Santa Rosa da Lima e santa Teresa di Lisieux

4 chiacchere con…

23 agosto – 1 ottobre
Poco più di un mese separa la memoria liturgica di due donne straordinarie,
mistiche e sante, la cui vita si intreccia in modo viscerale
con l’attività missionaria della Chiesa.

Per iniziare il nostro colloquio devo fare una domanda un po’ scontata: com’è che due sante come voi che hanno passato gran parte della loro vita in preghiera e meditazione sono, una dottore della Chiesa e protettrice delle missioni e l’altra patrona delle Americhe, delle Filippine e delle Indie Occidentali?

Teresa – Vissi in un tempo (le ultime decadi del secolo XIX) in cui il progresso scientifico e tecnologico si stava imponendo prepotentemente nella società. Appresi così che era stato inventato per le case dei ricchi (sempre più grandi e sempre più alte) uno strumento meccanico chiamato ascensore, che faceva risparmiare la fatica del fare le scale. Per cui mi sono chiesta: perché io, che sono così piccola per anelare alla vetta della perfezione, non posso avere a disposizione un ascensore che mi porti fino al cielo? Scoprii ben presto che l’ascensore che mi avrebbe innalzato verso il cielo, non potevano essere che le amorevoli braccia del Signore Gesù.

Rosa – La mia è una storia un po’ diversa: nata nel ricco Perù il 20 aprile del 1586 da una nobile famiglia di origine spagnola, mi trovai ben presto inserita in una realtà che praticava soprusi e violenze di ogni genere, soprattutto nei confronti degli indios. Decisi pertanto, nella mia piccolezza, di dedicare la mia vita al Padre di tutti gli uomini, affinché attraverso la preghiera incessante si potesse arrivare a convivere nella giustizia e nella pace.

Quindi voi due, pur restando una nel monastero di Lisieux e l’altra nella sua casa di Lima, dove si era creata una nicchia personale al fine di passarvi ore di preghiera e contemplazione, siete riuscite a immettere nel motore della missione la «super» della preghiera, un’impresa veramente notevole, non c’è che dire.

Rosa – Di per sé, io non avevo solo creato un ambiente in cui isolarmi, anche se di quella nicchia avevo assolutamente bisogno per stare con il Signore. Data la posizione della mia famiglia che apparteneva alla nobiltà spagnola, avevo però allestito anche una sorta di ricovero per i bisognosi, in particolar modo per quelli di origine india. A differenza di Teresa io non entrai in convento ma, avendo avuto la possibilità di leggere gli scritti di Santa Caterina da Siena, decisi di fae il mio modello di vita, vivendo fino in fondo l’amore per Cristo, per la Chiesa e per i fratelli indios.

Teresa – Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia dove la fede trasudava da ogni poro della pelle dei miei famigliari, mamma e papà, in particolare papà, che furono degli autentici maestri di vita spirituale per me, tanto che nel Carmelo di Lisieux entrarono altre mie sorelle. Tutto ciò mi aiutò a scoprire che la scala della perfezione non era tanto quella di una dura ascesi da vivere attraverso laceranti mortificazioni, ma bastava vivere la gioia quotidiana nella consapevolezza che il Signore mi avrebbe presa tra le sue mani innalzandomi verso il cielo.

Però entrambe siete passate in quella prova straordinaria che San Giovanni della Croce definisce come: «La notte oscura».

Teresa – Si è vero, l’abbandono totale a Dio è una scelta radicale e anche se io ero molto giovane capii benissimo che la mia doveva essere una spiritualità dell’essere e non del fare. Più che abbandonarmi alle sicurezze delle «opere buone» intrapresi la strada dello spogliamento assoluto, consapevole di comparire alla sera della vita davanti a Dio con le mani vuote, ma anche avendo ben presente l’insegnamento del grande mistico Giovanni della Croce il quale dice che «alla fine della vita saremo giudicati sull’amore». Abbandonarmi a Dio ha significato per me abbracciare il mondo e vivere intensamente la missione della Chiesa.

Rosa – Anch’io sono passata dalla prova della notte oscura che durò ben quindici anni, nella cella di due metri quadrati che mi ero costruita nel giardino di casa mia, dove trascorrevo gran parte delle mie giornate in contemplazione del Signore, cercavo di offrire a Lui tutte le necessità e i bisogni della gente della mia terra. In modo particolare di coloro che subivano la conquista degli spagnoli attraverso soprusi e violenze di ogni genere. Gli indios che erano emarginati e vilipesi, mi aiutarono a capire e a scoprire più radicalmente il mistero della Croce di Cristo. Devo dire anche che quando i calvinisti olandesi assaltarono la città di Lima, corsi ad abbracciare il Tabeacolo per difenderlo dall’assalto degli invasori. Questo a significare che il mondo della contemplazione vive gli stessi drammi e le stesse sofferenze della popolazione dentro la quale le comunità sono inserite.

Quindi si può dire che per vivere da autentici missionari a volte bisogna fare come San Paolo o San Francesco Saverio, a volte invece come voi, in quanto ciascuno può partecipare allo sforzo missionario attraverso l’offerta della propria preghiera affinché il Vangelo sia annunciato a tutte le genti.

Rosa e Teresa – Per essere autentici missionari non occorre fare grandi cose; più semplicemente bisogna saper fare in modo grande le piccole cose di ogni giorno e la Missio Ad Gentes si vive non solo andando lontano, ma avendo il coraggio di andare e pregare per i “lontani”, che il più delle volte vivono poco distanti da noi.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Donne, piano anticrisi

Eticamente

La discriminazione delle donne in Italia e nel mondo è lontana dall’essere debellata. Anche sul piano economico. Eppure le aziende guidate da donne ottengono le migliori performance. Dando un contributo sostanziale.

Ogni anno al palazzo di vetro si riunisce la commissione dell’Onu sullo stato delle donne (Csw, Commission on the status of women) che ha il compito di monitorare la condizione femminile nel mondo. Anche per il 2012, la Csw ha lanciato un allarme: le donne non solo sono le più colpite dalla crisi, ma partecipano con più difficoltà ai piani di recupero e di rilancio dell’economia.
La popolazione femminile ha subito più danni sul fronte dell’occupazione, l’ultimo rapporto dell’Oil (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro) stima che, dallo scoppio della crisi del 2007 a oggi, 22 milioni di donne, soprattutto nei paesi industrializzati, abbiano perso il lavoro.

Esistono vari indici per misurare la condizione femminile, due i più importanti e riconosciuti a livello internazionale: il Ggg (Global Gender Gap) che misura quattro fattori differenziali: la partecipazione economica, il livello di educazione, il potere politico, lo stato di salute.
E il Gei (Gender Equity Index) ideato e utilizzato dalla rete non governativa Social Watch,  che tiene conto delle differenze nel campo dell’istruzione, del reddito e della rappresentanza nei luoghi decisionali.
Secondo il Gei 2012, l’Italia è al settantesimo posto su 154 paesi.
La situazione delle donne italiane è ben descritta nello studio «Lavori in corsa», pubblicato in occasione del trentennale della Cedaw, la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Le discriminazioni che le donne italiane subiscono sono molte, ma, limitandosi al settore economico e finanziario, si nota come le principali riguardino il mondo del lavoro. In Italia lavora solo una donna su due. Metà delle donne italiane non solo non ha lavoro, ma, a quanto dice l’Istat, neppure lo cerca.
Per le lavoratrici italiane resta enorme il problema della conciliazione dei tempi di lavoro con la vita famigliare a causa della mancanza di servizi essenziali come gli asili nido, questo porta una donna su cinque a lasciare il posto dopo la mateità. E ancora, grandi sono le disparità salariali che possono toccare fino al 20% dello stipendio, inoltre la carriera professionale è più discontinua e meno gratificante e, quando la lavoratrice va in pensione, riceve un assegno più basso e questo espone le donne anziane a un maggiore rischio di povertà.

Anche se scelgono la strada del lavoro autonomo, le donne sono più discriminate. Secondo un recente studio del Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) le imprenditrici pagano un costo più alto per ottenere prestiti (fino a 50 punti base in più rispetto agli uomini) e una donna che presenta come garanzia quella di un’altra donna è considerata dalle banche come il «peggior cliente», questo a dispetto del fatto che le imprese femminili hanno un tasso di fallimento più basso di quelle maschili e sono più redditizie: fino al 27% in più nella redditività commerciale e del capitale investito.
Uno studio della Banca d’Italia dimostra che se l’occupazione raggiungesse il 60% delle donne in età produttiva (come stabilito dagli obiettivi europei di Lisbona), il Pil crescerebbe di 7 punti percentuali, anche perché per ogni 100 donne che lavorano si creerebbero 15 posti in più nei servizi.
All’origine di tutte queste forme di discriminazione e di esclusione economica, c’è senza dubbio la scarsa rappresentanza della popolazione femminile nei centri decisionali dell’economia, della politica e, addirittura, della cultura. Meno del 20% sono donne tra i dirigenti di azienda, i componenti dei consigli di amministrazione, i direttori scolastici, i cattedratici, per non parlare delle istituzioni, dove le donne non superano il 17%. Persino nel terzo settore e nella cooperazione sociale, la situazione non cambia. Le donne sono tante, talvolta la maggioranza tra gli operatori e i volontari, ma sono un’infima minoranza se si cerca tra i responsabili.
Ciononostante, le donne sono protagoniste di iniziative economiche solide, caratterizzate, in prevalenza, da due fattori di successo. Il primo tocca la dimensione comunitaria, le imprese delle donne non sono quasi mai individualiste: contano sempre sulla presenza di una rete o famigliare o di gruppo. Il secondo riguarda l’innovazione, molte imprese «in rosa» sono ingegnose e arricchiscono l’attività produttiva con idee nuove e vincenti.
Recentemente il parlamento italiano ha approvato una legge che obbliga, in linea con gli altri paesi europei, a portare la presenza femminile nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa a un terzo dei componenti. Legge che ha dovuto superare molti dubbi e pesanti critiche.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Il sostegno a distanza pilastro della cooperazione

Cooperando…

«Mi piacerebbe fare qualcosa per quelle persone nel Terzo mondo a cui manca tutto, a cominciare dal cibo. Ma con tutti questi progetti, associazioni, organizzazioni e campagne non ci si capisce niente. E poi chissà che fine fanno i miei soldi. Se adotto un bambino a distanza magari farò solo qualcosa di piccolo, ma almeno sono certo che quel bambino potrà studiare, mangiare, curarsi se si ammala e che per lui qualcosa cambierà davvero».

È certamente successo a tanti di sentire parole come queste pronunciate da un familiare, da un amico o da un conoscente. E, a tanti, è successo di essere addirittura chi le pronunciava, se è vero, come rileva un recente studio dell’Agenzia per il Terzo Settore, che sono oltre due milioni gli italiani coinvolti nel sostegno a distanza. Un moto istintivo come quello di andare in aiuto di un bambino genera, sommato a milioni di altri gesti simili, un movimento di risorse pari a cento milioni di euro all’anno: un quarto dell’intero ammontare annuo delle iniziative di solidarietà e cooperazione internazionale.
Questo è il quadro tratteggiato dalle fonti ufficiali, in realtà, la galassia del sostegno a distanza appare più complessa e variegata. Lo studio dell’Agenzia per il Terzo Settore, infatti, si riferisce a 111 organizzazioni no-profit italiane considerate più rappresentative, ma non tiene conto delle numerosissime realtà, spesso missionarie, che sono comunque attive nel sostegno a distanza. Secondo il Forum permanente del Sostegno a distanza (ForumSaD), infatti, le organizzazioni che si occupano di SaD sarebbero oltre 400 e raccoglierebbero circa 360 milioni di euro. A prescindere dalla quantificazione precisa, comunque, si tratta certamente di cifre in grado di dare un impulso decisivo al settore della solidarietà internazionale.

Una panoramica del SaD
«Sostegno a distanza» (SaD) è il termine usato per riferirsi a quelle iniziative di solidarietà attraverso le quali un donatore garantisce con il suo contributo periodico la sussistenza, l’istruzione e l’assistenza sanitaria a una persona o a un gruppo di persone. I contributi sono veicolati dalle diverse associazioni, Onlus e Ong, che fanno da ponte fra chi dona e chi riceve. La definizione «adozione a distanza» è largamente utilizzata nel linguaggio comune per riferirsi al SaD, ma a livello istituzionale non si parla di adozione poiché quest’ultima ha una valenza giuridica e sociale che il sostegno a distanza non ha.
Quella del sostegno a distanza è una declinazione della solidarietà ormai consolidata anche in Italia, sebbene abbia avuto origine all’estero: Save the Children, il colosso inglese della cooperazione internazionale, ha avviato questo genere di attività fin dagli anni Trenta del XX secolo; oggi l’organizzazione che gestisce il numero più elevato di adozioni è World Vision, con quattro milioni di bambini che hanno beneficiato, direttamente o indirettamente, del sostegno a distanza, seguita da Compassion inteational, con 1,2 milioni di bambini beneficiari. Compassion è una realtà significativa anche nel nostro Paese, dove gestisce, grazie alla sua sede italiana, oltre quindicimila adozioni. Ma la palma di autentico gigante delle adozioni a distanza in Italia va certamente ad ActionAid che, con i suoi oltre ottantasette mila SaD, distacca l’Avsi, secondo colosso, di più di cinquantamila unità. Il contributo richiesto dalle organizzazioni di SaD ai donatori si aggira intorno ai 300 euro annuali e in genere comprende le spese per la frequenza scolastica, per il cibo e per le eventuali cure mediche. Molte organizzazioni prevedono una trattenuta sulla donazione per i costi di gestione; le quote sono variabili e arrivano a un massimo del 25%.

Come è cambiato il sostegno a distanza
Pioniere delle adozioni a distanza in Italia è il Pontificio Istituto per le Missioni Estere (Pime), che ha avviato le prime iniziative nel 1969. Da allora questa forma di solidarietà ha cominciato a diffondersi fino all’impennata degli anni Novanta, in cui si è assistito a un vero e proprio boom. Molte organizzazioni (fra le quali anche MCO) hanno a quel punto avvertito l’esigenza di dotarsi di strutture e personale adeguati per gestire quella che stava diventando una mole enorme di materiale e informazioni da trasmettere ai donatori perché questi continuassero ad avere la certezza della massima trasparenza nell’utilizzo dei fondi. Tuttavia, con l’istituzionalizzazione e l’affermazione, specialmente all’estero, di vere e proprie multinazionali dell’adozione, hanno cominciato a sorgere i primi casi di mala gestione dei fondi.
Una bordata al mondo delle adozioni a distanza arrivò, nel 1998, dai risultati di un’inchiesta di tre anni condotta da alcuni giornalisti del Chicago Tribune. Dopo aver constatato le dimensioni che il fenomeno stava assumendo negli Stati Uniti (fra il 1992 e il 1996 gli americani avevano donato più di 850 milioni di dollari solo alle quattro più grandi organizzazioni statunitensi), i reporter del Chicago Tribune – senza rivelare la loro professione – iniziarono a sostenere a distanza dodici bambini appartenenti ai programmi delle quattro ong e si recarono poi nei paesi di residenza dei bambini per verificare di persona i benefici ricevuti dai piccoli. Accanto a risultati positivi e dimostrazioni di effettiva trasparenza, i giornalisti scoprirono anche una serie di gravi distrazioni di fondi: in un feroce articolo dal titolo Instancabili campagne di false promesse (Relentless campaigns of hollow promises), i reporter documentarono episodi nei quali le organizzazioni avevano accettato migliaia di dollari per bambini che erano morti da anni, in alcuni casi anche scrivendo a nome dei piccoli lettere false, o avevano usato il denaro destinato ai bambini per acquistare computer o pagare lezioni di ballo o, ancora, avevano negato i farmaci antimalarici ai bambini nel programma di sostegno con la scusa che fornire assistenza sanitaria avrebbe creato dipendenza nei beneficiari. Lo scandalo che ne seguì contribuì certamente a spingere il mondo delle organizzazioni attive nel SaD a dotarsi di criteri, linee guida e principi che regolamentassero in maniera rigorosa la gestione dei fondi e i meccanismi di rendicontazione nei confronti del donatore.

L’oggi: nuove consapevolezze
Questa maggior tensione verso la trasparenza non ha purtroppo impedito che si ripetessero episodi di utilizzo improprio dei fondi SaD, anche da parte di organizzazioni italiane, ma ha certamente contribuito a creare una maggior consapevolezza nel donatore di quelli che sono i mezzi a sua disposizione per verificare il buon operato dell’ente al quale ha scelto di destinare i fondi.
Di più: la riflessione scaturita dagli scandali ha portato il mondo della cooperazione a confrontarsi con una serie di pro e contro delle adozioni a distanza.
Un documento del DfID (il dipartimento per lo sviluppo internazionale britannico) riassume in modo molto efficace questi pro e contro. Da un lato, si legge nel documento, il SaD ha dalla sua una serie di grandi vantaggi:
– innanzitutto permette di «dare un volto a questioni complesse» suscitando nel donatore la volontà di comprendere le problematiche del luogo in cui vive il bambino «adottato» e verificando grazie al contatto con il bambino i progressi reali;
– inoltre aiuta a stabilire un legame non solo con il singolo bambino ma anche con la sua comunità, che viene così coinvolta attivamente;
– infine, poiché il SaD dura di solito fino alla conclusione degli studi del bambino sostenuto, è possibile per le organizzazioni inserire l’intervento in un arco temporale più ampio e graduale che permette maggior programmazione e sostenibilità.
D’altro canto, è anche vero che il SaD implica spesso costi amministrativi elevati (si pensi alla necessità di raccogliere foto e lettere e inviarle ai donatori) e che risolve solo problemi immediati come l’accesso all’istruzione e al cibo o l’acquisto di vestiario, senza però riuscire a influire su problemi più ampi come la lotta all’HIV o la regolamentazione del commercio internazionale, che sono fra le principali cause della povertà. Infine, capita che il SaD finisca per essere il nome che si dà a quello che in effetti è lo sviluppo comunitario e che i fondi delle adozioni finiscano per mescolarsi ad altre donazioni per sostenere progetti a beneficio di tutta la comunità invece di essere diretti solo al bambino «adottato». Da questo punto di vista, tuttavia, negli ultimi anni si è registrata anche una maggior consapevolezza da parte dei donatori rispetto al fatto che il sostegno isolato e riservato solo a un bambino perde parte del suo significato se il contesto circostante non partecipa dei benefici.

I Missionari della Consolata e il SaD
I Missionari della Consolata fanno adozione a distanza fin dai primi tempi della loro attività missionaria in Kenya, anche se in quei tempi non si chiamava certamente così. Il cosiddetto «Collegio dei Principini» a Fort Hall, l’orfanotrofio per bambini nella fattoria del Mathari, le prime scuole per ragazze (completamente gratuite), gli orfanotrofi in varie missioni, erano possibili solo grazie al sostegno continuo dei benefattori. Per questo ogni anno, a gennaio, puntualmente, l’allora bollettino «La Consolata» presentava la foto di bambini che ringraziavano i benefattori per la loro generosità.
La diocesi di Marsabit, fin dalle sue origini ha investito tantissimo nella scuola creando una rete incredibile di asili in tutti i villaggi raggiunti, con scuole elementari in tutte le missioni e scuole secondarie a livello distrettuale. Migliaia hanno studiato in queste istituzioni rese possibili, soprattutto all’inizio, esclusivamente dal sostegno a distanza di tanti benefattori. Lo stesso è accaduto in tutte le nazioni africane dove sono presenti, dall’Etiopia al Congo RD, dal Tanzania al Mozambico. In America Latina in ogni missione c’erano (e ci sono) grandi collegi, dove, accanto a coloro che possono pagare, c’è un grande numero di studenti poveri aiutati da qualche progetto di sostegno a distanza organizzato dalla missione locale. Fare il nome di tutte queste iniziative è quasi impossibile. Spesso sulle pagine di questa rivista abbiamo dato spazio a racconti e relazioni che trattavano di questo argomento, dalla Familia ya Ufariji di Nairobi al progetto scolastico per gli Yanomami, dalla grande scuola negli slum di Guayaquil in Equador alle scuole nell’Etiopia.
Per anni questo è stato realizzato con uno stile semplice e famigliare, senza strutture, per poter investire il 100% di quanto ricevuto dai benefattori a vantaggio dei bambini, con una visione che teneva conto del contesto globale: non il bambino singolo, ma il bambino nella sua comunità e nella sua scuola. Questo per dei motivi molto semplici:
– un bambino in una scuola mal gestita e di scarsa qualità non ha alcun profitto;
– non si creano privilegiati: bambini con benefattori «ricchi» e bambini con benefattori «poveri», così ognuno riceve quello che è indispensabile per la scuola, per la salute e – se necessario – anche per il sostentamento fuori della scuola in caso di famiglie molto povere;
– evitare situazioni imbarazzanti, soprattutto nel caso di una corrispondenza diretta tra bambini e benefattori, con richieste di beni non necessari o scambio d’informazioni che possono creare aspettative sproporzionate nei bambini/studenti;
– ridurre al minimo i costi di gestione;
– evitare di attirare la cupidigia di autorità e politici locali, tentati di appropriarsi dei programmi di adozione a proprio vantaggio.
Questo, in molti casi, continua ancora, ma per far meglio fronte alle nuove situazioni sia nei paesi del sud del mondo che in Italia, ecco che è nata Missioni Consolata Onlus (Mco) a cui fanno riferimento tantissimi donatori e con cui cornoperano anche decine di altre Onlus o Ong impegnate nelle adozioni e legate a questo o quel missionario, a questa o quella missione.
Ve ne parleremo nella prossima puntata con un’intervista ad Antonella Vianzone, la signora che da oltre 15 anni segue questo settore nella Mco.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Chiamati a libertà

Studi e fatti sulla libertà religiosa nel mondo

«Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13). «Il XX secolo – e l’ancor giovane XXI – sembrano segnati da una tragica contraddizione: essere il tempo del riscatto e della proclamazione dei diritti, ma essere anche il tempo in cui i diritti fondamentali possono essere ancora calpestati» (Maria Francesca Davì).

