della novità e, invece di dedicarsi a commentare l’ovvio, si sarebbe interessato a capire «il perché e il modo» di ciò che è accaduto. Forse avrebbe chiamato «i diaconi» e avrebbe chiesto informazioni supplementari e allora, scoprendo che l’acqua era stata trasformata in vino, non gli sarebbe stato difficile riandare, con la memoria storica dell’esperienza di fede d’Israele, al «principio» della storia, quando il suo popolo poté sperimentare l’irruzione di Dio assistendo al mutamento dell’acqua del Nilo trasformata in sangue: «Prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta» (Es 4,9). L’acqua/sangue del Nilo è anticipo di un altro sangue: quello che avrebbe salvato la vita degli Ebrei, chiusi nelle loro capanne, mentre l’angelo della morte passava nella notte di Pasqua, facendo strage di primogeniti in terra d’Egitto (cf Es 11,4-7). Avrebbe saputo e capito che il «segno» antico era solo prefigurazione del segno nuovo e questi diventava la chiave per capire ciò che stava per cominciare e proiettarlo in un significato storico salvifico di portata universale. Con le nozze di Cana infatti comincia un tempo nuovo, il tempo del Regno, il tempo del Messia.
L’architriclino, nonostante presieda lo sposalizio, vive invece avulso dalla Parola di Dio vissuta come appello alla coscienza e alla conoscenza, perché è impantanato nella quotidianità della religione come bisogno gratificante per cui non riesce a vedere oltre il confine della sua esperienza piccola e insignificante che banalizza anche il «Mistero» di Dio e la rivoluzione del suo «Vangelo». Seduto al banchetto con compagni di ubriacatura, si limita a chiamare lo sposo e rilevare che nella sala nuziale è entrato un vino «altro», di cui però lui non riesce a percepire la personalità e il senso. Ancora una volta, ieri come oggi, Dio passa, si ferma e compie «segni» travolgenti, ma la religione della tradizione e dell’ovvio usuale non se ne accorge, lasciandolo passare invano.
 (34 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Santa Rosa da Lima e santa Teresa di Lisieux

4 chiacchere con…

23 agosto – 1 ottobre
Poco più di un mese separa la memoria liturgica di due donne straordinarie,
mistiche e sante, la cui vita si intreccia in modo viscerale
con l’attività missionaria della Chiesa.

Per iniziare il nostro colloquio devo fare una domanda un po’ scontata: com’è che due sante come voi che hanno passato gran parte della loro vita in preghiera e meditazione sono, una dottore della Chiesa e protettrice delle missioni e l’altra patrona delle Americhe, delle Filippine e delle Indie Occidentali?

Teresa – Vissi in un tempo (le ultime decadi del secolo XIX) in cui il progresso scientifico e tecnologico si stava imponendo prepotentemente nella società. Appresi così che era stato inventato per le case dei ricchi (sempre più grandi e sempre più alte) uno strumento meccanico chiamato ascensore, che faceva risparmiare la fatica del fare le scale. Per cui mi sono chiesta: perché io, che sono così piccola per anelare alla vetta della perfezione, non posso avere a disposizione un ascensore che mi porti fino al cielo? Scoprii ben presto che l’ascensore che mi avrebbe innalzato verso il cielo, non potevano essere che le amorevoli braccia del Signore Gesù.

Rosa – La mia è una storia un po’ diversa: nata nel ricco Perù il 20 aprile del 1586 da una nobile famiglia di origine spagnola, mi trovai ben presto inserita in una realtà che praticava soprusi e violenze di ogni genere, soprattutto nei confronti degli indios. Decisi pertanto, nella mia piccolezza, di dedicare la mia vita al Padre di tutti gli uomini, affinché attraverso la preghiera incessante si potesse arrivare a convivere nella giustizia e nella pace.

Quindi voi due, pur restando una nel monastero di Lisieux e l’altra nella sua casa di Lima, dove si era creata una nicchia personale al fine di passarvi ore di preghiera e contemplazione, siete riuscite a immettere nel motore della missione la «super» della preghiera, un’impresa veramente notevole, non c’è che dire.

Rosa – Di per sé, io non avevo solo creato un ambiente in cui isolarmi, anche se di quella nicchia avevo assolutamente bisogno per stare con il Signore. Data la posizione della mia famiglia che apparteneva alla nobiltà spagnola, avevo però allestito anche una sorta di ricovero per i bisognosi, in particolar modo per quelli di origine india. A differenza di Teresa io non entrai in convento ma, avendo avuto la possibilità di leggere gli scritti di Santa Caterina da Siena, decisi di fae il mio modello di vita, vivendo fino in fondo l’amore per Cristo, per la Chiesa e per i fratelli indios.

Teresa – Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia dove la fede trasudava da ogni poro della pelle dei miei famigliari, mamma e papà, in particolare papà, che furono degli autentici maestri di vita spirituale per me, tanto che nel Carmelo di Lisieux entrarono altre mie sorelle. Tutto ciò mi aiutò a scoprire che la scala della perfezione non era tanto quella di una dura ascesi da vivere attraverso laceranti mortificazioni, ma bastava vivere la gioia quotidiana nella consapevolezza che il Signore mi avrebbe presa tra le sue mani innalzandomi verso il cielo.

Però entrambe siete passate in quella prova straordinaria che San Giovanni della Croce definisce come: «La notte oscura».

Teresa – Si è vero, l’abbandono totale a Dio è una scelta radicale e anche se io ero molto giovane capii benissimo che la mia doveva essere una spiritualità dell’essere e non del fare. Più che abbandonarmi alle sicurezze delle «opere buone» intrapresi la strada dello spogliamento assoluto, consapevole di comparire alla sera della vita davanti a Dio con le mani vuote, ma anche avendo ben presente l’insegnamento del grande mistico Giovanni della Croce il quale dice che «alla fine della vita saremo giudicati sull’amore». Abbandonarmi a Dio ha significato per me abbracciare il mondo e vivere intensamente la missione della Chiesa.

Rosa – Anch’io sono passata dalla prova della notte oscura che durò ben quindici anni, nella cella di due metri quadrati che mi ero costruita nel giardino di casa mia, dove trascorrevo gran parte delle mie giornate in contemplazione del Signore, cercavo di offrire a Lui tutte le necessità e i bisogni della gente della mia terra. In modo particolare di coloro che subivano la conquista degli spagnoli attraverso soprusi e violenze di ogni genere. Gli indios che erano emarginati e vilipesi, mi aiutarono a capire e a scoprire più radicalmente il mistero della Croce di Cristo. Devo dire anche che quando i calvinisti olandesi assaltarono la città di Lima, corsi ad abbracciare il Tabeacolo per difenderlo dall’assalto degli invasori. Questo a significare che il mondo della contemplazione vive gli stessi drammi e le stesse sofferenze della popolazione dentro la quale le comunità sono inserite.

Quindi si può dire che per vivere da autentici missionari a volte bisogna fare come San Paolo o San Francesco Saverio, a volte invece come voi, in quanto ciascuno può partecipare allo sforzo missionario attraverso l’offerta della propria preghiera affinché il Vangelo sia annunciato a tutte le genti.

Rosa e Teresa – Per essere autentici missionari non occorre fare grandi cose; più semplicemente bisogna saper fare in modo grande le piccole cose di ogni giorno e la Missio Ad Gentes si vive non solo andando lontano, ma avendo il coraggio di andare e pregare per i “lontani”, che il più delle volte vivono poco distanti da noi.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera