Lotta di potere tra dame di ferro

Paese in cerca di riconciliazione, a 40 anni dall’indipendenza

Galleggiante sulle acque, ciclicamente afflitto da inondazioni spaventose, con una popolazione di quasi 170 milioni di abitanti su un territorio metà di quello italiano, il Bangladesh è uno dei paesi più poveri del mondo; le ferite ereditate da guerre e lotte per l’indipendenza, dopo 40 anni, stentano a rimarginare; alle tensioni etniche e religiose si aggiunge la ventennale rivalità politica tra due «dame di ferro».

Il 16 dicembre 1971 il Pakistan Orientale, che da lì a poco sarebbe diventato ufficialmente Bangladesh, trovava una difficile indipendenza, alla fine di una guerra breve ma sanguinosa, che doveva segnare non soltanto la neonata patria di 60 milioni di persone, tra le più povere del pianeta, ma anche i rapporti tra i protagonisti del conflitto e dell’intero Subcontinente Indiano.
Nasceva una nazione con forti limiti iniziali. Non solo i rapporti storici e culturali con la confinante India, che dovevano tradursi in un ingombrante protettorato, ma anche la povertà di risorse, la sovrappopolazione, la configurazione territoriale, la collocazione geo-politica…

Pianura galleggiante
Il Bangladesh ha sempre avuto un rapporto problematico con le sue acque, che insieme costituiscono una minaccia, ma anche garantiscono opportunità vitali per i suoi 170 milioni di abitanti concentrati su una superficie inferiore a quella italiana e un territorio generalmente piatto al livello del mare. Un territorio su cui convergono le acque dei fiumi Gange e Brahmaputra prima di gettarsi con la maggiore area deltizia al mondo nel Golfo del Bengala. Alle piene periodiche, sovente eventi disastrosi per l’apertura delle dighe a monte del territorio bengalese, in India, si aggiungono tifoni catastrofici o alte maree eccezionali.
Ora, tuttavia, e sempre più, è anche il progressivo crescere delle acque marine a preoccupare le autorità e le popolazioni costiere. Le statistiche degli ultimi  30 anni segnalano una crescita media delle acque di 5 millimetri l’anno e le proiezioni prospettano un futuro ancora più difficile.
I rifugiati del Bangladesh – in parte eredità del conflitto, in maggioranza migranti economici o veri profughi – in India, sono oggi oltre 10 milioni e crescono al ritmo di molte migliaia l’anno. Un numero di disperati contrastati non solo dal governo indiano, che pretende con provvedimenti repressivi spesso indiscriminati di contenere l’immigrazione illegale, i molteplici traffici frontalieri e l’infiltrazione del terrorismo islamista, che a più riprese in anni recenti ha portato devastanti attacchi in territorio indiano, ma anche dai fondamentalisti indù e dai movimenti che usano l’immigrazione dal Bangladesh come strumento della loro politica secessionista.
Né lingua né etnia distinguono le popolazioni ai due lati del confine e la comune cultura bengalese, quella che ha espresso il premio Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore e quello per l’economia Muhammad Yunus, li avvicina più di quanto la fede li divida.
Tuttavia il flusso di immigrati irregolari dal Bangladesh verso l’India, da un lato, la presenza di almeno 100 mila coltivatori indiani nel lato bangladeshi del confine restano una miccia sempre innescata nei rapporti tra New Delhi e Dhaka.

LE RAGIONI DI UN CONFLITTO
Il 16 dicembre 1971 il corpo di spedizione pachistano dichiarava la resa alle forze congiunte della resistenza bengalese e dell’esercito indiano. Finiva così la guerra d’indipendenza dell’odierno Bangladesh. Un evento traumatico che doveva ridisegnare la fisionomia del Pakistan, ma insieme proiettava nell’incertezza uno dei paesi più poveri e sovrappopolati del mondo.
Per 24 anni questo lembo di territorio nordorientale del Subcontinente Indiano era stato oggetto del destino disegnato a tavolino dai negoziatori britannici che nelle ultime, convulse settimane prima di lasciare al proprio destino la loro «perla» imperiale, incendiata dalle tensioni e divisa territorialmente, avevano delineato confini impossibili, tenendo solo conto della preponderanza religiosa della popolazione.
Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 1947 erano così nati due stati sovrani, l’India a maggioranza indù e il Pakistan a maggioranza musulmana. Un Pakistan però diviso in due tronconi ai due estremi dell’ex colonia indiana: il Pakistan Occidentale, oggi Pakistan, e il Pakistan Orientale, l’attuale Bangladesh.
La regione occidentale era da lungo tempo islamizzata da diverse invasioni fino dal 9° secolo, vicina per lingua e abitudini al mondo mediorientale, iranico e centro-asiatico, con una lingua nazionale, l’urdu, portata dagli immigrati dall’India dopo la separazione, con un ampio vocabolario arabo-persiano e scritta in una versione adattata dell’alfabeto arabo. Una terra, con eccezione di poche aree, caratterizzata da un paesaggio desertico, semi-arido o montuoso.
Il Pakistan Orientale è stata antica terra di diffusione buddista, prima di essere induista e poi, dal 14° secolo, diventare in maggioranza musulmana. L’acqua è la sua benedizione e la sua condanna, l’elemento che ha plasmato la sua gente, le attività economiche, la cultura.
Con l’indipendenza le regioni del Pakistan Orientale avevano perso, perché annesso allo Stato indiano del Bengala Occidentale, il suo centro più prestigioso e grande fucina culturale, Calcutta, e all’India erano rimaste anche le fabbriche dove confluiva la juta, maggiore risorsa delle aree oggi in Bangladesh.
Inevitabilmente, il peso demografico, geografico, strategico ed economico del lontano Occidente doveva diventare un elemento di rottura, alimentato dall’intransigenza dei governi del Pakistan, insediati prima a Karachi e poi a Islamabad. Passata l’euforia dell’indipendenza e dell’acquisizione di una identità distinta dall’India sì, ma altrettanto duale all’interno del nuovo Stato, con i primi sintomi di insofferenza le regioni orientali diventarono di fatto colonie su cui imporre leggi e scelte elaborate a 1.600 chilometri di distanza.

LA GUERRA
Nel giro di qualche anno l’insofferenza doveva diventare rabbia e richiesta di autodeterminazione. Il movimento di protesta dalle molte anime, tra cui quella marxista e quella nazionalista, trovò espressione a partire dal 3 marzo 1971 nelle manifestazioni guidate da Sheikh Mujibur Rahman. Settori locali delle forze armate come pure pubblici dipendenti si unirono al movimento che crebbe di forza e consistenza nelle settimane successive, sottoposto a pressioni e poi ad aperta repressione dal 25 marzo, quando l’esercito intervenne, per ordine del presidente-generale Yahya Khan, per riprendere il controllo della capitale.
La dichiarazione d’indipendenza, letta il 27 marzo nella città di Chittagong dal maggiore Ziaur Rahman, e la contemporanea proclamazione della nascita dell’Esercito di liberazione del Bangladesh, rappresentarono l’avvio del vero movimento di liberazione. Nei mesi successivi, defezioni dall’esercito regolare e una crescente partecipazione di civili metteranno in grado il Mukti Bahini, il movimento di guerriglia che associava le varie «anime» della resistenza, di confrontarsi con una repressione durissima, fino a quando l’India, che per ordine di Indira Gandhi già aveva infiltrato spie e armi, non dichiarerà apertamente il proprio intervento a sostegno dei bengalesi e delle proprie esigenze strategiche verso l’avversario pachistano, determinando l’andamento del conflitto.

PROSPETTIVE, SVILUPPO  E RICONCILIAZIONE
In sintesi, natura e storia recente contribuiscono a rendere il Bangladesh una realtà instabile che fatica a trovare un proprio equilibrio. Alla fine, anche nazionalismo e repressione non convincono ad allinearsi dietro una leadership velleitaria spesso corrotta, sovente repressiva. Alla guida, dopo la dura esperienza semi-dittatoriale di Muhammad Ershad dal 1981 al 1990, una classe politica litigiosa che ruota attorno a due donne: Sheikh Hasina, attuale primo ministro, figlia di Mujibur Rahman, a capo della Lega Awami, e Khaleda Zia, vedova del primo presidente del Bangladesh, Ziaur Rahman e leader del Partito nazionalista del Bangladesh. Una battaglia senza esclusione di colpi la loro, combattuta non solo dalle tribune elettorali o dai banchi parlamentari, ma anche nei tribunali e nelle piazze con scontri sanguinosi tra i loro sostenitori, a volte, anche se per periodi brevi, da dietro le sbarre di una prigione.
La domanda che sale più spesso dalla società civile è: quale paese ci avete dato dopo una guerra di liberazione che tutti hanno pagato a caro prezzo? Almeno l’80% dei bangladeshi sono poveri, speranza di vita e reddito sono tra i più bassi al mondo; libertà civili e democrazia vedono seri limiti. «C’è da chiedersi – dice la docente di storia e studiosa delle ripercussioni sociali dei confitti Yasmin Saikia, originaria del Bangladesh – su che cosa basi la pretesa di guidare il paese la leadership attuale, che si propone come erede dell’esperienza della guerra di liberazione. Troppi servono i propri movimenti politici e non la popolazione che resta divisa per origine e opportunità».
«Oggi – dice ancora la dottoressa Saikia – davanti a una storiografia ufficiale che continua a parlare di eroi, di personaggi eccezionali e non della gente comune che la guerra ha vissuto e sofferto, la popolazione non è incoraggiata a evolversi verso un dialogo reale tra le parti intee e con gli altri paesi del conflitto per puntare alla riconciliazione».
La recente ondata di arresti e di incriminazioni per crimini di guerra di esponenti della politica islamista radicale, personaggi non a caso all’opposizione nel Parlamento, ha più il sapore della vendetta che della giustizia.
Il Tribunale per i crimini inteazionali creato nel 2010 dal governo con l’intento di giudicare i leader collaborazionisti con il Pakistan Occidentale, ha finora sollevato più critiche che entusiasmo, non avendo alcuna legittimazione internazionale, che il Bangladesh non ha cercato.
Quello che la storia non racconta, in un difficile bilanciamento tra i massacri descritti con dovizia sui libri di testo e la realtà che fu di sofferenza di più popoli, è una verità che va emergendo oggi, a quattro decadi di distanza. A chiederla, la storia e le società civili dei paesi coinvolti nel conflitto: a portarlo avanti, in modo non sempre specchiato, le autorità che hanno riscoperto come sofferenze antiche e antichi rancori possano oggi coprire mancanze e promesse tradite.
Come sottolineato da Taslima Nasreen, la più conosciuta scrittrice del Bangladesh, in esilio perché minacciata di morte dai fondamentalisti islamici nel suo paese, «forse per i ricercatori inteazionali, il Bangladesh non è importante. Tuttavia, i cittadini del mio paese hanno ora la possibilità di diventare liberi pensatori, devono trovare il coraggio e l’orgoglio di condividere le proprie vicende passate con il mondo».

FEDI E CHIESA
In Bangladesh su una popolazione di circa 170 milioni di cittadini, i musulmani sono oltre l’85%, gli indù il 10%, i buddisti lo 0,6%, i cristiani lo 0,3%. Come nella confinante India, le problematiche delle fedi minoritarie si intrecciano con quella delle etnie meno favorite dalla storia e dal numero. Le minoranze, e fra esse gruppi consistenti come Oraon e Santal, non essendo contemplate e garantite in alcun modo dalla Costituzione, hanno scarse possibilità di sviluppo ed emancipazione.
La Chiesa denuncia da tempo come i loro diritti siano negati e calpestati. In gran numero e in modo sovente ignorato subiscono quotidiane discriminazioni, abusi e violenze da parte dei connazionali di fede musulmana, maggioritaria nel paese, nel disinteresse se non con la complicità di funzionari di polizia, pubblica amministrazione e magistratura.
Secondo un rapporto di qualche tempo fa, in parte diffuso dall’Agenzia Fides, le minoranze «sono spesso defraudate indebitamente della terra che hanno coltivato o delle case che hanno abitato per secoli; le donne subiscono stupri, sequestri, conversioni e matrimoni forzati; i cittadini non musulmani sono discriminati nella ricerca di lavoro e nell’istruzione. Vi sono violazioni aperte e continue dei diritti umani fondamentali, senza che nessuno intervenga».
Proprio perché tra le minoranze la Chiesa locale, e per molti decenni a partire dalla fine dell’Ottocento la missione ad gentes, ha lavorato non solo in termini di evangelizzazione ma anche e soprattutto di promozione umana, esse sono al centro delle molte iniziative di sostegno alla ricerca di giustizia e dignità. Come Hotline Human Rights Bangladesh, creata con il sostegno della Commissione Giustizia e Pace dei vescovi del paese, per monitorare il rispetto dei diritti umani; oppure di azione concreta sul territorio come il Resource Centre for Christian Youth in Bangladesh, attiva tra i gruppi etnici e le comunità indù, buddista e cristiana.

Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




Speranza senza confini

Reportage dalle missioni della Rift Valley: Heka (2)

Diceva Nyerere: «L’istruzione non è un modo per sfuggire alla povertà, ma uno strumento per combatterla». Un sogno rimasto nel cassetto in molte zone del Tanzania, ma non ad Heka, dove i missionari della Consolata lo hanno preso sul serio, dedicando energie fisiche e materiali alla scolarizzazione a cominciare dai più piccoli con la costruzione di asili nella maggior parte delle comunità della parrocchia.