Dichiarazioni sulla libertà
La Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta a Parigi, il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dopo aver sottolineato come «tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti», negli articoli 18-21 sancisce il diritto alla libertà di pensiero e di opinione, di fede e di coscienza, di parola e di associazione. Essa costituisce la base di molte conquiste civili ed è l’orizzonte ideale di molte Costituzioni nazionali, tra cui la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, confluita nel 2004 nella Costituzione europea.
L’articolo 18 della Dichiarazione è esplicito nel sottoscrivere l’importanza della libertà religiosa. «Ogni individuo – si legge – ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti».
Oggi il diritto alla libertà religiosa è pertanto tutelato dalla maggior parte delle legislazioni degli stati modei e, in sede internazionale, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
In Italia tale diritto viene enunciato in modo ampio dalla Costituzione all’articolo 19, dove si mette in risalto che ogni persona ha diritto di professare la propria fede, di comunicarla ad altri e di praticarla in pubblico e in privato. È però un diritto che va collegato ad altri principi costituzionali, in primo luogo al principio di eguaglianza che vieta qualsiasi discriminazione a causa della religione professata, come recita l’articolo 8: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge».
L’Accordo di revisione del Concordato del 1929, concluso tra l’Italia e la Santa Sede nel 1984, ha poi eliminato il principio della religione cattolica come religione di stato, rafforzando in tal modo il principio di laicità nel nostro ordinamento costituzionale. Questo principio va inteso non come indifferenza verso il fenomeno religioso, ma come eguale distanza nei confronti di tutte le confessioni. Viene cioè riconosciuta la piena autonomia delle confessioni diverse dalla religione cattolica e il loro diritto di organizzarsi.
Il principio stabilito dall’articolo 8 rappresenta perciò uno dei pilastri dell’ordinamento giuridico italiano. Esso si basa sulla constatazione dell’esistenza del pluralismo delle confessioni religiose e sulla libertà religiosa riconosciuta a tutte le confessioni. A questo fine, come è affermato nella Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione dell’aprile 2007, «l’Italia favorisce il dialogo interreligioso e interculturale per far crescere il rispetto della dignità umana e contribuire al superamento di pregiudizi e intolleranze».
La libertà religiosa s’innesta, dunque, nel grande albero dei diritti umani, della libertà e della dignità dell’uomo. In altre parole la libertà è l’ambito dentro cui ha origine e si attua la libertà religiosa. Ne è un aspetto fondamentale e irrinunciabile. Nell’affermarla o negarla, molto dipende dal valore che diamo alla libertà senza fraintendimenti o limitazioni dettati da pregiudizi o ideologie. «Possiamo essere liberi solo se tutti lo siamo», scriveva il filosofo Georg Hegel; «La mia libertà finisce dove comincia la vostra», gli ha fatto eco Martin Luther King. Perché la libertà è come l’aria, se l’aria è viziata si soffre e ci si ammala; se l’aria manca o è insufficiente, si soffoca e si muore.

La lettera ai Galati di Paolo
Il problema della libertà è intimamente connesso anche con la fede cristiana. Per san Paolo i cristiani sono per definizione «chiamati a libertà» (Gal 5, 13), e l’azione salvifica di Gesù viene definita liberazione o redenzione. La lettera di Paolo ai cristiani della Galazia può infatti essere considerata un inno alla libertà. Cristo ci ha liberati da ogni schiavitù «perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5, 1).
L’azione dello Spirito, scrive Paolo, è sorgente di libertà e ha per fine l’amore. Si tratta dell’amore di Cristo riversato nei nostri cuori dallo Spirito, che sconfigge il potere del nostro egoismo. In tal modo il cristiano raggiunge la vera libertà e di conseguenza la liberazione dal dominio della legge. L’uomo che si lascia guidare dallo Spirito è al di sopra della legge, e compie liberamente ciò che la volontà divina chiede.
Il tema della liberazione è centrale nell’esperienza ebraico-cristiana e quindi in tutta la Sacra Scrittura. Gesù è annunciato nei Vangeli come colui che porta la liberazione (Lc 4, 18.21). Gli apostoli la considerano definitiva (Gv 8, 36) e nelle dichiarazioni successive è specificata come liberazione dal peccato, dalla morte eterna, dal dominio di satana e dal male, dalla schiavitù della carne e dalla legge. La liberazione da queste schiavitù ha avuto con Cristo una manifestazione nuova, aperta a promesse definitive. Dio, facendosi conoscere per mezzo di Cristo come liberatore e salvatore, ha così dimostrato il suo vero volto all’uomo e nello stesso tempo l’uomo è uscito dalla sua alienazione e ha ricuperato il suo rapporto diretto e liberante con Dio. Senza questo rapporto con Dio che libera, la fede cristiana è morta e mortificante, si perde in pratiche alienanti e pagane ed è priva di forza interiore e missionaria. Il termine di questo cammino di liberazione è l’amore, la capacità di amare e di volere il bene di tutti gli uomini.

Il Concilio Vaticano II
Tuttavia, il cammino verso la libertà, specialmente in questi ultimi secoli, non è stato un cammino esclusivo dei cristiani, la cui fede anzi da varie parti è stata accusata di essere un impedimento alla libertà. L’illuminismo ha parlato di libertà al di fuori e anche contro la società cristiana del tempo. La sinistra hegeliana, e in particolare Marx, ha sostenuto che la religione è una forma di schiavitù e di alienazione e quindi non può presumere di parlare e guidare alla libertà. Nietzsche ha prefigurato nel «superuomo» l’ideale della persona libera da ogni infantilismo religioso. Freud e la psicanalisi hanno indicato la via di un’autentica liberazione che porta l’uomo alla maturità e lo purifica da quei processi inconsci che lo inducono alla religione.
Per la Chiesa del tempo questi modi di intendere la libertà sono stati degli scossoni, che hanno stimolato nuovi studi e approfondimenti. Se ne è reso conto il Concilio Vaticano II, che nella costituzione Gaudium et Spes ha riconosciuto come «a ragione i nostri contemporanei tanto tengono e ardentemente cercano» la libertà (n. 17) da anelare «a una vita interamente libera, degna dell’uomo» (n. 10). Il Concilio ha però anche ammesso che molti aspirano a «una vera e propria liberazione dell’umanità dai soli sforzi umani» (n. 10), secondo processi laici e secolari di liberazione, senza alcun riferimento alla fede cristiana e a volte in aperta contestazione ad essa.
La Chiesa, portatrice dell’annuncio liberatore di Cristo, non sempre, lungo la sua storia ha favorito il cammino dell’umanità verso forme ampie e condivise di libertà. Essa si è trovata a ostacolare quei movimenti religiosi e culturali che a partire dai secoli centrali del medioevo perseguivano nuove mete di libertà, lontane dalle sue strutture religiose. In questi ultimi secoli non solo si è opposta all’illuminismo antireligioso, al marxismo ateo e ad altri orientamenti culturali modei, ma ha anche contrastato le conquiste di libertà che essi hanno attuato nella società e negli individui, creando gravi problemi di coscienza in molti cristiani.
Questa tendenza è stata ufficialmente rotta dal Vaticano II, ma le premesse risalgono molto indietro nel tempo. L’atteggiamento di opposizione dei cristiani ai processi laici di liberazione dell’uomo era infatti venuto progressivamente attenuandosi, fino alla «Dichiarazione sulla libertà religiosa» della Dignitatis Humanae, emanata il 7 dicembre 1965 da Paolo VI unitamente ai Padri conciliari. Pur avendo avuto una larga risonanza positiva nell’opinione pubblica, la Dichiarazione fu contestata all’interno stesso del Concilio da alcuni padri conciliari come pericolosa per la fede cristiana.
La Dichiarazione conciliare, nel proemio, è esplicita nel riconoscere che il numero «di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabilità personale» sono notevolmente aumentati, «mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive». Tale esigenza di libertà «riguarda soprattutto i valori dello spirito e in primo luogo il libero esercizio della religione nella società» (n. 1). «Il contenuto di tale libertà è che gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsiasi potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente e pubblicamente, in forma individuale o associata». Inoltre il Concilio dichiarava che «il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione» (n. 2). Lungo la storia della Chiesa non c’era mai stata una presa di posizione così netta sulla libertà religiosa come appunto quella della Dignitatis Humanae.

Gli incontri di Assisi
A questi principi si sono ispirati sia Paolo VI, sia Giovanni Paolo II nell’esercizio del loro pontificato. Ad Assisi, luogo d’incontro e di dialogo tra culture e religioni, nel 1986 Giovanni Paolo II convocò la prima giornata di preghiera per la pace, alla quale furono invitati i rappresentanti delle principali religioni del mondo, dimostrando in tal modo come poteva essere concretamente vissuta e attuata la libertà religiosa, attraverso cioè il dialogo tra le religioni e la preghiera. L’iniziativa del papa suscitò grande scalpore, e non mancarono coloro che denunciarono il rischio che l’incontro di Assisi trasmettesse un messaggio per cui tutte le religioni sono più o meno buone e lodevoli, e che perciò suscitasse scandalo tra i fedeli, perché poteva implicare errori come l’indifferentismo, l’agnosticismo e il sincretismo religioso.
Ma anche di fronte a tali contestazioni Giovanni Paolo II non desistette dal suo impegno apostolico di convocare ad Assisi una seconda giornata interreligiosa per la pace il 24 gennaio 2002. In continuità con quest’ultimo e a vent’anni da quello del 1986, se ne è tenuto un altro il 4-5 settembre 2006, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. «Ripetere Assisi – ha ricordato durante l’incontro mons. Vincenzo Paglia, vescovo di Tei-Nai-Amelia – vuol dire irrobustire e affinare l’arte dell’incontro, che richiede pazienza e audacia», e «rende possibile la convivenza anche nella diversità» contro ogni fanatismo e fondamentalismo religiosi.
Per il card. Paul Poupard, allora presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, presente all’incontro, «tre sono le sfide» che chiamano oggi in causa ogni credente:
– «approfondire la propria tradizione religiosa, non in maniera selettiva, ma nella piena fedeltà ad essa»;
– «incontrare i fedeli di altre religioni in uno spirito di reciproco rispetto, fiducia e amicizia»;
– infine, «combattere insieme per la promozione della dignità di ogni persona».
Il cardinale ha naturalmente ammesso che il dialogo tra religioni diverse non è sempre facile, ma che è importante non abbandonare la speranza. Ha inoltre precisato che il dialogo «non è e non deve essere considerato come un segno di debolezza da parte del credente. La ragione dell’impegno nel dialogo interreligioso non è l’ignoranza o l’insoddisfazione verso la propria religione. Al contrario, ci si avvicina a un altro credente perché si è fermamente radicati nella propria tradizione religiosa».

