Il sostegno a distanza pilastro della cooperazione

Cooperando…

«Mi piacerebbe fare qualcosa per quelle persone nel Terzo mondo a cui manca tutto, a cominciare dal cibo. Ma con tutti questi progetti, associazioni, organizzazioni e campagne non ci si capisce niente. E poi chissà che fine fanno i miei soldi. Se adotto un bambino a distanza magari farò solo qualcosa di piccolo, ma almeno sono certo che quel bambino potrà studiare, mangiare, curarsi se si ammala e che per lui qualcosa cambierà davvero».

È certamente successo a tanti di sentire parole come queste pronunciate da un familiare, da un amico o da un conoscente. E, a tanti, è successo di essere addirittura chi le pronunciava, se è vero, come rileva un recente studio dell’Agenzia per il Terzo Settore, che sono oltre due milioni gli italiani coinvolti nel sostegno a distanza. Un moto istintivo come quello di andare in aiuto di un bambino genera, sommato a milioni di altri gesti simili, un movimento di risorse pari a cento milioni di euro all’anno: un quarto dell’intero ammontare annuo delle iniziative di solidarietà e cooperazione internazionale.
Questo è il quadro tratteggiato dalle fonti ufficiali, in realtà, la galassia del sostegno a distanza appare più complessa e variegata. Lo studio dell’Agenzia per il Terzo Settore, infatti, si riferisce a 111 organizzazioni no-profit italiane considerate più rappresentative, ma non tiene conto delle numerosissime realtà, spesso missionarie, che sono comunque attive nel sostegno a distanza. Secondo il Forum permanente del Sostegno a distanza (ForumSaD), infatti, le organizzazioni che si occupano di SaD sarebbero oltre 400 e raccoglierebbero circa 360 milioni di euro. A prescindere dalla quantificazione precisa, comunque, si tratta certamente di cifre in grado di dare un impulso decisivo al settore della solidarietà internazionale.

Una panoramica del SaD
«Sostegno a distanza» (SaD) è il termine usato per riferirsi a quelle iniziative di solidarietà attraverso le quali un donatore garantisce con il suo contributo periodico la sussistenza, l’istruzione e l’assistenza sanitaria a una persona o a un gruppo di persone. I contributi sono veicolati dalle diverse associazioni, Onlus e Ong, che fanno da ponte fra chi dona e chi riceve. La definizione «adozione a distanza» è largamente utilizzata nel linguaggio comune per riferirsi al SaD, ma a livello istituzionale non si parla di adozione poiché quest’ultima ha una valenza giuridica e sociale che il sostegno a distanza non ha.
Quella del sostegno a distanza è una declinazione della solidarietà ormai consolidata anche in Italia, sebbene abbia avuto origine all’estero: Save the Children, il colosso inglese della cooperazione internazionale, ha avviato questo genere di attività fin dagli anni Trenta del XX secolo; oggi l’organizzazione che gestisce il numero più elevato di adozioni è World Vision, con quattro milioni di bambini che hanno beneficiato, direttamente o indirettamente, del sostegno a distanza, seguita da Compassion inteational, con 1,2 milioni di bambini beneficiari. Compassion è una realtà significativa anche nel nostro Paese, dove gestisce, grazie alla sua sede italiana, oltre quindicimila adozioni. Ma la palma di autentico gigante delle adozioni a distanza in Italia va certamente ad ActionAid che, con i suoi oltre ottantasette mila SaD, distacca l’Avsi, secondo colosso, di più di cinquantamila unità. Il contributo richiesto dalle organizzazioni di SaD ai donatori si aggira intorno ai 300 euro annuali e in genere comprende le spese per la frequenza scolastica, per il cibo e per le eventuali cure mediche. Molte organizzazioni prevedono una trattenuta sulla donazione per i costi di gestione; le quote sono variabili e arrivano a un massimo del 25%.

