La mistica del buon samaritano

Centro Hakumana: una risposta alla sfida dell’Aids a Maputo

Il Centro Hakumana («stiamo uniti» in lingua ronga) è il nome del progetto che alcune religiose, ispirandosi alla parabola del Buon Samaritano, hanno lanciato per rispondere come chiesa alla sfida urgente della pandemia dell’Aids nella città di Maputo. Coordinatrice del progetto è suor Janete Vieira, missionaria della Consolata brasiliana.

Maxaquene, parola magica per gli abitanti di Maputo: è il nome di tre quartieri dove si trova lo stadio omonimo e l’omonima squadra di calcio, la più gloriosa del Mozambico, quella da cui uscì il grande calciatore Eusebio. Ma è anche una zona molto povera, in gran parte abitata da immigrati di altre parti del paese, che hanno trovato impiego nella capitale come lavoratori domestici, manovali, venditori ambulanti, operai specializzati che non possono permettersi di abitare nella città di cemento.
Di fatto le abitazioni sono fatiscenti, con muri incompiuti di blocchi e mattoni o con pareti fatte semplicemente di canne e lamiere. Unici complessi dignitosi in muratura, ben circondati da alte mura, sono alcuni centri governativi e istituzioni private; una di queste è l’Istituto superiore Maria Madre dell’Africa (Ismma), scuola a livello universitario fondata (1995) e gestita dalle congregazioni religiose presenti in Mozambico, con lo scopo di preparare religiosi e laici impegnati nel servizio pastorale della Chiesa, professori di educazione morale e civica nelle scuole e centri di formazione sia statali che privati.
Nel recinto del campus universitario e legato all’Ismma è sorto da pochi anni il Centro Hakumana, che si prende cura di mamme e bambini orfani o abbandonati, vittime dell’Aids o di emarginazione di varie forme. Ne è cornordinatrice suor Janete Vieira, missionaria della Consolata brasiliana, che mi accompagna in visita nei diversi reparti del Centro e mi presenta alcune persone dell’équipe: la direttrice suor Evelyn, la segretaria suor Elena, l’amministratrice suor Isabel. Passando nei vari reparti salutiamo alcune donne impegnate in lavori di cucito e artigianato; finché raggiungiamo le aule dell’asilo, accolti dalle grida festose di bambini indiavolati, che scorrazzano per le stanze o giocano con balocchi più grandi di loro. Nel frattempo suor Janete mi racconta la storia del Centro e i suoi scopi.

Un sogno diventato realtà
«Tutto è cominciato un giorno di marzo 2006, per opera della commissione Hiv-Aids della Conferenza dei religiosi e religiose del Mozambico – racconta suor Janete -. Da due anni eravamo impegnate, una trentina di religiose, nell’organizzazione di incontri e seminari per giovani, studenti, parrocchie e altri religiosi, offrendo formazione e informazione, orientamenti e consigli sulla pandemia dell’Aids e relative problematiche. Quel giorno sentimmo che dovevamo fare di più per rispondere come Chiesa alla sfida: ci mancava il contatto diretto con le vittime dell’Aids; parlavamo molto di loro, ma non con loro, e non facevamo qualcosa per aiutarli concretamente».
Per due ore furono lanciate molte idee, ma senza alcuna conclusione. Fu tutto rimandato all’incontro seguente. Ma nella riunione di aprile la Commissione si era ridotta a 5 persone e la discussione non approdò a nulla. «Uscii dall’incontro sconsolata, ma non rassegnata – continua suor Janete -. Se è opera di Dio, nessuno ci fermerà, dissi a suor Evelyn, Mercedaria della Carità, appena nominata direttrice dell’Ismma e alloggiata provvisoriamente nella nostra casa a Maputo».
Seguirono altri incontri di gestazione, finché suor Evelyn presentò un progetto dettagliato per la creazione di un centro di accompagnamento e assistenza a livello di integrazione sociale, psicologica, sanitaria, legale e spirituale delle vittime dell’Aids. Seguirono altri incontri per superare le obiezioni, integrare i vari suggerimenti e crescere in sintonia nell’affrontare una missione sempre più urgente e difficile, ma necessaria e appassionante. Finché fu scelto il nome da dare al progetto: «Centro Hakumana», termine della lingua ronga che significa «stiamo uniti». Fu anche abbozzato lo spirito che doveva animare il progetto: suor Janete suggerì la parabola del buon samaritano soprattutto le sue parole rivolte all’oste: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno».
«Bisognava trovare il luogo dove aprire il Centro – continua suor Janete -. Visitammo molti posti, ma nessuno rispondeva alle nostre esigenze, finché decidemmo  di sfruttare un vecchio magazzino abbandonato nel territorio dell’Ismma. Quando presentammo il progetto con un artistico power-point al Consiglio permanente delle Conferenze dei religiosi e religiose, i superiori maggiori si sentirono sconcertati di fronte alla prospettiva di una nuova attività del genere, pur condividendo l’urgenza di una risposta al problema dell’Hiv/Aids in Maputo, come conferenza di religiosi, non in forma isolata; le obiezioni furono molte, finché il presidente della conferenza disse che bisognava aprirsi ai nuovi soffi dello Spirito e autorizzò l’uso del magazzino».
La bozza del progetto fu subito spedita a diversi istituti e organizzazioni per chiedere i finanziamenti. Per qualche mese sembrava che non accadesse niente, finché la congregazione delle Mercedarie della Carità promise 10 mila dollari, le Missionarie della Consolata altri 10 mila euro, le suore della Consolazione 16 mila dollari.
Cominciarono subito i restauri del fabbricato e la costruzione di annessi (cucina e chiosco per le refezioni), si comperarono tavoli, sedie e culle per bambini. Altra mobilia, tra cui cucina elettrica, frigorifero e televisore, arrivarono da una Ong in smobilitazione, il resto fu possibile acquistarlo grazie agli aiuti di alcune associazioni spagnole. Il sogno stava diventando realtà.

Primo caso con rodaggio
Il 2 novembre 2007 suor Janete stava recitando il rosario intorno alla chiesa della Polana, in attesa che cominciasse la messa, quando arrivò una ragazza con una scarpa rotta in mano e il viso vergognoso e triste; si avvicinò e, con tono di sfida, le disse chiaro e tondo:
– Suora, aiutami ad abortire.
– Cosa dici, ragazza?
– Sono incinta e l’uomo mi ha abbandonata. Non sono in condizione di avere questo bambino e non voglio che soffra come ho sofferto io.
– Ascoltami bene, ragazza: io ti posso aiutare a tenere il bimbo non a ucciderlo.
– Allora, prenditi cura di me.
«In quel “prenditi cura di me” riconobbi la voce di Dio ricorda suor Janete -. Senza rendermene conto mi ero impegnata con il primo caso di Hakumana».
Carola, così si chiamava la ragazza, 15 anni, era stata abbandonata in un mercato e poi adottata e cresciuta in una famiglia che la usava come serva; scappata da casa, si diede a una vita libertina, finché fuggì con un militare che, quando seppe che era incinta la abbandonò lasciandola senza un soldo.
Suor Janete portò la ragazza nella casa della sua comunità e il giorno seguente le procurò una famiglia cristiana che l’accogliesse e aiutasse nell’evolversi della mateità. Instabile, aggressiva, indipendente, testarda, Carola si rivelò subito un caso complicato: per il suo comportamento cambiò residenza per tre volte; affetta da malattie veneree non voleva farsi curare.
«Accompagnammo la ragazza passo passo nelle sue necessità basilari – continua suor Janete -. Tutti i giorni avevano colloqui per creare familiarità e chiarire la sua storia; una parrocchiana della Polana la orientò in tutto ciò che concee la mateità e a preparare il corredo per il bambino, che venne alla luce il 7 aprile 2008. Dimessa dall’ospedale, accogliemmo Carola e Karol nel nostro centro: era il nostro primogenito».
Carola era senza carta di identità, poiché rifiutava di chiamarsi con il cognome registrato all’anagrafe dai genitori adottivi. Fu registrata nuovamente con il nome di Carola Janete de la Consolata. L’ambiente di Hakumana sembrava l’aiutasse a sognare una vita diversa: partecipò ai corsi di alfabetizzazione nel Centro e, mentre Karol rimaneva ad Hakumana curato dalle «zie», cominciò a frequentare le scuole serali; ma il contatto con altri adolescenti le faceva desiderare una vita di «giovinetta spensierata». Toò a occuparsi del figlio a tempo pieno, provocandogli denutrizione e malattie a causa della sua inesperienza.
«C’era bisogno di un accompagnamento più intenso – racconta suor Janete -. Noi suore ci costituimmo in comunità residente nel Centro e Carola venne col figlio a vivere con noi, imparando a cucinare, ad aver cura del bimbo e di se stessa; imparò soprattutto ad amare e a sentirsi amata».
«Instabile e allergica a ogni regola – continua suor Evelyn -, un giorno Carola ci accusò di volerle rubare il figlio per venderlo fuori del paese. Per fortuna nel nostro gruppo avevamo già una psicologa clinica, suor Herminia, che riuscì a neutralizzare gli impulsi della giovane e farla rientrare nella vita reale. Ma che fatica! Dopo un anno e mezzo di accompagnamento cominciò qualche miglioramento: la vedevamo crescere giorno per giorno nel senso di responsabilità e impegno nella scuola e nell’amore al suo bambino».
«Tutto sommato – conclude suor Janete – il caso di Carola è stato anche per noi un prezioso tirocinio: ci era capitata proprio mentre discutevamo sui alcuni punti del progetto Hakumana da definire, come destinatari, servizi da offrire, metodologia d’azione. Carola fu la prima beneficiata e il primo contesto di applicazione».

Lo stile del samaritano
Scopi e metodi del Centro Hakumana oggi sono tutti ben chiari e definiti. Oltre a promuovere pubblici incontri di informazione e formazione sulle problematiche dell’Hiv/Aids e sul loro impatto sociale, il Centro si occupa soprattutto di persone affette dal virus e dei loro familiari o che si trovano in altre situazioni di vulnerabilità. Per rispondere alle necessità di tali persone, l’équipe del Centro Hakumana è chiamata prima di tutto a un lavoro di discernimento: si analizza caso per caso e si traccia un programma di azione. Generalmente in prima istanza si richiede alloggio, cibo, medicine e appoggio affettivo. Vengono poi avviati processi di orientamento e assistenza sanitaria e psicologica, legale e spirituale, per aiutare le persone a riacquistare autostima e dignità, sviluppare relazioni sociali e reintegrarsi nella comunità. Tutto avviene con molteplici modalità e mezzi: corsi e terapie di gruppo, interviste e colloqui personali, accompagnamento sistematico e visite a domicilio, investigazioni e interscambio di esperienze, attività di terapia occupazionale e mini progetti di autosostentamento, come cucito e artigianato, sostegno con alimenti e medicine.
«Tutti i servizi prestati da Hakumana si ispirano alla mistica della parabola del buon samaritano» spiega suor Janete, mentre indica su una parete del Centro un disegno e una scritta riferiti alla parabola evangelica. E continua: «Il samaritano non perse tempo, ma fece con prontezza quello che doveva fare: curare, rimediare, consolare, proteggere. Utilizza gli elementi alla sua portata per sottrarre il malcapitato dalle grinfie della morte e dall’indifferenza impietosa di chi passò senza fare nulla. L’olio e il vino con cui il samaritano unse le ferite del malcapitato, è per noi il sangue prezioso di Cristo che redime e salva; il lino con cui fu avvolto il corpo è per noi l’amore che ridona forza e rinfranca nelle vicissitudini del cammino della vita».
«L’esperienza di essere “prossimo” spinge il samaritano a “prendersi cura” del malcapitato fino alla completa guarigione – continua suor Evelyn -. Una volta fatta l’esperienza dell’amore tanto inusuale, sollevare il fratello diventa una passione anche per noi; non si può più essere indifferenti. Diventare prossimo dà forza e senso alla nostra vita».
«Nel samaritano è raffigurato Cristo stesso che si avvicina, solleva, cura e conferisce dignità – riprende la meditazione suor Janete -. Nel malcapitato vediamo Gesù che si identifica con tutti i poveri e gli oppressi del mondo: in essi anche noi incontriamo la Sua presenza reale, un sacramento di salvezza».