Il quarto incontro di pace ad Assisi
L’annuncio di un quarto incontro ad Assisi è arrivato a sorpresa nel 2011, all’Angelus di una domenica di aprile, nel momento in cui Benedetto XVI «dialoga» con la moltitudine dei fedeli in Piazza San Pietro. L’incontro interreligioso dedicato alla pace e al dialogo si è svolto il 27 ottobre 2011 in occasione del venticinquesimo anniversario dell’incontro del 1986 con Giovanni Paolo II. L’invito era stato rivolto a tutti i rappresentanti delle principali religioni del mondo, ma – ha osservato il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di stato Vaticano – l’invito potrebbe essere esteso anche ai non credenti. Quello di invitare ad Assisi «alcune personalità del mondo della scienza e della cultura che si definiscono non religiose – ha affermato il cardinale – non è solo per il fatto che la costruzione della pace è una responsabilità di tutti, credenti e non credenti, ma, più profondamente, perché siamo convinti che la posizione di chi non crede o fatica a credere, possa svolgere un ruolo salutare per la religione in quanto tale, per esempio nell’aiutare a evidenziae possibili degenerazioni o inautenticità che allontanano da Dio».
Il quarto incontro di Assisi è stato preceduto da un importante messaggio di Benedetto XVI per la giornata mondiale della pace del 2011, celebrata come tutti gli anni il 1° gennaio. «Anche l’anno che chiude le porte – ha scritto il papa nel suo messaggio – è stato segnato, purtroppo, dalla persecuzione, dalla discriminazione, da terribili atti di violenza e di intolleranza religiosi». «In tale contesto ho sentito particolarmente viva l’opportunità di condividere con voi alcune riflessioni sulla libertà religiosa, via per la pace». «Infatti – ha continuato il papa – risulta doloroso constatare che in alcune regioni del mondo non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale. In altre regioni vi sono forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i credenti e i simboli religiosi».
Il papa si riferiva con queste parole a quanto è accaduto e continua ad accadere dall’India al Medio Oriente, dall’Africa all’America, dove molti cristiani hanno perso la vita a causa della loro fede (25 nel 2010, 26 nel 2011). Il nome forse più conosciuto è quello di mons. Luigi Padovese, assassinato in Turchia il 3 giugno 2010, come qualche anno prima, il 5 febbraio 2006, don Andrea Santoro. Ma il papa richiama l’attenzione anche su ciò che sta accadendo nel nostro mondo occidentale, dove la religione subisce una crescente emarginazione. La religione, qualsiasi religione, viene sempre più considerata estranea alla società modea, se non addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedire la sua influenza nella vita pubblica e sociale. «Agendo così – osserva il papa – non soltanto si limita il diritto dei credenti all’espressione pubblica della loro fede, ma si tagliano anche le radici culturali che alimentano l’identità profonda e la coesione sociale di numerose nazioni».
Il messaggio di Benedetto XVI è una risposta forte e perentoria all’intolleranza religiosa, al radicalismo, alla violenza, poiché, secondo il papa, i diritti alla libertà religiosa, riconosciuti e sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sono oggi nuovamente minacciati da atteggiamenti e ideologie che ostacolano in ogni modo la libera professione della religione.
Nella libertà religiosa – ha scritto il papa – trova, infatti, espressione la specificità della persona umana ed è alla sua luce che si comprendono l’identità, il senso e il fine della persona. «Il diritto alla libertà religiosa è radicato nella stessa dignità della persona umana» ha affermato; inoltre ha ancora ricordato che la libertà religiosa è la via della pace, senza la quale è impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura.
Malcolm X, il leader afroamericano assassinato nel 1965,  diceva che «non si può separare la pace dalla libertà, perché nessuno può essere in pace senza avere la libertà». Nel suo messaggio il papa ricorda alle grandi religioni e a noi come ora, «nel mondo globalizzato, caratterizzato da società sempre più multietniche e multiconfessionali», tutti possiamo costituire un fattore di unità e di pace, di dialogo fra tutte le religioni, dialogo che sta molto a cuore a papa Benedetto XVI in vista del bene comune e della pace nel mondo.

Giampietro Casiraghi


Gianpietro Casiraghi




I missionari della Consolata nell’Africa equatoriale

110 anni fa: l’inizio di una bellissima avventura

L’8 maggio 1902, dalla stazione di Porta Nuova a Torino i primi 4 missionari della Consolata prendono il treno delle 9.45 per Marsiglia, da dove il 10 si imbarcano per Zanzibar sbarcandovi il 28. Da qui il 5 giugno si trasferiscono a Mombasa e il 12 raggiungono Nairobi in treno con un viaggio di 24 ore. Il 20 giugno, ancora in treno, si trasferiscono a Naivasha, da dove partono in carovana per Tuthu il 26 mattina arrivandovi il 28 sera. Il 29 giugno 1902 celebrano la prima messa nel villaggio di Karoli.

«Due volte già su questo periodico abbiam fatto parola del nuovo Istituto della Consolata per le missioni estere. La prima nel novembre 1900, annunziandone l’erezione, fatta dal Rettore della Consolata, con l’approvazione, encomio ed appoggio degli E.mi Arcivescovi e Vescovi delle provincie ecclesiastiche di Torino e Vercelli. La seconda nel luglio del 1901, quando fu benedetta ed aperta al pubblico la cappella dell’Istituto in Torino, Corso Duca di Genova, n. 49.
Dicevamo allora che il primo campo apostolico assegnato ai nuovi missionari erano i popoli Galla, abitanti a sud dell’Abissinia sin presso le rive del fiume Tana. Per riuscir in quest’opera d’evan­gelizzazione si studiarono due progetti. Quello d’andar difilato dalla costa fino a queste località ed ivi stabilirsi, e quello d’un avanzamento graduale, fermandosi dapprima in qualche regione confinante coi Galla, ma meno lontana dalle comunicazioni col mondo civile, e di qui avanzarsi più tardi passo passo sino ai paesi Galla. Il primo progetto, se per qualche lato pareva attuabile, presentava pure gravi difficoltà. Occorrevano mesi di viaggio in carovana, attraverso a località malsanissime, tra popoli selvaggi e ladroni e, dopo tutto, colla prospettiva di non potervi forse arrivare, come successe a parecchie spedizioni depredate e massacrate dagli indigeni. Nondimeno, fermi nell’idea di tentare l’impresa, si fecero molte pratiche per aver informazioni, appoggi e difesa a tale intento: pratiche assai lunghe e laboriose e che non furono scevre di penose delusioni.
Gravi ragioni militavano invece a favore del secondo progetto, per cui già si propendeva ad adottarlo, quando sopravvennero difficoltà politiche, che sarebbe troppo lungo enumerare, ma che assolutamente obbligarono a questa scelta.
Fra le regioni poi che presentavano maggiore convenienza per un futuro avanzamento verso i Galla, la più indicata era il Kikùju, a sud-ovest del monte Kenia, massime perché facilmente accessibile mediante la nuova ferrovia dell’Uganda, aperta soltanto nello scorso marzo, e perché località sana e di belle speranze, come si vedrà dalla descrizione che ne faremo in seguito.
I necessari accordi col Rev.mo Vicario Apostolico di Zanzibar, Mons.
Allgeyer, dal quale dipende il Kikùju, furono facilitati assai dall’opera intelligente e delicata del R(egio). Console italiano a Zanzibar, cav. Giulio Pestalozza, al quale ripetiamo qui l’espressione della nostra profonda riconoscenza, ed auguriamo e preghiamo dalla Consolata degno compenso di celesti benedizioni. Pei buoni uffici di questo egregio funzionario, S. E. Mons. Allgeyer fu così ben disposto verso i nostri missionari, che non solo acconsentì loro di stabilirsi nel Kikùju, ma, come diremo innanzi, volle con grave suo disagio, accompagnarli egli stesso fino al posto della loro prima missione, istruendoli su quanto potesse giovare per la buona riuscita dell’opera. La carità apostolica e la sollecitudine patea, dimostrate verso i nostri da questo piissimo e zelante Vícario Apostolico, sono superiori ad ogni elogio, e noi segnaliamo il venerando Prelato all’ammirazione ed alla riconoscenza dei divoti della Consolata, acciò lo sostengano colle loro orazioni per la prosperità della sua persona e la riuscita delle sue opere apostoliche.
Fissata per tal modo la località ove iniziare l’impresa, si dispose per l’immediata partenza dei missionari, la quale per suggerimento dello stesso Monsignore doveva esser limitata a pochi in­dividui, stante le difficoltà d’un primo impianto in luoghi quasi sconosciuti e non per anco aperti alla civiltà. Pertanto l’8 maggio, benedetti dal nostro venerato Arcivescovo, il Cardinale Richelmy, partivano da Torino i primi missionari della Consolata, in numero di quattro: due sacerdoti, D(on). Tommaso Gays da Rivara e Teol(ogo). Filippo Perlo da Caramagna, e due confratelli secolari, Lusso Celeste e Falda Luigi, entrambi torinesi.
Imbarcatisi il 10 maggio a Marsiglia, arrivarono il 28 dello stesso mese a Zanzibar città capoluogo d’un’isola dello stesso nome nell’Oceano Indiano. La traversata fu felicissima grazie alla protezione della SS. Vergine Consolatrice, sopra di essi invocata da tante anime buone, le quali vivamente s’interessano alla riuscita di un’opera di tanta gloria a Dio. Tralasciamo di parlare di questa prima parte del viaggio e seguiamo senz’altro i nostri missionari da Zanzibar al luogo di loro destinazione. Lo faremo stralciando dalle interessanti lettere scritte nelle varie tappe del viaggio dal predetto Teol. Perlo.».

Il testo che vi abbiamo riproposto, usando un carattere tipografico simile a quello originale, è l’editoriale de «La Consolata» n. 9/1902, pp. 131-132, probabilmente scritto dal canonico Giacomo Camisassa, allora il direttore del «periodico» (così era definita la piccola rivista pubblicata dal santuario della Consolata di Torino, madre di questa nostra pubblicazione).
Narra l’inizio di una incredibile avventura missionaria dalla quale sono risultati frutti miracolosi e inaspettati nel giro di un solo secolo. P. Candido Bona, professore di Storia della Chiesa per generazioni di missionari, il card. John Njue di Nairobi e il nunzio apostolico del Kenya, mons. Alain Lebeaupin, sono convinti cheil più grande miracolo fatto dall’Allamano fu proprio la nascita e svilluppo nel Kenya centrale di una Chiesa locale fiorente e missionaria. «Mai nella storia della Chiesa – ebbe a dire p. Bona – si è assistito ad uno sviluppo così grande in un periodo così breve». Cominciarono in quattro, ora sono milioni.

Lunga preparazione
L’Allamano portò in cuore il desiderio di fondare un istituto missionario per molti anni. Per lui il 29 gennaio 1901, giorno ufficiale della fondazione del nuovo istituto, fu il punto di arrivo di un lungo cammino fatto di riflessione, discernimento e paziente ricerca. Voleva offrire all’abbondante clero piemontese la possibilità di un servizio missionario e per questo si consultò per anni con amici, santi come il Cottolengo e autorità ecclesiastiche romane. Una volta chiarito che doveva fondare il suo istituto, si trovò di fronte alle nuove regole di Propaganda Fide (il ministero vaticano incaricato delle missioni) che richiedevano un periodo di tirocinio missionario ai nuovi istituti prima che venisse loro affidata un’area da evangelizzare.
L’Allamano, per un affetto suo speciale verso il card. Massaia, apostolo dell’Etiopia, sognava di mandare i suoi missionari proprio sulle orme di un così grande pioniere dell’evangelizzazione. Ma… più facile a dirsi che a farsi:
l’istituto non esisteva ancora, l’Etiopia era affidata ai frati cappuccini francesi ed era un’impresa trovare qualcuno disposto ad accogliere dei missionari in cerca di esperienza.
Con l’Etiopia in mente, l’Allamano e il suo braccio destro, Giacomo Camisassa, cominciarono una fitta corrispondenza – durata anni – con i cappuccini francesi e contemporaneamente anche con Padri dello Spirito Santo (Pères Du Saint-Esprit, Holy Gost Fathers or Spiritans) a cui era affidato il confinante Vicariato Apostolico di Zanzibar.
I confini allora erano incerti. Il Vicariato dei Cappuccini in Etiopia confinava a sud con quello dello Zanzibar in modo impreciso al quarto o quinto parallelo Nord e c’era allora la convinzione che fosse possibile arrivare in Etiopia navigando il fiume Tana partendo dalla costa del Kenya.

La mano della provvidenza
Lettera dopo lettera le trattative proseguirono, fino a che il Vicario Apostolico dei Galla accettò, nel settembre 1900 – l’istituto non era ancora stato fondato! – di accogliere i nuovi missionari nella parte sud del suo vicariato, «nella regione del medio e alto fiume Tana fino al quarto grado di latitudine settentrionale».
Tutto bene allora? Macché. Proprio in quei tempi giunsero notizie da un esploratore che il fiume Tana non era navigabile se non per un brevissimo tratto. Inoltre risultava che la regione (da affidare ai nuovi missionari) era praticamente spopolata a causa di bande di Somali che vi facevano continue razzie. Al che gli inglesi, i quali stavano consolidando il loro controllo sul Kenya, proibirono a qualsiasi missionario di mettere piede da quelle parti, perché un eventuale massacro di europei sarebbe stato un grave smacco per il loro prestigio e autorità di fronte agli indigeni.
L’Allamano e il Camisassa erano continuamente informati della situazione dal console generale d’Italia a Zanzibar, il cav. Giulio Pestalozza.
Ma chiusa una porta, ecco che se ne aprì un’altra. Era stata inaugurata da poco la ferrovia Mombasa-Kampala, in Uganda, e i Padri dello Spirito Santo avevano, nel 1899, stabilito la missione di Saint Austin (S. Agostino) a Nairobi, un villaggio nuovo nato attorno alla stazione ferroviaria e avvantaggiato da acque fresche (nai-robi in maa, la lingua Maasai) e clima salubre senza malaria. Da Nairobi sarebbe stato facile organizzare una spedizione verso il Lago Rodolfo (oggi Turkana) e da là raggiungere il tanto agognato Galla. Le trattative si intensificarono, da Zanzibar cominciarono ad arrivare notizie piene di speranza. Poi tutto subì un’accelerazione improvvisa. Il dott. Hinde, sotto-commissario inglese per la regione del Muran’ga – allora Fort Hall -, aveva chiesto al Vicario Apostolico di mandare dei missionari presso il capo kikuyu Karoli, moderatamente favorevole agli inglesi, che era interessato ad averli per aprire una scuola nel suo villaggio. Ma, da buon protestante, il dott. Hinde aveva fatto la stessa richiesta anche alle società missionarie protestanti. Chi arrivava prima si mangiava tutto! I protestanti erano ricchi di mezzi e personale, mentre i Padri dello Spirito Santo non avevano allora né mezzi né personale per una pronta azione. I nuovi missionari della Consolata – inesperti, ma ben organizzati e con mezzi sufficienti – erano davvero mandati dalla provvidenza.

Preparazione immediata
L’Allamano e il Camisassa colsero l’occasione al balzo e intensificarono la preparazione dei primi. Pestalozza e il vicario mons. Allgeyer avevano suggerito di mandare solo un piccolo gruppo ad iniziare, non più di cinque. Furono scelti quattro tra i giovani sacerdoti e laici che avevano cominciato vita comune nella prima casa madre dell’Istituto (la Consolatina): p. Filippo Perlo e p. Tomaso Gays e i fratelli laici Luigi Falda e Celeste Lusso. Essi si legarono al nuovo istituto per un impegno di cinque anni giurando nelle mani dell’Allamano il 13 aprile 1902. Gli ultimi mesi prima della partenza furono intensissimi. L’Allamano vietò loro ogni impegno pastorale nella città e passarono i loro giorni in preghiera, studio e lavoro. Oltre all’inglese, studiarono medicina (tropicale), oculistica e chirurgia. Impararono fotografia (ripresa, sviluppo e stampa, maneggiando le pesanti macchine fotografiche a soffietto con lastre 13×18 e 10×15). Visitarono musei, approfondirono agricoltura e scienze naturali e praticarono l’arte di imbalsamare insetti e animali. Si decicarono con impegno a meccanica, idraulica, calzoleria e falegnameria. Ebbero anche lezioni di equitazione.
Partirono a maggio, in accordo con mons. Allgeyer, per evitare le grandi piogge e permettere allo stesso vicario di accompagnarli fino a destinazione. Ricevettero il crocefisso del mandato missionario il 3 maggio, il 7 fecero visita al card. Richelmy (arcivescovo allora di Torino) che non solo li benedisse ma si chinò a baciare loro i piedi (fatto rimasto segreto per anni), l’8 partirono da Porta Nuova in treno per Marsiglia salutati dall’Allamano, dal Camisassa (che aveva curato al dettaglio tutta l’organizzazione della spedizione) e un po’ di parenti. L’avventura era cominciata.
Di questo viaggio diede puntuale relazione il p. F. Perlo con un vivacissimo diario ricco di annotazioni, preziose informazioni e splendide foto che fu pubblicato a puntate su «La Consolata». Chissà se un giorno troveremo il tempo e i mezzi per ripubblicare quelle pagine così emozionanti.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Altri ci copiano

Forme di servizio civile nel mondo

Verrebbe da non crederci, ma è proprio così: una volta tanto, l’Italia è un esempio virtuoso per tutto il mondo, perché il suo servizio civile volontario è probabilmente l’esperienza più all’avanguardia a livello internazionale. O almeno, lo era fino a poco tempo fa, quando i pesanti tagli e il conseguente spauracchio della chiusura non facevano ancora notizia. «Quando siamo andati a presentarlo a Bruxelles, qualche anno fa, tutti si sono complimentati con noi e parecchi ci hanno detto: studieremo il vostro modello per replicarlo da noi».
A scandire queste parole è Raffaele De Cicco, attuale cornordinatore dell’Unsc, Ufficio nazionale servizio civile, ma componente del ministero della Difesa già dal 1994. Grande esperto della storia dell’Obiezione di coscienza (Odc), ha anche una visione completa di quello che accade negli altri paesi in termini di esperienze di difesa della patria, alternativa a quella militare. Di recente ha pubblicato il libro-saggio Le vie del servizio civile (Gangemi editore), in cui il tema centrale è proprio l’analisi generale delle «virtù civiche giovanili» tra l’Europa e il mondo globalizzato. «Il servizio civile, in tutte le sue forme, tiene in piedi i legami della democrazia, anche perché incide su aree difficili, su problematiche in cui gli stati a volte fanno fatica a intervenire in modo completo», spiega De Cicco.
Oltre al modello italiano, a livello europeo le esperienze più radicate sono quelle della Francia e della Germania. «Per i francesi l’Odc è realtà fin dal 1963. Dal 1997, inoltre esiste il Servizio nazionale universale, poi diventato Service civique nel 2010, che dura dai 6 ai 24 mesi e sta riscuotendo un buon successo: nel 2011 sono partiti 25 mila giovani tra i 16 e i 25 anni», illustra il cornordinatore dell’Unsc.
In Germania, l’anno scorso, i volontari sono stati addirittura 35 mila, proprio nel primo anno di sperimentazione del Servizio civile volontario, «introdotto dal Goveo tedesco a fine 2010, quando è stata sospesa la leva obbligatoria – continua De Cicco -; prima esisteva il servizio civile obbligatorio, 9 mesi in patria oppure 11 all’estero, per chiunque rifiutava l’uso delle armi». Dal 1961 al 2009 sono stati ben 3,2 milioni i giovani obiettori tedeschi.
Le altre esperienze di Servizio civile volontario in Europa si trovano in Danimarca, Repubblica Ceca e Svezia (solo per le donne). Comunque, l’Odc è realtà in tutte le nazioni del vecchio continente.

A livello generale di Unione Europea, invece, si stanno compiendo i primi passi per la nascita di un Servizio civile comunitario. «È la vera partita da giocare, per rendere effettivo il sentirsi parte di una cittadinanza estesa: dovrebbe nascere un servizio che promuove diritti politici, sociali e culturali», chiosa De Cicco nel suo libro. È un’interessante prospettiva, però ancora molto sulla carta, così come lo sono i corpi civili di pace europei: una sorta di evoluzione della pratica di servizio civile, composta sia da volontari che da specialisti (quindi membri permanenti, pagati dal singolo Stato o dall’Ue) che possono incidere in prima persona in un conflitto armato, interponendosi tra le parti, come è avvenuto per i primi obiettori italiani che si sono recati a Sarajevo a inizio anni ’90, durante l’assedio della città.  
Nel resto del mondo, la diffusione del Servizio civile alternativo al militare è a macchia di leopardo, e soprattutto nelle Americhe, come riporta il Centro interuniversitario di studi sul servizio civile dell’Università di Pisa (Cissc), mentre quelle di servizio volontario sono davvero poche.
Il caso più virtuoso è senza dubbio quello degli Stati Uniti d’America, dove dal 1990 esiste Americorps, un programma di volontariato ad ampio raggio a cui partecipano ogni anno almeno 70 mila ragazze e ragazzi. Al suo interno esiste il National civilian community corps, che dura 10 mesi, è aperto ai giovani dai 18 ai 25 anni e ha caratteristiche simili al Servizio civile volontario italiano. Inoltre, il Goveo federale statunitense sta per approvare quest’anno il Voluntary national service act, che serve ad arruolare nuovi volontari per «missioni» delicate, come il contrasto alla piaga della dispersione scolastica, il sostegno alle famiglie povere e l’assistenza sanitaria per i più deboli.
Un’altra dimensione significativa di servizio civile nei paesi esteri è quella brasiliana, dove però il Servizio civile volontario, attivo dal 2000 e lungo 6 mesi, è disegnato per chi è esente dagli obblighi di leva. Mentre in Argentina si sta dibattendo dal 2010 una proposta di Servicio civil voluntario che però è arenata in Parlamento.
C’è da segnalare il servizio civile nato da qualche anno in Israele, aperto ai renitenti alla leva per motivi religiosi e alla popolazione arabo-israeliana (quindi non a tutti gli altri, che devono svolgere il servizio militare obbligatorio), ma criticato dalle associazioni locali perché gestito di fatto dall’apparato di sicurezza israeliano e quindi privo di quell’autonomia dal mondo militare che compete a un’esperienza di servizio civile propriamente detta.

Daniele Biella

Daniele Biella




F35 e servizio civile

«Un solo cacciabombardiere F35 in meno significa almeno 20 mila giovani che possono prestare servizio civile per un anno». È questa la provocazione, o forse meglio, il suggerimento lanciato da Licio Palazzini, presidente della Consulta nazionale per il Scn (Servizio civile nazionale) e di Arci servizio civile, per aumentare l’attenzione della politica e dei media sul rischio concreto che il Scn chiuda i battenti per mancanza di fondi.
La questione dell’acquisto di F35 da parte del Goveo italiano, all’interno di un programma internazionale con altri otto paesi (capofila gli Usa), con l’impegno economico per l’Italia per una spesa di 15 miliardi di euro da qui al 2025, ha acceso roventi polemiche, soprattutto considerato il tempo di crisi sferzante. Polemiche che hanno sortito un cambiamento parziale: l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, attuale ministro della Difesa, ha annunciato la riduzione del numero dei velivoli da acquistare da 131 a 90, cioè 41 in meno. All’apparenza è un primo buon segno, che però le associazioni pacifiste hanno criticato perché, secondo loro, in particolare gli studiosi della Rete italiana per il disarmo (www.retedisarmo.org, promotori della petizione «Taglia le ali alle armi»), è l’intero programma di acquisto che va bloccato, dato che i costi continueranno a salire e la costruzione dei velivoli, che avverrà a Cameri, provincia di Novara, non porterà molti nuovi posti di lavoro: si parla di meno di un migliaio, contro i 10 mila sbandierati dal ministro.
Nel frattempo, un ragionamento immediato si può fare, come accennava Palazzini: destinando il costo di un velivolo in meno al Servizio civile, si garantirebbe un anno di esperienza ad almeno 20 mila giovani. L’idea sta piacendo a molti, volontari in primis, ma anche altri enti storici del sociale italiano, come le Acli o il movimento di Pax Christi. «Seguiamo l’esempio degli altri partner del programma F35, che stanno ridimensionando il loro impegno – chiedono le Acli ai rappresentanti del Goveo italiano -; oggi la difesa del paese è la difesa delle fasce sociali più deboli e la messa in sicurezza del nostro territorio». Pax Christi, inoltre, elenca una serie di «acquisti alternativi» a un caccia da guerra F35 (e quindi alle spese militari), cominciando proprio dai 20 mila posti di servizio civile, per poi proseguire con «32 mila borse di studio universitarie, o 250 scuole italiane messe in sicurezza, o 20 nuovi treni per pendolari, o l’indennità di disoccupazione per 17 mila persone senza lavoro».

Daniele Biella

Daniele Biella




La meglio gioventù

Servizio civile in Italia

Sono 3.581 gli enti di servizio civile oggi accreditati presso l’Unsc (Ufficio nazionale per il servizio civile). I tagli imposti a causa dell’attuale crisi economica hanno diminuito di molto le risorse economiche, rischiando di azzerare una delle esperienze più significative ed esemplari degli ultimi 40 anni di politica giovanile.

Prendete un’esperienza che funziona: i 300 mila ragazze e ragazzi che negli ultimi 11 anni (grazie alla legge n. 64 del 2001) hanno svolto 12 mesi di Servizio civile nazionale e volontario (Scn), ovvero quella che è ritenuta dalla gran parte di sociologi ed educatori la migliore politica giovanile dello Stato italiano, sicuramente l’unica che funzioni davvero. Ebbene, se provate a tagliare, poco alla volta ma in modo inesorabile, i fondi che la tengono in piedi, tale esperienza arriva a un possibile azzeramento da qui a pochi mesi.
Follia? No. Oggi sta accadendo anche questo, nel nostro paese, sconvolto da una crisi economica che rischia di trasformarsi, se non lo è già, anche in una crisi di tipo morale. Il welfare, lo stato sociale, sta soffrendo non poco, e non ci sono parole che spieghino quello che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti: in pochi mesi si sta dilapidando una storia lunga almeno 40 anni, da quando, nel 1972, venne promulgata la legge Marcora (n. 772) sull’Obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio. A dirla tutta, per trovare testimonianza del primo renitente alla leva si risale fino al II sec. d.C.: san Massimiliano, che rifiutò di arruolarsi nell’esercito romano e che oggi è il santo protettore degli obiettori.
«Che la lunga notte del servizio civile sia l’esemplificazione di un paese che non vuole avere un futuro?». A chiederselo è Licio Palazzini, obiettore nel 1982 con l’associazione Arci, ma soprattutto oggi doppiamente in prima fila nel mondo del Servizio civile nazionale: è presidente di Arci servizio civile, la realtà che più di tutti ha fatto partire giovani dal 2001 in poi («almeno 15 mila, una media di 1.300 volontari all’anno»), e presiede anche la Consulta nazionale per il servizio civile, organo che dal 1999 fa sedere attorno a un tavolo tutti i protagonisti del mondo del Scn: i rappresentanti della Conferenza Stato-regioni, l’Unsc (Ufficio nazionale del servizio civile, governato dalla presidenza del Consiglio dei ministri), gli enti e i rappresentanti dei volontari. «Siamo di fronte a un corto circuito: questi ragazzi sono un capitale umano indispensabile, come si può pensare di fae a meno?» prosegue Palazzini.
A lui fa eco un’altra storica figura del settore, Diego Cipriani, 49 anni, oggi responsabile servizio civile della Caritas italiana, ma dal 2006 al 2008 direttore proprio dell’Unsc, quindi profondo conoscitore dei meccanismi di finanziamento del servizio civile. «È chiaro che noi, enti, sopravvivremmo lo stesso senza i volontari in servizio. Ma sarebbe davvero un grave errore chiuderlo, perché i fatti dimostrano che la funzione educativa per i giovani stessi e il ricavo che la comunità trae dal loro impegno è fondamentale», ragiona Cipriani, che ai 15 mesi dell’allora leva obbligatoria aveva preferito, nel 1987, i 20 mesi di servizio civile alternativo, aiutando i volontari della Caritas di Bari.
Come dar loro torto? Per capire che tipo di esperienza abbiamo di fronte basta sentire solo alcune delle voci delle migliaia di volontari che partono ogni anno da e per ogni regione d’Italia. Dai 178 del primo anno si è passati ai 7.865 del 2002, al record di 45.890 nel 2006, fino alla caduta libera degli ultimi anni, con il 2012 che vedrà un massimo di 19 mila invii, con partenze scaglionate mese per mese, proprio per problemi economici nel reperire tutti i fondi per farli partire assieme, come è avvenuto fino al 2011 (vedi tabelle a pag. 46-47). In queste cifre si nota una marcata prevalenza di ragazze (67%), con un recupero delle presenze maschili negli ultimi anni, e un’età media sui 24 anni.
Le testimonianze sono una diversa dall’altra, ma in comune hanno tutte il fatto che, comunque sia andata, l’anno di servizio civile non lo si dimentica affatto. Né lo dimenticano i beneficiari. «È un’esperienza che rimarrà per sempre. Io alla fine del servizio ho anche continuato al progetto come volontaria», spiega Charlotte Cesareo, 27 anni, che ha svolto il Scn nel 2010 per Arci servizio civile come «braccio destro dell’avvocato che aiuta gratuitamente nelle pratiche chi è in attesa del permesso umanitario». Lei, tramite il progetto «L’officina dei diritti», accompagnava i rifugiati in questura, ospedale e altri luoghi «per loro spesso fonte di preoccupazione». Aggiunge ancora la ragazza: «All’inizio è stata dura, poi capisci il tuo ruolo e diventa un’esperienza unica».
La scelta di Angelo Sgandurria, leccese, che oggi ha 28 anni, è peculiare: «Ho iniziato il servizio civile per l’Associazione italiana sclerosi multipla (Aism), nel dicembre 2009. Poche settimane prima ero un militare della capitaneria di porto, sempre in ferma volontaria – racconta – ma ho deciso di cambiare, senza alcuna aspettativa: era la prima volta che incontravo la disabilità». L’anno di Scn è stato utile sia alle persone che accudiva sia a se stesso, e aggiunge: «Non si può nemmeno paragonare il beneficio del servizio civile rispetto al militare; è un’ottima palestra per crescere: prima non ero sensibile verso i problemi degli altri, ora sono all’opposto. Avrei firmato per un altro anno di servizio, ma visto che non si può fare, ora cerco comunque di lavorare nel sociale».
Non per tutti, comunque, i 12 mesi rappresentano un’esperienza solo positiva. Per vari motivi, può essere difficile e faticoso portare avanti il proprio compito. «Menomale che è finita – ammette Emanuele Pizzo, padovano di 32 anni -. L’ho fatto nel 2008, ero in una casa di riposo per anziani, all’inizio pensavo che avrei potuto valorizzare al meglio la mia giovinezza. Ma le aspettative ti fregano: la realtà quotidiana era pesante, molte persone non erano molto in sé e noi dovevamo limitarci ad assisterli in toto». Non per questo, però, Pizzo, che durante quell’anno è stato anche eletto rappresentante nazionale dei volontari, giudica l’esperienza negativa: «Al contrario, ho trovato un team di colleghi affiatato, che rendeva comunque stimolante il lavoro. Oggi too ancora nella struttura come volontario».

Assistenza, ambiente, promozione culturale, protezione civile: sono questi gli ambiti in cui rientrano tutti i progetti dei 3.581 enti di servizio civile oggi accreditati presso l’Ufficio nazionale (vedi www.serviziocivile.gov.it). Tra le proposte, si può salire sull’ambulanza dell’Anpas, Croce Rossa o delle Misericordie, oppure promuovere la donazione del sangue con Avis, Fratres o Fidas. «Andavo nelle scuole di ogni grado a parlare dell’importanza di donare, portando racconti di altri donatori, gli strumenti che si utilizzano, infine accompagnando i ragazzi nelle sale di donazione: sono molto interessati», illustra Elisa Montagni, 27 anni, ex volontaria in Scn per Avis.
Viviana Ciufo è partita invece nel 2005 con il Wwf, lavorando nell’ufficio comunicazione «per provare un’esperienza concreta prima di finire gli studi in scienze geologiche». Alla fine dell’anno, è rimasta per due anni come collaboratrice, così come capita a migliaia di giovani: spesso, se fortuna e capacità vanno a braccetto, l’impegno volontario si può tramutare in un posto di lavoro. «Nel 2008 il Csv (Centro servizi per il volontariato), Sardegna solidale, dove avevo appena finito l’anno di Scn, mi ha tenuto come referente per i volontari servizio civile degli enti associati», spiega la 33enne sarda Ilaria Scioni.
«Ma vi immaginate cosa potrebbe accadere se non ci fossero più giovani ad assistere gli utenti dell’Aism, per esempio, o dei tanti altri enti che contano sul servizio civile con la doppia valenza dell’aiuto per il proprio lavoro e la crescita educativa dei ragazzi?». A porre la questione è Raffaele De Cicco, attuale cornordinatore dell’Unsc, dal 1994 nello staff governativo che gestisce il Scn. «L’utilità del servizio civile è sotto gli occhi di tutti. Mi auguro che si trovino i finanziamenti e venga rilanciato: ne va dei rapporti tra cittadini e istituzione», sentenzia De Cicco.

Alla fine si torna sempre lì, alla questione dei fondi: dai 121 milioni di euro del 2002 si è raggiunta quota 296 milioni nel 2007, ma si è poi sprofondati agli attuali 68 milioni. Per il 2013 l’Ufficio nazionale esaurirà gli 80 milioni che ha ancora in cassa (utili per 15 mila partenze). Ma poi?
Il ministro Andrea Riccardi ha detto pubblicamente che si sta impegnando presso il presidente del Consiglio Mario Monti e il suo governo a reperire i finanziamenti; molti politici e volti noti della società civile e dello spettacolo sono scesi in campo appoggiando anche l’idea di Servizio civile universale, lanciata dalla testata del non profit Vita (tra gli altri Romano Prodi, don Antonio Mazzi, i comici Giovanni e Giacomo); ex volontari e rappresentanti hanno lanciato appelli (vedi riquadro su F-35).
Si cercano nuove soluzioni, ad esempio potenziando il Servizio civile regionale, attivo dal 2004 in molte regioni, in cornordinamento con quello nazionale. Sono in discussione in Parlamento varie proposte di riforma del Scn, una delle quali in merito all’apertura dell’anno di servizio pure a stranieri e seconde generazioni. A inizio 2012 tutte le partenze erano state bloccate, perché un tribunale aveva dato ragione a un ragazzo pachistano che era stato rifiutato, ritenendo tale rifiuto un atto discriminatorio. Poi è arrivato lo sblocco, ma solo con l’impegno della politica per allargare al più presto le maglie della legge.
Insomma, siamo di fronte a un cantiere pieno di belle speranze, a ben vedere. «Ma siamo molto preoccupati; speriamo in un orizzonte più sereno di qui a poco, evitando così la paralisi», auspica Primo Di Blasio, che oltre a essere referente della Focsiv copre il ruolo di presidente della Conferenza nazionale degli enti di servizio civile (Cnesc), rete che da 20 anni racchiude tutti i più grandi enti di servizio civile.
Per capire cosa perderebbe la società basta citare qualche dato degli studi che periodicamente compie l’Irs, Istituto per la ricerca sociale: i 1.116 giovani di Arci servizio civile, in servizio nel 2009, sono costati allo Stato 6,7 milioni di euro (433 euro al giorno più contributi), ma il ritorno sulla collettività, calcolato equiparando gli stipendi di categorie lavorative con mansioni affini, è stato di 22,9 milioni, ovvero quasi quattro volte tanto e un risparmio per l’erario di 16,2 milioni. Un capitale sociale enorme, senza eguali nell’Italia di oggi. Anche perché, dicono gli esperti dell’Irs, «chi ha svolto il servizio, una volta conclusa l’esperienza, ha molta più propensione al volontariato, alla vita associativa e ad azioni di cittadinanza attiva». La speranza è che il governo dei tecnici lo tenga ben presente.

Daniele Biella

Daniele Biella




Operazioni caschi bianchi

Servizio civile all’estero

Da quando è stata riconosciuta l’obiezione di coscienza al servizio militare ed è stato istituito il servizio civile nazionale, oltre 300 mila giovani hanno scelto di difendere la patria spendendo un anno di lavoro in un paese estero, in missione di pace non-armata e nonviolenta. Chi ha sperimentato tale servizio ne resta segnato per tutta la vita, continuando a impegnarsi in attività di promozione umana, a difesa della pace e dei diritti dei più deboli.

Li incontri quando proprio non te l’aspetti: negli slums, le baraccopoli africane, come nelle favelas brasiliane. A difendere i diritti delle donne in America Latina e delle minoranze etniche nell’Est Europa. Ma anche a tutelare foreste, avviare progetti di cooperazione allo sviluppo, o semplicemente condividere la dura quotidianità di bambini e adulti di strada, famiglie indigenti o vittime di guerre o violenze strutturali, senza colpe se non quella di trovarsi nel posto sbagliato. Sono i giovani italiani che decidono di partire per l’anno di Servizio civile volontario all’estero: 400 in questo 2012, almeno 5 mila da quando, nel 2001, è nato in via ufficiale il Scn, Servizio civile nazionale, che nonostante la dicitura «nazionale» prevede anche l’invio di ragazze e ragazzi fuori dall’Italia.

Da obiettori a caschi bianchi
Nessun controsenso: la difesa della patria si può promuovere anche così. «Oramai siamo in una nuova fase dell’idea di “difesa”: si tutelano gli interessi nazionali, non i confini. Lo fanno in primis gli stessi militari, con le cosiddette “missioni di pace” nei territori caldi come Afghanistan, Balcani, e fino a qualche tempo fa Iraq – sottolinea Nicola Lapenta, 41 anni, responsabile per il Servizio civile dell’associazione Comunità Papa Giovanni xxiii -. Quindi ancor più il discorso vale per un’azione non armata e nonviolenta come quella portata avanti dai giovani ex obiettori di coscienza, oggi volontari in servizio civile».
La differenza del tipo di impegno, rispetto a quello militare, è evidente; «non si difendono interessi legati a pozzi di petrolio o altre questioni geopolitiche; piuttosto, chi sceglie il servizio civile all’estero promuove il rispetto dei diritti umani e la trasformazione positiva dei conflitti di ogni genere» afferma Lapenta, padre di tre bambini, ma soprattutto uno dei primi obiettori di coscienza alla naia obbligatoria ad aver «superato il confine»: nel 1995, durante l’anno di servizio civile (che ha svolto in una casa famiglia della Comunità in Piemonte), partecipò, alla marcia pacifista indetta dai Beati costruttori di pace nella Sarajevo sotto assedio, capitale dell’attuale Bosnia, allora parte della ex Jugoslavia.
«Recarsi all’estero a quel tempo non era permesso agli obiettori, così io e altri ci siamo autodenunciati e siamo partiti: ci sembrava giusto dare il nostro contributo alla risoluzione nonviolenta del conflitto nei Balcani, attraverso l’interposizione diretta», spiega il responsabile servizio civile della Comunità Papa Giovanni xxiii.
Dalla presenza degli obiettori nella ex Jugoslavia, la storia dell’impegno civile dei giovani italiani ha scritto pagine sempre più colme di testimonianze e coraggio, fino ad arrivare alla legge 230 del 1998, che nel riformare l’obiezione di coscienza introduceva la possibilità di partire per l’estero, e «sanava» la situazione del centinaio di persone che, come Lapenta, si erano recati all’estero senza permesso durante il loro anno di servizio.
Nel frattempo, a questi giovani pionieri è stato dato anche un nome: Caschi bianchi. Una risoluzione dell’Onu del 1994 chiama così un possibile corpo civile di aiuto umanitario da inserire nei conflitti. Da allora in Italia il nome è stato dato in via informale ai giovani obiettori all’estero. «Fino al 2001 quando, con l’istituzione del Scn, un progetto promosso dagli enti Caritas italiana, Comunità Papa Giovanni xxiii, Focsiv-Volontari nel mondo e Gavci si è chiamato proprio “Caschi bianchi”, puntando sulla creazione di un vero e proprio corpo civile di pace» (per quest’ultimo aspetto vedi la pagina 48, dedicata al «Servizio civile nel mondo», ndr).

Progetti per costruire la pace 
Quel progetto c’è ancora oggi e riguarda la maggior parte dei volontari all’estero del servizio civile, circa due terzi del totale. Nel 2012 i Caschi (chiamati “bianchi” per distinguerli dai “blu” delle stesse Nazioni Unite, che hanno compiti simili ma impugnano un’arma da usare a seconda del bisogno) sono sparsi in quasi tutti i continenti: «Paesi dell’ex Jugoslavia, Gibuti, Guinea, Sierra Leone, Argentina, Guatemala, Thailandia, Sri Lanka: ecco alcuni dei Paesi in cui sono presenti oggi con i nostri progetti – elenca Diego Cipriani, capo dell’Ufficio servizio civile di Caritas italiana -. Si occupano, dando man forte alle presenze locali del nostro ente, di ragazzi di strada, promozione dei diritti umani, riconciliazione delle parti in conflitto. La loro presenza è fondamentale, sono un punto di riferimento per la popolazione locale».
Il cornordinamento fra le quattro organizzazioni promotrici dei Caschi bianchi fa sì che il progetto sia ben strutturato: «A ben vedere rappresenta l’essenza dello stesso servizio civile: si tratta di una presenza preziosa nel prevenire e trasformare i conflitti, ovvero nel costruire la vera pace, attraverso la nonviolenza» aggiunge Primo Di Blasio, referente per la Focsiv (Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontariato). Le sue parole trovano conferma nelle recenti dichiarazioni del ministro per la Cooperazione e l’integrazione Andrea Riccardi: «Perché così pochi posti per l’estero? Ne servirebbero molti di più, la mediazione è una componente fondamentale della società, che vede una crescita dei conflitti sociali».
Discorsi e intenzioni a parte, la concretezza parla da sé anche nel caso della Focsiv: 1.250 giovani partiti dal 2001 a oggi, 200 in servizio quest’anno in nazioni, tanto per citae alcune, come Cina, India, Albania, Mali, Congo, Rwanda, Colombia, Venezuela, tutti a sostegno di progetti di organizzazioni non governative italiane o locali; in Benin l’ente si è appoggiato finora alla presenza dei missionari cappuccini.
«Gli ambiti di intervento sono il socio-sanitario, la tutela ambientale, la difesa dei diritti, lo sviluppo sociale, ad esempio, promuovendo il turismo comunitario e le associazioni di artigiani locali» illustra Di Blasio. Come se non bastasse, i Caschi bianchi svolgono anche attività giornalistica dal basso, scrivendo articoli per il portale antennedipace.org. «Sono come delle antenne, pronte a diffondere quello che vedono verso tutti» aggiunge Lapenta, la cui Comunità Papa Giovanni xxiii (presente in ampie zone del mondo, dai Territori palestinesi allo Zambia, dal Tanzania alla Russia, dal Brasile al Bangladesh), si occupa anche, dall’Italia, di raccogliere i contributi dei giovani in servizio e inserirli sul portale telematico.
Inoltre, nonostante che per il servizio civile in generale sia un periodo molto arduo, data la paventata chiusura dei progetti nel 2013 se il governo non riuscirà a reperire altri fondi, dal 2011 è partito un nuovo progetto sperimentale in Albania, promosso dal Comitato Dcnan, Difesa civile non armata e non violenta, di cui fan parte gli enti promotori del servizio civile all’estero: si chiama “Oltre le vendette” e vuole aiutare la ricomposizione pacifica dei violenti conflitti famigliari che flagellano il Paese balcanico. Non solo Caschi bianchi, comunque; il servizio civile all’estero si compone anche di altre realtà altrettanto valide: dai progetti di Ipsia, ong delle Acli, a quelli di enti locali, su tutti il Comune di Torino; il bacino di scelte al quale una ragazza o un ragazzo possono attingere è ampio.

Andata…
Ma come funziona il loro «reclutamento»? Un ragazzo dai 18 ai 28 anni può fare domanda per il servizio civile, estero compreso, almeno una volta all’anno, in occasione del bando dell’Unsc (Ufficio nazionale servizio civile). La procedura è semplice: entra in contatto con l’ente referente del progetto e invia la propria candidatura. Il colloquio è garantito, il posto ovviamente no, soprattutto se il numero delle domande dei candidati è molto superiore alle richieste pervenute dai vari enti.
Dal 2001 al 2005 questo rischio non c’è stato, e a grandi linee quasi tutti potevano partire. Poi con il passaparola e soprattutto i racconti dei primi Caschi bianchi, si è arrivati a un boom di richieste che continua ancora oggi, quando viene selezionata circa una persona su tre, ovvero, su una media di 500 posti, arrivano agli enti 1.500 domande. «Io sono stato ripescato per Santiago del Cile, dove sono arrivato nel dicembre 2006: era la prima volta che lasciavo l’Italia per così tanto tempo – spiega Federico Pinnisi, oggi 31enne e ritornato nella sua città d’origine, Novara -. Dopo la selezione, abbiamo avuto una formazione di quasi due mesi, per prepararci a quello che avremmo trovato all’estero».
È questa la differenza con un’esperienza di volontariato canonica: chi parte per il Servizio civile ha un bagaglio formativo alle spalle che gli consente di reggere l’urto iniziale dell’arrivo in un luogo diverso dalla quotidianità di casa propria e, nello stesso tempo, gli permette da subito di agire dando concretezza al proprio mandato. Nei 45-60 giorni di formazione normale, si alternano incontri con esperti, laboratori, esperienze di condivisione diretta in ambienti e con persone con disagio. Nel caso di Pinnisi, partito come Casco bianco per la Comunità Papa Giovanni xxiii, ha significato alcune settimane in una casa famiglia. «La formazione previa alla partenza garantisce ai giovani quelle competenze di base utili a gestire un conflitto, imparando a interporsi fra le parti in causa – riprende Lapenta -, si tratta di avere la giusta “equivicinanza”, parola che si distingue da “equidistanza”, perché significa porsi vicino a tutte le parti, cogliendone le difficoltà, e facilitare il dialogo senza schierarsi per favorire nessuno».
Una volta formato, il giovane ha il giusto tempo per salutare parenti e amici, prima di lasciare l’Italia per almeno dieci mesi. La coscienza che sia una scelta temporanea, molto diversa, ad esempio, dall’impegno missionario, è ben presente, ma il distacco è sempre un momento forte, soprattutto a quell’età. «Ho faticato a staccarmi da famiglia e amici, a capire la lingua una volta là, pur avendo studiato prima un po’ di spagnolo, a passare da una città di 100 mila abitanti a una metropoli di 7 milioni di persone… – continua Pinnisi -. Poi in poco tempo sono diventato autonomo, e in qualche modo cercavo di mimetizzarmi con i cileni, calandomi nella loro realtà».
La sua storia è comune a quasi tutti i ragazzi in servizio all’estero. In particolare, lui ha vissuto a stretto contatto con i bambini di strada, lavorando anche in un doposcuola di Santiago (la parola “lavorando” è giusta, il servizio civile prevede un’indennità di circa 850 euro al mese per l’estero, il doppio del nazionale: è per questo che si parla di lavoro volontario, non di puro volontariato) e promuovendo l’obiezione di coscienza tra i giovani cileni, nel cui paese il servizio militare è ancora obbligatorio.
«All’estero ti senti completamente immerso nella realtà in cui vivi, a 360 gradi, perché vivi in condivisione diretta con chi ha bisogno: è un’esperienza che lascia il segno» riporta Sara Rovati, appena tornata, dicembre 2011, da una comunità per minori dello Zambia. «Fare il Casco bianco significa, da una parte, spogliarsi di tutto: dalle abitudini ai beni materiali, al cibo, alle amicizie, e ripartire da zero in un contesto differente; dall’altra, si entra in luoghi di violenza e si deve cercare di dare una mano a risolvere i conflitti quotidiani: ci si sente parte di un ingranaggio più grande che diffonde una cultura di pace, partendo dalla condivisione, dal rispetto, dalla multiculturalità», osserva Marco Bianchi, casco bianco in Bolivia nel 2005. Le sue parole colgono in pieno lo spirito di questa particolare forma di servizio civile, che con umiltà cerca di entrare in un ambiente nuovo ben sapendo di essere di passaggio.
«Noi poi torniamo a casa, ma le persone con cui abbiamo a che fare restano lì: i protagonisti del cambiamento non siamo noi ma loro, e noi con loro – specifica Pinnisi, approfondendo ulteriormente il ragionamento -; vivere il servizio civile all’estero ha voluto dire confrontarmi con le mie paure, i pregiudizi, chiedermi il senso delle cose, ammettere il senstimento di impotenza a cui noi occidentali siamo poco abituati, presi dalla nostra idea di onnipotenza risolutrice».

… e ritorno
Peccato che, più velocemente di quel che ci si aspetti, i 12 mesi del servizio finiscano; giusto il tempo di abituarsi alla nuova vita, ed è già ora di passare il testimone al casco bianco che verrà dopo di te: si è utili, ma non indispensabili.
A un certo punto, quindi, si devono fare i conti con il ritorno in Italia. E qui inizia il bello: «A volte è più dura della partenza, sei cambiato, devi rifarti una vita», aggiunge ancora Pinnisi. Lui, dopo alcuni ritorni in Cile («perché le amicizie rimangono, ma vanno coltivate») ha oggi trovato impiego nel sindacato della Cgil, oltre a dedicarsi al volontariato in parrocchia e per Cascina G, progetto di un prete novarese per la promozione dell’impegno giovanile. Bianchi, invece, si occupa di progettazione per Banca Etica. Sono due esempi delle molteplici strade che prendono gli ex volontari di Scn all’estero, una volta superato lo spaesamento iniziale del rientro. C’è chi, fra gli altri, è diventato giornalista anche per quotidiani nazionali, chi è entrato a pieno titolo nello staff di Amnesty Inteational; parecchie decine hanno scelto la cooperazione internazionale e sono ripartiti per altri paesi.
Ancora, ci sono coloro che hanno deciso di tornare al lavoro esercitato prima della partenza, oppure sono ancora alla ricerca, soprattutto chi è tornato da poco. «All’estero mi sono innamorato della patria, mi ha rivelato un ragazzo appena tornato in Italia: questa è finora la frase più bella che abbia mai sentito», ammette il responsabile servizio civile della Focsiv. C’è infatti un filo rosso che unisce le migliaia di esperienze, ed è sottolineato da tutti i responsabili degli enti: la passione per il sociale in tutte le sue forme e il continuare a essere casco bianco in ogni situazione, nonostante sia terminata l’esperienza propriamente detta. «Con i vicini di casa, con i propri figli, i parenti, gli amici, sul lavoro o nell’associazione per cui fai volontariato: ovunque puoi portare avanti la tua missione», argomenta Chiara Perego, che nel 2004 è stata anche lei a Santiago del Cile e oggi è tornata nella sua Brianza, dove si occupa sia di economia solidale che di musicoterapia. Prima con i Caschi bianchi del suo scaglione, poi con altre persone che si sono man mano unite negli anni, essa ha fondato nel 2006 l’associazione Paciamoci onlus, per promuovere la risoluzione nonviolenta dei conflitti interpersonali, a scuola come in altri ambiti quotidiani. «Abbiamo scoperto che anche in Italia c’è molto bisogno di mediare fra le parti in conflitto, a volte da un semplice torto subito si generano catene di violenza che durano anni e possono non venire mai superate», aggiunge Perego.
C’è di più: dal 2011, almeno un centinaio di Caschi bianchi partiti con la Papa Giovanni xxiii ha deciso di tornare a fare gruppo, creando il movimento della «Ricostituente»: ogni 2 giugno, in occasione della Festa della Repubblica, si trovano per un momento di formazione, confronto e azione diretta nonviolenta, e nel resto dell’anno cercano di agire in gruppi locali. «Il presupposto è che si rimane caschi bianchi a vita – conclude Bianchi -; di certo i ritmi frenetici della nostra vita in Italia non aiutano, ma paradossalmente la vera sfida è di portare avanti gli ideali con cui operavi all’estero proprio qui in Italia».

Daniele Biella

Daniele Biella




Un patrimonio da salvare

Premessa

«I pionieri di un mondo senza guerre sono i giovani che rifiutano il servizio militare». Chi è al corrente che una frase del genere è stata detta quasi 100 anni fa da un premio Nobel per la fisica? Stiamo parlando di Albert Einstein (1879-1955), che ai suoi celeberrimi studi ha affiancato, nel tempo, l’impegno per un pacifismo concreto, alternativo alle logiche del tempo. Come lui, altre migliaia di persone, nel mondo e anche in Italia, hanno fatto una precisa scelta di campo: quella dell’obiezione di coscienza (Odc), ovvero di voler difendere la propria Patria senza imbracciare un’arma.
In questo 2012 ricorrono 40 anni esatti dall’introduzione dell’obiezione nella legge italiana. Un anniversario da festeggiare, perché, dopo i primi pionieri che avevano dovuto pagare il proprio rifiuto con l’arresto e le vessazioni di chi li considerava nulla più che dei «senzapatria», l’Odc ha permesso a milioni di giovani di trovare la propria strada attraverso i significativi mesi (prima 20, poi 12, com’è ancora oggi) di Servizio civile presso enti di varia natura, dall’aiuto alle persone in difficoltà, alla salvaguardia del patrimonio ambientale e artistico, all’interposizione nonviolenta nei conflitti, in Italia come all’estero.
Nel 2001, altra pietra miliare nella storia della difesa alternativa della Patria: con la scomparsa della naia obbligatoria è nato – grazie all’impegno di molti, politici e non, nell’affrontare il lungo percorso istituzionale sfociato nella legge 64 – il Servizio civile nazionale volontario (Scn), aperto ai ragazzi e, per la prima volta, alle ragazze dai 18 ai 26 anni, poi innalzati a 28. È nato così un organo governativo apposito, per la prima volta indipendente dal ministero della Difesa, l’Ufficio nazionale servizio civile (Unsc), direttamente collegato alla Presidenza del Consiglio.
Da allora, 300 mila giovani sono partiti per l’anno di servizio, molti in Italia, ma qualche migliaio anche all’estero, attraverso uno dei progetti più virtuosi che il mondo invidia all’Italia: il corpo civile di pace dei Caschi bianchi, oggi diffuso in gran parte dei paesi in difficoltà a livello sociale, economico e di diritti umani e civili.
Una marea di persone ha fatto questa scelta di vita e di cittadinanza attiva. Per molte di esse non ha significato solo svolgere un anno di Scn, ma un impegno che è continuato, sotto varie forme (dal volontariato, alla ricerca di lavoro in ambiti affini, a varie altre strade), una volta ritornate alla propria vita pre-servizio, naturalmente cambiate da un’esperienza spesso coinvolgente a 360 gradi.

Dopo anni di crescita di domande e di posti a disposizione, dal 2008 la tendenza si è però rovesciata, non a causa del disinteresse dei giovani, bensì del taglio di fondi governativi. In questo 2012, addirittura, si è parlato per la prima volta di possibile interruzione del Servizio civile, finito sotto la scure dei tagli in nome della crisi. I volontari (chiamati così in modo un po’ inappropriato, perché la scelta è sì volontaria ma si viene rimborsati con un indennizzo mensile, lo stesso dato a chi presta il servizio militare) hanno iniziato a manifestare la propria preoccupazione, inviando anche lettere ai politici; gli enti che li fanno partire hanno aumentato la loro pressione sul governo Monti; giornali, donne e uomini di cultura, hanno lanciato l’idea di un Servizio civile universale, per tutti, seconde generazioni (figli di stranieri nati in Italia) comprese; politici di ogni schieramento che hanno a cuore il tema (pochi, purtroppo, anche se tra questi spicca il ministro per l’integrazione e la cooperazione Andrea Riccardi, fondatore della Comunità Sant’Egidio) fanno cartello chiedendo al Presidente del Consiglio di metterci una pezza. Vedremo: per ora si sa che nel 2013, chi partirà lo farà con i fondi residui dell’Unsc. È l’unica luce in fondo al tunnel, in attesa di nuove.
Nelle pagine seguenti viene illustrato, sotto ogni aspetto, il bene che l’Obiezione di coscienza prima, il servizio civile poi, ha fatto e sta facendo per il nostro paese. Il problema è che una parte dei cittadini di questo paese se ne rende conto, ma un’altra grossa fetta non ne ha capito la portata, nonostante sia palese, come rivelano le ultime ricerche sociali in merito, quanto sia virtuoso il «ritorno» verso la società civile dell’impegno dei ragazzi in Scn: ben quattro euro di capitale umano ogni euro investito dallo Stato per il loro servizio.
Alla luce dei numeri e dei fatti, il messaggio che viene diffuso è forte e chiaro, in primo luogo per la politica: è ora che tutti sappiano veramente cos’è il Servizio civile e cosa perderemmo se venisse sospeso. È ora di rilanciarlo, e per questo c’è bisogno dell’impegno di tutti noi.

Daniele Biella

Daniele Biella