DESERTO ON THE ROAD FINO Ad HEKA
Nell’auto guidata dal diacono Marco Turra, continuo il mio viaggio nel cuore della Rift Valley. Un paesaggio piegato dalla siccità. Scheletri di capanne abbandonate nella sabbia; bambini che pascolano mucche scheletriche. Il vento caldo continua ad abbronzarmi il viso, ormai bruciato da un sole implacabile. Attraversiamo villaggi stremati dal caldo e dalla siccità.
Nonostante il sole sia alto, gruppi di donne con i bambini sulla schiena avvolti nelle kange continuano con metodi arcaici a zappare i campi e a piantare nella speranza che prima o poi arrivi la pioggia. Il detto «la speranza è l’ultima a morire» sarà stato coniato qui. Ci avviciniamo a una pozzanghera che ha riempito un enorme buco nella strada, Marco rallenta e davanti ai nostri occhi un uomo con una tazza riempie un secchio di quell’acqua nera, melmosa, sporca. Alzo la macchinetta e capisco che non ha problemi a farsi fotografare ma il suo sguardo mi ghiaccia il cuore.
Dopo svariate ore arriviamo alla missione di Heka. C’è padre Saverio Diaz ad accoglierci e a offrirci subito da bere. Conosce bene l’effetto del caldo di questi posti. Colombiano, dai modi eleganti, inizia a rispondere alle mie domande con grande discrezione. «Sono stato tanti anni in Colombia. Dopo il 25° anno di sacerdozio ho chiesto di voler andare in missione in un altro continente e così mi hanno mandato in Tanzania. Ad Heka siamo in due: il kenyano Steven Muta e io. Le difficoltà del posto le avrai già capite. L’acqua è davvero un dramma. Abbiamo scavato qualche pozzo ma non basta. Siamo impegnati nella formazione per lo sviluppo di questa zona e della gente attraverso la costruzione di asili, il sostegno e la formazione dei maestri e andiamo a insegnare nelle scuole secondarie perché qui non ci sono nemmeno maestri. Padre Steven infatti insegna oltre che religione anche matematica nelle secondarie per sopperire alla mancanza di insegnanti. Abbiamo 22 asili nei villaggi vicini alla missione. Ciascun asilo ha dai trenta ai centoventi bambini. Il mio obiettivo è costruire asili a dimensione del posto. Qui non si può pensare di fare grandi strutture con costi di gestione enormi. Bisogna ottimizzare e fare strutture semplici, di mattoni non cotti che fanno da asilo durante la settimana e da Chiesa la domenica. Sono strutture che loro possono gestire e mantenere. Io ho sempre puntato sulla collaborazione della gente. Avete bisogno di un asilo?
I genitori portano sabbia, acqua, mattoni, il resto lo mettiamo noi attraverso i nostri benefattori. L’asilo riesce quasi sempre a mantenersi. I genitori pagano 1000 scellini al mese, 6 euro l’anno, per coprire le spese del cibo mentre lo stipendio per la maestra e le divise per i bambini li paghiamo noi. Organizziamo dei seminari di formazione per la gente, per i giovani e per le maestre che di solito vengono scelte dal villaggio quindi non hanno una grande formazione».

GLI ASILI DI PADRE DIAZ
Partiamo alla volta degli asili e ci immergiamo nel bush. Chilometri di terra battuta in un paesaggio che sembra abbandonato quando di colpo spunta un asilo. Ne vedrò diversi. La struttura è simile per tutti: funzionali, colorati, ben tenuti e accoglienti. I bambini sono visibilmente provati dalla fame, ma menomale che almeno qui riescono a mangiare. Padre Saverio mi fa vedere anche una scuola primaria governativa.
«Dicono che hanno speso 6 milioni di scellini per fare i gabinetti. Con quella somma io ci faccio una scuola di mattoni e cemento» precisa il missionario. Arriviamo all’ora dell’uju. Una fila lunghissima di ragazzi aspetta il proprio tuo con la tazza in mano per prendere la razione che gli spetta. Sono davvero tanti. La scuola è semplice, ma piccola per quella moltitudine di ragazzi.
Accanto ad alcuni lotti di terreno padre Saverio mi mostra le aule che sta costruendo proprio perché la scuola è piccola. Andremo a vedere anche un’altra scuola in costruzione finanziata dal S.O.S. di Padova che oltre a finanziare circa 70 borse di studio per ragazzi, sta aiutando nelle costruzioni. Conoscerò un missionario davvero capace di amministrare alla grande quei soldi che per una zona simile sono sempre troppo pochi.
Toiamo alla sede della missione prima che i bambini dell’asilo parrocchiale vadano a casa. Scendo dal fuoristrada che sono letteralmente assaltata da un centinaio di bambini bellissimi che mi vengono incontro, abbracciandomi e prendendomi la mano. Si vede che sono abituati a vedere i volontari. Per niente spaventati come i bambini dei villaggi, iniziano a cantare, a salutarmi in italiano e in inglese.
La scuola è ben tenuta, le maestre sono accoglienti e capaci. Disegni di animali e di fiori avvolgono le pareti estee e intee della scuola. C’è davvero poca differenza con i nostri asili.
Nella missione c’è anche un dispensario costruito e tuttora sostenuto dalla famiglia di Vittorio Bosco di Torino. Il dispensario è gestito dalle suore. È poco frequentato in questo tempo. Una suora mi spiega che tra le malattie maggiormente diffuse ci sono la malaria, infezioni intestinali e infezioni alla pelle dovute alla mancanza di acqua e di igiene. L’aids poi è ormai estremamente diffusa anche qui. Infatti hanno delle stanze apposite per la prevenzione, analisi e terapia dell’aids.
Toiamo nella casa parrocchiale e continuiamo a parlare, mentre aspettiamo che torni padre Steven da scuola per far pranzo.

ASCOLTANDO PADRE DIAZ
Padre Saverio è un profondo conoscitore delle varie etnie del Tanzania. Mi conferma molte cose già dette da altri missionari sui wasukuma e sui wagogo, come il loro perseverare nel vivere in maniera povera e senza migliorare le proprie condizioni di vita e delle case. La motivazione di ciò è dovuta alla loro superstizione: sono convinti che il male viene dall’invidia. Mi racconta la storia di un ragazzo che lui aveva aiutato per continuare gli studi. «Era diventato un bravo falegname e aveva iniziato a lavorare, riuscendo a mettere da parte anche qualche soldo. A un certo punto questo ragazzo si ammala di tumore e muore. Sono andato dalla famiglia dicendo loro che con i soldi che il ragazzo aveva messo da parte, volevo costruire una casa in cemento per loro. I parenti si sono opposti con resistenza per paura che migliorare la loro condizione, potesse portare la gente a ingelosirsi e a fare malefici. Ho comunque costruito la casa per reinvestire al meglio i soldi del ragazzo e la nonna e il resto della famiglia per più di un anno non sono entrati nella casa, rimanevano fuori durante il giorno e la notte tornavano nelle loro capanne per paura della sciagura che poteva abbattersi su di loro».

UNA NUVOLA DI POLVERE
Vedo arrivare una nuvola di polvere… sembra quasi un cartone animato. È padre Steven in moto, di ritorno dalle sue ore di insegnamento ai ragazzi di una scuola superiore. Dopo pranzo mi soffermerò a parlare con lui. Sono solo due i missionari ad Heka. Padre Steven oltre a occuparsi dell’amministrazione della missione, fa catechesi e organizza seminari per i giovani della zona, prepara i catechisti, fa pastorale e segue le jumuiya ndogo ndogo, ossia le piccole comunità di base. Mi ripete gli stessi problemi che ho toccato con mano anch’io.
Con padre Steven c’è un ragazzo, ventenne: Novastus. È un giovane che insegna matematica nelle secondarie. Viene da Sadani, una zona nella diocesi di Iringa, dove i missionari della Consolata hanno una missione. «Ho conosciuto i missionari della Consolata durante la scuola secondaria – racconta -. Quello che mi ha colpito da subito di loro è stato il sacrificio e la capacità di mettere insieme persone di culture diverse con professionalità e stile. Io provengo da una famiglia povera e ho avuto la fortuna di incontrare i missionari della Consolata che mi hanno aiutato non solo a studiare ma anche a crescere, a capire cosa volevo fare, come farlo e chi volevo diventare da grande. Sto bene con loro e vorrei continuare a seguirli proprio per apprendere il loro modo di stare con e in mezzo alle persone».
Chiedo a Novastus come vede il suo paese e cosa possono ancora fare i missionari della Consolata in Tanzania. «C’è uno sviluppo economico molto veloce in Tanzania, che però non va di pari passo con quello sociale. Dal punto di vista politico sembra che qualcosa possa migliorare, quindi anche le politiche sociali e assistenziali. Dovrebbe esserci una struttura che controlli bene le risorse che vengono spese nella formazione di maestri e di studenti, perché le differenze tra le zone sono enormi. Pensa alla diversità tra la regione di Iringa e questa. Tanti soldi vengono investiti male, per non dire che finiscono nelle mani di gente che non pensa allo sviluppo culturale, sociale e sanitario. I missionari possono continuare ad aiutarci solo investendo nella formazione: dall’asilo all’università. Solo la formazione culturale può sviluppare e migliorare la realtà. E se tu entri in un asilo o in una scuola dei missionari della Consolata capisci quest’attenzione globale alla persona».
Prima di ripartire per Sanza padre Saverio mi fa vedere la chiesa nuova che hanno finito da poco. Passiamo prima davanti a quella vecchia che è stata sostituita perché troppo piccola.
Entro nella nuova chiesa: è semplice ma elegante, proprio come padre Diaz che è un grande artista. I disegni originali e i mosaici sono opera sua come le modifiche alla struttura tecnica della chiesa per via del caldo. L’anima sudamericana si fonde con il ritmo africano e il risultato è spettacolare.

Romina Remigio

Romina Remigio




Sangue e orgoglio

Reportage dal cuore delle rivolta

La rivoluzione egiziana compie un anno. Ma il regime in carica sembra aver cambiato solo la testa. Le elezioni sono vinte dai Fratelli Musulmani.
Ora si attende il passaggio di potere ai civili e  le prossime mosse del nuovo governo.

Egitto, venerdì 18 novembre. Milioni di persone affollano le piazze, colorandole di bandiere rosso-nere e bianche: «Via il regime militare. Vogliamo la democrazia e la libertà», è il mo-nito lanciato dagli egiziani, che danno vita a una protesta pacifica, rispondendo all’appello del movimento dei Fratelli Musulmani (Fm), uno degli attori politici più significativi nel nuovo «risveglio arabo». Non ci sono né morti né feriti, quel giorno. Il successo di pubblico è enorme. I giornali arabi escono con foto di piazze gremite e con articoli a tutta pagina. Parlano di regia dei Fm e della presenza dei salafiti. I due gruppi islamisti, con ideolo-gie e basi sociali molto differenti, si contendono la scena egiziana.
Il giorno dopo, invece, le piazze si tingono di rosso sangue: la polizia carica la folla e provoca 600 feriti.
Il Cairo, 20 novembre, ore 9. Oltrepassiamo Qasr el-Nil e ci dirigiamo verso una delle più famose piazze del mondo: Midan Tahrir, al centro, nel gennaio del 2011, di manifestazioni contro il trentennale regime del dittatore Hosni Mubarak, dimessosi poi l’11 febbraio.
Al centro della piazza si trova una grande rotonda spartitraffico; a Nord Est, è visibile la statua di Omar Makram, eroe nazionale che combatté contro Napoleone. Nell’area ci sono anche il famosissimo museo Egizio, il quartier generale della Lega Araba e altri importanti edifici.
Man mano che ci avviciniamo, la strada si riempie di gente. Prima di entrare nella piazza, siamo fermati a un posto di blocco volante, allestito dai manifestanti per tentare di evitare l’infiltrazione di spie, provocatori, «servizi» vari.
All’interno dell’enorme piazza ci sono già migliaia di persone, soprattutto giovani. Spieghiamo che siamo giornalisti italiani e che vogliamo registrare la manifestazione. Sembrano contenti: un simpatico adolescente si offre di accompagnarci. Questo ci permette di andare in giro con tranquillità, senza destare sospetti (stranieri che fotografano in un luogo come questo potrebbero essere solo giornalisti o spie). In generale, sono contenti che la loro lotta di liberazione riceva attenzione.

Rivolta popolare
Il cielo grigio-smog del Cairo sovrasta case, alberi e persone, dando un senso di immaninza e pericolo a tutte le azioni che si compiono. La piazza si riempie di manifestanti che giungono da tutti i quartieri della capitale, e anche da fuori. Giovani e vecchi si ritrovano per strada, si salutano, si sorridono, discutono, si organizzano. La lotta contro il regime militare ha coalizzato gran parte degli egiziani, soprattutto le classi popolari e medie, gli studenti, gli intellettuali.
Con il passare dei minuti, il clima diventa sempre più pesante, e non solo per il devastante inquinamento. Le facce sono tese: l’esercito e la polizia sono pronte ad attaccare i manifestanti. I ragazzi, cellulare all’orecchio, chiamano a raccolta i loro amici o raccontano la cro-naca momento per momento a chi sta «postando» notizie sulle pagine di Facebook, o su Twit-ter. Sono i social network che hanno fatto conoscere a tutto il mondo le «primavere arabe», scoppiate a dicembre del 2010 con la rivolta in Tunisia e seguite da Egitto e altri paesi.
Tra un lampione e l’altro sventolano bandiere egiziane di questo o quel partito, di sindacati, di gruppi giovanili. Per terra, sono ancora visibili i segni di altre manifestazioni.
Qua e là, venditori ambulanti offrono maschere anti-gas. Ce ne sarà presto bisogno. Dietro Midan Tahrir, verso via Mohammed Mahmoud, i militari stanno facendo un pesante uso di lacrimogeni, e il fumo avvolge ormai tutta l’area. Una moltitudine inizia a dirigersi verso il punto di «contatto» con esercito e polizia, mentre un corteo sta già sfilando in una via laterale urlando slogan. Le forze di polizia attaccano la folla, si inizia a correre per trovare riparo.
Questa è la realtà quasi quotidiana del Cairo e dell’Egitto tutto.

A quando il cambiamento?
La rivoluzione del 25 gennaio 2011 ha solo «tagliato la testa» al regime, senza sconfiggerlo. Il «corpo» è rimasto intatto, o quasi, e si è rafforzato. La nomenklatura militare ha il con-trollo dei settori più importanti della società: mediatico, politico ed economico.
La gente continua a manifestare, a morire nelle piazze, a sparire nelle prigioni, ad essere ferita, torturata, ma non cede: è una resistenza popolare determinata al cambiamento, questa volta definitivo. Questo ci spiegano le persone con le quali parliamo.
«Non sappiamo come andrà a finire – ci dice un manifestante -. Il regime non molla, ma neanche noi. Da gennaio (2011, ndr) è cambiata solo la facciata, il resto è uguale, con qualche lieve miglioramento».
Il 25 novembre ci rechiamo nuovamente in piazza Tahrir. La piazza è piena di gente, di famiglie con bambini, di ragazzini: è il nuovo Egitto che vuole nascere e vivere, senza più paura di repressioni e torture. Bancarelle sparse qua e là vendono «souvenir» della rivoluzione: bandiere, T-shirt, cappelli, spille, le consuete maschere anti-gas, kefiah, e ogni sorta di gadget che ricordi il «25 gennaio 2011». E non mancano i carretti con cibo e bevande.
Seduta per terra, contro un furgone, una mamma in hijab (velo islamico) e fascia tricolore egiziana, tiene in braccio un bimbo di pochi mesi, mentre vende braccialetti e altri oggetti. Poco dopo arriva il marito, e ci spiega che loro sono lì, tutti e tre, da mesi, per partecipare alla rivolta contro il regime (di Mubarak prima e militare dopo).
Altri ragazzi si lasciano fotografare davanti alle tende dei sit-in permanenti; altri, mentre suonano e chiacchierano su tappeti. Altri ancora sono arrampicati su pali della luce o sui leoni con occhi bendati del ponte di Qasr el-Nil, divenuti simbolo del «Leone d’Egitto» accecato e uscito di scena (Mubarak).
È la vita quotidiana che è scesa in piazza, per chiedere giustizia e libertà, come recita il nome del partito che uscirà vincente dalle elezioni parlamentari.

Avanti, a oltranza
Ci avviciniamo a un’area «calda» della piazza, dove, più tardi, sarebbero scoppiati altri scontri tra dimostranti ed esercito, e veniamo bloccati a un «check-point» popolare: sono ragazzi e ragazze cordiali e pronti a dare spiegazioni sugli eventi in corso e i problemi che attraversa l’Egitto. Uno di loro, Mustafa, un giovane ingegnere e «generale del gruppo rivoluzionario», ci racconta: «I militari se ne devono andare. Siamo noi a dare ordini a loro: andatevene, diciamo. Non sappiamo cosa succederà nei prossimi mesi, ma abbiamo diversi piani. Quando arriveranno, li affronteremo a mani nude. Siamo a un punto di non ritorno: andremo avanti fino alla morte, se sarà necessario».
Ahmed è uno dei tanti manifestanti adulti. È un commerciante, e membro dei Fratelli Musulmani. Tutti i giorni partecipa alle proteste popolari: «La gente è contro l’esercito. Ci sono stati troppi morti e troppi feriti. Non possono continuare a spararci addosso. Hanno usato persino il gas nervino.
I Fratelli Musulmani, come organizzazione, sono andati poco in piazza, perché temono la presenza di infiltrati, di provocatori, persone ignoranti, sostenitori di Mubarak. Questi ultimi sono ben conosciuti dalla polizia, che li usa. Collaborano, creano disordini e foiscono alle forze militari il pretesto per attaccare la folla che manifesta. Ci sono egiziani al soldo di Israele e degli Stati Uniti. Il regime israeliano ha paura del movimento dei Fm, perché sa che se questo vincerà le elezioni, i rapporti cambieranno a favore dei palestinesi.
La popolazione aspetta un nuovo governo, democratico, giusto, che cambi tutto il sistema malato egiziano, e che tronchi i rapporti con Israele».

Ancora violenza
La settimana che va dal 18 al 25 novembre è contrassegnata da un bilancio di vittime della violenza di stato molto alto: 40 morti e migliaia di feriti.
Il 21, il movimento dei Fratelli Musulmani, che si presenta alle elezioni con il Partito «Freedom and Justice, Fjp» (Giustizia e Libertà), diffonde un comunicato stampa in cui critica lo Scaf (Supremo consiglio delle forze armate egiziane) per gli «eventi di sangue», e chiede l’apertura di un’inchiesta, le dimissioni del governo militare, leggi anticorruzione, il passaggio dei poteri a un’amministrazione civile entro la metà del 2012.
Mentre sono in corso le elezioni parlamentari, ripartite in tre tui, e iniziate il 28 novembre, proseguono le manifestazioni e la repressione da parte dell’esercito. Uno degli episodi che fa il giro del mondo, grazie al video diffuso via Inteet è quello del 17 dicembre, quando una giovane donna viene brutalmente picchiata dalla polizia, in piazza Tahrir.
Anche il mese di dicembre è contrassegnato da scontri e vittime. Nonostante l’evidente ri-chiesta popolare di libertà e giustizia, il regime militare non molla le redini del potere, e continua a reprimere i manifestanti.

Fratelli vittoriosi
Domenica 14 gennaio è l’ultima giornata elettorale: i Fratelli Musulmani, con il loro Fjp ottengono il 46% dei seggi parlamentari. Di fatto sono il partito più forte dello schieramento politico egiziano. Il 16, il partito annuncia la nomina del proprio segretario generale, Mohamed Saad al-Katany, come candidato alla presidenza del nuovo parlamento egiziano, che viene eletto all’apertura dei lavori il 23 gennaio.
I due vice-presidenti apparterranno agli altri due schieramenti che hanno ottenuto i maggiori risultati: il salafita «Nour Party» (il Partito della Luce), e il liberale «Wafd».
I leader del Fjp ribadiscono l’impegno a raggiungere gli obiettivi della rivoluzione.
In un articolo pubblicato dal quotidiano «Al Masry al Youm» il 16 gennaio, Katany afferma:
«La priorità di questo parlamento saranno i diritti dei martiri e dei feriti della rivoluzione. Il parlamento lavorerà per andare incontro alle aspirazioni della rivoluzione sia a livello legislativo sia di controllo. Il parlamento non escluderà alcun partito, al di là della sua rappresentatività (…). È tempo di accordi, non di competizione».
Lo stesso segretario generale aggiunge che il parlamento collaborerà sia con lo Scaf sia con il governo del primo ministro Kamal al-Ganzouri, fino a che il potere passerà nelle mani di un governo eletto.
Secondo quanto prevede l’agenda stabilita dal regime militare, ciò dovrebbe accadere a lu-glio. Mercoledì 25 gennaio, primo anniversario della Rivoluzione, migliaia di cittadini si danno appuntamento a piazza Tahrir, per chiedere la fine della giunta militare e il passaggio a un governo civile.
La folla intona slogan contro i leader militari e sventolano striscioni contro il regime instauratosi dopo la caduta di Mubarak. Due giorni prima, Tantawi aveva annunciato la parziale rimozione dello stato di emergenza, in vigore da decenni nel Paese. La decisione è parsa più un tentativo di blandire il popolo egiziano e di impedire nuove manifestazioni, che un vero e proprio cambiamento di direzione.
La rivoluzione del 25 gennaio e la caduta di Mubarak avevano scatenato grandi speranze e aspettative, che sono andate deluse: lo Scaf occupa con la forza e la repressione il trono lasciato libero dal «Faraone». Le recenti elezioni parlamentari, che hanno dato la vittoria ai movimenti islamici, e le manifestazioni di piazza che non s’arrestano, sono un chiaro messaggio alla giunta militare: «Andatevene!». Resta da vedere se l’esercito, abituato a governare l’Egitto da molti decenni, lascerà ai civili tutti i poteri come aveva promesso un anno fa. E se i Fratelli Musulmani sapranno mantenere le promesse di cambiamento, giustizia sociale ed economica, democrazia e libertà.

Angela Lano

Angela Lano




La terra contesa

Conversazione con padre José Auletta

Un’ora di dialogo, 35 anni di esperienza missionaria, e di storia Argentina. Sullo sfondo, senza tempo, la maternità (ferita) della Terra, il ventre da cui nascono quei popoli indigeni con i quali padre José Auletta vive e lotta da sempre.

Seduto al bar dell’aeroporto di Jujui di fronte a una tazzina di caffè. Tra le dita una bustina di zucchero «Chango», quello prodotto dall’industria agroalimentare contro cui padre José stava lottando insieme alla comunità indigena del Rio Branco banda sur per farle riconoscere il suo diritto alla terra ancestrale. Gli occhi lucidi di commozione per la nostra partenza che sarebbe avvenuta da lì a poche decine di minuti. Il missionario dalle parole e dai gesti chiari (e duri) in favore dei poveri e capace di parole e gesti altrettanto chiari in favore dell’amicizia, ci ha lasciato questa immagine di sé tra quelle più vivide del nostro soggiorno di qualche tempo fa presso di lui nel Nord dell’Argentina.

Ne sentiamo la voce risuonare nei corridoi della redazione e lo vediamo comparire con il suo sorriso che non nasconde mai un pizzico di ironia.

Non è cambiato nell’aspetto: nonostante ci parli di qualche acciacco, e dello stress degli ultimi mesi di intenso lavoro, ci sembra in forma. Come sempre, quando saluta una persona – che abbia 3 o 93 anni – si avvicina, ci abbraccia calorosamente, ci prende il viso tra le mani chiedendo come stiamo. Noi ne approfittiamo subito per farci raccontare qualche sua impressione sul suo paese d’adozione, sul suo lavoro.

Dal ’76 dei Generali all ’11 dei Kirchner

Padre Giuseppe Auletta, Pino per noi, José per la sua gente argentina, originario di Calciano, in provincia di Matera, è arrivato in Argentina nel 1976, tre anni dopo la sua ordinazione sacerdotale, otto mesi dopo l’inizio, il 24 marzo, della dittatura militare. In trentacinque anni di missione nel paese della Boca e del tango ha assistito ai suoi grandi cambiamenti: «Sono arrivato senza neppure sapere cosa stesse succedendo. Man mano che sono venuto a conoscenza della situazione ho compreso meglio la sofferenza del popolo, della nazione e tutto lo sforzo che si è fatto per tornare al regime democratico alla fine del 1983».

Padre José assume un tono vagamente didattico mentre parla del difficile cammino della democrazia in Argentina: «Ho visto come il paese cominciava a riprendersi, innanzitutto in quanto popolo, secondariamente dal punto di vista economico. Ci sono stati alti e bassi, c’è stato il grande inganno della parità dollaro-peso con la presidenza di Saul Carlos Menem negli anni ‘90: un sistema monetario che alla lunga ha portato alla crisi del 2001-2002. Quelli sono stati anni molto critici non solo dal punto di vista economico, ma anche della stabilità democratica. Grazie a Dio anche quella fase è stata superata, e ora siamo nell’epoca Kirchner, prima con Nestor, e adesso con Cristina».

Un guizzo improvviso nello sguardo del missionario e un leggero cambio di registro nella sua voce ci fa intuire il tema sul quale vuole proseguire la sua breve carrellata dei grandi cambiamenti avvenuti nella società argentina degli ultimi trentacinque anni: «C’è da registrare un avvenimento molto importante collocato nell’estate del 1994: l’Argentina ha rinnovato la sua Costituzione riconoscendo, finalmente, i diritti dei popoli indigeni. Ci vuole ancora un lungo cammino perché dalle parole scritte si passi a un riconoscimento effettivo dei loro diritti, però intanto un passo significativo è stato fatto. Il 12 agosto del 1994 è stata approvata la nuova Carta fondamentale, e proprio negli ultimi giorni precedenti quella data, dopo un confronto con diversi gruppi etnici, è stato approvato l’inciso – non un articolo, ma un inciso – 17 dell’articolo 75 che riconosce i popoli indigeni come popoli originari con diritto alla terra, alla propria educazione, alla propria organizzazione e con diritto ad essere consultati quando i loro interessi si vedessero messi in discussione».

Tra populismo, crisi ambientale e multinazionali

Conosciamo bene l’amore del missionario lucano per i popoli indigeni e sappiamo che il tempo a nostra disposizione potrebbe facilmente trascorrere parlando esclusivamente di loro. Già la segnalazione del citato inciso 17 mostra il suo desiderio di raccontare della sua passione. Lo prendiamo in contropiede chiedendogli se se la sente di darci ancora qualche spunto generale sull’Argentina: «Dal punto di vista sociale i dati parlano di un calo della povertà. Questo è, ovviamente, molto positivo, se non fosse che i programmi che hanno permesso questo calo rischiano di essere assistenzialisti, e hanno uno scopo populista: sono interventi basati sull’aiuto (sussidi per famiglie molto numerose, per le ragazze madri, ecc.), basati sul dare per poter poi ricattare. Questo è uno degli aspetti che mi fa sostenere la necessità di un perfezionamento del regime democratico argentino: oggi – come succede anche in Italia – il movimento politico, più che a coinvolgere le persone con coscienza critica, tende a usarle».

Assieme al tema della povertà e del populismo, padre Auletta ci parla di uno dei problemi cardinali per l’Argentina e per l’America Latina: quello della terra. «Il tema ambientale è molto serio: si è sempre data ampia libertà alle imprese nazionali, e soprattutto interazionali, di comprare grandi estensioni di terra in tutte le latitudini. La soia ha invaso e distrutto zone intere dell’Argentina, danneggiando soprattutto, guarda caso, quelle in cui abitano le comunità indigene. Si vendono non solo i territori, ma anche le persone che vi abitano. Comunità intere si ritrovano senza casa né sostentamento e si vedono costrette a emigrare, nutrendo così il fenomeno dell’urbanizzazione disordinata e degli insediamenti precari». Anche nella città in cui il missionario ha lavorato fino a pochi mesi fa, San Ramon de la Nueva Oran, in provincia di Salta, si vedono da un momento all’altro nascere insediamenti di venti, trenta, cento famiglie in un pezzo di terra limitato, dando luogo a volte ad aspri conflitti per la sopravvivenza.

«Purtroppo lo Stato non ha messo limiti alla vendita della terra e di conseguenza ci ritroviamo con una Benetton – tanto per dire che anche noi italiani abbiamo le nostre responsabilità – che diventa padrona di un milione di ettari nel Sud, nella Patagonia, strappando la terra agli indigeni di quelle zone. Molte grandi multinazionali comprano terra in quantità, nonostante ultimamente la presidente Cristina Kirchner abbia cercato di introdurre un progetto di legge per limitarne la vendita».

Anche quello dei biocarburanti è un tema caldo: «È diventato una delle scuse per estendere l’area da deforestare. Nella nostra zona abbiamo assistito a disastri ambientali enormi. Per fare un esempio: qualche tempo fa una frana ha invaso nel giro di mezz’ora gran parte della città di Tartagal, la terza città della provincia di Salta. In quei momenti terribili si vedevano venire giù tronchi di alberi mescolati al fango: lo smottamento era stato causato dalla deforestazione, negata sfacciatamente dal sindaco, casualmente proprietario di una falegnameria».

I mass media e il calcio

L’esempio del politico proprietario di aziende ci stimola a orientare la nostra chiacchierata con padre Auletta sul tema dei mass-media. Abbiamo infatti avuto notizia di un disegno di legge argentino che vorrebbe limitare l’espansione degli oligopoli mediatici, e chiediamo al nostro interlocutore il suo parere a riguardo: «Penso che sia una sorta di guerra del governo che si sente toccato nei suoi interessi dal gruppo capeggiato dal quotidiano El Clarin. In effetti, bisogna riconoscere che questo ha le mani su una grossa fetta del panorama mediatico del paese: non possiede solo il giornale, ma anche diversi canali televisivi, case editrici, addirittura l’approvvigionamento della carta. È oggettivo che sia una minaccia. Quindi è stata varata e poi approvata la legge che dovrebbe limitare la concentrazione di proprietà dei mass-media. Il problema è che il governo tende a fare come El Clarin: sta riunendo diversi canali televisivi simpatizzanti che stigmatizzano come nemico chiunque esprime una qualche contrarietà rispetto al suo operato. Bisognerebbe invertire questa tendenza, e vedere riconosciuta a tutti la libertà di pensiero, di espressione. Al momento una vera libertà non c’è perché economicamente, commercialmente, è facile essere soggetti al taglio dei mezzi e delle possibilità».

Rimanendo sul tema dei media accenniamo di aver sentito di un’altra legge per la quale le partite di calcio in Argentina possono essere trasmesse solo dalla televisione pubblica. Ci chiediamo se questo non sia un segno di quanto il calcio in quel paese sia vissuto come un diritto inalienabile (che quindi lo Stato deve garantire), o una religione. Il missionario prosegue la sua riflessione sulle strategie populiste del governo: «Anche questa è stata una mossa per assicurarsi la simpatia del popolo argentino, sapendo che esso, come quello italiano, non può restare senza calcio. Assicurare la trasmissione gratuita delle partite è un’azione che raccoglie il consenso di tutti».

Figli della terra

Una buona fetta del tempo che ci eravamo dati per la nostra chiacchierata è consumata, è arrivato quindi il momento di chiedere a padre José di parlare del suo amore incondizionato per gli indigeni. In Argentina fino a tre decenni fa non c’era nemmeno la consapevolezza della presenza di popoli nativi all’interno dei suoi confini. Oggi questa è maggiore, benché ci sia ancora molto cammino da fare perché il mezzo milione di indigeni argentini, suddivisi in diversi gruppi etnici e sparsi su tutto il territorio nazionale, vengano percepiti come soggetti di diritti. «Dal 1990 ho avuto la grazia di vivere per 10 anni con gli indios Tobas nella colonia aborigena Chaco. Con loro ho scoperto il bisogno di vivere in una terra sentendomene figlio, non proprietario, ma figlio. Grazie a Dio ho potuto accompagnare la comunità nel cammino per il titolo comunitario della terra arrivato nel 1996. Nel frattempo ho collaborato anche in altri progetti infrastrutturali: strade intee, centri comunitari, piccoli progetti di case portati avanti con il sistema dell’aiuto vicendevole e dell’autocostruzione, però l’asse portante della mia esperienza è sempre stato quello di tendere ad essere figli, e non ospiti, della terra».

Quella del Chaco è stata la prima importante tappa di innamoramento di padre Auletta per gli indigeni. Una seconda tappa è stata quella di Oran, conclusasi pochi mesi fa, dove ha lottato accanto a una comunità di Tupì-Guaranì per il diritto a vivere e lavorare sulla loro terra ancestrale dalla quale erano stati sfrattati (ma in seguito riammessi), anche violentemente, da un’azienda agroalimentare facente parte della Seabord Corporation, multinazionale Usa. «In questa e nelle altre comunità native accompagnate negli anni di Oran ho potuto ammirare la loro costanza nella fiducia, la loro testarda speranza, di poter arrivare a sperimentare di essere figli della terra. Non siamo arrivati a ottenere il titolo comunitario, ma è in atto un confronto legale che in questo momento comunque sta garantendo alle comunità una relativa tranquillità nella loro terra». Il missionario lucano è visibilmente emozionato nel parlare della «sua gente»: «Queste comunità mi hanno dato un esempio di resistenza e di fiducia nella giustizia, sempre pacifiche, convinte del loro diritto, però con uno spirito di pace». E ricordando gli ultimi momenti trascorsi a Oran si commuove, interrompendosi, ma senza sentirsi in imbarazzo per quell’affetto che è frutto e strumento della missione: «Quando ci siamo salutati, hanno ricordato tutti i momenti trascorsi insieme, ringraziandomi e esprimendo il loro affetto per me. Quando si sono espressi così io mi sono sentito piccolo, come un seme che ho cercato di essere per loro e con loro. Veramente posso dire di avere, più che dato, imparato e ricevuto».

Il «buen vivir»

Padre José a Oran era parroco in un territorio non indigeno, ed è entrato in contatto con la realtà indigena grazie alla sua partecipazione a un’equipe interpastorale di cui ci parla come di un’esperienza molto interessante: «Essa è sorta quando la comunità era stata sfrattata dalla sua terra e aveva vissuto sulla strada, la nazionale 50, quasi cinquanta giorni con sole, pioggia, freddo. Allora ci riunimmo, membri delle diverse pastorali diocesane e scegliemmo il tema «terra» come l’asse portante su cui girano la maggior parte dei problemi, costituendo l’equipe interpastorale con la quale hanno iniziato a collaborare anche persone senza un’identificazione cristiana specifica come alcuni avvocati che stanno dando un loro contributo importantissimo. Questa equipe ha fatto sì che s’intervenisse, non solo su situazioni concrete come i conflitti fondiari, ma anche sulla sensibilizzazione della società bisognosa di essere messa al corrente della realtà culturale, sociale, giuridica dei popoli indigeni attraverso alcuni convegni sul tema dell’interculturalità. Il recupero dell’identità indigena è un cammino per gli indigeni stessi che nei decenni passati erano arrivati addirittura a vergognarsi di ciò che erano, mentre il loro specifico culturale, linguistico, religioso è una ricchezza straordinaria che andrebbe condivisa con tutti: se parliamo, ad esempio, anche solo della loro vita improntata all’equilibrio con l’ambiente, sarebbero veramente dei buoni maestri per molti. Potrei fare riferimento ad un sistema di vita che sviluppano soprattutto i popoli andini, e magari non solo loro, parlando del “vivere bene”, che è molto diverso dal “vivere meglio a scapito di…”. Vivere bene significa vivere in armonia, economicamente, religiosamente, culturalmente».

Prima di chiudere la nostra conversazione con il solito e, ormai, atteso abbraccio seguito da un cantilenato Muy bien, chiediamo a padre José se può rivelarci la sua prossima destinazione, ma subito capiamo che ancora non sa dove andrà al suo ritorno in Argentina: «Intanto vorrei ricordare le parole con cui mi hanno salutato le comunità. Pur soffrendo per la mia partenza da Oran – perché ci siamo veramente voluti bene – mi han detto: “Che tu possa continuare a fare il bene dovunque ti troverai, come lo hai fatto con noi”. Il mio desiderio è quello di tornare a lavorare con i poveri, con gli indigeni, con i criollos che lottano per una vita più degna. Non sono troppo anziano: mi rimangono ancora un po’ di forze per potermi spendere in realtà come quelle in cui ho lavorato negli ultimi due decenni, anche se gli acciacchi si faranno sentire, però sento che il Signore mi offre ancora questa possibilità».

Luca Lorusso




L’assistenza non è uguale per tutti

Storie di cittadini di serie B

Aricla è una delle tre assistenti sociali del municipio di Kombinat; nel suo lavoro incontra situazioni a volte disperate, soprattutto tra le famiglie ultime arrivate nel quartiere, vittime di discriminazione e burocrazia.

Tutti gli uffici del municipio di Kombinat sono situati al piano terra di un vecchio stabile; l’ingresso è buio e affollato. Subito dopo l’ufficio tecnico-urbanistico (il più ampio e luminoso dell’intera sede, costituita da altre tre stanze e un bagno) vi è l’ufficio dell’Assistenza sociale: uno sgabuzzino dove trovano posto un armadio, un piccolo tavolo con computer e due sedie; le assistenti sociali del comune sono tre, che si avvicendano o si ammassano nello sgabuzzino. Proseguendo vi è il bagno alla turca dove sono anche allocati gli attrezzi per la pulizia e un grande bidone di plastica pieno d’acqua che sopperisce all’assenza dello sciacquone. Le dimensioni del bagno sono uguali a quelle dell’ufficio dell’Assistenza sociale. Accanto al bagno si apre un piccolo corridoio, al fondo del quale sulla sinistra si trova l’ufficio del Sindaco (una donna), modesto e solo un poco più spazioso degli altri; attaccato alla porta dell’ufficio del Sindaco, c’è un piccolo tavolo con l’usciera. Al capo opposto del corridoio c’è l’ufficio del personale e all’ingresso un box adibito a ufficio informazioni. È questa la postazione politico-amministrativa di un quartiere che ufficialmente conta circa 60.000 abitanti, ma che secondo le stime dell’Ong Col’or, supera i 90.000.
Aricla, capelli scuri, lunghi e folti, statura media e robusta è una delle assistenti sociali e sta lavorando. Nell’ufficio non c’è una luce diretta, solo delle vetrate in alto permettono l’ingresso della luce dal vicino ufficio tecnico che a sua volta si affaccia sulla strada. Le condizioni di quest’ufficio costituiscono una metafora adeguata dello stato della pubblica amministrazione e del servizio sociale nel quartiere di Kombinat. L’assistente sociale è cordiale e vivace come la maggior parte della gente di qui. Vive da molto tempo nel quartiere e lavora in quest’ufficio dal 2001, dopo essersi laureata.
Dal 2005 l’unico servizio che assicurano alle famiglie è l’aiuto di tipo economico («non abbiamo nessun altro servizio perché non ci sono i fondi») ed è una legge dello Stato che stabilisce quali tipologie di persone possono fruire di questo aiuto.
Vi è una curiosa differenza di denominazione tra coloro che provengono da altre parti dell’Albania e chi risiede a Kombinat da molti anni: i primi sono denominati árdhur, «nuovo venuto», mentre i secondi sono chiamati «cittadini»; questa differenza nominale è sintomatica della diseguaglianza nella fruizione dell’assistenza.
Eppure la maggior parte delle richieste proviene dai nuovi arrivati, poiché i vecchi residenti sanno quali sono le prassi da seguire per accedere agli aiuti, mentre i nuovi non conoscono come funziona la procedura. Questi ultimi, anche se vivono in condizioni più gravi, non possono ricevere nessun tipo d’aiuto.
«Ci sono casi di famiglie disperate che non possiamo aiutare perché non hanno portato i documenti entro il mese previsto per legge. Noi dobbiamo attenerci alla legge altrimenti possiamo avere dei guai con il ministero del lavoro».
Per accedere all’assistenza economica bisogna dimostrare di essere disoccupati, esibendo il certificato di disoccupazione rilasciato dall’ufficio di collocamento al lavoro; la somma erogata varia secondo le condizioni della famiglia: al capofamiglia spettano 2.600 lekë, ai membri già abili al lavoro 600 lekë e ai figli 700 lekë al mese; una famiglia di tre componenti può giungere a 3.900 lekë al mese (circa 30 euro).
Per intervenire sul grave fenomeno della disoccupazione l’unità municipale di Kombinat in collaborazione con il municipio di Tirana ha realizzato, tra il 2005 e il 2008, un progetto per coloro che erano titolari di assistenza economica ed erano in grado di lavorare. Il progetto prevedeva il loro impiego nella manutenzione e pulizia dell’ambiente; essi ricevevamo una somma di danaro aggiuntiva a quella che percepivano per l’assistenza, che comunque non poteva superare la paga minima di 1.400 lekë (circa 10 euro), e questo intervento veniva denominato «reddito minimo».
L’amministrazione dell’unità municipale non prevede praticamente alcuna forma di assistenza a favore dei minori. L’assistente sociale si limita solo a verificare che una famiglia non può accudire i figli e sulla base della documentazione i minori possono essere inseriti nei centri di accoglienza dello stato. A Kombinat ci sono solo centri diui, gestiti da Ong, e solo a Tirana vi è un centro residenziale.
Anche per l’«evasione scolastica» possono solo registrae l’esistenza: l’autorità scolastica segnala i vari casi, si fanno le verifiche delle situazioni solo presso le famiglie in assistenza o chiedendo informazioni ai parenti o al vicinato, poi tutto finisce lì. Sono soprattutto i bambini rom e quelli molto poveri che non vanno a scuola. Di conseguenza è diffuso il lavoro minorile; essendo il cimitero di Tirana vicino a Kombinat, molti bambini vendono i fiori per i defunti o fanno la pulizia delle tombe.
Secondo Aricla il problema sociale più rilevante nel quartiere è la disoccupazione sempre più grave, che provoca aumento della povertà; con la povertà cresce la violenza in famiglia, soprattutto contro le donne e i bambini; ma anche gli uomini sono vittime di violenza e per loro la situazione è ancora più grave perché hanno più difficoltà a parlarne; e a Kombinat non c’è nessun centro antiviolenza.
Il senso di frustrazione e impotenza di Aricla è evidente e dichiara che, se lei potesse realizzare un sogno da professionista del sociale, innanzitutto cambierebbe la legge sull’assistenza, togliendola alle famiglie che possono lavorare e aiutando quelle che hanno più bisogno, indipendentemente dal loro essere vecchi o nuovi residenti; avvierebbe poi progetti per offrire un lavoro solo a chi ne ha veramente bisogno e infine: «Farei un grande negozio di alimentari sovvenzionato dallo stato dove la gente povera possa prendere il cibo».

Paolo Rossi

Storia di Erion: tassista abusivo
La famiglia di Erion, tassista abusivo, è arrivata a Tirana nel 1947, quando dal nord e dal sud dell’Albania tanti arrivavano in questa città per lavorare nelle fabbriche di Kombinat.
Suo padre, durante l’occupazione italiana, faceva l’agricoltore; poi lavorò per una ditta italiana che stava costruendo l’acquedotto per Kavaja; successivamente fece il vigile del fuoco a Kombinat. Gli ha lasciato in eredità una proprietà a Fier, comprata prima della guerra, ma di cui ancora non è riuscito a entrare in possesso.
Erion ci tiene a dire che ai tempi di Enver Hoxa non c’era disoccupazione e ricorda che i tecnici russi erano molto amabili; sulla situazione attuale di Kombinat, invece, ha un’opinione molto negativa. «Per certi versi la vita era molto più bella prima: c’era tanta amicizia; ora invece la vita è diventata molto più aggressiva, perfino tra fratelli – afferma Erion -. Tutta colpa di quelli venuti dal nord, che hanno portato qui certe loro usanze, come le “vendette del sangue”; a volte si uccidono per una parolaccia, per una piccola contraddizione. Quelli sono molto più selvaggi, noi siamo più dolci; quando li vedo io dico loro: perché andate a sfondare delle porte che non vi portano da nessuna parte?».
Nella sua critica a quelli del nord, Erion continua: «Sono arrivati soprattutto tra il ’90 e il ’97 e hanno occupato metà delle fabbriche di Kombinat, facendone case e casupole; quelli venuti da altre parti, invece, non sono andati a vivere nell’area delle fabbriche, ma hanno comprato casa o hanno trovato altre sistemazioni. Nessuno li emargina, sono loro che si tengono in disparte».
Se deve portare qualcuno a sud di notte ci va volentieri, ma prima di andare al nord ci pensa due volte. E sottolinea ancora la differenza tra sé e i nuovi arrivati: «Questi katundar (dispregiativo per indicare gente di campagna ndr) sono venuti qui e hanno comprato del terreno ma non lo lavorano. Dopo 30 anni di lavoro io non ho la pensione e non mi hanno ancora restituito i terreni, per cui devo fare il tassista pirata».
Secondo lui, a Kombinat la situazione non è allarmante: la notte si può uscire tranquilli; ma al tempo del regime bastavano tre poliziotti per «tenere in pugno Kombinat»; ora di poliziotti ce ne sono tanti, ma non c’è ordine.

Paolo Rossi




Vita da Gabel

Storie negate di minoranze etniche

I Gabel sono i rom di Albania, una minoranza etnica che subisce molte discriminazioni e la maggior parte di loro vive in estrema povertà.

La zona dove trovano rifugio gli zingari è la più degradata di Kombinat. Alcuni bambini giocano davanti all’uscio della loro abitazione. Inaspettatamente una pianta oamentale è stata posta all’entrata di quel misero rifugio: il decoro di una pianta che sfida tanta miseria e degrado.
Albana, la madre dei bambini, racconta che l’ha piantata un anno fa e adesso è cresciuta: «I fiori mi piacciono molto, li pianto per abbellire il posto». Ha trovato anche altre piante e le hanno detto che se le mette nel terreno cresceranno.
Indica un ammasso di lattine che raccoglie insieme ai suoi figli per rivenderle: «Trasportiamo le lattine con la carriola, ci danno 50 lekë (40 centesimi di euro) per un chilo di lattine. Per alcuni anni sono stata senza corrente elettrica, ora grazie al permesso di una vicina mi sono potuta allacciare».
Si entra in casa, una casa senza porta, attraverso un piccolo vano arredato con una fatiscente credenza sulla quale sono poggiati alcuni oggetti raccolti tra i rifiuti. Manuel, il bambino, con mossa fulminea tira via dalla stufa la coperta intrisa d’umidità: si sprigiona un odore di muffa e di bruciato insieme.
Non c’è un pavimento, solo grezzo cemento; un vecchio e liso tappeto collega l’ingresso all’unico vano, anche questo privo di porta, che funge da cucina, soggiorno e camera da letto: il letto è costituito da un divano grande e liso; l’angolo di cottura da un fornellino a gas con una vecchia e annerita padella. Accanto a esso una bottiglia d’acqua mezza vuota: le condizioni igieniche sono pessime. Inutile chiedere dov’è il bagno, è evidente che non c’è.
Sul televisore c’è una foto: è il marito morto in un incidente d’auto 5 anni fa; da allora la sua vita già grama è diventata molto difficile: «Quando c’era lui la vita non era così, avevamo una casa in affitto, ma dopo la sua morte è tutto cambiato. Non ricevo nessuna assistenza, perché lui lavorava in nero. I bambini si ammalano spesso perché c’è acqua dentro e fuori la casa. Non so per quanto tempo resterò qua. Finché non arriverà qualcuno a buttarmi fuori. Il proprietario di questo posto vive in Grecia, è una persona della nostra razza; prima di trasferirsi in Grecia mi disse che avrei potuto occupare questo luogo, ma quando toerà me ne dovrò andare».
Albana ha quattro figli: la più grande di 18 anni è già sposata e aspetta un figlio; la seconda ha 15 anni, Manuel 10 e Anisa 9. Un’altra figlia, nata dopo la scomparsa del marito, è morta di stenti: «Quando è morto mio marito ero incinta, mi hanno portata in ospedale dove è nata la bambina, poi non potevo pagare l’affitto e ho dovuto lasciare la casa e la bambina che oggi avrebbe avuto 5 anni non è riuscita a sopportare queste condizioni di vita ed è morta».
La donna prima abitava a Lapraka, un’altra zona di Tirana; il marito faceva vari mestieri, il lustrascarpe, il venditore di stracci, il guardiano notturno e veniva pagato in nero. Alla morte del marito il municipio di Lapraka le ha dato 5.000 lekë (quasi 40 euro) per tre mesi perché il suo era un «caso speciale»; in seguito per due mesi 2.000 lekë e infine più niente, perché, le hanno detto, non c’erano più soldi: «Non era più possibile aiutarmi, ma a me quei soldi facevano comodo, almeno compravo il pane ai bambini». 
Il municipio di Kombinat non può aiutarla perché risulta residente ancora a Lapraka; d’altra parte non può ottenere i documenti necessari per cambiare residenza perché non ha i soldi per pagare le «tasse sull’ambiente»: una situazione drammatica, che assume un carattere grottesco con la richiesta di una tassa per l’ambiente a una donna che vive in tanto degrado! L’unico contributo all’ambiente che possono dare la signora Albana e i suoi figli è raccogliere lattine per sopravvivere.
Dal suo racconto viene fuori una kafkiana situazione burocratica: «Sono andata a prendere un certificato che serviva a mia figlia per sposarsi e non me lo hanno dato perché non ho pagato le tasse. Io non ho i soldi per pagare tutte le tasse; ce n’è una anche per ottenere la carta d’identità, un documento richiesto dappertutto, ma io non posso averlo. Dovrei pagare le tasse per l’ambiente, per la manutenzione degli spazi verdi! Ho chiesto di essere esonerata dal pagamento delle tasse visto che vivo con tre figli in una baracca e mi hanno risposto che devono attenersi alle regole del municipio di Tirana e non possono farci niente. Ho chiesto anche lavoro, ma mi hanno detto che non c’è lavoro. Ad ogni modo cercherò di fare il sacrificio per fare le foto per la carta d’identità, almeno quella».
Un’altra conseguenza di questa che si potrebbe definire «cittadinanza limitata» è l’impossibilità di fruire dell’assistenza sanitaria; Albana fa di tutto per salvaguardare la salute dei figli, ma non si può permettere di prendersi cura della propria salute: «Le vaccinazioni le hanno fatte perché viviamo in un ambiente molto malsano e già così ci ammaliamo spesso. Per le vaccinazioni ho fatto il sacrificio, ma altro non posso. Io sto male, sono malata però non posso andare a prendere le medicine, e ci vogliono i soldi anche per la visita. Ci vogliono soldi pure per aprire un libretto sanitario».
In queste condizioni i bambini non frequentano la scuola, per motivi economici e, soprattutto, perché il pudore materno non permette di mandarli a scuola senza un abbigliamento quantomeno decente: «Mia figlia secondogenita, quando il papà era in vita, è andata per due anni a scuola. Poi dopo la morte del padre non è più andata. Manuel non va a scuola perché non ha i vestiti, poi ci vogliono i certificati, molti documenti. Come faccio a presentarlo a scuola senza vestiti? Non va bene; non è bello! Anisa fino a ieri era senza scarpe; ma ieri ho girato con la carriola per Kombinat e ho trovato questi stivali usati che indossa. Non posso presentarli a scuola così perché non è bello».
Fa male ascoltare una persona che si vergogna della propria miseria. Albana mostra due patate mezze marce per terra, in una scatola, e dice: «Questo ho trovato e questo darò da mangiare oggi ai miei figli. Che posso fare? Questa è la mia vita».
Da 11 anni vive a Tirana, prima viveva a Kukës dove aveva una casa, pur condivisa con il fratello del marito, e dove faceva le pulizie nel municipio. «A Kukës stavo bene; ma anche qui a Tirana si stava bene quando mio marito era in vita, poi lui è morto ed è crollato tutto, perché l’uomo è l’uomo e sa trovare le soluzioni ai problemi».
Non ha nessuno che la possa aiutare: i suoi genitori vivono in un villaggio vicino a Laç, in una piccola casa di due stanze con due sue sorelle, suo fratello e moglie, e non hanno la possibilità di aiutarla: «Poi, anche se andassi là cosa potrei fare? Qui almeno posso raccogliere qualcosa e venderla, ma lì non potrei fare niente. Se avessi la casa ci andrei. Ho paura per i miei figli, per me la cosa più importante è avere una casa».
La sua preoccupazione è che ritorni il proprietario e richieda la baracca in cui abita; in tal caso non saprebbe proprio dove andare.
È la vita angosciante di una madre sola, in una situazione disperata, che vive in una città non sua e ha come unico scopo della sua vita quello di proteggere i suoi figli, «Oggi ho paura a lasciare i figli da soli; quando vado a lavorare li porto sempre con me. Certo prima stavo meglio perché ero giovane, non avevo la responsabilità dei figli, mentre adesso devo badare a loro e non li lascio da soli sulle strade, anche loro lavorano con me e si stancano con me».
Anisa, la più piccola, mi dice che le piacerebbe andare a scuola, a lei piace ballare e da grande vuole fare la ballerina. La madre conclude: «Io vivo per i ragazzi, a me non piace più vivere così, ma devo farmi forza per loro, la mia vita è finita, speriamo che si possa fare qualcosa. Io ho 34 anni, li ho compiuti a dicembre. Eh! così è andata la mia vita».

Federico Gallas

Federico Gallas




Nikolla racconta

storie esemplari di albanesi feriali

Nato a Liqenas, al confine con la Macedonia, il primo di sei figli, Nikolla Trojanov  vive con un fratello a Kombinat; una sorella è emigrata in America e un fratello in Grecia; gli altri due, una sorella e un fratello, sono rimasti nel loro villaggio, ma i loro figli sono migrati all’estero.

Dall’infanzia ho imparato che un uomo non si deve arrendere davanti alle difficoltà. Mio padre si è sposato all’età di 17 anni con mia madre Fanie; abitavano in case vicine: il padre di mia madre ha combinato il matrimonio, mentre il nonno paterno era l’unico contrario: lui non voleva quell’unione, ma alla fine accettò, convinto dagli altri, anche a causa della religione ortodossa alla quale appartenevano tutte e due le famiglie.
Da sposato, mio padre visse nella casa di mia madre, che era figlia unica. Mio nonno materno era molto bravo; per sopravvivere faceva di tutto, muratore, falegname, contadino e fabbricava perfino reti da pesca. Non si stancava mai e con il suo lavoro manteneva tutti noi.
Voglio raccontare la storia di quando ci è morto un bue. Fu una tragedia! I buoi a quell’epoca erano la principale ricchezza familiare, una garanzia per il pane quotidiano, ed essendo molto cari non era facile ricomperarli. Tutti ci rattristammo; ma il nonno ci disse di non disperare: «Chiederemo un prestito e ne compreremo un altro».
Avevamo poca terra e in qualche occasione quasi niente da mangiare. Il pasto più comune erano fagioli, zuppa di riso e byrek (una specie di pizza di sfoglia ripiena di verdura). Di carne neppure a parlarne, se non molto raramente. Tale povertà l’avevamo ereditata dal mio bisnonno, che si era sposato per la seconda volta con una donna che pensava solo a se stessa e spendeva tutto in cibo, bevande e vestiti, tanto che il mio bisnonno fu costretto a vendere la casa e le terre.
Il nonno ci raccontava tante storie della Prima guerra mondiale. Diceva che nel suo villaggio si erano stabiliti i bulgari e i francesi, occupando due colline che si fronteggiavano. I bulgari erano molto duri, in varie occasioni entravano in casa nostra e portavano via il nostro pane. Invece, i francesi erano più rispettosi e condividevano ciò che avevano con i contadini. Erano ricchi e bevevano vino al posto dell’acqua.
Ricordo che il nonno ci diceva sempre: «La patria e la lingua non la dobbiamo dimenticare mai e, se è necessario, devi dare anche la tua vita per questo».