Locanda e locandiere
«Alcune situazioni complesse e delicate, come quella di Carola – continua suor Evelyn – ci hanno insegnato che Hakumana non poteva contare solo sull’azione di  un “buon samaritano”, ma aveva bisogno anche di un “albergatore”: c’era bisogno di una comunità di riferimento per accogliere e prendersi cura fino in fondo di certi casi estremi».
Nacque così un grande sogno: formare una comunità intercongregazionale: formata, cioè, da religiose di diverse congregazioni, ognuna con la propria specificità, aperta a laici volontari desiderosi di fare esperienza missionaria a servizio dei più emarginati; una comunità con stile di vita in funzione dei destinatari del progetto Hakumana e flessibile alle necessità della persona accolta; una comunità in cui i gesti concreti di amore, servizio, disponibilità, diventano realtà e sfida quotidiana.
Janete, Evelyn e una volontaria affittarono un piccolo appartamento non lontano dall’Ismma, poi si trasferirono nel Centro stesso quando il padrone di casa vendette l’alloggio. «Forse i tempi non erano ancora maturi per tale esperienza – sorride suor Janete -. Diventammo subito oggetto di chiacchiere e calunnie, accusate presso il cardinale di Maputo di dare scandalo, perché non facevamo vita comune con le nostre rispettive comunità. Ritornate nei nostri conventi, abbiamo studiato nuove strategie per continuare i programmi di lavoro del Centro Hakumana, restando fuori del convento per tutto il tempo richiesto per il bene degli utenti del nostro Centro».
Ben presto le critiche si volatilizzarono insieme agli accusatori. La Comunità Hakumana si ricostituì con tutte le approvazioni dei superiori religiosi ed ecclesiali. Grazie agli aiuti arrivati da varie parti, il progetto Hakumana poté essere sviluppato con nuove strutture e nuove iniziative: nel giro di un anno ospiti e servizi furono triplicati.
Attualmente l’équipe di Hakumana è formata da sette persone, cinque religiose e due assistenti sociali laiche. Ogni giorno Hakumana accoglie 60 bambini, una trentina di mamme che accompagnano i loro figli, una decina di uomini, ma non tutti si fermano per la refezione. Durante la settimana passano al Centro un centinaio di persone al giorno per incontri di formazione, colloqui con lo psicologo, assistente sociale e legale, o per cure e assistenza medica.
«La nostra attenzione di “buon samaritano” si estende ai vari quartieri di periferia con visite a domicilio; quando ci arrivano offerte specifiche, comperiamo abitazioni per donne abbandonate e alle prese con miseria e malattie – conclude suor Janete -. Ne abbiamo alcune qui a Maxaqene B, dove vivono 3-4 mamme che cercano di ricostruirsi un futuro per se stesse e per i propri figli».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Normalità cercasi

Elezioni legislative nel paese del cacao

Finalmente il rinnovo del parlamento. Scaduto da 5 anni. Ma i militanti di Gbagbo non ci stanno e boicottano lo scrutinio. Il legislativo risulta così monco, e rappresenta solo metà degli ivoriani. Reportage della nostra inviata.

Un anno fa la Costa d’Avorio era nel mezzo di una violenta guerra civile, scoppiata come crisi post elettorale ma con radici antiche di oltre un decennio e risultato di un travagliato percorso politico (vedi MC Febbraio 2011). Si parlava di Republique du Golf perché il presidente Alassane Ouattara, legittimamente eletto al secondo tuo delle elezioni presidenziali svoltesi il 28 novembre 2010, aveva trasformato l’Hotel Golf nel suo quartier generale. L’Hotel, in passato il più lussuoso di Abidjan, era protetto dalle forze militari delle Nazioni Unite e dai soldati francesi contro gli attacchi delle milizie pro Gbagbo, il Presidente uscente che, non accettando il verdetto delle ue, si era autoproclamato vincitore. La crisi è durata cinque mesi, durante i quali il paese è rimasto paralizzato; le vittime ufficiali sono state 3.000 e gli sfollati oltre 100.000; l’economia, già in stallo, ha sofferto danni incalcolabili, e gli ivoriani, non riescono a dimenticare l’incubo vissuto.

Violenza, odio, follia
Abullay, autista e residente di Abobo, uno dei quartieri popolari di Abidjan più coinvolti negli scontri, ci descrive le atrocità e l’orrore di quei mesi. «Mai in vita mia e in questo paese avevo osservato tanta violenza, tanto odio, tanta follia. E per quale motivo? Qualcuno me lo spieghi per favore, perché io non capisco». La voce di Abullay fa eco a quella di tanti altri ivoriani, di ogni classe, etnia, religione e in ogni angolo della Costa d’Avorio. L’orrore della guerra tra le milizie delle Forze Nuove (Fn), in difesa del presidente Ouattara, e l’esercito controllato dell’ex presidente Laurent Gbagbo, ha provocato uno shock che la gente non ha ancora superato, specie a distanza di un periodo così breve.
Oggi il problema sicurezza è tra i più sentiti e costituisce una priorità per il futuro governo del paese. Le armi distribuite durante la crisi non sono ancora state deposte e sono nelle mani dei civili che, non sapendo più a che fazione obbedire, si sono semplicemente trasformati in banditi, e attaccano camion carichi di cacao, rubano e spargono terrore. A livello di forze dell’ordine, quelli che prima erano chiamati ribelli ora costituiscono le Forze Repubblicane della Costa d’Avorio (Frci) e dovrebbero essere i garanti della sicurezza.  Polizia e Gendarmerie sono parzialmente inoperative per i danni subiti nella guerra e perché prive di armi, anche a causa dell’embargo ancora in vigore. Alcuni giovani soldati Frci ci spiegano che non ricevono un salario da mesi, vivono in hotel o edifici che avevano occupato nella loro discesa dal Nord e spesso si rivolgono alla popolazione locale per ricevere cibo, tabacco e denaro; in cambio, dicono, garantiscono la protezione. Il ministro Achi Patrik, deputato Pdci (Partito Democratico della Costa d’Avorio, guidato dall’ex presidente Henri Konan Bedié) eletto nella circoscrizione di Adzopè (Regione dell’Agneby) ammette la gravità del problema: «Ci sono oltre 26.000 militari, un tempo membri delle Forze Nuove e delle Forze di Difesa e Sicurezza (Fds), queste ultime fedeli a Gbagbo, che oggi devono essere reintegrati nella società. Nelle neonate Frci convivono con difficoltà i due gruppi armati (i membri delle ex Fn sono maggioritari), e spesso mancano di formazione, di inquadramento, di disciplina. Inoltre, la quantità di armi ancora in circolazione è elevatissima; la sicurezza resta una bomba pronta ad esplodere in ogni momento».

Armi e manipolazione
Il capo villaggio di Akoupè, zona Est del paese, cuore della resistenza di Gbagbo, risponde all’interrogativo di Abullay: «Il popolo della Costa d’Avorio è pacifico, ma quando entra in gioco la politica, tutto si trasforma. Fratelli, cugini che aderiscono a fazioni opposte diventano nemici, l’odio e l’irrazionalità prevalgono su ogni etica di fratellanza e solidarietà. Nella nostra regione la popolazione è principalmente contadina e in maggioranza analfabeta. I leader politici hanno manipolato questa gente per oltre dieci anni con argomenti di propaganda e promesse fasulle, come la possibilità di definire il prezzo del cacao, che in realtà dipende dal mercato internazionale. Le armi sono state distribuite e la miccia della rivalità etnica innescata».
L’11 dicembre 2011 gli ivoriani sono stati chiamati nuovamente alle ue, questa volta per eleggere 255 deputati dell’Assemblea Nazionale (il Parlamento unicamerale). Le ultime elezioni legislative si erano svolte nel 2000 e gli eletti avrebbero dovuto avere un mandato di cinque anni ma, a causa della duratura crisi politica, sono rimasti in carica per oltre dieci anni con una legittimità precaria e un’operatività limitata.
Le elezioni del 2011 sono definite di «uscita dalla crisi» e vengono convocate e organizzate in tutta fretta dal governo Ouattara. Il Fronte Popolare Ivoriano (Fpi), partito di Gbagbo, decide di non partecipare perché le condizioni richieste non vengono accolte: il Fpi richiede la liberazione dell’ex presidente e il rientro di tutti gli altri leader esiliati; lo scongelamento dei conti del partito e una ricomposizione più equilibrata della Commissione Elettorale Indipendente (Cei). Gbagbo è invece estradato e portato all’Aia, il 29 novembre, per comparire davanti alla Corte penale internazionale. Il sabotaggio elettorale del Fpi è tema di discussione costante: alcuni membri del partito decidono di candidarsi comunque sotto il titolo di Indipendenti ma la maggior parte dei fedeli di Gbagbo obbedisce alle istruzioni e si auto esclude dal processo elettorale. In varie zone del paese il partito, a poche ore dal voto, invia sms invitando a non andare a votare, e a elezioni concluse ne chiede l’annullamento, definendo tutto il processo una mascarade (mascherata).

Parlamento monocolore
Il prefetto di Affery è convinto che il Fpi stia commettendo un grave errore, di cui si pentirà. «I militanti dell’ex presidente non hanno capito che dovranno aspettare altri cinque anni per rientrare nell’Assemblea Nazionale; e in questo periodo non avranno voce, non ci sarà vera opposizione né contropotere a quello presidenziale».
Di parere opposto madame Goman, quadro storico Fpi: «Queste elezioni sono una vergogna e faranno indietreggiare il paese di dieci anni. Come è possibile che il nostro presidente, che nel primo tuo delle presidenziali ha ottenuto il 40% dei voti, sia trattato in questo modo, estradato e giudicato da quella comunità internazionale che ha sempre fatto gli interessi della Francia e non degli ivoriani?».
I preparativi delle elezioni legislative da parte della Cei si svolgono in modo abbastanza regolare, malgrado i dubbi sulla composizione altamente politicizzata della Commissione; la campagna elettorale ufficialmente dura una settimana ma ogni candidato aveva avviato una strategia pre-campagna «classica». Il direttore di campagna ministro Bictogo, eletto deputato nella circoscrizione di Agboville per il partito di Ouattara Rdr (Rassemblement des Républicains), ci spiega che la pre-campagna consiste nel porta a porta, ovvero nel visitare tutti i capi villaggio, le associazioni di giovani, di donne, di religiosi, per spiegare il programma del candidato. Inoltre, e questo non ci viene detto ma risulta chiaro dall’osservazione sul terreno, ogni candidato lascia doni tangibili della propria generosità. Sedie, teloni in plastica, kit scolastici, pompe idriche, derrate alimentari, biciclette, ma anche semplicemente soldi sotto forma di micro finanziamenti per i vari gruppi.
A campagna ufficialmente iniziata la corsa elettorale diventa estremamente visibile: i comizi variano di grandezza in base ai fondi del candidato e nella loro sontuosità includono performance di artisti, riti di autorità tradizionali, tanta musica e striscioni. In generale i discorsi ufficiali accennano in modo pacato a temi etnici e religiosi ma non incitano alla violenza, anzi, invitano alla riconciliazione e alla pace. Si distribuiscono t-shirt e si organizzano rumorose carovane di moto e auto cariche di gente che urla eccitata: la regola sembra dire che vince chi fa più rumore e chi fa più «regali». Alcuni candidati hanno pianificato tutto da tempo e con astuzia, come Nando Martin (eletto nella circoscrizione 01), che alcuni anni fa aveva fondato una Ong, e adesso durante la campagna utilizza i risultati dei suoi progetti di sviluppo per mettere in mostra quanto le priorità della popolazione gli stiano a cuore; addirittura, durante il giorno del voto, i suoi collaboratori, distribuiscono cibo agli scrutatori in tutti i seggi. 

Elezioni pacifiche
Le dichiarazioni delle varie missioni di osservazione elettorale, tra cui l’Unione Africana e il Carter Center, sono tutte dello stesso tono. Un voto pacifico e senza incidenti vistosi, ma con un’affluenza alle ue debole, un’educazione elettorale inesistente e alcuni vistosi casi di uso di risorse pubbliche da parte di candidati che ricoprono funzioni governative. Il tasso di partecipazione, a conteggi ultimati, è del 36% e non sembra così disastroso se si pensa che è di tre punti percentuali più elevato di quello delle elezioni del 2000. In Costa d’Avorio, così come in generale nella regione dell’Africa dell’Ovest, l’interesse della popolazione verso le elezioni legislative è ridotto rispetto a quelle presidenziali. Se si aggiunge al boicottaggio del Fpi il clima di terrore che ha regnato nel paese fino a pochi mesi fa, non stupisce che la gente non sia andata a votare in massa. I risultati finali, piuttosto prevedibili, assegnano la maggioranza di deputati al partito Rdr, seguito dal Pdci.
L’alto numero di ministri eletti, tra cui il primo ministro Guillaume Soro, leader delle Forze Nuove, fa riflettere; i deputati, infatti, possono godere dell’immunità parlamentare e rimanere «intoccabili» dai giudici ivoriani, malgrado siano stati responsabili di crimini durante la guerra. Inoltre, una volta eletti, sceglieranno comunque la carica ministeriale, lasciando la poltrona della deputazione ai loro supplenti, ma l’immunità resterà in vigore. Il tema della giustizia è un altro argomento delicato nell’attuale contesto ivoriano. Antornine, anziano leader di opinione, oggi membro di un comitato di saggi per la riconciliazione nel comune di Agboville, spiega: «Le atrocità sono state commesse da entrambe le parti rivali del conflitto. Uccisioni, stupri, violazioni dei diritti umani: tutti hanno le mani sporche di sangue. Perché solo i responsabili Fpi e Gbagbo devono essere giudicati e imprigionati? La giustizia dovrebbe essere universale, e invece, in Costa d’Avorio è la giustizia del vincitore che prevale. Il rischio è di produrre nuovi antagonismi, di andare avanti su ferite non chiuse, che bruciano, e che prima o poi, porteranno a nuova violenza». 
Il frettoloso trasferimento di Gbagbo alla Corte Penale Internazionale dell’Aia, dove sarà processato per crimini contro l’umanità, non è arrivato al momento giusto: è avvenuto, infatti, a due settimane dalle elezioni e pochi giorni dopo un incontro informale tra il procuratore capo Ocampo e Ouattara nella residenza privata dello stesso Ouattara a Parigi. Tale evento ha suscitato perplessità legittime e incrementato il senso di sfiducia di molti ivoriani verso la comunità internazionale.
Malgrado un processo elettorale pacifico e piuttosto trasparente, la strada per la riconciliazione e la pace in Costa d’Avorio è ancora in salita. Riprendendo le parole del saggio Antornine: «Bisogna perdonare. Bisogna sedersi insieme e parlare. Non bisogna condannare, non ora. La ripresa economica sarà il principale mezzo per ristabilire la normalità: la gente affamata e diseducata è il bersaglio più facile delle manipolazioni politiche. Ora è tempo di costruire scuole, di creare posti di lavoro, riavviare il commercio del cacao e di cercare di dimenticare la paura».