Come è cambiato il sostegno a distanza
Pioniere delle adozioni a distanza in Italia è il Pontificio Istituto per le Missioni Estere (Pime), che ha avviato le prime iniziative nel 1969. Da allora questa forma di solidarietà ha cominciato a diffondersi fino all’impennata degli anni Novanta, in cui si è assistito a un vero e proprio boom. Molte organizzazioni (fra le quali anche MCO) hanno a quel punto avvertito l’esigenza di dotarsi di strutture e personale adeguati per gestire quella che stava diventando una mole enorme di materiale e informazioni da trasmettere ai donatori perché questi continuassero ad avere la certezza della massima trasparenza nell’utilizzo dei fondi. Tuttavia, con l’istituzionalizzazione e l’affermazione, specialmente all’estero, di vere e proprie multinazionali dell’adozione, hanno cominciato a sorgere i primi casi di mala gestione dei fondi.
Una bordata al mondo delle adozioni a distanza arrivò, nel 1998, dai risultati di un’inchiesta di tre anni condotta da alcuni giornalisti del Chicago Tribune. Dopo aver constatato le dimensioni che il fenomeno stava assumendo negli Stati Uniti (fra il 1992 e il 1996 gli americani avevano donato più di 850 milioni di dollari solo alle quattro più grandi organizzazioni statunitensi), i reporter del Chicago Tribune – senza rivelare la loro professione – iniziarono a sostenere a distanza dodici bambini appartenenti ai programmi delle quattro ong e si recarono poi nei paesi di residenza dei bambini per verificare di persona i benefici ricevuti dai piccoli. Accanto a risultati positivi e dimostrazioni di effettiva trasparenza, i giornalisti scoprirono anche una serie di gravi distrazioni di fondi: in un feroce articolo dal titolo Instancabili campagne di false promesse (Relentless campaigns of hollow promises), i reporter documentarono episodi nei quali le organizzazioni avevano accettato migliaia di dollari per bambini che erano morti da anni, in alcuni casi anche scrivendo a nome dei piccoli lettere false, o avevano usato il denaro destinato ai bambini per acquistare computer o pagare lezioni di ballo o, ancora, avevano negato i farmaci antimalarici ai bambini nel programma di sostegno con la scusa che fornire assistenza sanitaria avrebbe creato dipendenza nei beneficiari. Lo scandalo che ne seguì contribuì certamente a spingere il mondo delle organizzazioni attive nel SaD a dotarsi di criteri, linee guida e principi che regolamentassero in maniera rigorosa la gestione dei fondi e i meccanismi di rendicontazione nei confronti del donatore.

L’oggi: nuove consapevolezze
Questa maggior tensione verso la trasparenza non ha purtroppo impedito che si ripetessero episodi di utilizzo improprio dei fondi SaD, anche da parte di organizzazioni italiane, ma ha certamente contribuito a creare una maggior consapevolezza nel donatore di quelli che sono i mezzi a sua disposizione per verificare il buon operato dell’ente al quale ha scelto di destinare i fondi.
Di più: la riflessione scaturita dagli scandali ha portato il mondo della cooperazione a confrontarsi con una serie di pro e contro delle adozioni a distanza.
Un documento del DfID (il dipartimento per lo sviluppo internazionale britannico) riassume in modo molto efficace questi pro e contro. Da un lato, si legge nel documento, il SaD ha dalla sua una serie di grandi vantaggi:
– innanzitutto permette di «dare un volto a questioni complesse» suscitando nel donatore la volontà di comprendere le problematiche del luogo in cui vive il bambino «adottato» e verificando grazie al contatto con il bambino i progressi reali;
– inoltre aiuta a stabilire un legame non solo con il singolo bambino ma anche con la sua comunità, che viene così coinvolta attivamente;
– infine, poiché il SaD dura di solito fino alla conclusione degli studi del bambino sostenuto, è possibile per le organizzazioni inserire l’intervento in un arco temporale più ampio e graduale che permette maggior programmazione e sostenibilità.
D’altro canto, è anche vero che il SaD implica spesso costi amministrativi elevati (si pensi alla necessità di raccogliere foto e lettere e inviarle ai donatori) e che risolve solo problemi immediati come l’accesso all’istruzione e al cibo o l’acquisto di vestiario, senza però riuscire a influire su problemi più ampi come la lotta all’HIV o la regolamentazione del commercio internazionale, che sono fra le principali cause della povertà. Infine, capita che il SaD finisca per essere il nome che si dà a quello che in effetti è lo sviluppo comunitario e che i fondi delle adozioni finiscano per mescolarsi ad altre donazioni per sostenere progetti a beneficio di tutta la comunità invece di essere diretti solo al bambino «adottato». Da questo punto di vista, tuttavia, negli ultimi anni si è registrata anche una maggior consapevolezza da parte dei donatori rispetto al fatto che il sostegno isolato e riservato solo a un bambino perde parte del suo significato se il contesto circostante non partecipa dei benefici.

I Missionari della Consolata e il SaD
I Missionari della Consolata fanno adozione a distanza fin dai primi tempi della loro attività missionaria in Kenya, anche se in quei tempi non si chiamava certamente così. Il cosiddetto «Collegio dei Principini» a Fort Hall, l’orfanotrofio per bambini nella fattoria del Mathari, le prime scuole per ragazze (completamente gratuite), gli orfanotrofi in varie missioni, erano possibili solo grazie al sostegno continuo dei benefattori. Per questo ogni anno, a gennaio, puntualmente, l’allora bollettino «La Consolata» presentava la foto di bambini che ringraziavano i benefattori per la loro generosità.
La diocesi di Marsabit, fin dalle sue origini ha investito tantissimo nella scuola creando una rete incredibile di asili in tutti i villaggi raggiunti, con scuole elementari in tutte le missioni e scuole secondarie a livello distrettuale. Migliaia hanno studiato in queste istituzioni rese possibili, soprattutto all’inizio, esclusivamente dal sostegno a distanza di tanti benefattori. Lo stesso è accaduto in tutte le nazioni africane dove sono presenti, dall’Etiopia al Congo RD, dal Tanzania al Mozambico. In America Latina in ogni missione c’erano (e ci sono) grandi collegi, dove, accanto a coloro che possono pagare, c’è un grande numero di studenti poveri aiutati da qualche progetto di sostegno a distanza organizzato dalla missione locale. Fare il nome di tutte queste iniziative è quasi impossibile. Spesso sulle pagine di questa rivista abbiamo dato spazio a racconti e relazioni che trattavano di questo argomento, dalla Familia ya Ufariji di Nairobi al progetto scolastico per gli Yanomami, dalla grande scuola negli slum di Guayaquil in Equador alle scuole nell’Etiopia.
Per anni questo è stato realizzato con uno stile semplice e famigliare, senza strutture, per poter investire il 100% di quanto ricevuto dai benefattori a vantaggio dei bambini, con una visione che teneva conto del contesto globale: non il bambino singolo, ma il bambino nella sua comunità e nella sua scuola. Questo per dei motivi molto semplici:
– un bambino in una scuola mal gestita e di scarsa qualità non ha alcun profitto;
– non si creano privilegiati: bambini con benefattori «ricchi» e bambini con benefattori «poveri», così ognuno riceve quello che è indispensabile per la scuola, per la salute e – se necessario – anche per il sostentamento fuori della scuola in caso di famiglie molto povere;
– evitare situazioni imbarazzanti, soprattutto nel caso di una corrispondenza diretta tra bambini e benefattori, con richieste di beni non necessari o scambio d’informazioni che possono creare aspettative sproporzionate nei bambini/studenti;
– ridurre al minimo i costi di gestione;
– evitare di attirare la cupidigia di autorità e politici locali, tentati di appropriarsi dei programmi di adozione a proprio vantaggio.
Questo, in molti casi, continua ancora, ma per far meglio fronte alle nuove situazioni sia nei paesi del sud del mondo che in Italia, ecco che è nata Missioni Consolata Onlus (Mco) a cui fanno riferimento tantissimi donatori e con cui cornoperano anche decine di altre Onlus o Ong impegnate nelle adozioni e legate a questo o quel missionario, a questa o quella missione.
Ve ne parleremo nella prossima puntata con un’intervista ad Antonella Vianzone, la signora che da oltre 15 anni segue questo settore nella Mco.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti

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