Del villaggio dove sono nato e vissuto a lungo, avrei tanto da raccontare. Il paesaggio era molto bello, le persone che ci vivevano erano molto buone, generose, si aiutavano a vicenda e non litigavano tra loro. Erano in maggioranza analfabeti, per motivi economici e politici, eppure restavo impressionato dal fatto che la maggior parte dei contadini erano molto intelligenti per natura.
Una volta andai a comperare il cemento in una fabbrica. L’amministratore era andato a scuola, mentre un suo dipendente che pesava il cemento non aveva alcuna istruzione. Quando si trattò di fare il calcolo, il dipendente fu più svelto dell’amministratore. Come individui noi eravamo intelligenti, era la povertà che ci rendeva sottomessi.
La scuola aveva solo due stanze: una serviva da aula scolastica, nell’altra dormiva l’insegnante. Un solo maestro gestiva contemporaneamente quattro classi, disposte in quattro file di sedie; le lezioni si tenevano dentro l’unica stanza: mentre l’insegnante spiegava a una classe, le altre facevano i compiti loro assegnati.
Di quell’epoca ho un buon ricordo delle feste religiose. Quella preferita era la Pasqua, che durava tre giorni. Tutta la gente si riuniva al centro del villaggio, cantavamo e ballavamo insieme. Ragazzi e ragazze avevano i loro balli preferiti, ma danzavamo separati. Eravamo tutti vestiti bene. E c’era anche tanto cibo, messo da parte durante tutto l’anno proprio in vista di quel giorno.
Un’altra bella festa era quella dell’acqua benedetta: una croce ortodossa veniva buttata nel fiume di fronte alla gente e i ragazzi si tuffavano per recuperarla; chi la trovava, la portava per tutto il villaggio di casa in casa come segno di benedizione, in cambio riceveva in dono qualche soldo. Prima di consegnare la croce alla parrocchia, il giovane la teneva a casa sua per alcuni giorni, simbolo di buon augurio per lui e la sua famiglia, per tutto l’anno. Era una festa davvero speciale.

Al tempo del re Zog le persone soffrivano molto. Ricordo che mia madre, invece della pasta, cucinava la petka, fatta di foglie secche impastate con le uova. La crisi economica, a quel tempo, era forte, i salari troppo bassi e i soldi non bastavano a coprire tutte le necessità. Diverse persone povere e senza lavoro persero case e terre perché, dopo aver chiesto soldi in prestito per comperare da mangiare, non riuscirono a restituirli, e i loro beni vennero confiscati.
Arrivati gli italiani, le cose iniziarono ad andare meglio in varie zone dell’Albania. Furono aperti nuovi posti di lavoro e molti uomini andavano a lavorare a Durazzo, come scaricatori di porto e guadagnavano bei soldi. Giravano tanti soldi che Durazzo la chiamavamo l’America dalle nostre parti.
Nel nostro villaggio si era stabilita una guaigione italiana, essendo per la sua posizione geografica in una zona tranquilla e senza rischi di essere attaccata. I soldati erano molto buoni, lavoratori tranquilli, ci raccontavano delle loro famiglie, delle persone che avevano lasciato in Italia. Uno di loro non andava a casa da due anni e ne sentiva una nostalgia enorme. Noi ragazzi ascoltavamo i loro racconti e provavamo dispiacere per loro.
Ricordo la strada davanti a casa nostra: era molto brutta e piena di buche, ma i soldati la sistemarono e piantarono dei fiori. Dove gli italiani mettevano mano si vedeva subito un grande cambiamento. Quando se ne andarono noi bambini, che avevamo fatto amicizia con loro, provammo grande dispiacere: nessuno ci avrebbe più dato del pane.
Con i tedeschi fu tutto molto diverso. Avevo 16 anni quando occuparono la terra albanese e sentimmo subito il cambiamento: erano persone fredde, arroganti, diverse dagli italiani. Non avevamo più il coraggio di andare da loro per cercare pane, come facevamo prima. Erano persone di poche parole e avevamo paura, anche perché uccidevano e bruciavano le case di chi aveva legami con i partigiani. Erano molto decisi e non esitavano a uccidere. Sparavano alla gente come se facessero il tiro al bersaglio.

Sotto il regime di Enver Hoxha non eravamo liberi di parlare apertamente. Nessuno poteva dire quello che pensava, perché i servizi di spionaggio erano pronti a incastrarti e farti del male. Erano uomini molto intriganti e in ogni momento potevano crearti problemi. La mancanza di libertà era sentita come una menomazione perfino dagli stessi membri del Partito.
Ne è un esempio la brutta esperienza capitata a un cugino più giovane di me. Aveva 18 anni e, come ogni giovane, desiderava una vita diversa. I servizi segreti gli tesero una trappola: lo invitarono in un bar e, dopo aver bevuto insieme come «amici», cominciarono a provocarlo, dicendogli che questa vita non era molto buona, che «il futuro era in Macedonia». Gli fecero credere che erano veramente suoi amici perché si sentisse libero di parlare. Mio cugino si fidò delle loro parole e manifestò le sue idee e i suoi sogni. Lo presero e lui si fece 14 anni di prigione.
Era un periodo molto duro e difficile, pieno di pericoli; ma non posso non riconoscere ciò che di buono abbiamo avuto durante tale regime. Prima di tutto è arrivata l’elettricità: è stato un grande evento; tutta l’Albania si è illuminata. Poi abbiamo avuto la scuola dell’obbligo per tutti; anche l’assistenza sanitaria è stata estesa a tutti.
In quel periodo c’erano molte attività. I giovani partecipavano alla ricostruzione del paese e aiutavano a rendere le terre più coltivabili. Non vi erano molte differenze sociali, perché eravamo una nazione molto povera. Eravamo abituati a non avere frigoriferi, lavatrici, televisione… Eravamo abituati al minimo indispensabile, le altre cose sembrano per noi un lusso.

Mi sposai a 23 anni. Mia moglie aveva 20 anni. Mi innamorai di lei a prima vista, fu un vero colpo di fulmine. A quel tempo ero responsabile della manutenzione stradale e il lavoro mi portava al paese di mia moglie. Quando la vidi per la prima volta, sentii una forte emozione, mai provata fino allora. Lei mi vide e arrossì. Era scoccata la prima simpatia; poi, ogni volta che mi vedeva, usciva sulla porta. Cominciammo a incontrarci di nascosto: a quei tempi era molto pericoloso farsi vedere insieme apertamente, a causa dei pregiudizi.
Ora che il regime è finito, l’Albania si è aperta al mondo esterno; ma tale apertura presenta aspetti contrastanti. Di positivo c’è il fatto che abbiamo conosciuto un mondo a noi precluso e proibito per quasi mezzo secolo. Il rovescio della medaglia è il fatto che tanti giovani sono andati via dal Paese. Essi hanno scelto strade lontane dalle nostre, per una vita migliore.
Anche i miei figli sono andati via: prima la figlia maggiore, già sposata, decise di andare insieme ai suoi figli in Macedonia; pochi mesi dopo partì anche mio figlio minore. Furono le difficoltà economiche a costringerli a emigrare. La loro partenza fu decisa di colpo, a mia insaputa.
Fu un momento per me molto difficile. Sentivo che i miei figli non erano più miei; come se fossero stati comprati da qualcun altro. Inoltre, avevo paura che succedesse loro qualche disgrazia. Erano gli anni ‘90, quando valicare confini era ancora tabù e si rischiava la vita.
Arrivarono in Macedonia, ma ne rimasero delusi, perché non era quello che sognavano e si aspettavano. Rimasero nella zona di Beogroad per sicurezza; facevano qualche lavoro nei dintorni, ma la paga era appena sufficiente per sopravvivere. Mia figlia toò a casa poco dopo; mio figlio invece andò in Grecia. Non seppi più niente di lui, perché non avevamo il telefono. Ormai lo credevo morto e aspettavo da un momento all’altro di ricevere la brutta notizia. Alla fine, mi arrivò una lettera raccomandata che mi fece rinascere: mi scriveva di non preoccuparmi perché stava bene e lavorava al porto di Selanik. Fu la notizia più bella della mia vita.

Ora vivo a Kombinat presso mio fratello e la sua famiglia. È stato un grande cambiamento, alla mia età. Però essi sono stati gentili ad accogliermi, perché mia figlia non poteva occuparsi di me e mio figlio è ancora in Grecia. Speriamo stia bene e che ritorni un giorno.
Quando sono arrivato mi sono misso a piangere: non volevo fermarmi qui, ma dopo la morte di mia moglie non avevo scelta. Ricevo una pensione; non sono mai stato un peso per nessuno e mio fratello mi ha accolto con piacere; da parte mia lo aiuto economicamente. A me sta bene così. Passo il tempo raccontando ai due nipotini la storia mia e di mia moglie. Si siedono sulle mie ginocchia e ascoltano attenti; ma a volte pesano e devo farli scendere. 
Mio fratello è più giovane di me; anche lui ha lavorato sodo e si è comperato una casa: siamo in sei con lui, sua moglie Blerta, la loro figlia e due bambini. Il genero di mio fratello è andato in Germania a cercare fortuna insieme al cugino qualche anno fa. Sta bene, torna quando può, ma i figli non li porta mai con sé: questo io non lo capisco, dal momento che ora si può uscire tranquillamente dal paese. Secondo me ha un’altra donna; ma quando dico queste cose a mio fratello lui si arrabbia e io smetto.
Mio fratello è un gran lavoratore, ma da quando il lavoro nel suo settore è diminuito è nervoso. Io lo aiuto economicamente e mi prendo cura dei bambini ogni volta che mia nipote lavora nel negozio che vende i byrek. Mi piace e mi sento molto utile: rivedo in loro i miei figli e l’amore di mia moglie per loro.
Ma sono stanco. Sento molto la mancanza di mia moglie e dei figli lontani. Mia moglie è morta da anni, ma la sento sempre vicina. Era meravigliosa. Per quattro anni è rimasta a letto paralizzata. Io le stavo accanto e quando l’ho persa mi è sembrato che la mia vita si fosse spezzata. Mi sentivo come un uomo senza gambe e senza braccia.
Il sentimento di solitudine mi rattrista molto. Non ho paura della morte: oggi o domani, tutti dovremo morire. Ho più paura della solitudine: non vorrei morire solo in casa, a porte chiuse, senza qualcuno accanto, come si sente dalla televisione o si legge sui giornali. Anche se ho questi pensieri, credo che la vita sia da vivere in ogni momento.

Paolo Rossi

Paolo Rossi




Culto dell’etnia chiamata «albanità»

Processo storico dell’anima albanese

Nata come provincia romana dell’Illiria (II sec. a.C.), attraversati quattro secoli bui sotto il dominio ottomano, indipendente nel 1912 e conquistata dall’Italia nel 1939, dopo quasi mezzo secolo di regime nazional-comunista (1946-1990), l’Albania è tra i paesi emergenti d’Europa. La sua economia continua a crescere, ma il paese è ancora alle prese con seri problemi di arretratezza politica e sociale, che frustrano le sue richieste di integrazione nella comunità auropea.

Situato nella parte sudoccidentale della penisola balcanica, affacciata sul mare Adriatico in corrispondenza del canale d’Otranto, il cui punto più stretto è di circa 75 km, l’Albania ha una superficie di 28.748 km², poco più grande della Sicilia, e quasi 3 milioni di abitanti, secondo il censimento del 2011. La maggior parte della popolazione vive nelle periferie dei grandi centri urbani che, da soli, ne agglomerano oltre due terzi.
Per descriversi, il popolo albanese pone al di sopra di tutto l’importanza dei valori dell’etnia, in contrapposizione al concetto di stato. Ogni forma di ricostruzione storica del Paese va quindi fatta alla luce di come gli albanesi «pensano» l’Albania, ricordando che tale schema è alla base del modello di nazione albanese.

Dall’indipendenza alla «grande albania»
La discendenza storica dagli Illiri costituisce un titolo di vanto riaffermato indistintamente da tutti i leader albanesi: pirati di professione, furono sottomessi da Roma verso il II secolo a.C. e la loro regione fu inetgrata nella provincia romana dell’Illiria.
Nei secoli del dominio ottomano i clan albanesi continuavano a praticare di nascosto la loro fede: di notte nelle case si svolgevano le antiche liturgie e, nascoste sotto terra, si celavano spesso le statue dei santi, mentre il battesimo era amministrato in segreto cosicché molti albanesi avevano un nome islamico e un secondo nome, ufficioso, cristiano.
Intoo al XVIII secolo iniziò quindi a svilupparsi quella cultura turco-albanese che raggiungerà, alla fine del secolo, traguardi di raffinatezza soprattutto nel settore letterario.
Una serie di contingenze determinarono nel corso del XX secolo un’inattesa alleanza con Italia e Austria che temevano il controllo serbo e greco del territorio: unica alternativa possibile era la trasformazione del paese in uno stato indipendente, sotto tutela italo-austriaca. L’allora governo di Francesco Crispi – un italo albanese – riuscì a imporre all’Europa la faticosa nascita dell’Albania, attraverso la Conferenza degli Ambasciatori del 1910, che due anni dopo confermò la costituzione della nuova nazione: il 28 novembre 1912, a Valona, Ismail Qemalil dichiarò l’indipendenza dell’Albania.
Seguirono anni di assestamento politico, segnato da arretratezza economica e lotte tra anacronistici capi-tribù, finché si affermò Ahmet Zogu che diede vita al Regno albanese, proclamandosi re col nome di Zog I, e intensificò i rapporti economici con l’Italia. Roma considerava l’Albania come una propria colonia e vedeva con sospetto l’ingerenza nazi-tedesca nei Balcani, finchè il governo fascista, attraverso il proconsole Ciano, rovesciò la monarchia albanese: era l’alba del 7 aprile del 1939, Venerdì Santo. Da allora l’Italia controllerà l’Albania fino al settembre del 1943, trascinandola nella rovinosa campagna di Grecia, il cui risultato per gli albanesi si risolse in un trionfo storico del tutto inaspettato: sotto la guida di un re italiano e con l’appoggio tedesco, realizzarono la «Grande Albania», recuperando l’Epiro del nord (Ciamuria), alcuni territori della Bulgaria e soprattutto il Kosovo.

La dittatura di Hoxha
Nel periodo che va dal 1943 al 1945 comparvero nel territorio albanese numerosi movimenti partigiani tra loro contrapposti, mentre per i kosovari tali anni furono particolarmente drammatici: la componente albanese, che per decenni aveva subito la repressione serba, e i tentativi di «pulizia etnica» del governo di Belgrado, forte dell’appoggio nazista, cornoperò con particolare ferocia nelle rappresaglie compiute dagli occupanti contro i serbi, dando ai vari gruppi politici kosovari un indirizzo ideologico esasperatamente antisemita.
Nel generale contesto di anarchia in cui il Paese stava precipitando emerse, per disciplina e forza militare, l’insieme dei gruppi partigiani guidati da Enver Hoxha, che condusse una spietata guerra di liberazione, ben presto sfociata in guerra civile, quando l’anticomunismo spinse i nazionalisti monarchici e repubblicani a unirsi tra loro per combatterlo, arrivando addirittura ad affiancare i nazisti.
Hoxha goveò l’Albania dal 1944 al 1985, anno della morte, con un comunismo molto rigido e autoctono: è classificato tra i peggiori despoti del Novecento. Nonostante la stesura di una monumentale opera omnia, prodotta in ben 71 milioni di copie, che doveva consacrarlo a solo, autentico, continuatore di Lenin, Hoxha fu sempre legato a quel culto della etnia definito «albanità».
Quando il Cremlino si alleò, tradendo la besa (la parola data), con la Jugoslavia, storica nemica del popolo albanese che opprimeva i kosovari, la rottura con Mosca fu sancita definitivamente e Hoxha affidò agli intellettuali il compito di esprimere senza reticenze la messa in secondo piano dello schema marxiano fino ad allora sostenuto e imitato. L’alleanza con Pechino costituì una scelta di tipo strumentale, per la foitura di armamenti e strumenti per l’industrializzazione e lo sviluppo del Paese.
Nel 1976 anche la Cina fu accusata di «imperialismo» e il dittatore si ispirò a nuovi ideali da seguire, come quelli rappresentati dalla Svizzera, unica nazione che appariva neutrale rispetto alla Nato, e dall’Austria. Ma il popolo albanese, ormai guidato da Sali Berisha – il medico che sarebbe poi stato alla guida del primo governo anticomunista albanese – cominciò a capire che dietro tali scelte vi erano per lo più le solidità bancarie dei due Paesi, dove Hoxha teneva i suoi conti privati.
Gli albanesi giudicano oggi negativamente il quasi mezzo secolo di comunismo dominato da Enver Hoxha. Tuttavia, alcuni attribuiscono al dittatore alcuni meriti, come quello di aver permesso loro di imparare a leggere e scrivere, aver dato accesso al sistema sanitario e aver portato a coltura tutta la terra possibile; non da ultimo, sotto il suo regime la durata media della vita è passata da 38 a 70 anni.

L’era di berisha
Alla morte del dittatore, nel 1985, gli successe Ramiz Alia, che faceva parte dell’entourage di Hoxha, anche se, a differenza di gran parte degli altri, durante la guerra di liberazione non aveva avuto un ruolo militare di spicco. Nel 1987 Alia fece sì che l’Albania entrasse come membro permanente delle varie Conferenze balcaniche promosse dal governo Jugoslavo. Sul fronte interno, pressato dallo scontento popolare, avviò timide riforme politiche e, in concomitanza con il crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale, introdusse il multipartitismo.
Tra gli intellettuali e funzionari statali del regime c’era anche la casta dei medici, all’interno della quale si trovava Sali Berisha, un cardiochirurgo che si era conquistato ampia notorietà a livello internazionale e di cui Hoxha si fidava ciecamente. Ma spinto dall’illimitata brama di potere, alla fine del 1990, Berisha scese in piazza assieme agli studenti che protestavano contro il regime di Alia, l’anno seguente riuscì a manovrare e diventare capo del Partito democratico albanese, al quale impresse una ideologia semplicemente e ferocemente anticomunista e presentandosi ormai come leader incontrastato. Le elezioni del 1992 sancirono un risultato del 66% dei voti al Partito democratico: Berisha diventò presidente e venne rieletto nel 1996; ma quello stesso anno il «crollo delle Piramidi Finanziarie» provocò proteste di massa: nei primi mesi del 1997 il Paese precipitò in una specie di anarchia con circa 2.000 morti; le responsabilità del presidente non sono mai state chiarite ma erano evidenti: Berisha fu costretto a dare le sue dimissioni.
Nonostante nel settembre 1998 avesse preso parte al tentato colpo di stato contro il governo di Fatos Nano, nell’estate 2005 la coalizione del partito di Berisha, dopo otto anni di opposizione, ebbe nuovamente la maggioranza in parlamento, grazie alla ripetizione del voto in tre circoscrizioni, tra polemiche su compra-vendita di voti, insulti tra i leader e indicazioni elettorali di clan: Berisha divenne primo ministro; nel 2007 fece eleggere presidente un candidato di sua fiducia, Bamir Topi; nel 2009 consolidò la vittoria elettorale, continuando nella carica di primo ministro per il secondo e attuale mandato.
Dalla caduta del regime comunista a oggi, la storia della direzione del Paese si consuma in un’alternanza che vede protagonisti, fin dal 1991, Sali Berisha e Fatos Nano.

Dal boom economico alla crisi
A fine 2006 il Capo delegazione del Fondo monetario internazionale a Tirana, Istavan Szekely, lanciò l’allarme per il fatto che il governo albanese aveva appena sottoscritto un contratto con il gruppo americano-turco Bechtel-Enka per i lavori di un tratto dell’autostrada Durazzo-Morina, lungo circa 50 km, al prezzo di 418 milioni di euro: l’Albania, secondo le normative del Fmi, non avrebbe potuto richiedere più di 50 milioni di euro di debiti al mercato finanziario. Intrappolato nella promessa elettorale della riduzione delle tasse, vincolato dal contratto che richiedeva ulteriori spese, ridotte le entrate per via della crisi, il governo optò per una terza via: congedare il Fmi dall’Albania.
Nel 2007 l’Albania registrò una crescita economica del 6% e l’anno successivo dell’8%, cifre che solo la Cina superava. Con una crescita economica simile si sarebbero potute finanziare non una, ma ben due strade Durazzo-Morina senza eccessive preoccupazioni. Con un Pil di circa 10 miliardi di euro l’anno e una crescita economica dell’8%, la ricchezza finanziaria albanese aumentava di 800 milioni di euro l’anno, in dieci anni il Paese poteva diventare due volte più ricco e, nella stessa misura, crescevano i redditi pro-capite.
Tutto ciò in teoria. La realtà si sta rivelando coerente alle paure del Fmi che, complice la crisi del 2009, vede la crescita economica albanese crollata dall’8% al 2,8% in un anno: una catastrofe per la finanza albanese, poiché il piano della spesa pubblica – avendo assorbito anche la famosa strada – era stato calcolato sulla base di una crescita economica maggiore.
A fine novembre 2008 il deficit pubblico era a quota 23,5 miliardi di leke, un anno più tardi il deficit si triplica arrivando a 63,5 miliardi di leke, pari a più di 450 milioni di euro. Al Goveo non restava che giustificarsi dicendo che «ovunque in Europa il deficit pubblico è esploso a causa della crisi».

Anticamera europea
Il 14 aprile 2010 l’Albania ha consegnato al Commissario europeo per l’Allargamento, Stefan Fule, il dossier con le risposte ai 2.284 quesiti utili alle istituzioni dell’Ue perché esprimano un giudizio sulla richiesta di adesione dell’Albania. L’Ue ha sollevato dubbi circa la stabilità democratica delle istituzioni, l’esistenza di un’economia in grado di reggere le regole della competizione e del mercato unico, il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze, lo stato del sistema giudiziario, la corruzione e la criminalità. Per entrare nell’Unione europea l’Albania dovrà fare particolarmente attenzione al raggiungimento dei criteri di Copenhagen.
Il 2011 è stato un susseguirsi di episodi di piazza. A gennaio le proteste scaturite dagli scontri tra partiti di maggioranza e opposizione hanno fatto 3 morti e decine di feriti; a maggio le elezioni amministrative, dopo numerosi colpi di scena e riconteggi, hanno conferito al Partito democratico di Sali Berisha anche la guida della capitale, strappata allo storico sindaco Edi Rama e di nuovo gli albanesi sono scesi in piazza per protestare, nel disinteresse totale dell’opinione pubblica mondiale.
A ottobre è stato pubblicato il rapporto della Commissione europea sull’avanzamento dei paesi balcanici verso l’integrazione europea. Anche quest’anno l’Albania si è vista rifiutare lo status del paese candidato.
A dicembre sono stati infine pubblicati i risultati del censimento della popolazione, svoltosi nel mese di ottobre: sembra che la popolazione sia diminuita del 2,8% in 10 anni, ma molti sollevano dubbi su come si è svolta la ricerca.

Paolo Rossi

Paolo Rossi




Accade a kombinat

Premessa

A 20 anni dalla caduta del regime comunista, a quasi 15 dai disordini del 1997, dovuti alla grave crisi finanziaria delle «piramidi», Kombinat è diventato un luogo effervescente di vita, dove l’arte dell’arrangiarsi, della sopravvivenza e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo può evolvere nelle direzioni più impensabili. È stupefacente la capacità, almeno apparente, di convivenza sociale che regna in questa caleidoscopica realtà dove, nel comprensibile desiderio di una vita migliore a qualunque costo e in tempi rapidi, vi è una massadi persone impegnate nella lotta per la sopravvivenza, a fronte di pochi, più ricchi e più furbi, altrettanto impegnati nel trae i maggiori vantaggi. A Kombinat convivono vecchi abitanti e nuovi immigrati da diverse parti d’Albania e gli «sfortunati» (o esclusi, come i Rom) provenienti da altre zone di Tirana: tanti gruppi che si tengono distinti, pur non avendo conflitti visibili.
Naturalmente, pur nella convivenza dichiarata, permane una diversità tra abitanti di vecchia data e nuovi arrivati. Nei primi vi è fierezza e orgoglio per essere stati i costruttori di Kombinat, fabbrica e quartiere, e tanta nostalgia e amarezza per com’è ora: essi avevano creduto nel sogno di una «nuova» Albania e, ora più degli altri, rimarcano amaramente il degrado e l’abbandono in cui versa il Paese.
I nuovi arrivati sono giunti con la speranza che qui qualcosa in qualche modo si possa trovare o possa accadere, e comunque hanno abbandonato l’isolamento della campagna e delle montagne, per vivere il «benessere» della città. Ma tra questi vi è anche emarginazione, disperazione, che a volte portano all’alcornol, alla droga e alla prostituzione; vi è povertà economica e morale, che a volte porta all’inaccessibilità alla scuola e al sistema sanitario. Molti vivono in abitazioni di fortuna e non risultano neanche iscritti nelle liste dell’anagrafe comunale: hanno solo elaborato strategie di sopravvivenza per esistere in un’area deindustrializzata.

Il grande desiderio e bisogno di comunicare della gente può essere interpretato come un modo per esorcizzare la sindrome di abbandono da parte delle istituzioni e il senso di precarietà che minaccia non solo le esistenze individuali, ma l’intera dimensione collettiva. Con il vecchio regime, gli albanesi vivevano in un ambiente certamente non confortevole, come tenuti sotto chiave, ma almeno socialmente sicuro e «protettivo».
Oggi, i cittadini di vecchia data e i nuovi inurbati a Kombinat stanno scontando un disorientamento e tale da far rimpiangere l’organizzazione sociale e, ancor più tra i meno abbienti, il sostegno sanitario e assistenziale del regime passato.  
Occorre traghettare la società albanese verso un sistema in cui lo Stato possa nuovamente essere riconosciuto come garante di legalità e governabilità; uno Stato che ponga al centro della propria attività lo sviluppo del Paese e il benessere sociale dei suoi cittadini tutti.
È quello che l’Ong Col’or (Camminiamo oltre l’orizzonte) realizza dal 2003, lavorando in Albania in generale e con gli abitanti di Kombinat in particolare. In questi anni essa ha realizzato numerosi progetti che spaziano da attività a favore delle famiglie, al sostegno alla locale associazione di donatori di sangue, fino ad attività di formazione professionale e avviamento al lavoro per i giovani in difficoltà.

    Paolo Rossi       

Paolo Rossi




Cana (29): Le giare di pietra e le tavole in pietra della legge

Il racconto delle nozze di Cana (29)

Gv 2,6 (a): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra],
contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Con il v. 6 siamo arrivati al cuore del racconto dello sposalizio di Cana. Nella puntata Otto personaggi in cerca di simboli (MC 9 – 2009, pp. 20-22), presentando lo schema dell’intero racconto, che per noi è costruito a chiasmo, cioè a forma incrociata, dove si corrispondono il primo e l’ultimo elemento, il secondo e il penultimo, il terzo e il terzultimo fino a un punto centrale come al proprio cuore (per lo schema v. MC 9), abbiamo rilevato che l’autore con quello che precede e quello che segue vuole condurre il lettore a questo versetto, che è quindi la chiave più importante della narrazione.
Se questo è vero bisogna prestare molta attenzione non solo alla lettera del testo, ma alla «mens» dell’autore e cercare di capire quale messaggio vuole trasmetterci. Mettendoci in ascolto silenzioso e dinamico della Parola, cerchiamo di scoprirlo.

Dalla grammatica e sintassi …
Da un punto di vista testuale vediamo subito che la prima parte è costruita con un «ipèrbato», che è una figura letteraria per cui due termini che dovrebbero stare insieme sono interrotti da una o più parole: qui i termini «hydrìai – giare» e «kèimenai – collocate/giacenti [per terra]» sono separate dalla frase «per la purificazione dei Giudei», dando all’intero versetto un empito di suspence.
Alcuni codici antichi, sia importanti che meno importanti, eliminano il participio presente passivo «kèimenai – collocate/giacenti» per un evidente fine di semplificare e rendere il testo più scorrevole: «Vi erano poi là sei giare di pietra collocate/giacenti [per terra, pronte] per la purificazione dei Giudei». Invece l’autore, usando la costruzione che tecnicamente si chiama «perifrastica passiva», pone l’accento non sulla posizione delle giare, e cioè che erano per terra, ma sulla materia con cui sono fatte (sono di pietra) e sulla loro funzione e scopo, cioè «per la purificazione dei Giudei». La costruzione perifrastica è frequente nel quarto vangelo: cf, p. es., Gv 3,27; 6,65; 13,23; 16,24; 20,30 (cf BDR § 3522-3; M. Zerwick, Il greco 154 §362).
In altre parole, in questo modo, l’autore ci obbliga a considerare ancora una volta il rapporto che c’è tra lo sposalizio di Cana e ciò che è avvenuto ai piedi del Sinai: per ricevere la Torah, Israele tutto deve «purificarsi per tre giorni»; allo stesso modo per ricevere il compimento della Toràh, che è lo sposo-Gesù, bisogna che tutto il popolo nuovo si purifichi prima di accedere alle nozze.
Questo invito è dato in modo plastico e forte dalla presenza delle giare: «Vi erano poi là sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei»: la funzione delle giare è «permanete» perché esse non sono là occasionalmente, ma restano, anzi devono restare lì «collocate/giacenti per terra». Il loro immobilismo, quasi inerte come cadaveri, esprime la loro funzione permanente: c’è sempre bisogno di purificazione prima di accedere al cospetto di Dio.
C’è un altro elemento che ci porta alla stessa conclusione ed è l’uso della preposizione propria «katà» che noi abbiamo tradotto, semplificando, con «per». In greco questa preposizione si costruisce con il caso accusativo e indica una relazione, per cui si dovrebbe tradurre letteralmente con «in relazione alla purificazione dei Giudei», oppure «secondo la purificazione dei Giudei», oppure ancora «destinate alla purificazione dei Giudei».
Se si guarda dalla parte del soggetto, cioè le giare, la preposizione indica finalità/scopo: ci dice che le giare hanno come scopo proprio di essere sempre pronte per la purificazione dei Giudei. Se invece si guarda dal punto di vista della purificazione, cioè del complemento, allora si sottolinea la necessità della purificazione stessa. In questo senso si può anche tradurre: «Vi erano poi là, sei giare di pietra, destinate la purificazione dei Giudei»; oppure: «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione necessaria/obbligatoria dei Giudei».

… al significato pregnante dei simboli e parole
Ci soffermiamo su questi aspetti linguistici che a qualcuno possono apparire noiosi o pignoli, per fare notare ai nostri lettori che nella Parola di Dio, ogni sfumatura ha un senso e mai dovremmo cedere alla tentazione della superficialità o del pressappochismo. Se l’autore usa una frase piuttosto che un’altra non è per capriccio o perché ininfluente per la comprensione del testo. Quanti dei nostri lettori, infatti, nelle innumerevoli volte che hanno letto questo racconto, non hanno pensato che esso avesse come finalità di edificarci con un pensiero spirituale sul sacramento del matrimonio, mentre al contrario, prendendo lo spunto da un banale sposalizio, ci costringe a pensare all’alleanza del monte Sinai per concludere che ora davanti a noi non c’è un profeta, seppur grande come Mosè, ma c’è il Lògos in persona, il Figlio di Dio che è l’Alleanza del Padre?
Diciamo questo anche perché il Gv 2,6 che descrive le giare corrisponde nella costruzione sintattica a Gv 2,1, che abbiamo già esaminato nella puntata C’era là la madre di Gesù (MC 4 – 2011, pp. 30-32), dove avevamo già proposto il parallelo linguistico, osservando che la costruzione è tipicamente giovannea, riportando i testi di riferimento e mettendo in evidenza che la costruzione in Gv 2,1 e 2,6 è voluta espressamente dall’autore per creare un parallelo tra la madre e le giare secondo lo schema seguente:

– Gv 2,6:     «Vi erano poi là sei giare di pietra» 
    (êsan dè ekêi lìthnai hydrìai).
– Gv 2,1:    «Ed era la madre di Gesù là»
    (kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi).

Abbiamo anche messo in evidenza che la costruzione «era/erano… là», avverbio locativo + verbo «essere», si trova circa una decina di volte nel quarto vangelo (cf Gv in 2,1.6; 3,23; 4,6; 5,5; 6,22.24; 11,15; 12,9.26); per cui rileviamo che l’autore vi attribuisce una certa importanza: il tempo imperfetto del verbo «essere» ha un valore «qualitativo» nella linea secondaria della narrazione: da una parte fornisce informazioni circostanziali, cioè in più, per permettere al lettore di farsi un’idea più completa del racconto, e dall’altra ci descrive la qualità dello «stare», che non è solo una presenza occasionale, come potrebbe essere la partecipazione a un matrimonio, ma sottolinea e mette in evidenza che tale «presenza» è determinante, in quanto «doveva essere là»: quasi uno stato di necessità.
In altre parole, Giovanni informa il lettore sul contesto del racconto, offrendo dati supplementari che in questo caso mettono in relazione la madre con le giare. Dicendo che sia la madre che le giare «stavano… là», ci suggerisce l’idea che esse dovevano essere là fin dall’inizio: sia la madre che le giare rappresentano quello che «c’era da sempre», cioè tutta la storia d’Israele che s’identifica nell’alleanza data sul Sinai e scritta su tavole di pietra, come le giare sono di pietra (di questo parleremo nella prossima puntata).

Le giare, la madre, la Toràh e Israele
La madre rappresenta Israele e le giare la Toràh incisa nelle tavole di pietra che segnano la storia costante del popolo di Dio. Il tempo imperfetto, infatti, indica un’azione continuativa e duratura nel passato. In parole più semplici: con quella costruzione «era/erano… là» l’autore ci dice che sia la madre che le giare sono il passato che cedono il passo al nuovo che è Gesù. Non si tratta però di sostituzione, quasi che l’alleanza del Sinai fosse superata dall’avvento di Gesù, ma di un superamento nell’ordine della pienezza: il passato che era inerte (le giare giacciono per terra) e che non ha più speranza (manca il vino che tanto preoccupa la madre), ora può riprendere vita e attingere linfa dal nuovo perché Gesù non è «venuto ad abolire la Legge o i Profeti… ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17).
Se Giovanni annette molta importanza al confronto «madre – giare», significa che le due presenze e le modalità del loro essere presenti non sono casuali: la madre non è venuta alle nozze solo perché ha ricevuto un invito, ma «era necessario» che fosse «là», perché essa è rappresentativa dell’attesa di Israele. Nella madre Giovanni condensa tutta l’attesa messianica di tutta la storia del suo popolo; ella è la personificazione di tutto Israele da cui si distingue nettamente.
Da un lato Israele, pur possedendo la Toràh, non ha accolto il Lògos (Gv 1,11), preferendo il buio della sua chiusura anche alle novità di Dio; dall’altro la madre che rappresenta l’Israele che attende si apre al nuovo, prende coscienza che manca il vino e chiede il nuovo vino del Messia, quello che inaugurerà gli ultimi tempi con una abbondanza senza misura.
Allo stesso modo deve dirsi delle giare di pietra, perché anche esse «erano là, distese per terra/che giacevano» e c’erano prima ancora che le nozze avessero inizio. Anche queste hanno uno scopo, che è «la purificazione dei Giudei», ma sono inerti, tanto inerti che devono ripetere all’infinito il rito purificatorio, allo steso modo delle tavole di pietra della Toràh, che dopo essere state spezzate, devono essere riscritte e riconsegnate.
Anche le giare dicono che sono ormai inadeguate a ricevere «la pienezza del tempo» (Gal 4,4) che si apre al Regno definitivo. Bisogna aprirsi al nuovo, la tradizione e le tradizioni non servono più, possono essere qualche volta un rifugio di sicurezza, ma non sono quasi mai una spinta a cogliere «il presente di Dio». A volte invece possono essere deleterie e pericolose: «Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,13).

La funzione ripetitiva delle giare
Le giare sono il simbolo visibile della Toràh scritta e orale, incisa su tavole di pietra (Es 24,12; cf Mateos – Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 133 e 137), che sono diventate il «sacramento» del cuore di pietra di Israele descritto dal profeta Ezechiele e in attesa del trapianto del cuore di carne (cf Ez 11.19; 36,26). La madre e le giare sono il simbolo della sinagoga che attende il Messia:
    a)    Le giare sono pronte per la purificazione dei Giudei, quasi un prolungamento di quanto avvenne ai piedi del Sinai, dove Dio stesso impose che il popolo si purificasse per essere pronto e degno a ricevere la Toràh: «Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo”» (Es 19,10-11).
    b)    La madre/nuovo popolo è già sulla scena perché deve accogliere sia lo sposo, il Figlio, sia i figli che tornano dall’esilio, ponendo fine alle lacrime di Rachele che piange i suoi figli esiliati (cf Ger 31,15). La madre assume un connotato dirompente di profezia, perché annuncia l’arrivo del Messia e, al tempo stesso, chiude il tempo dell’attesa: il vino conservato nella cantina del monte Sinai, il vino della Parola di Dio sta per scorrere abbondante e senza misura inaugurando i tempi del Messia.

Un dato è certo, nella prima parte del v. 6, l’attenzione deve porsi sul tema della purificazione, che quindi è una idea importante e che bisogna approfondire, entrando più intimamente nel testo, da cui scopriamo che l’aggettivo di materia «líthinai – di pietra» è esclusivo di Giovanni (in tutto il NT ricorre solo altre due volte: in 2Cor 3,3 e in Ap 9,20). Gli elementi che Giovanni mette nel versetto sono molteplici e interessanti: le giare sono di pietra, sono in numero di «sei», sono inerti perché giacciono distese per terra e sono sempre in attesa di servire i Giudei per la purificazione. Sono così importanti che anche la quantità del loro contenuto (l’acqua) è misurata: ognuna di esse è «chōroûsai – contenenti due o tre metrète».

Una misura senza misura
Il participio presente attivo femminile che concorda con le giare forma una seconda coniugazione perifrastica, qui attiva. Anche in questo caso, invece di dire che «le giare contengono due o tre metrète», l’evangelista dice che «le giare erano contenenti due o tre metrète». È evidente che l’autore con questa scelta sintattica sottolinea non la normalità, ma l’abbondanza del contenuto, perché in un certo senso prolunga le parole «erano contenenti», che richiama l’attenzione meglio e maggiormente del banale e semplice «contenevano». Nella prima forma, uno è costretto a fermarsi, nella seconda uno prende solo atto e passa avanti.
La metrèta, infatti, è una misura che indica qui una quantità considerevole (vedi riquadro), segno che le giare erano usate da molte persone. In questo contesto, però, è quasi obbligo pensare alla contrapposizione di due fatti: da una parte il vino è «poco», tanto che deve intervenire la madre, dall’altra l’acqua della purificazione è abbondante, anzi sovrabbondante. Il «poco vino» è insufficiente e sottolinea anche la povertà della condizione dei partecipanti al matrimonio, espressione dell’antica alleanza, se rimane chiusa in se stessa; dall’altra parte, «l’acqua che diventa vino» è in quantità incommensurabile e indica l’abbondanza dei tempi messianici, di cui abbiamo parlato a lungo in due puntate precedenti: Un protagonista delle nozze: il vino del Messia, MC 2- 2010, pp. 24-26) e Un protagonista delle nozze: il vino dell’abbondanza, MC 3 – 2010, pp. 22-24). 
Ancora una volta, attraverso la struttura letteraria, i particolari e i personaggi, l’autore del racconto ci riporta ai piedi del Sinai per riprendere in mano di nuovo il codice dell’alleanza e risciacquarlo nel vino delle nozze di Cana che continuano ad essere sempre  di più un «midràsh» di Es 19, mettendoci in guardia che se non ci apriamo al nuovo, simboleggiato dal «vino bello», anche noi rischiamo di chiuderci nelle nostre sicurezze di una religione di comodo, con il rischio di vanificare la Parola di Dio. Delle giare di pietra e del fatto che fossero «sei» parleremo nella prossima puntata.
(29 – continua).

Paolo Farinella

Paolo Farinella