Ermina Martini

Ermina Martini




Voci dal Congo

Qui Kinshasa

Il presidente uscente vince al primo tuo e si proietta verso il secondo mandato di 5 anni. Ma i disordini non mancano. La gente, però, sceglie pace e stabilità.

Kinshasa è famosa per il gran numero di persone che camminano per strada. I quartieri di Masina e Kingasani sono conosciuti come «Cina Popolare» per la quantità di gente che c’è ovunque. Attraversare la strada diventa un’esperienza nella quale occorre combinare audacia, rapidità e prudenza. La capitale ha quasi 10 milioni di abitanti ed è molto estesa, perché pochi sono gli edifici a più piani.
A partire dal 28 novembre e fino a metà dicembre, tutto era diverso. Il giorno delle elezioni non si vedeva circolare quasi nessun veicolo. Dei taxi, imprescindibili per spostarsi in città, neanche l’ombra.
Quel giorno ho fatto un giro e ho inconrato gente piuttosto disorientata. Nella tessera elettorale c’era il nome del collegio, ma quando vi arrivavano lo trovavano chiuso e dovevano recarsi altrove. I commenti erano: «Vogliono ubriacarci affinché non votiamo», «Dove dobbiamo andare?», «Sicuro che hanno trasferito anche il mio nome?». Alcune persone hanno passato più di quattro ore cercando il proprio collegio elettorale, finché hanno potuto votare.
Altri non hanno avuto questa fortuna. Trovato il seggio, il loro nome non era sulla lista e hanno dovuto tornare a casa stanchi e arrabbiati con il sentimento di essere stati presi in giro.
Sabato, il giorno della chiusura della campagna elettorale, è stato un giorno difficile. I tre maggiori candidati dovevano fare il comizio finale, ma nessuno ha potuto farlo. Ci sono stati scontri tra i diversi gruppi di sostenitori, e la polizia li ha repressi brutalmente. Carine, un’amica mi ha chiamato al telefono per sapere la situazione dalla nostra parte della città. Le ho detto che era tutto tranquillo. Lei invece era sdraiata a terra da oltre due ore, vicino a sua madre e a sua sorella maggiore, perché si sentivano diversi spari nelle vicinanze e c’era il rischio che proiettili vaganti entrassero in casa. La settimana dopo le elezioni le scuole continuavano a essere chiuse e c’erano pochissimi mezzi e taxi in circolazione. Si viveva una calma tesa. Tutti stavano aspettando che accadesse qualcosa di strano in un qualsiasi momento. 
Il sabato alcuni bambini sono venuti a trovarci a casa. È stata una sorpresa perché era quasi una settimana che nessuno veniva a visitarci. Non ne potevano più di stare in casa. Erano già due settimane che non avevano corsi e non sapevano cosa fare. Questo mi ha fatto pensare al ritardo scolastico che può comportare una situazione come questa. Parlando di guerre e conflitti si contano le vittime e i feriti, i danni materiali, ma non si parla dei bambini che non possono andare a scuola o degli universitari che, pur avendo pagato le tasse, perdono l’anno.  

I giorni passavano e la Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) ha iniziato a rendere pubblici risultati parziali. Si sentiva in giro un’aria di delusione. Molti congolesi avevano l’impressione che li stessero ingannando e prendendo in giro. Erano disillusi. Si sentivano commenti del tipo: «Hanno riso di noi. Non andrò mai più a votare in vita mia». La gente aveva fatto molti sforzi per ottenere la tessera elettorale. E questa è una città dove si vive giorno per giorno, non si ha l’opportunità di economizzare, non ci si può permettere il lusso di passare due giorni in coda.

Finalmente è arrivato il 14 dicembre, il giorno della proclamazione dei risultati provvisori. Era venerdì. La città era completamente deserta e io tornavo dal lavoro alle due del pomeriggio. Un percorso che faccio normalmente in oltre un’ora non mi ha preso più di dieci minuti. Arrivato a casa, trovai tutta la comunità del Teologato davanti alla Tv. L’annuncio era imminente. Iniziarono alle tre a trasmettere i risultati con discorsi interminabili, che facevano anche riferimento a «Dio onnipotente». I risultati venivano scanditi per regione secondo il numero di voti di ogni candidato. Oltre un’ora per arrivare ai totali. Incredibile!
È stato ancora più incredibile constatare quello che si temeva, confermato dalla Ceni: una differenza di tre milioni di voti tra Kabila e Tshisekedi. Nelle province in cui Kabila aveva vinto, la percentuale di partecipazione si avvicinava … al 95%! Per evitare disordini, l’esercito e la guardia repubblicana avevano isolato le zone strategiche della città. Sembrava di vivere in uno stato di assedio. C’erano blindati a lato delle strade e autobotti che sparavano acqua calda dove si riuniva un gruppo numeroso.  I tentativi di manifestazione erano repressi immediatamente. Il governo aveva anche impedito la trasmissione di sms. Così per oltre un mese nessuno in Rdc ha potuto inviare messaggi, si potevano solo ricevere dall’estero. Tutto questo per ostacolare la capacità di convocazione di manifestazioni, visto che c’è poca gente collegata quotidianamente a Inteet e usare i social network era difficile.
Altro dato significativo: Kabila non ha convocato neppure i suoi sostenitori per ringraziarli del loro appoggio durante il processo elettorale.
Tutti hanno manifestato disaccordo con le irregolarità dello scrutinio: i candidati, i partiti politici, la società civile, la chiesa cattolica, la comunità internazionale.
C’era un’aria di tristezza in tutta la città. Anche se Tshisekedi non avesse vinto le elezioni in tutto il paese, però certo, era chiaro che Kabila non avesse vinto con la differenza che mostravano i risultati finali.
Eravamo ormai alla vigilia di Natale, ma devo riconoscere che quest’anno non c’era un clima di festa e nemmeno il desiderio di farsi gli auguri per il nuovo anno. Se si facevano gli auguri a qualcuno, questi ti guardava in faccia come per dire: «Lo dici sul serio o stai prendendomi in giro?».

Ramón Lázaro Esnaola

 

Ramón Lázaro Esnaola




Scomparsi due milioni di voti

Elezioni presidenziali e legislative insanguinate

Almeno 18 morti, oltre 100 feriti gravi, guerriglia urbana in capitale. Questo il terribile bilancio delle elezioni
nel paese più ricco di minerali dell’Africa. E Joseph Kabila, dopo 11 anni di regno incontrastato, è confermato presidente. Ma c’è chi parla di «colpo di stato elettorale».

All’alba del 2012 la Repubblica Democratica del Congo si trova con un «nuovo» presidente. Quel Joseph Kabila che aveva preso il potere il 26 gennaio del 2001, alla morte del padre Laurent Desiré, e non lo ha mai mollato.
Ma le elezioni di novembre scorso sono state tutt’altro che trasparenti e regolari. E per di più macchiate di sangue.

Antefatti
I primi segnali scoraggianti appaiono all’inizio del 2011, quando la coalizione di maggioranza modifica la Costituzione da pochi anni in vigore, optando per il tuo unico anziché il doppio tuo nelle presidenziali, con la motivazione del notevole risparmio economico. Evitare il ballottaggio ha di certo favorito il presidente uscente Joseph Kabila (eletto nel 2006 nelle prime elezioni democratiche dopo quarant’anni), forte del suo ruolo, degli appoggi istituzionali, del sostegno dell’esercito e soprattutto degli enormi mezzi finanziari dispiegati in campagna elettorale.
Altra mossa ben studiata, nei mesi prima del voto, è la gestione del cosiddetto enrôlement, la registrazione degli aventi diritto al voto: da più parti piovono denunce di persone a cui è stata negata la tessera elettorale, di altre cui è stato chiesto in cambio del denaro, di altre ammesse al voto pur senza possedee i requisiti. A giugno, la Fondazione Bill Clinton denuncia la registrazione di minori a Kinshasa, chiedendo alla Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) – che gestisce tutto il processo elettorale – di riportare la legalità e anche di pagare regolarmente gli agenti deputati all’enrôlement. Così non è stato. Chi scrive è testimone diretta di alcuni di questi accadimenti nella provincia del Nord Kivu, in luglio: persone infuriate per non essersi potute registrare, altre perché all’atto dell’iscrizione erano stati chiesti loro dei soldi da funzionari della Ceni che non percepivano stipendio, altre ancora parlano di gente ammessa senza avere la nazionalità.
La tensione va rapidamente aumentando in tutto il paese, in particolare nella capitale.
Il 5 settembre, lo storico oppositore Etienne Tshisekedi annuncia ufficialmente la sua candidatura in rappresentanza di un’ampia coalizione di partiti. Ne seguono incidenti tra accoliti del suo partito, l’Udps (Unione per la democrazia e il progresso sociale), e quelli del partito presidenziale, il Pprd (Partito del popolo per la ricostruzione e la democrazia). Il giorno seguente la polizia disperde i manifestanti del Pprd che protestano, uccidendone uno e ferendone altri. Per una settimana, a Kinshasa, vengono vietate tutte le manifestazioni.
Nei giorni seguenti, arrivano le altre candidature alla presidenza, undici in totale: tra gli altri, Vital Kamerhe, ex presidente dell’Assemblea Nazionale (dimessosi per protesta contro l’operazione militare Umoja Wetu voluta da Kabila nel 2009 che aveva consentito alle truppe ruandesi l’ingresso nel paese); Kengo Wa Dondo, presidente del senato; Nzanga Mobutu, figlio dell’ex despota Mobuto Sese Seko.

Popolazione «lievitata»
Concluse a luglio le operazioni di enrôlement, inizia il controllo degli elenchi elettorali, con alcune sorprese, come l’aumento del 25% degli iscritti (superiore alla crescita demografica del Paese), concentrato in particolare nelle regioni favorevoli a Kabila. Negli stessi giorni, circola a Kinshasa un documento riservato della società belga Zetes, incaricata dal governo congolese del rilascio delle tessere elettorali biometriche (controllo dell’impronta digitale): il testo contiene i risultati della verifica effettuata sui doppioni presenti nei database dei votanti e certifica la presenza di un altissimo numero di persone registrate due volte: in particolare, oltre il 13% nella provincia del Bandundu (278.039 elettori), il 12% nell’Equateur. Numeri fortemente discordanti con quelli ufficiali foiti dalla Ceni, che parla di un totale di 119mila doppioni. Tra questi, i peggiori sono i cosiddetti «doppioni binari», ovvero persone con foto e impronte digitali identiche, ma dati anagrafici differenti. Secondo Zetes, ciò «porta a pensare che si tratti di una manipolazione effettuata direttamente nella banca dati del computer usato per l’iscrizione degli elettori»: una vera e propria frode. A seguito della fuga di notizie, la Zetes interviene sul quotidiano congolese Le Potentiel, che diffonde la notizia, asserendo che non è possibile manipolare il database informatico senza lasciare tracce evidenti: secondo loro, i doppioni sarebbero stati generati alla base, da persone che avrebbero chiesto due volte il documento o per errori di trascrizione del nome, o per cambiare una foto non gradita, o per godere dei vantaggi del possesso di due tessere elettorali.
Non da ultimo, con l’avvicinarsi della giornata del voto, emergono sempre più chiari anche i problemi logistici: la difficoltà di avere il materiale in tempo, dalle ue alle schede stampate, fino alla complicata distribuzione del tutto in un paese enorme e senza infrastrutture. Nel 2006, molto di questo lavoro era stato svolto dalla missione Onu in Congo, l’allora Monuc (che ha ora cambiato il nome in Monusco), con il notevole sostegno economico di molte realtà inteazionali, tra cui in primis l’Unione Europea: tutte istituzioni che stavolta si sono tenute un passo indietro, contribuendo il minimo necessario e restando il più possibile sotto tono.
E anche qui si sente puzzo di brogli: alcuni candidati del Bandundu, a inizio novembre, denunciano che nell’elenco delle sedi elettorali appena pubblicato dalla Ceni compaiono località inesistenti; da varie parti si levano proteste per la distribuzione dei seggi, come nei distretti dell’Ituri e dell’Haut Uélé, dove la soppressione di varie postazioni di voto penalizzerebbe in particolare la popolazione pigmea. Secondo la denuncia circostanziata di un candidato alle legislative del Kasai Orientale, altri seggi sarebbero localizzati addirittura dentro le abitazioni private di candidati, in particolare del Pprd di Kabila. Kinshasa non è da meno: qui molte persone non riuscirebbero a trovare il proprio seggio per errori nella cartografia e indirizzi errati o non aggioati; varie scuole disporrebbero di un numero di seggi molto inferiore a quello indicato. La Ceni si giustifica spiegando che nella maggior parte dei casi si tratta di seggi operativi nel 2006 in edifici scolastici che hanno poi cambiato destinazione d’uso e dispone l’invio di tende.
Tante e tali anomalie prestano il fianco a denunce dai toni accesi da parte dell’Udps, che parla di elezioni-farsa, già decise con un «colpo di stato elettorale» della Ceni e del partito al potere.

Campagna disastrosa
A ridosso del voto, ecco le irregolarità nella campagna elettorale, aperta ufficialmente il 28 ottobre: da subito, in varie località del paese si registrano scontri tra le varie fazioni e manifestazioni violente o represse in modo violento; i manifesti elettorali sono affissi un po’ ovunque, anche nei luoghi apertamente vietati.
Il 9 novembre a Vital Kamerhe viene violentemente impedito da un gruppo di giovani del Pprd di raggiungere la città di Kikwit, nel Bandundu. Lo stesso Etienne Tshisekedi è più volte bloccato nei suoi spostamenti, come quando le autorità gli negano l’autorizzazione all’atterraggio al rientro dal Sudafrica. Dal canto suo, Tshisekedi non brilla per correttezza istituzionale: il 6 novembre, durante un’intervista telefonica alla Radio Televisione Lisanga (Rltv) rilasciata proprio dal Sudafrica dov’è bloccato, dichiara senza mezzi termini: «La maggioranza di questo paese è con noi. Potete, quindi, considerarmi Presidente della Repubblica». Dopo aver lanciato al governo un ultimatum di 48 ore per liberare i suoi sostenitori arrestati durante le manifestazioni, aggiunge: «Alla scadenza dell’ultimatum, chiederò alla popolazione di attaccare le carceri e di liberarli e, come presidente, ordino alle guardie delle prigioni di non opporre loro resistenza». Dopo l’intervista, il governo interrompe il segnale di Rltv per otto giorni.
Le irregolarità non riguardano solo i candidati alle presidenziali. Alle legislative vengono ammesse candidature in violazione alle norme vigenti, ad esempio quelle di magistrati, membri del governo, responsabili della pubblica amministrazione senza che abbiano presentato le dimissioni dai precedenti incarichi, come richiesto dalla legge. Come se non bastasse, tanti di loro sarebbero ricorsi ai soldi pubblici per finanziare la propria campagna elettorale. Oltre venti ministri si danno alla propaganda, lasciando vacante il loro posto e giacenti montagne di pratiche: così, il ministro degli affari catastali assume una dozzina di interim, pur essendo lui stesso candidato.
Human Rights Watch intanto denuncia un ricorso massiccio a discorsi incitanti all’odio e alla discriminazione etnica, sia da parte dei candidati che dei loro fans, in particolare nell’Est del paese e nel Katanga. Il 9 novembre, il Comitato congiunto delle Nazioni Unite per i Diritti Umani deplora in un rapporto gli atti di violenza, le violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali legate al voto. Oltre ai numerosi casi di intimidazioni verso i sostenitori dell’opposizione, si registrano minacce di morte contro i difensori dei diritti umani.
Un’altra denuncia circola da più parti nelle settimane immediatamente precedenti il voto: molta gente starebbe vendendo la propria tessera elettorale in cambio di soldi.

Scontri a Kinshasa
I giorni di fine campagna elettorale sono tesissimi. A Kinshasa, il 26 novembre, ultimo giorno prima del silenzio elettorale, sono previsti i comizi conclusivi dei tre principali candidati, Kabila, Tshisekedi e Kamerhe. I loro sostenitori si sono riuniti nei luoghi assegnati (molto vicini gli uni agli altri), dando il via a scontri tra fazioni, che provocano un morto e moltissimi feriti. Il governatore decide di annullare tutti i raduni previsti, «per preservare l’ordine e la pace sociale». A Tshisekedi, di ritorno dal Bas-Congo, viene negata l’autorizzazione ad atterrare a N’Ddjili, l’aeroporto principale di Kinshasa, dove è atteso dalla folla. Dirottato al piccolo aerodromo di N’Dolo. Di qui, incurante dei divieti, si dirige verso i suoi fans a N’Djili, attraversando la città in piedi su una vettura decapottabile, ma viene fermato dalla polizia e trattenuto fino allo scadere della mezzanotte, ora di chiusura della campagna elettorale. La mattina dopo, giorno di silenzio elettorale, Tshisekedi convoca ugualmente per il pomeriggio i suoi sostenitori per il comizio finale allo stadio. Ma gli unici presenti sono un gran numero di poliziotti in tenuta antisommossa.

Difficile voto
A due giorni dal voto, molti seggi non hanno ancora ricevuto il materiale elettorale, essendo molti aerei bloccati dal maltempo. Ciò ne provoca l’apertura tardiva, il 28 novembre.
Alla disorganizzazione e alla confusione si aggiungono, in alcune zone del paese, atti di violenza, il più grave dei quali a Lubumbashi, con tre morti; in alcune zone del Kasai, la popolazione è furiosa perché sulle schede manca il n. 11, proprio Tshisekedi: un «problema di stampa», secondo la Ceni. Da Bukavu, sud Kivu, arriva la denuncia che le frontiere col Rwanda son rimaste aperte fino alle 22 (con un massiccio afflusso di persone), mentre per legge andavano chiuse due giorni prima. In varie parti del paese, ci sono notizie di scatoloni colmi di schede già precompilate.
A causa del caos in alcune zone rimaste senza materiale elettorale, la Ceni decide di prolungare le operazioni di voto di un giorno, ma solo nei seggi dove si sono verificate carenze di materiale.
Tali ritardi sommati a mille altre difficoltà costringono a posticipare l’annuncio dei risultati delle presidenziali, previsto per il 6 dicembre. Nel frattempo avvengono fughe di notizie, risultati parziali non ufficiali e accuse da entrambe le parti. Il 2 dicembre, il ministro dell’interno sospende in tutto il paese e fino a nuovo ordine il servizio di sms «per evitare la diffusione di falsi risultati». Il blocco  verrà revocato solo il 28 dicembre (con la raccomandazione agli operatori telefonici di identificare tutti gli abbonati «per agevolare il governo nel prendere decisioni in materia di ordine pubblico»), costituendo un unicum mondiale denunciato da Reporters sans frontières.

Tre milioni di preferenze
I risultati provvisori completi, pubblicati dalla Ceni il 9 dicembre, non lasciano adito a dubbi: Joseph Kabila 48,95%, Tshisekedi 32,33%. Tre milioni di voti di differenza, 58,81% l’affluenza alle ue.
Tshisekedi reagisce immediatamente: «Abbiamo dei verbali elettorali in cui risulta che ho vinto io e di gran lunga. Ho ottenuto il 54% dei voti contro il 26% di Kabila. Perciò mi considero ormai come un presidente eletto della Repubblica Democratica del Congo. Vi ringrazio per la fiducia che mi avete sempre dimostrato e vi chiedo di mantenere la calma».
Il Congo si ritrova con due presidenti.
Il 16 dicembre, rispondendo al ricorso presentato da Vital Kamerhe, la Corte Suprema di Giustizia accoglie la forma, ma ne rigetta la sostanza, ratificando dunque il risultato del voto.
Il 20 dicembre, Joseph Kabila presta giuramento come presidente eletto: dei capi di stato invitati, è presente solo il discusso presidente Mugabe. Gli altri inviano primi ministri, ministri o ambasciatori.

Osservatori sconcertati
Le prime perplessità emergono da subito: la missione mista di osservazione Aeta (Agire per elezioni trasparenti e pacifiche) e Eurac (Rete Europea per l’Africa Centrale), già la sera del 28 novembre diffonde un comunicato stampa in cui, pur elogiando gli sforzi degli agenti elettorali, evidenzia i molti problemi riscontrati.
Ma è nei giorni successivi che si comincia a rendersi conto della misura (enorme) di brogli e irregolarità. Nel Katanga e nel Bandundu, due delle regioni filo-Kabiliste, i dati lasciano quanto meno perplessi: in Katanga risulta aver votato quasi il 70% degli aventi diritto, 11 punti sopra la media nazionale, e Kabila ha un 89% di preferenze, contro un misero 7% di Tshisekedi, 221mila voti. Cifre non credibili, secondo gli osservatori, poiché nella regione vivono almeno 800mila persone originarie del Kasai, notoriamente sostenitori di Tshisekedi.
Per contro, proprio nel feudo di «Tshi-Tshi», risultano aver votato poco più del 50% degli aventi diritto e il 16% dei verbali dei seggi sono introvabili. Lo stesso è avvenuto a Kinshasa, dove fortissima è l’opposizione a Kabila: quasi 2mila seggi (per 350mila voti) hanno «smarrito» i verbali.
Il primo dicembre, è la missione di osservazione dell’Ue a parlare di varie irregolarità, tra cui l’intercettazione di schede già compilate, ue non sigillate, voto di minori, segreto del voto non garantito. Il rapporto sostiene che le elezioni non siano state trasparenti a nessuno stadio del processo: evidenzia che molti dei risultati dei bureaux de vote resi pubblici la sera dello spoglio, affissi alle porte e consultati dagli osservatori europei sul campo – in particolare a Lubumbashi – non corrispondono a quelli in seguito pubblicati dalla Ceni; evidenzia poi come i témoins congolesi e gli osservatori inteazionali non abbiano avuto accesso al Centre National de traitement, dove venivano raccolti i dati che confluivano da tutto il paese. Quanto alla par condicio – si sottolinea nel testo -, la tv nazionale ha dedicato l’86% degli interventi a Kabila, l’8% a Kengo Wa Dondo, il 3% a Kamerhe e solo l’1% a Tshisekedi. Non solo: i risultati delle ue vanno per legge convalidati dalla Corte Suprema. Ma la missione Ue ne mette in discussione l’autorità, dopo che Kabila, in piena campagna elettorale, ne ha nominato 18 nuovi membri.
Il bilancio dei due giorni di voto stilato da Human Rights Watch è preoccupante: 18 morti – di cui 14 nella capitale – e un centinaio di feriti gravi, causati per la maggior parte dalla Guardia Repubblicana (ex guardia presidenziale).
Il 10 dicembre, è la volta del dossier del Centro Carter: la compilazione dei risultati del voto non è credibile. «In varie zone del Katanga si sono registrati tassi di partecipazione che vanno dal 99 al 100%, cosa impossibile, e tutti i voti, o quasi tutti, sono andati a Kabila». L’ente cita, ad esempio, il caso della circoscrizione di Malemba Nkulu in cui, con 493 seggi e un tasso di partecipazione del 99,46%, Kabila ha ottenuto il 100% dei voti.
Il numero più alto di osservatori sul terreno era però quello predisposto dalla Chiesa cattolica nazionale, che in vista del voto aveva formato 30mila persone. Ed è anche in base ai loro rilievi che il 12 dicembre, in una dichiarazione alla stampa, l’arcivescovo di Kinshasa Monsengwo ha affermato che i risultati pubblicati dalla Ceni «non sono conformi né alla verità, né alla giustizia».
A metà gennaio, dopo un’assemblea plenaria straordinaria, la Conferenza episcopale congolese (Cenco) ha diffuso un messaggio dal titolo «Il coraggio della verità», nel quale ribadisce che ciò che è accaduto è «inaccettabile. È un’onta per il nostro paese». E prosegue: «Riteniamo che il processo elettorale sia stato inficiato da gravi irregolarità che rimettono in questione la credibilità dei risultati pubblicati».

Libertà «condizionate»
Poco alla volta, anche le grandi potenze prendono coraggio, pronunciandosi in maniera ufficiale: il 14 dicembre, il Dipartimento di Stato americano parla di «gravi irregolarità»; dopo la convalida del voto da parte della Corte Suprema, l’Unione Europea manifesta preoccupazione, minacciando di rivedere il proprio sostegno alla Rdc, e il segretario di Stato Usa Hillary Clinton esprime «profonda delusione»; rammarico anche dal ministro degli esteri belga.
Il 28 dicembre, l’associazione Joualiste en danger denuncia 160 violazioni della libertà di stampa nel 2011, di cui la metà durante il periodo elettorale, concentrate tra ottobre e dicembre. Nel 2010, i casi erano stati la metà. Jed denuncia anche la «frenesia propagandistica» in cui molti dei media congolesi sono caduti nel periodo elettorale, in particolare quelli pubblici.
Ad alcuni casi clamorosi (sospensione di Radio France Inteational e Radio Veritas), che hanno sollevato proteste inteazionali, si sommano le tante intimidazioni e vessazioni alla stampa locale.
Di fronte alle contestazioni circostanziate e documentate, il presidente della Ceni, Daniel Ngoy Mulunda,  ammette candidamente: «Sì, 1.375.000 voti sono andati persi, è vero, ma siccome Joseph Kabila precede Etienne Tshisekedi di oltre 3 milioni di voti, ciò non cambia il risultato». Riguardo allo scarso tasso di partecipazione al voto nel Kasai, Mulunda spiega che la colpa è da attribuire agli attacchi ai seggi elettorali che si sono verificati il giorno del voto. D’altro canto, l’altissima partecipazione al voto nei territori favorevoli a Kabila si spiegherebbe, secondo lui, con la buona organizzazione dei sostenitori del presidente.

Giusy Baioni

Giusy Baioni




Attenzione contro indifferenza

Il messaggio quaresimale del Papa è finalmente arrivato, anche se all’ultimo minuto, pochi
giorni prima della Quaresima. Il tema è preso dalla lettera agli Ebrei (10,24): «Prestiamo attenzione
gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone». Tre i punti
sottolineati: l’attenzione contro l’indifferenza, la reciprocità contro l’individualismo materialista,
lo stimolo al bene contro l’appiattimento e la mancanza di speranza.
Sono parole attualissime in questa nostra società di grandi brontoloni individualisti e senza speranza.
Cito abbondantemente dal messaggio con qualche povero commento per sintetizzare in
questa paginetta dell’editoriale un testo che merita di essere letto nella sua interezza (si trova facilmente
in www.vatican.va).
«Il verbo che apre la nostra esortazione (fare attenzione, ndr.) invita a fissare lo sguardo sull’altro,
prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti
alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il
disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la “sfera privata”.
Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura
dell’altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere “custodi” dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare
relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell’altro e a tutto il suo bene.
Il grande comandamento dell’amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere
una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in
molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell’altro un vero alter ego, amato in modo infinito
dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di frateità, la solidarietà, la giustizia, così come
la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore».
Quest’attenzione ci porta ad avere a cuore il bene totale dell’altro: fisico, morale e spirituale. È un
antidoto contro il «cuore indurito» che rende ciechi alle sofferenze e bisogni altrui. Presi dai nostri
problemi, dalla crisi economica, dalla morsa del gelo, dal degrado sociale e dalla paura, noi
tutti siamo davvero a rischio di ritrovarci col cuore «indurito», cieco ed intristito. «Non bisogna tacere
di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per
semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri
fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene».
Per reagire a questa situazione occorrono reciprocità e solidarietà. L’«attenzione» è dare e ricevere,
scambiarsi doni, aiuto, sostegno, stimoli. Diventa gareggiare nel bene, rallegrarsi e ringraziare
dell’azione di Dio in mezzo agli uomini. «I discepoli del Signore, uniti a Cristo mediante l’Eucaristia,
vivono in una comunione che li lega gli uni agli altri come membra di un solo corpo. Ciò
significa che l’altro mi appartiene, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza.
Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione: la nostra esistenza è correlata
con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche
una dimensione sociale».
Da ultimo il Papa ci invita a «stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone: camminare insieme
nella santità». Sembra quasi un invito assurdo in questo nostro mondo, parlare addirittura
di santità in tempi in cui si fa fatica a vedere oltre il muro di neve che ci circonda, in cui si è persa la
capacità di sognare e il sopravvivere sembra la regola principale.
«Prima santi», diceva il beato Giuseppe Allamano. Puntare alla santità oggi non vuol dire essere
persone che vivono fuori del mondo, ma essere in questo mondo con una carica di speranza, di
energia, di rinnovamento unica. È una carica che fa reagire all’appiattimento, alla mediocrità, alla
disperazione. Rende capaci di ottimismo, «fa gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere
buone». Non per buonismo, ma per sete di giustizia, di solidarietà, di un nuovo modo di fare politica,
di nuove relazioni dove la persona e non il profitto sia al centro, perché la persona è immagine
di Dio. Vivere da santi è allora vivere, non semplicemente lasciarsi vivere.

                                                                                                                                         Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Cari missionari

CRISTO DE LOS DESTERRADOS
Carissimi, saluti a tutti. Ed ora sentite questa:
proprio come nella storia di Pinocchio: «…come andò che Vicente, pas­ seggiando lungo la spiag­ gia di Ladrilleros [Costa delPacifico] trovò un pez­ zo di legno che piangeva e rideva chiedendo aiuto…» lnciam pai in un pezzo di legno, una radice di man­ grovia, annerita  e abbru­ stolita da un incendio pro­ vocato da qualche abitan­ te d ella foresta per
ripulire con ilfuoco un pezzetto di terra che a lui e alla sua gente serviva per seminare la manioca e ilriso per poter conti­ nuare a vivere e lavorare. Non so come sia andata,
ma ilfatto è che un bel giorno quelpezzo di legno brucia cchiato, trascinato
dalla corrente di un fiume finì nelm are e sballottato dalriflusso della marea finì sulla spiaggia che mi ospitava abbandonato in mezzo a uno dei tanti gro­ vigli di porcherie che ab­ bruttiscono le splendide spiagge delPacifico. Appena lo scoprii, non po­ tei evitare un salto di ioia e un «oh!» di pietà. Cio
che appariva  ai miei oc­ chi era la perfetta figura di un uomo stilizzato, cui
furono strappati i piedi e le mani: un Cristo senza piedi e senza mani con i monconi delle braccia che imploravano pietà. Era come fossel’icona di questa gente, scacciata violentemente dalle sue
terre, vagante senza meta e senza prospettive. Immediatamente ilmio pensiero volò ad Arie,l un artigiano  sognatore che
in Ladrilleros si guadagna la vita lavorando conchi-
glie e cose tipiche per venderle ai turisti ed ave­ re un pezzo di pane per non morire di fame. Nelle sue mani ilpezzo di legno si trasformò in un Croci­ fisso senza mani e senza piedi che animò la via crucis della Settimana Santa 2011.
Ora aspetta in un angolo
della capanna che per a­ desso funge da cappella e potrà essere, un giorno,
la pietra angolare di un futuro santuario in onore del Cristo «de los Dester- rados», patrono di Ladril- leros e di tutta la gente che con fede lo invocherà in cerca di protezione e benedizione. Sognate an- che voi e se sono rose fio- riranno. Saluti,

Vicente (P. Vincenzo Pellegrino) Ladrilleros, Cauca, Colombia 24 /10/2011

Dopo aver cercato Ladril-leros sulle mappe, ho scritto a P. Vicente, «dove
è questo tuo Ladrilleros, che dici essere in riva al mare e invece da Google map risulta sulle monta- gne della cordigliera? E poi, la tua residenza non
è in Cali che col mare non ha proprio niente a che fare?». Ecco la sua pron- ta risposta.
Ladrilleros è una frazione di Buonaventura, distante un’ora di motoscafo dalla città. Il luogo è un paradi- so terrestre con un cielo
«così bello quando è bel- lo» (Manzoni) che ti inna- mora a prima vista. È un po’ meno allettante quan- do piove, e questo capita
in media una volta nelle
24 ore. Siamo nel cuore della selva umida tropica- le.
Cosa faccio a Ladrilleros? Ci sono capitato là tre an- ni fa come turista e spero lasciare le mie ossa nella
bella cavea che il mare ha scavato lungo il litora- le. Risiedo a Cali, però in Ladrilleros, La Barra e Guanchaco – i tre paesetti disseminati a poca di- stanza l’uno dall’altro – è sorta una fondazione sen- za scopo di lucro che si propone di far qualcosa per la gioventù offrendo loro alternative per mi- gliorare la situazione sta- gnante in cui si trovano.
Il mio peccato fu lanciare l’ idea ad alcuni amici quando venni in Italia. La cosa interessò, stanno aiutando e speriamo con
il nuovo anno di iniziare in serio un’attività agro-sil- vo-pastorale con l’idea di riformare il mondo. Intanto il Cristo de los de- sterrados che mi è appar- so mi dice che lì vuol im- piantarsi. Io desidero dir- gli di sì, però intanto mi trovo nei pasticci, come il profeta Geremia; questa è la storia. Tu ricamaci su… e si vedrà. Caminante, no hay camino, se hace ca- mino al andar (Viandante, non c’è il cammino, si
crea camminando). È ov- vio che vivo in Cali, però quando si affaccia il ri- schio di ammuffire, il ri- chiamo della selva mi fa scattare e Ladrilleros mi aiuta a ringiovanire. A presto.
Vicente
Ladrilleros, 26/11/2011

VI ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI DON ANDREA SANTORO Pubblichiamo ora queste riflessioni di Don Andrea Santoro in preparazione al VI anniversario del suo martirio. Non è stato possibile pubblicarle l’anno scorso, in occasio- ne del V anniversario, perché erano arrivate quando la rivista era già
in stampa. Le proponiamo perché il valore di queste parole, firmate con il sangue, non svani- sce col tempo.

Don Andrea Santoro, sa- cerdote fidei donum della diocesi di Roma è stato ucciso (con due colpi di pistola) il 5 febbraio 2006 mentre pregava nella chiesa di S. Maria a Trab- zon (Turchia).
In questo momento stori- co di dibattito e di crisi sulla identità religiosa, sul dialogo e convivenza tra popoli, richiamiamo brevemente alcuni pen- sieri che don Andrea, nei suoi anni di vita sacerdo- tale a Roma e in Turchia, ha ripetuto spesso ai suoi parrocchiani e ha scritto nei suoi diari e nelle sue lettere per aiutarci a su-
perare certe logiche di di- sgregazione della propria identità e di divisione tra realtà diverse.
Don Andrea aveva parti- colarmente a cuore il rapporto tra l’Oriente e l’Occidente, la relazione fra le tre religioni che hanno avuto origine nel Medio Oriente: l’ebrai- smo, il cristianesimo e l’islamismo.
Don Andrea diceva:
… l’identità cristiana
non è una identità territo- riale e neppure semplice- mente culturale. È un’i- dentità evangelica: è il sale di Cristo in noi, è la nostra trasformazione in Lui…è la visibilità di Cri- sto attraverso noi, è lo scrivere il vangelo nel nostro essere, sentire e vi- vere;
… dialogo e convivenza
non è quando si è d’ac- cordo con le idee e le scelte altrui ma quando gli si lascia posto accanto alle proprie e quando ci si scambia come dono il proprio patrimonio spiri- tuale, quando a ognuno è
dato di poterlo esprimere, testimoniare e immettere nella vita pubblica oltre che privata;
… non bastano inter-
venti di natura politica, di- plomatica o militare, e neanche un generico di- battito culturale… Occor- re una mobilitazione più profonda delle coscienze, ponendosi domande che toccano il cuore della no- stra fede e del nostro rap- porto con Dio, le pratiche abituali del nostro modo
di pensare e di vivere, le relazioni tra persone, po- poli e fedi diverse… Ci so- no mutamenti profondi che Dio chiama tutti noi a compiere;
… imporre o soffocare
non è degno né di Dio né dell’uomo. Spesso l’occi- dente ignora questo dirit- to in cambio di interessi economici o vantaggi po- litici. Si tratta di una pro- blematica scottante. Ma la realtà è che spesso il potere, sotto qualunque forma si presenti, politica o religiosa, serve solo se stesso o il bene di alcuni a danno di altri. La paura di dare all’altro ciò che si reclama per sé… arma le mani e il cuore…
(pochi giorni prima di
essere ucciso aveva scrit- to) … due errori credo sia- no da evitare: pensare che non sia possibile la convi- venza tra uomini di reli- gione diversa oppure cre- dere che sia possibile solo sottovalutando o accanto- nando i reali problemi, la- sciando da parte i punti su cui lo stridore è maggiore, riguardino essi la vita pubblica o privata, le li- bertà individuali o quelle comunitarie, la coscienza singola o l’assetto giuridi- co degli stati. Crediamo che questi pensieri possa- no essere elaborati da tutte le persone di “buona volontà”, che siano cre- denti e non credenti, che
si richiamino alla sola ra- gione o anche alla Rivela- zione, perché ognuno possa aprirsi ad un dialo- go vero (e non ad un mero dibattito), che porti ad una convivenza pacifica nel ri- conoscimento e rispetto reciproco.
Associazione
Don Andrea Santoro

Bibliografia:
Lettere dalla Turchia, Città Nuova, 2006 – Diario di Terra Santa, San Paolo, 2010 – DVD, La fede è partenza, Città Nuo- va 2007 – DVD, Don Andrea Santoro sacerdote e parroco
a Roma, Associazione don
Andrea Santoro 2010.

RICORDANDO P. ALEX MORESCHI
È morto venerdì 9 settem- bre a Malonno (Brescia), all’età di 66 anni, di cui 43 di professione religiosa e
38 di sacerdozio, padre A- lessandro Moreschi, Mis- sionario della Consolata, per anni membro e ani- matore della comunità operante a S. Valentino (Castellarano). Il funerale si è tenuto a Malonno do- menica 11 settembre. Padre Alex, dopo anni di missione in Kenya, era rientrato in Italia per oc- cuparsi dell’animazione missionaria. È così che lo abbiamo conosciuto in Diocesi e in particolare al Centro Missionario, sem- pre estremamente dispo- nibile e collaborativo, sia per l’attività ordinaria co- me per i servizi straordi- nari, quali l’accompagna- mento di giovani nei viaggi missionari in Madagascar e in Rwanda (e anche Tan- zania e Kenya).
Lo ricordiamo con affetto, riconoscenza ed ammira- zione per la generosità, per la franchezza, per la libertà interiore e la pa-
zienza, di cui ha dato prova straordinaria in questi ul- timi due anni, alle prese con la malattia inesorabile che lo ha consumato…
Il Centro Missionario Diocesano di Reggio Emilia

P. Alex Moreschi è stato ospite delle pagine di questa rivista più di unavolta (l’ultima su MC 7-8/2008, pag. 70), sia quando era in missione in Kenya che quando impe- gnato nell’animazione missionaria qui in Italia. Appassionato lettore e critico della rivista, pochi giorni prima del suo ri- too alla casa del Padre ci aveva scritto una lunga lettera. Ve ne offriamo
dei passaggi.

Complimenti,
la rivista ha migliorato tantissimo ultimamente.
I dossier sono interessan- ti, specie l’ultimo sul capi- tolo e il carisma dei mis- sionari della Consolata. Devo dirvi che una coppia che era anche impegnata missionariamente mi ha chiesto di disdire l’abbo- namento. Le motivazioni sono due: è troppo impe- gnativa negli articoli, per- ché troppo approfondita e densa. Il secondo motivo perché è di parte e setta- ria su qualche argomen- to, cioè non scopre il ro- vescio della medaglia su certe questioni (OGM, Madre terra, palestinesi, politica sud americana, etc.).
Si vuole scrivere troppo, senza tenere presente a chi va la rivista e chi la legge (in genere gente che ha da fare e non ha tempo di approfondire e anche anziani).
Ho in mente dei mensili che scrivono di argomenti molto impegnativi e sono più snelli, essenziali, scritti chiari con caratteri più grossi. La nostra rivi- sta sembra che voglia esaurire lo scibile in pagine difficili da affrontare. Recentemente si rispon- deva a dei seminaristi
che non volevano più ricevere la rivista perché ne ricevevano troppe. Nella risposta si argomentava che la nostra rivista è a difesa dei poveri, degli impoveriti del Sud del mondo, che combatte le ingiustizie sociali ed eco- nomiche del pianeta. Sa- crosanta verità, ma se l’accesso a questo stru- mento è difficile come
farà la rivista a raggiungere il suo scopo?
I complimenti sono molti e la rivista ha acquistato un aspetto più missiona- rio, almeno un po’ di più. Certe rubriche sono un po’ tendenziose e non og- gettive […].
Avendo molto tempo a di- sposizione ho letto molto
«Missioni Consolata» spinto anche da qualche padre che neppure la a- pre e anche da altre per- sone che hanno la stessa idea di parzialità.
Una coppia di giovani ai quali ho mandato la rivi- sta la ritiene molto buona però dovrebbe essere più snella e accessibile a vari ceti di persone.
Tanti auguri!

Alex Moreschi
23/8/2011




Pensare alternativo

Ai lettori

Due nonni sprint hanno scritto questo messaggio  natalizio  e di fine anno ai propri nipoti.
«Quest’anno vogliamo farvi un regalo in più: un po’ di fame, anzi tanta fame.
Fame di conoscere e di sapere;
fame di guardare al di là del corto orizzonte  delmondo che vi circonda;
fame d elevarvi sopra le idee ristrette che predominano nelvostro am bie nte;
fame d superare il”fanno tutti così”, il”tanto non c’è niente da fare” e il”non t occa a me” ;
fame d mettervi in gioco ogni giorno fino alla fine dei vostri  giorni;
fame d sottrarvi alla logica dell’arrivismo, dei soldi,  dell’individualismo;
fame d far prevalere ildiritto degli altri, soprattutto dei deboli e degli ultimi, sulvostro diritto;
fame d mettere davanti a tutto  ilBene Comune e non ilvostro personale;
fame d lasciarvi  escludere perché non volete conformarvi alle idee degli altri, del gruppo;
fame d ideali grandi, che vi diano la libertà e la felicità del cuore;
fame d Dio e della sua Parola, che nutra la vostra libertà, sete di giustizia  e bellezza. Elevatevil Diventate autonomi, anticonformisti, liberil Siate voi stessi l Sempre.
Oggi facciamo memoria della nascita di Dio: Dio si fa carne, diventa uno di noi, uomo come noi.
Vi liberi  dalle catene della pigrizia,  degli stereotipi e dei pregiudizi, della acriticità.
Vi doni la Sapienza, cioè l’Intelligenza, la capacità di partire dalpassato per leggere ilpresente e progettare ilvostro futuro.
Vi accompagni in scelte e in azioni sempre  positive. Questo è l’augurio che vi fanno i vostri  nonni».

Questo messaggio è stato scritto dai due nonni  dopo aver rimuginato con un po’ di amici sul primo  dei cosiddetti «dieci comandamenti» delBeato Giuseppe Alla mano: «Elevatevi ald i sopra delle idee ristrette delvostro ambiente».
Ne è venuta fuori un’interessante attualizzazione.
Mentre  scrivo, all’inizio di dicembre, ilnostro paese sta vivendo le ore traumatiche del decreto
«Salva Italia» in un misto di rassegnazione e rabbia e puntate secessioniste. Nelmondo… Avevo scritto qui una lunga lista di situazioni difficili che marcano  ilnostro tempo:  troppe e fin troppo facili  da elencare. L.:ho cancellata. Credo che tutti siamo  ben coscienti  delmomento diffici­ le per ilnostro paese e per l’umanità, anche senza altre parole superflue.
Non abbiamo bisogno di compilare liste, ma di reagire a questa situazione per non farci appiattire dalla mancanza di speranza,  dall’apparente ineluttabilità degli eventi e dalbla-bla dei politici. C’è bisogno dawero di «elevarsi aldi sopra delle idee ristrette delnostro ambien  e»
nuare a vivere e sognare e diventare soggetti  non vittime della nostra storia.  E vero, ci vogliono misure tecniche,  politche ed economiche per uscire dalla crisi in cui ci troviamo, ma queste da sole non bastano. Occorre cogliere questo tempo per fare delle riforme dentro noi stessi, nelno­ stro modo di pensare, relazionarci e agire. La crisi richiede ed offre la possibilità di un profondo rinnovamento della persona e delsuo  modo di vivere. C’è bisogno di un uomo nuovo più solidale, più sobrio, più responsabile, capace di fare ilcammino della vita a piedi e non comodamente se­ duto in macchina  brontolando nella mega-coda della vita.
Questa crisi  può essere l’occasione per riscoprire le dimensioni più vere della nostra umanità, per vedere con occh i e cuore nuovo ilnostro vicino, per inventare nuove forme d i solidarietà e costrui­ re ponti invece che trincee,  per approfondire la valenza rigeneratrice del dono della fede che sca­ tena la nostra carità e alimenta la speranza,  per liberarci dall’invasione delle cose che occupano ogni angolo di casa nostra ed anche i nostri pensieri. Pensare alternativo, pensare fraterno, pen­ sare «divino»: si può, cogliamo l’occasione.
Buon 2012.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Suore, venti anni dopo

Mediamente

Mariapia Bonanate, Paoline Editoriale Libri, 2010 – Euro 18,00
A volte occorre andar oltre il titolo di un libro, oltre il pregiudizio spesso infondato di ciò che potremmo trovare tra le sue pagine. Così fu per me la conoscenza con Suore, il libro di Mariapia Bonanate, continuazione del lavoro omonimo scritto 20 anni prima. Il libro rimase inizialmente a decantare qualche tempo sul comodino, in una fase di assoluta sospensione tra il desiderio di leggerlo e la poca volontà. Poi, finalmente, una sera in cui la casa era stranamente silenziosa, iniziai a sfogliarlo e passai velocemente dal semplice sfogliare alla lettura. I personaggi vividi, quasi tangibili sulla carta, la capacità della scrittrice di trasmettere, attraverso le donne incontrate, un contagio positivo, mi conquistarono. In ogni pagina di Suore, nella testimonianza attiva di queste donne eccezionali (alcune delle quali laiche), si avverte il palpitare della spiritualità nella vita quotidiana. In punta di piedi, quasi a ritmo di danza, la voce al femminile di Mariapia si fa strada e racconta un mondo taciuto, dove donne coraggiose si «lasciano abitare dall’altro» e, con intelligenza, umanità e fantasia, ridisegnano la storia.
Quello di Suore è un macrocosmo femminile che non fa notizia, ma che testimonia, con un’incredibile forza spirituale, come la speranza passi attraverso l’amore senza condizioni e possa essere l’antidoto all’attuale vuoto delle nostre esistenze.

Donne e suore in prima linea
Sono passati venti anni da quando Mariapia ha incontrato le sue amiche suore. Donne che sono rimaste a combattere in prima linea, senza giudizio e con amore.
Donne che diventano fonte di sopravvivenza per chi vive il dramma della prostituzione, della tossicodipendenza, delle guerre e della miseria. Nove capitoli arricchiscono il libro con i nuovi incontri. Dall’inchiostro prendono vita tante umanissime figure che vivono il Vangelo in prima persona. Niente a che fare con la mistica o con la catechesi, l’universo femminile di Mariapia è reale. Dalla scelta del «silenzio» a quella dell’azione sociale con un filo rosso comune: la costanza e il raccoglimento per riscoprire Dio. Da suor Teresa, alla studentessa di Praga, a suor Rossana e alla Carmelitana scalza (Cristiana Dobner) per citare esempi di vita contemplativa. Esistenze dove l’amore per il mondo si concretizza nel raccoglimento, mai fine a sé stesso ma sempre attento a ciò che accade al di fuori, informato sui passi di un mondo in continua trasformazione. Sul versante dell’attivismo tante figure indimenticabili. Ridare dignità e speranza alle «creature del bisogno» è l’obiettivo di tutte le amiche di Mariapia che, chi in un modo e chi nell’altro, fuggono dalle certezze per camminare fianco a fianco con gli ultimi dell’universo. Ecco allora emergere dal racconto, solo per citare alcune di queste grandi donne, Suor Eugenia, una sorella delle missionarie della Consolata che, dopo un lungo periodo in Kenya, decide, una volta tornata in Italia, di  dedicarsi alle africane emigrate e costrette a vendersi sui marciapiedi di Torino. Nel difficile territorio campano, invece, Suor Rita apre Casa Rut e dona il suo aiuto alle tante ragazze madri, scampate alla tratta; Carla Osella fonda una scuola e poi un sindacato per gli zingari (l’Aizo); Maddalena di Spello mette a disposizione il suo focolare domestico a tutte le ore del giorno e della notte per offrire un pò di calore e di conforto a chi brancola nel buio; come lei, suor Teresa Martino – ex attrice di successo – guida Casa Betania, ritrovo di malati di mente, barboni e diseredati. Una geografia umana che non ha bisogno di tante parole, che antepone l’azione alla predica, che ascolta e non giudica, che sa farsi sentire attraverso il gesto amoroso. (gm)

Una domenica con Mariapia Bonanate

Suono alla porta di Mariapia Bonanate in una domenica dal cielo terso e dai colori accesi. Torino è silenziosa, piacevole, soiona. Mariapia mi accoglie con la calda informalità di chi ha il cuore aperto. La sua casa è piena di luce e, seppur nella tranquillità festiva, si avverte un pulsare di vita e di calore umano. Suore è oggetto di discussione ma non solo. La nostra conoscenza passa attraverso sottili emozioni e riflessioni. Come nella scrittura, anche nel racconto orale, Mariapia riesce a trasmetterti un pezzo di cielo, la speranza oltre la speranza. Lo fa semplicemente, con umiltà, e si presta non solo al suo racconto personale ma anche all’ascolto, alla condivisione. Nel suo volto elegante e intelligente, i segni di una ricerca profonda, di una vita vissuta pienamente, di tanta bellezza e anche molta sofferenza. Il fascino e il carisma possono dissolversi, la coraggiosa umanità no. Così è Mariapia Bonanate, così sono le donne del suo libro.

Nell’introduzione tu parli del linguaggio dell’anima che non invecchia mai. Cosa significa?
«La perdita di valori della nostra epoca si rispecchia proprio nel vuoto di parole ed è solo l’anima – parte più autentica di noi –  a dar spessore alle parole. Nelle donne che ho incontrato, l’anima si manifesta attraverso il loro corpo, il loro “esserci” sempre e senza condizioni. La loro totale presenza in tutte le situazioni è il loro linguaggio. La loro viva testimonianza non è fatta di parole, farcite di mistica o di devozione, ma del loro operato, del loro coraggio quotidiano, dei loro gesti amorevoli e di quell’accoglienza gratuita e silenziosa che sanno donare, lasciandosi “abitare” dagli altri».

Venti anni fa e oggi. Come sono cambiate le «tue» suore e cosa ti hanno regalato?
«La maggior parte di loro le ho ritrovate con lo stesso entusiasmo di venti anni fa. L’atteggiamento che non è cambiato è proprio quella forma di condivisione che fa intravedere un futuro migliore. Ritengo ancora più necessario, rispetto agli anni passati, che le porte dei monasteri si aprano, che le finestre si spalanchino verso il mondo, in un positivo contagio con la gente. Le mie amiche suore mi hanno donato il senso della gratuità, la fiducia nell’invisibile e la capacità di reinventarmi la vita anche nelle situazioni più complesse».

Cosa intendi con «la festa dell’anima»?
«La loro dedizione e il loro abbandono totale verso gli altri portano una nota di gioia. Tutte le donne di cui parlo nel mio libro  hanno la capacità di creare, attorno a loro, un’atmosfera di felicità e di armonia che rende accettabile anche il contesto più drammatico. È il mistero della sofferenza che, se accettato e non rifiutato, apre la via della speranza. Il ponte per superare l’odio e la paura è l’amore: esigenza primordiale di tutte le persone e segno distintivo di tutta questa galleria di donne e suore che riescono a ridare fiducia anche alle esistenze più tormentate».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Nel bicchiere di James Bond

Viaggio nel mondo dell’alcol (terza e ultima puntata)

L’alcol è tossico per le cellule. È un agente tumorale. Produce assuefazione e dipendenza. Ha un effetto disinibente, ma porta alla depressione. Non è un alimento, ma fa ingrassare. Non è afrodisiaco, ma al contrario danneggia la sessualità. Non fornisce energia ai muscoli,
né calore. Vale la pena bere alcol?

L’alcol è una droga e come tale è classificato dall’Oms. In quanto droga, nel tempo l’alcol induce assuefazione (quindi bisogna aumentare la dose consumata per ottenere lo stesso effetto) e dipendenza. Secondo l’Oms, in Europa si ha il più elevato consumo di alcol al mondo (il doppio per abitante, rispetto alla media mondiale). Nel continente, l’alcol rappresenta il terzo fattore di rischio per i decessi e per le invalidità ed è il principale fattore di rischio per la salute dei giovani. Sempre in Europa, l’incidenza delle malattie riconducibili al consumo di alcolici è doppia rispetto alla media mondiale.
Dal punto di vista chimico, l’alcol è etanolo (alcol etilico) e presenta una molecola piuttosto piccola (CH3-CH2-OH), molto solubile (sia in acqua che nei lipidi) e capace di penetrare facilmente nei tessuti, entrando rapidamente nel flusso ematico e raggiungendo con esso tutti i distretti corporei. L’etanolo è una sostanza non essenziale per il nostro organismo, anzi estranea al nostro metabolismo (è uno xenobiotico). Esso è tossico per le cellule ed inoltre è un potente agente tumorale. Le bevande alcoliche non possono essere considerate un alimento, perché, oltre all’alcol etilico e all’acqua, contengono vitamine, sali minerali, proteine e zuccheri solo in tracce. L’alcol provoca un danno diretto alle cellule di molti organi, tra cui il fegato ed il sistema nervoso centrale. Pur presentando un elevato potere calorico (7 Kcal/g, inferiore solo ai grassi), l’alcol etilico non può essere utilizzato dall’organismo per fornire energia ai muscoli, ma solo per il metabolismo basale, al posto degli altri principi nutritivi come gli zuccheri ed i grassi (che sono pertanto sottoutilizzati), per cui può essere considerato una delle cause del sovrappeso. Dopo essere stato assunto, l’alcol viene presto assorbito, senza bisogno di digestione, in parte nello stomaco (20%) ed in parte nel duodeno, cioè nel primo tratto dell’intestino tenue (80%), dopodiché passa direttamente in circolo. La velocità di assimilazione è variabile e dipende da vari fattori, tra cui lo stato di replezione (pienezza) dello stomaco: essa aumenta infatti a stomaco vuoto ed inoltre se, contemporaneamente, si assumono bevande gassate, se gli alcolici sono ad alta gradazione ed in caso di gastrite. L’assimilazione è invece più lenta se lo stomaco è pieno e se i cibi ingeriti sono ad alto contenuto di grassi. Una volta assimilato, l’alcol raggiunge tutti i distretti corporei in tempi diversi: in 10-15 minuti raggiunge il fegato, il cervello, il cuore ed i reni; dopo circa un’ora arriva ai muscoli ed al tessuto adiposo, dove tende a concentrarsi.

Il FEGATO E LE SUE «FATICHE» 
In quanto sostanza tossica, l’alcol etilico deve essere metabolizzato dal fegato, per ridue la nocività. Il metabolismo consiste nell’ossidazione completa dell’alcol, che viene trasformato in acetaldeide, grazie all’enzima epatico alcol-deidrogenasi (Adh), per una quota tra il 90%-98%, mentre il resto viene eliminato attraverso l’urina, le feci, il latte materno, il sudore e l’aria espirata. Il fegato è capace di metabolizzare l’alcol in quantità di 7 g/ora, quindi l’alcol in eccesso può continuare a circolare liberamente, andando a danneggiare tutte le cellule, i tessuti e gli organi con cui viene a contatto. L’acetaldeide derivante dall’ossidazione dell’alcol si unisce alla dopamina, formando tetraidrosochinoline, che sono degli oppiacei. Inoltre l’alcol può essere metabolizzato anche da altri enzimi epatici, responsabili del metabolismo di alcuni farmaci. I diversi meccanismi di metabolizzazione dell’alcol entrano in azione in tempi diversi, a seconda della quantità di alcol ingerito, quindi il fegato si abitua a smaltie quantità sempre maggiori (aumento della tolleranza). Tutto ciò non è però privo di conseguenze: in primo luogo il fegato è sottoposto all’azione tossica di sempre maggiori quantità di alcol, che finiranno con il danneggiare le sue cellule, gli epatociti, fino a causare steatosi epatica, epatopatie acute e croniche o cirrosi epatica. Inoltre, può venire accelerato anche il metabolismo di alcuni farmaci (tra cui gli ormoni e le vitamine), di cui è perciò necessario aumentare le dosi, per ottenere lo stesso effetto. I bevitori possono sviluppare delle patologie anche gravi, causate dalla carenza di tali farmaci metabolizzati troppo velocemente (ad esempio, polineuropatie, malnutrizione, problemi sessuali). Come abbiamo visto, dall’ossidazione epatica dell’alcol si formano delle sostanze oppiacee, che al pari dell’eroina, della morfina e del metadone agiscono sul sistema dopaminergico e sul sistema oppioide endogeno, provocando un forte stimolo motivazionale al consumo, per ottenere gratificazione. L’azione di queste sostanze si esplica particolarmente sull’asse ipotalamico-ipofisario, inducendo un’alterata produzione di melatonina, l’ormone del sonno, ed inoltre di ormone adrenocorticotropo (Acth) e di β-endorfine, interferendo quindi su tutti i settori neuroendocrini. Questo spiega la ridotta capacità di fare fronte agli stress, da parte dei forti bevitori, al pari dei consumatori di oppiacei. Inoltre l’alcol, come i barbiturici, fa parte dei depressori non selettivi del sistema nervoso centrale. Si tratta di sostanze capaci di indurre (a dosi crescenti) delle alterazioni comportamentali progressive, che vanno da un effetto ansiolitico e disinibente, ad uno sedativo-ipnotico, fino al coma ed alla morte per depressione dei centri cerebrali regolatori della respirazione e della funzione cardiocircolatoria. Poiché, inoltre, l’alcol stimola la liberazione di dopamina, l’astinenza da esso porta ad una drastica riduzione di tale sostanza, che è associata al piacere ed all’euforia, per cui il soggetto va facilmente incontro ad anedonia (incapacità a provare piacere) ed a disforia (alterazione dell’umore), caratteristiche dell’astinenza da altre sostanze come la morfina, la cocaina, le anfetamine e la nicotina. Si instaura perciò una vera e propria dipendenza fisica, che può portare ad una crisi d’astinenza, con agitazione ed irritabilità. Nei casi di grave intossicazione alcolica, l’improvvisa interruzione dell’uso dell’alcol (come può verificarsi, per esempio, in concomitanza con un ricovero ospedaliero per qualsiasi motivo) può portare a sintomi molto gravi come agitazione, febbre, disidratazione, allucinazioni visive ed uditive, crisi convulsive finanche alla morte nei casi estremi, se la persona non viene trattata con un’adeguata terapia. Questo quadro prende il nome di delirium tremens ed è dovuto al fatto che l’alcol inibisce la normale produzione, da parte dei neuroni, di acido gamma-amino-butirrico o Gaba (sostituendosi ad esso), un potente antagonista dell’adrenalina, che è un neurotrasmettitore ad azione fortemente eccitante. Nel momento in cui si interrompe bruscamente l’assunzione di alcol e mancando contemporaneamente la sintesi del Gaba da parte dei neuroni messi, per così dire, a riposo dall’alcol, l’adrenalina in circolo, non più controllata da alcun antagonista, può svolgere liberamente la sua funzione eccitante, provocando la sintomatologia del delirium tremens. Oltre alla dipendenza fisica, si può instaurare anche una dipendenza psicologica (craving), cioè l’intenso ed irrefrenabile desiderio di assumere bevande alcoliche, per potere provare gli effetti piacevoli, che ne derivano, oppure per allontanare quelli spiacevoli, conseguenti all’astinenza. L’alcolismo provoca alterazioni metaboliche (iperuricemia, ipertrigliceridemia, ipofosfatemia) e l’inibizione del sistema immunitario. Quindi, tra le altre cose, il forte bevitore è una persona che può ammalarsi più facilmente, perché le sue difese risultano indebolite.

TANTE CREDENZE DA SFATARE
Bisogna, tra l’altro sfatare alcune credenze, perché l’eliminazione dell’alcol non è favorita né da una doccia fredda, né dall’attività fisica e nemmeno dall’assunzione di caffè, come molti pensano. Ciò vuole dire che chi svolge attività faticose non elimina più velocemente l’alcol, rispetto ad una persona sedentaria. Ma questi non sono i soli luoghi comuni. Ad esempio, comunemente di pensa che l’alcol favorisca la digestione, ma in realtà la rallenta e causa un alterato svuotamento dello stomaco. Spesso, poi, si sente dire, da chi ama bere, che il vino fa buon sangue, ma il consumo di alcol può essere responsabile dell’insorgenza di varie forme di anemia, come ad esempio quella sideroblastica, caratterizzata da un’alterata produzione dei globuli rossi, come conseguenza della carenza di vitamina B12 o di folati dovuta alla scarsa alimentazione, che spesso è presente nell’alcolista. Inoltre l’alcol diminuisce l’aggregazione piastrinica, quindi fluidifica il sangue ed aumenta il rischio di emorragie e, come già visto sopra, determina un aumento dei grassi nel sangue. Probabilmente, chi pensa che l’alcol faccia buon sangue è indotto in errore dal fatto che le persone dedite al consumo di alcolici spesso presentano il volto rubicondo, per via della vasodilatazione periferica provocata dall’alcol.
Erroneamente qualcuno pensa che l’alcol aiuti a combattere il freddo, ma, come abbiamo già visto esso causa solo vasodilatazione periferica, che dà una temporanea sensazione di calore e che, però, nel contempo porta ad una dispersione del calore interno con raffreddamento del corpo e rischio di assideramento, quando ci si trovi esposti a freddo intenso.
Un altro errore, in cui molti cadono è quello di considerare l’alcol una specie di afrodisiaco capace di favorire le relazioni sessuali. Addirittura, in certe culture, si associa la capacità di reggere bene l’alcol, cioè la tolleranza, ad un’immagine di virilità. Molto spesso anche le pubblicità di alcolici (ed il cinema) trasmettono un’idea di questo tipo: basta pensare a quante volte abbiamo visto immagini di donne affascinate da uomini, che stanno sorseggiando un superalcolico. La realtà, però, è ben diversa. L’alcol, infatti, ha un effetto soprattutto inibitorio sul sistema nervoso ed inoltre il consumo di grandi quantitativi di alcolici compromette severamente tutto il circuito della sessualità, con danni talora permanenti sia nell’uomo che nella donna. Gli uomini, che consumano alcolici in dosi elevate possono infatti andare incontro ad impotenza, sterilità e perdita dei caratteri sessuali secondari maschili (riduzione della peluria e della massa muscolare), rischiando nel contempo di acquisire un carattere di tipo femminile, cioè la ginecomastia, ovvero un abnorme aumento delle mammelle. Le donne invece possono andare incontro a sterilità ed a problemi mestruali. Inoltre non bisogna dimenticare che l’effetto disinibente dell’alcol può portare a trascurare, durante un rapporto sessuale, quelle norme precauzionali, che proteggono dal rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili. Peraltro, sotto l’effetto dell’alcol si ha una diminuzione della percezione del rischio in generale, nonché delle sensazioni di dolore e quindi si tende ad assumere comportamenti, che possono essere dannosi per sé stessi e per gli altri. Inoltre non dimentichiamo che l’effetto disinibente dell’alcol lascia ben presto il posto, dopo un’iniziale euforia, ad uno stato depressivo.
C’è poi chi è convinto che l’alcol possa aiutare in caso di shock, ma anche questo è un errore perché, come già detto, l’alcol provoca la dilatazione dei capillari, determinando un minore afflusso di sangue agli organi interni, tra cui il cervello.
Qualcuno pensa che l’alcol dia forza, ma invece esso attenua solo il senso di affaticamento e di dolore, senza quasi alcun apporto energetico per i muscoli.
Contrariamente a quello che qualcuno pensa, l’alcol non toglie la sete, ma invece tende a disidratare, poiché blocca l’ormone antidiuretico, quindi fa aumentare la diuresi e la sensazione di sete.
Che dire poi del fatto che qualcuno pensa che bere birra aiuti le neo-mamme a fare più latte? Come già detto, bevendo alcolici in gravidanza e durante l’allattamento, l’alcol passa direttamente al bambino, che non ha la possibilità di metabolizzarlo, subendone tutti gli effetti dannosi. Per produrre latte in quantità sufficiente al fabbisogno del bambino basta bere acqua ed avere un’alimentazione nutriente.

Rosanna Novara Topino


Rosanna Novara Topino




Missione una e trina

Mepanhira, Mecanhelas, Entre Lagos: panoramica a volo di uccello

Ero stato nel Niassa un mese dopo l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo, firmato a Roma  il 4 ottobre 1992. Avevo trovato missioni in macerie e gente poverissima, affamata, con vestiti a brandelli… Sono ritornato il giugno scorso: dopo 20 anni, ho trovato comunità rifiorite, come quelle che fanno capo a Mecanhelas, una triplice parrocchia fino a pochi anni fa, ora ridotta a due, ma ricca di iniziative e di speranze.

In viaggio da Gurué a Mecanhelas, accompagnato da mons. Lerma, ci fermiamo nella missione di Mepanhira: una sosta molto breve ma sufficiente per confrontare i cumoli di macerie trovati 20 anni fa con la risurrezione delle numerose opere, per rivivere soprattutto le emozioni provate quando sentii raccontare le sue origini (cfr Missioni Consolata, aprile 1993, pag. 48-51).

Un pezzo di storia… che se ne va
Il primo a portare il vangelo in quella zona era stato un certo Namuro Chipenenga, nato nell’estremo sud del Niassa nel 1888 e morto a Mecanhelas nel 1990, alla bell’età di 102 anni.
Avventuriero, analfabeta e prepotente, cercò fortuna prima in Sudafrica, poi nel Nyassaland (oggi Malawi), dove imparò a leggere e scrivere. Un giorno entrò per curiosare in una chiesa cattolica e rimase folgorato dalle parole del missionario monfortano: si iscrisse al catecumenato e a 35 anni si fece battezzare col nome di Giovanni Battista.
Nel 1933 Giovanni Battista toò al suo villaggio natio e cominciò a insegnare la via del vangelo. L’anno seguente toò in Malawi con 250 catecumeni per farli battezzare nella missione dei monfortani. Estese la sua evangelizzazione ad altri villaggi e ogni anno portava centinaia di catecumeni nel Nyassaland per essere battezzati e confermati nella vita cristiana, finché i padri monfortani, consigliarono a Chipenenga di rivolgersi ai missionari della Consolata, da pochi anni presenti a Massangulo.
E così fece. Tre missionari della Consolata seguirono Chipenenga, che presentò loro 600 catecumeni pronti per il battesimo, cercarono un luogo adatto e si stabilirono nella zona: così nacque Mepanhira. Era l’anno 1938. 
Mepanhira divenne presto il centro propulsore dell’evangelizzazione del sud del Niassa, dando origine a nuove parrocchie, come Mitucue (1939) e Maua (1940), che a loro volta, dopo la II guerra mondiale, diedero vita ad altre fondazioni.
Fiore all’occhiello di Mepanhira fu la nascita delle «Suore dell’Immacolata Concezione», la prima congregazione di suore mozambicane, fondate da padre Oberto Abondio.
Con l’indipendenza del Mozambico (1975), tutta la missione fu nazionalizzata e i missionari cacciati. Trasformata in base militare del Frelimo e gli edifici ridotti a caserme, Mepanhira fu più volte bombardata e saccheggiata dai soldati della Renamo.
Solo Chipenenga, ormai cieco, rimase al suo posto e per 12 anni continuò a rincuorare i cristiani, sfidando le minacce del Frelimo e le pallottole della Renamo, finché un nipote lo portò in salvo a Mecanhelas.
Toata la pace, da Mecanhelas i missionari ripresero la cura delle comunità di Mepanhira e ne fondarono di nuove, restaurarono la chiesa e le altre strutture, e nel 2003 consegnarono la parrocchia al clero locale. «Con un certo rammarico – confessa padre Diamantino principale artefice della risurrezione di Mepanhira quando era parroco di Mecanhelas -. Se ne va così un pezzo della nostra storia, la seconda missione fondata dai missionari della Consolata in Mozambico; ma ne siamo anche felici, poiché il seme gettato in tanti anni di lavoro ha portato frutto, fino alla maturità della Chiesa locale.

Mecanhelas: vulcanica missione
«Anche in questa zona troviamo comunità molto antiche, formate dai nostri primi missionari. È la parte più evangelizzata del Niassa, popolata dall’etnia macua, molto aperta al vangelo, a differenza della popolazione del nord del Niassa in prevalenza musulmana» spiega il confratello colombiano padre Rogelio Alarcón, attuale parroco di Mecanhelas, insieme al portoghese padre José Neves. Entrambi hanno in cura 180 comunità cristiane: 140 formano la parrocchia di Mecanhelas, altre 40 quella di Entre Lagos.
«Il nostro è anzitutto e naturalmente un lavoro pastorale – continua padre Rogelio – di evangelizzazione e servizio sacramentale, visite alle comunità e animazione vocazionale e missionaria, formazione di catechisti, animatori di comunità, operatori ecclesiali: è la cosiddetta chiesa ministeriale, caratteristica in tutto il Mozambico, cioè, una chiesa dove i laici sono chiamati ad assumere e svolgere ruoli importanti nella vita della comunità cristiana».
Alla pastorale religiosa si aggiungono una folta serie di iniziative e progetti di carattere sociale: corsi di risorse umane, doposcuola per alunni in difficoltà, servizi sanitari, laboratori di carpenteria e meccanica, attività agricole e zootecniche…
Fiore all’occhiello della missione è il «Centro nutrizionale padre Ariel Granada», missionario della Consolata ucciso in un’imboscata nel 1991, durante la guerra civile mozambicana. Era stato lui a raccogliere i primi orfani in questo luogo, poi l’opera si è sviluppata e continua in sua memoria. Il Centro accoglie e cura bambini da 0 a 3 anni con seri deficit alimentari, causati da malattie (malaria), parassiti, mancanza di cure dei genitori. Nei casi più gravi si ricorre agli ospedali della zona e del Malawi.
Altra opera importante sono i «lares», case di accoglienza per studenti provenienti da comunità dell’interno che frequentano le scuole secondarie di Mecanhelas, Entre Lagos e altri due grossi villaggi. «Chiediamo loro un contributo in natura (prodotti agricoli) e un minimo in denaro; ma naturalmente non riescono a pagare tutte le spese» spiega padre Rogelio.
«L’ultimo progetto lanciato a Mecanhelas sono i corsi di microinformatica – riprende il missionario -. Iniziati da padre Simon Pedro, stiamo studiando la maniera di migliorarli con computer più modei. Per noi è un impegno gravoso, ma vale la pena. Anche in questo sperduto angolo del mondo l’informatica è indispensabile per chi vuole continuare gli studi o semplicemente trovare un lavoro».

Tito, il capomastro
Mi domando come facciano due soli missionari a portare avanti tante attività. Padre Rogelio mi legge nel pensiero: «La risposta è semplice: coinvolgiamo la gente del luogo e accogliamo laici dall’esterno». Il Centro nutrizionale è affidato a due mamme, coadiuvate da due giovani laiche missionarie portoghesi.
«La scuola d’informatica è nata grazie ad alcuni giovani portoghesi, venuti d’estate a Mecanhelas: hanno insegnato a maneggiare il computer ai coetanei locali, uno dei quali si è specializzato nel centro di formazione della parrocchia di Cuamba e, tornato al paese, è responsabile di tale progetto».
Da 4 anni a Mecanhelas c’è anche Tito Abraão, un laico missionario portoghese, che mi racconta sorridendo la sua storia. Già maturo e affermato capomastro, chiese di diventare fratello missionario della Consolata, ma durante il noviziato in Italia maturò la decisione di rispondere alla vocazione missionaria come laico. Tornato in Portogallo, incontrò il vescovo di Lichinga, Luis Ferreira da Silva, che lo portò nella sua diocesi.
«Ho lavorato per 14 anni con il dom Luis, un sant’uomo che riusciva ad avere aiuti con facilità – racconta Tito -. Abbiamo ricostruito le missioni distrutte dalla guerra, ingrandito la chiesetta di Lichinga facendone una degna cattedrale, costruito il monastero delle suore dell’Immacolata e nuove chiese, una delle quali può contenere più di mille persone sedute».
Tito ha lavorato per due anni anche nella diocesi di Inhambane, dove ha costruito scuole e un centro per la promozione delle donne. Da quattro anni è a Mecanhelas, occupandosi inizialmente di falegnameria, officina meccanica, catechesi e altre faccende. «A Mecanhelas erano sorte oltre 60 chiese e cappelle in varie comunità, con un programma di 8 costruzioni ogni anno, ma ben presto sono andate in rovina, perché fatte in fretta e senza l’esperienza. Ora sono state rifatte più solide e non cadranno facilmente».

Entre lagos: scuola di dialogo
Padre José e padre Rogelio si alternano nel servizio alle comunità della parrocchia di Entre Lagos, ai confini con il Malawi, ma non vi abitano, mancando ancora di strutture adatte. Ci sono invece tre suore brasiliane della Divina Provvidenza, che praticamente suppliscono il parroco in molte attività pastorali, come corsi di formazione e accompagnamento di catechisti, animatori e ministri laici, visite alle varie comunità.
Esse curano anche le opere sociali della parrocchia: seguono le due case di accoglienza per gli studenti, organizzano corsi di arti e mestieri per ragazzi e ragazze, promuovono artigianato e altri progetti di sviluppo.
Alle suore è affidata pure la gestione dei lares per ragazzi e ragazze e il funzionamento dell’Esam (Ensino secundario aberto moçambicano), un grande progetto educativo della diocesi di Lichinga, che ha aiutato tanta gente, soprattutto giovani, ad acquisire una formazione secondaria pre-universitaria. Nata in Malawi per opera dei gesuiti a favore dei rifugiati mozambicani, la scuola è stata adottata dalla diocesi di Lichinga ed è diventato un motore di sviluppo per tutta la regione del Niassa.
«La popolazione di quel luogo è in maggioranza musulmana -spiega padre José Neves, mentre mi accompagna in visita ad alcune comunità di Entre Lagos – ma la chiesa cattolica è molto ben accettata e la popolazione è molto cornoperativa, anche la parte islamica. Qui cristiani e musulmani vivono il dialogo interreligioso, che si traduce in frateità interreligiosa, nella gioia e nel dolore; quando muore un musulmano, per esempio, i cristiani preparano la tomba; viceversa, i musulmani la preparano per i cristiani. Un ambiente di frateità che rende facile la nostra attività.
Abbiamo in cantiere incontri con le autorità tradizionali: regoli, capi, imam e pastori di chiese cristiane, per condividere le idee sull’educazione tradizionale, riti di iniziazione, usi e costumi culturali e morali che hanno bisogno di essere purificati; ma vogliamo farlo attraverso il dialogo e il reciproco rispetto».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi