Sui monti vita nuova

Lemie, Valli di Lanzo: dodici battesimi in regalo

Il viso di Aaliyah, nata a Lemie 5 mesi fa da genitori camerunesi, è incoiciato da un berretto di morbida lana bianca. La giovane mamma la stringe tra le braccia per custodie il calore. Gli altri due bimbi nati in Italia, Felicia, bimba nigeriana di appena due mesi, e Nketa, piccolo congolese di tre, sono infagottati in pesanti coperte bianche.
Assieme agli altri nove bambini festeggiati oggi, nati in Africa durante il viaggio della loro famiglia alla ricerca di una nuova casa, passano dalle braccia dei propri genitori a quelle dei padrini e delle madrine di pelle bianca.
L’emozione è palpabile. Fino a nove mesi fa, non uno solo dei 90 residenti a Lemie – paese che si sta spopolando, così come la valle che lo accoglie – avrebbe potuto prevedere un evento del genere. Questa  mattina (sabato 18 febbraio 2012), dodici bambini africani vengono battezzati nella parrocchia di San Michele Arcangelo.
La chiesa è piena di persone. Sono state aggiunte delle sedie vicino all’altare per le famiglie dei battezzandi e il variegato spicchio di mondo che si è presentato all’appello delle campane: i carabinieri, le suore, i cittadini del paese, il sindaco, gli operatori e i volontari impegnati da maggio dello scorso anno nell’accoglienza dei rifugiati.
Le prime parole di p. Paul placano il brusio. «Non vi sembra già un miracolo? Persone provenienti da ogni parte del mondo che si riuniscono nella fede. Nonostante le differenze, siamo tutti fratelli».
Si affiancano nella conduzione della cerimonia il parroco di Lemie, Don Bartolomeo Giaime, piemontese doc, e p. Paul Nde, della Pastorale Migranti, originario del Camerun, che ha accompagnato le famiglie fino a questo momento in un percorso costellato di sabati di preghiera e di canto.
L’italiano non può essere l’unico idioma, si deve ammorbidire nella cadenza francese e trovare sintesi nella lingua inglese, affinché il cerchio della Parola di Dio possa abbracciare tutti i presenti. I canti immergono in orizzonti nuovi, dal sapore inedito, la maggior parte dei presenti. Siamo in terra d’Africa. È difficile non abbandonarsi al ritmo dei tamburi.
Alla fine della cerimonia le Suore del Cottolengo, su invito di p. Paul, intonano il Magnificat, seguite da suore di origine africana che chiudono la cerimonia con una vivace preghiera di ringraziamento.
La festa che segue è un intreccio di Nigeria, Congo, Camerun e Italia, nel cibo offerto, nelle parole scambiate, nei giochi spontanei dei bimbi.
«Sono arrivato a Lemie con una sola indicazione», racconta p. Paul. «Ci sono dei profughi di lingua francese e dinglese che hanno bisogno d’un sacerdote».
A maggio del 2011, per il tramite della Protezione Civile e del consorzio Connecting People, trentasei profughi subsahariani sono giunti dal territorio libico in questo paesino arrampicato nelle alte Valli di Lanzo. Fin da subito, nonostante i timori degli operatori della cornoperativa Crescere Insieme, impegnati nell’accoglienza, il paese, a partire dal suo primo cittadino, ha aperto loro le braccia.
La loro dimora è una casa storica, Villa Buzzi, messa a disposizione dalla Piccola Casa della Divina Provvidenza Cottolengo. Tra le pareti spesse della vecchia residenza, finalmente al sicuro, sono emerse storie di straordinaria forza e di speranza.
«Devo dire che la loro semplicità mi ha colpito», dice p. Paul. «Queste persone pensano al futuro con un po’ di timore, ma sperano nell’aiuto divino per superare le difficoltà del momento presente».
Richiedenti asilo: questo sono i quaranta migranti per la legge italiana. L’équipe multidisciplinare del consorzio Connecting People e della cornoperativa Crescere Insieme, in collaborazione con la Piccola Casa, ha sostenuto le famiglie con percorsi di apprendimento della lingua italiana, laboratori e attività ricreative, percorsi di informatica, assistenza sanitaria, ma soprattutto ha cercato di riannodare, con tutta la delicatezza possibile, i fili di tante vite spezzate, prima da violenze e persecuzione, poi dalla guerra.
«La settimana scorsa tutti i nostri ospiti hanno sostenuto l’intervista con la commissione ministeriale preposta all’esame delle loro domande di asilo», spiega Mauro Maurino, consigliere di amministrazione del consorzio Connecting People. «Adesso, siamo in attesa delle risposte. Certamente», continua Maurino, «questa festa ha per noi, operatori dell’accoglienza, un grande significato. Vediamo in essa una scelta di appartenenza, niente affatto scontata, a un luogo, a un tempo, a una comunità».
L’azzurro è terso. Il bianco della neve è la risposta della terra al sole, ricco di promesse di primavera. Promesse che il freddo pungente del mattino non riesce ad ammutolire.

Serena Naldini

Serena Naldini




Camminare con la gente

Dalle lettere di padre Beppe Svanera da Marialabaja

Padre Beppe continua a scrivere regolarmente ai suoi amici condividendo un cammino non facile,
ma anche ricco di momenti di grazia.
In queste pagine, squarci di storia alla scoperta delle radici del popolo afro di Marialabaja, e squarci di interiorità di missionari attenti alla realtà e fedeli al Vangelo.

Ordinazione sacerdotale
Finalmente una buona notizia: sabato 19 febbraio 2011 è stato ordinato il primo sacerdote missionario della Consolata, p. Edilberto Maza nato a Marialabaja nel 1977. Ha perso i genitori da bambino ed è cresciuto con la nonna e la zia in una famiglia numerosa di zii, cugini e nipoti. Con lui è stato ordinato diacono il giovane etiope Nebiyu Elias Gabriel che dopo gli studi teologici a Bogotá ha passato un anno con noi dedicando il suo tempo soprattutto ai giovani che, entusiasti, lo hanno accompagnato in questo importante momento. Dopo l’ordinazione partiranno, come tutti i missionari: p. Heriberto per il Mozambico e il diacono Nebiyu verso il Venezuela. Noi li accompagniamo con la preghiera.
La solenne celebrazione ha riempito la chiesa e la piazza. Tanta gente in festa con il nostro Vescovo e un nutrito gruppo di sacerdoti che hanno accompagnato i due giovani missionari al ritmo dei tamburi con canti e balli afro e africani alternati a momenti di intenso raccoglimento e sincera devozione. Da sottolineare la presenza di rappresentanti di quattordici nazioni diverse uniti nella stessa fede e lode a Dio. Bello, definitivamente bello, questo momento che riconcilia con la vita e rinforza i grandi ideali che animano la missione e ci aiuta poi a tornare con nuova energia per affrontare la non facile realtà di tutti i giorni.

MOLTE PROMESSE
Momenti come questi ci permettono in qualche modo di superare anche l’ultima delusione dei nostri governanti. A fine gennaio 2011 abbiamo avuto la visita del vicepresidente della Colombia accompagnato dal ministro dell’Agricoltura e da una serie di personaggi che dovrebbero difendere il benessere dei loro elettori ma che, puntualmente, fanno gli interessi di chi li condiziona con i capitali. La visita è stata il frutto di una lunga e faticosa campagna da parte della Comunità di sfollati di Mampujan. Mampujan è uno dei nostri trentacinque villaggi. La famiglia di p. Heriberto è originaria di là. Come ogni comunità, viveva lavorando i campi in santa pace e senza problemi fino a quando un giorno si presentò la guerriglia e cominciarono le intimidazioni e i sequestri. Una sera del 2000 arrivarono invece i paramilitari che radunarono tutti nella piazza. La gente, spaventata, pregava disperatamente. Non furono uccisi, come era invece successo in altre comunità, ma ricevettero l’ordine di lasciare il paese entro le dieci del giorno dopo. Così Mampujan cessò di esistere: 245 famiglie partirono per Marialabaja portando quello che potevano verso un destino ignoto e crudele. I paramilitari continuarono il loro cammino e in quei giorni trucidarono tredici contadini di Las Brisas, un villaggio vicino. Oggi Mampujan è solo desolazione: le case sono ruderi soffocati dalla selva. Nacque nel frattempo un nuovo Mampujan chiamato «Rosas de Mampujan» su un terreno acquistato dopo l’esodo dal p. Salvatore Mura con l’aiuto di amici italiani, all’ingresso di Marialabaja.
Dopo dieci anni alcuni pensano di ritornare al paesello natio, ma la cosa non è per niente facile. Con quali prospettive? Le persone anziane vanno ogni giorno alla loro terra, distante due o tre ore, per coltivare qualcosa e sopravvivere, e tornano la sera a piedi o con l’asinello perché ancora non si sentono sicuri. I giovani non dimostrano alcun interesse. Si sono abituati al paese, alla strada, alla moto e alla televisione. Lavorare la terra non è il loro ideale di vita. Inoltre il governo non ha ancora mostrato alcun interesse concreto, al di là delle solite dichiarazioni, per assicurare servizi come strade, elettricità, scuola e, soprattutto, i prestiti necessari per tornare a lavorare la terra.
Finalmente però Mampujan sembra interessare il governo che ha scelto questa comunità con altre otto per un piano pilota di possibile ritorno. Da qui la visita del vicepresidente e del suo seguito. L’incontro si è svolto nel cortile della nostra piccola fattoria della Consolata con più di trecento persone, sotto lo stretto controllo di almeno un centinaio di poliziotti e soldati. Speravamo veramente in qualcosa di più, con tutta quella messinscena. E invece ancora una volta la montagna ha partorito il topolino: ancora promesse e tante, troppe parole hanno assopito l’assemblea dei presenti che hanno reagito vigorosamente solo quando il governatore della regione vicina (non il nostro, e neppure il nostro sindaco!) ha toccato il tema della coltivazione della palma che sta minacciando seriamente la sicurezza alimentare della popolazione. Finalmente sono scrosciati gli applausi dei contadini e di tutta la nostra gente per sottolineare come questo sia il vero problema del nostro territorio. Servirà a qualcosa? Noi lo speriamo e continueremo a lottare in questa direzione con tutti i mezzi legali ma soprattutto con la certezza che il Dio di Gesù Cristo che si è manifestato a suo tempo a Mosè ascolterà ancora una volta il «grido del suo popolo».

Pasqua 2011:
sofferenza dalle radici lontane
Nuovamente Pasqua! Vita nuova in Cristo risuscitato e sempre vivo in mezzo ai suoi, perché tutto e tutti abbiano vita, e vita in abbondanza. A Marialabaja chi ha preso coscienza del valore della Pasqua la celebra con gioia. La grande maggioranza, per ragioni storiche, culturali e ambientali, trasforma la settimana santa in una grande baldoria tutta da studiare. Uno dei momenti che suscita maggiore interesse e partecipazione popolare è sicuramente la «Via Crucis» del Venerdì Santo, probabilmente per il predominare del sentimento o anche per l’identificazione della nostra gente con le sofferenze di Cristo.
Sui Monti di Maria, e quindi anche a Marialabaja, la violenza è un fenomeno complesso non ancora studiato a fondo e senzaprospettive di vera pace. Che è successo nei Monti di Maria? Ci sono state una cinquantina di stragi, quasi quattromila assassinii politici, circa duecentomila profughi, campagne abbandonate e tuguri nelle città. Non in una foresta disabitata, ma in territorio con paesi sviluppati, autorità civili, militari e religiose, strutture di governo e organizzazioni popolari a due ore dalla città di Cartagena, capitale del turismo colombiano.
La versione ufficiale parla di paramilitarismo alimentato dal 1997 da un’alleanza di allevatori e politici per «difendersi» dai guerriglieri di sinistra. Le radici sono comunque molto più lontane e affondano nel secolare problema della terra che qui, come altrove in Colombia, è tradizionalmente in mano a poche famiglie.
Negli anni ‘70 ci fu un tentativo di riforma agraria da parte del governo, ma i padroni cacciarono i contadini affittuari, che, in reazione, si organizzarono con l’appoggio ufficiale e occuparono, al grido di «la terra è di chi la lavora», le oltre quattrocento fattorie dove sempre avevano vissuto. Negli anni ‘80 giunsero nella regione diversi personaggi con misteriose fortune legate soprattutto al narcotraffico. Comprarono grandi aziende e protessero con uomini armati il commercio della droga via mare. In quegli anni molti i contadini furono eliminati, mentre scomparvero molti dirigenti sociali identificati come elementi sovversivi. Salvo casi isolati, le autorità militari lasciarono correre.
Contemporaneamente crescevano i gruppi guerriglieri, già diffusi nel resto della Colombia, approfittando della frustrazione del movimento contadino. Non rispettarono l’organizzazione contadina Anuc, perché aveva trattato con il governo, e imposero il loro metodo violento a base di sequestri e taglieggiamenti, creando un grande malessere soprattutto tra i piccoli allevatori di bestiame. I contadini si trovarono stretti tra due fuochi. Anche i guerriglieri si assicurarono un corridoio strategico per il traffico della droga verso il mare e aumentarono vertiginosamente gli assalti, i sequestri e gli assassinii. Paramilitari e guerriglieri si organizzarono sempre meglio con rinforzi continui di personale e mezzi; ma la guerra, fin dall’inizio, fu soprattutto contro i civili accusati di appoggiare uno dei due contendenti. Intanto esercito e polizia combattevano, senza grandi risultati, i guerriglieri e chiudevano un occhio, anche due, sui paramilitari.
La debolezza del governo diede via libera alle «Cooperative Convivir» che in pratica erano gruppi paramilitari che avevano le armi e la protezione dello stato oltre all’appoggio dei grossi allevatori e narcotrafficanti. L’espansione paramilitare non riuscì comunque a eliminare i guerriglieri che continuarono imperterriti le loro attività anche quando nel 2003 cominciò in Colombia il processo di smobilitazione dei paramilitari. Lo stato, finalmente, cominciò una doppia azione che si dimostrò vincente: da una parte trattò la smobilitazione dei paramilitari e dall’altra l’esercito realizzò una serie di azioni efficaci che finalmente eliminarono i diversi gruppi guerriglieri almeno nei Monti di Maria.
Partecipai alla smobilitazione dei paramilitari dei Monti di Maria il 14 luglio 2005 quando tutto sembrava ormai finito. Fu una giornata di festa per la gente. Ma i problemi di fondo rimangono irrisolti. Così scriveva un giornale locale: «Le ragioni di fondo di questo orribile conflitto sono ancora irrisolte: una terra mal distribuita; una presenza debole delle istituzioni governative incapaci di mettere ordine nei titoli di proprietà della terra che oggi, dopo le successive spoliazioni e usurpazioni, continuano ad essere un rompicapo; gli affari dei narcotrafficanti, che si regolano con il piombo e continuano a prosperare nel Golfo di Morrosquillo; la corruzione dei dirigenti politici ossessionati dalla brama di mantenere i loro privilegi e le loro fonti di ricchezza; la miopia di membri della forza pubblica o politici, fuori dalla storia, che vedono pericolosi comunisti nei leader più attivi e continuano a uccidere semplici contadini cavandosela sempre. Solo se cambieranno questi fattori che alimentano il conflitto, gli abitanti dei Monti di Maria eviteranno che la loro triste storia si ripeta».

Non c’è due senza tre, 4.10.2011
Non c’é il due senza il tre, ed è con grande gioia che abbiamo vissuto l’ordinazione del terzo sacerdote e secondo missionario della Consolata di Marialabaja. Dopo il carmelitano p. Fredy e il p. Edilberto Maza, in Mozambico da pochi mesi, il 30 luglio è stato ordinato p. Beardo Matorell Batista che è poi partito per il Tanzania come sacerdote missionario.
Naturalmente l’allegria è stata grande in questo paese afro che ha donato tre dei suoi figli migliori al servizio del Vangelo per una nuova umanità secondo il cuore di Dio. Beardo è figlio di Miguelina e Erasmo due professori esemplari e molto stimati nell’ambiente educativo e sociale di Marialabaja e da sempre impegnati nella parrocchia. Festa grande e significativa soprattutto perché ha confermato ancora una volta i valori della nostra gente nonostante i secoli di schiavitù e la poca considerazione che godono ancora ai nostri giorni. Per noi missionari una bella soddisfazione e un invito speciale perché ci sentiamo stimolati a fidarci sempre di più delle persone che ci circondano e che devono diventare protagoniste del proprio futuro.
Contemporaneamente a questa ordinazione sacerdotale si è costituito nel Centro Afro Allamano un gruppo di giovani impegnati in un progetto educativo con la nostra gente. Sono universitari che da tempo svolgono attività comunitarie e che hanno deciso di «mettersi in proprio» assumendosi la responsabilità nell’educazione del proprio popolo. Inizialmente appoggiati dalla parrocchia, si radunano tutti i lunedì per elaborare materiali di formazione, a partire dalla cultura e tradizione afro, che loro stessi distribuiscono nelle diverse comunità alle persone impegnate o comunque desiderose di lavorare con bambini, ragazzi, giovani e adulti. Questo sta generando un grande interesse soprattutto nelle «mamme comunitarie» che attendono ogni giorno a gruppi di bambini dai tre ai sei anni, nelle maestre delle scuole elementari e nei professori di religione delle medie e superiori.
è interessante notare che il punto di partenza è sempre la Parola di Dio avvicinata secondo l’età delle persone e la sensibilità afro che è profondamente religiosa. Penso che questa sia la chiave del possibile successo della proposta educativa del nostro gruppo di giovani contrariamente alle diverse iniziative che vengono «da fuori» e che per mille ragioni non tengono conto della mentalità religiosa della nostra gente. è un avvicinamento alla Bibbia alternativo rispetto ai diversi gruppi religiosi che pullulano nel territorio e che spesso strumentalizzano la Parola di Dio per allontanare dai problemi reali o per incutere paura minacciando castighi e a volte generando fanatismo.
Riusciranno i nostri giovani eroi a realizzare un Marialabaja diverso? Intanto ci provano! E noi formuliamo i migliori auguri con piena fiducia nella Parola di Dio che con la forza dello Spirito permetterà loro di superare qualsiasi ostacolo.

Natale 2011: cristianizzazione e schiavitù
Il 2011 è stato un anno di grazia per noi e per il nostro popolo con l’ordinazione di due sacerdoti missionari della Consolata. Possiamo dire: «Missione compiuta!»?
In un recente incontro comunitario ci siamo guardati in faccia tutti piuttosto perplessi. Il parroco colombiano P. Gabriel, il brasiliano P. Sergio, il giovane seminarista Alex del Kenya e l’italiano (che sono io), ci siamo visti un po’ persi e abbiamo dovuto riconoscere che siamo ancora ben lontani dal capire cultura, mentalità e linguaggio del nostro popolo, soprattutto per quanto riguarda le sue espressioni religiose. Dio è dappertutto, ma Gesù Cristo è il grande sconosciuto! Eppure la presenza di missionari nel territorio data quasi dall’inizio della conquista dell’America quando fu fondata nel 1535 «Villa Maria» l’attuale Marialabaja. Che è successo in tutti questi anni e particolarmente nei quasi 25 anni della nostra presenza come missionari della Consolata?
Vale la pena ripercorrere le circostanze e le caratteristiche dell’evangelizzazione dei primi tempi della conquista nel territorio di Cartagena de Indias, «porto e porta» degli schiavi che popolarono gran parte della Colombia. L’evangelizzazione, o meglio il proceso di cristianizzazione della popolazione afro fu lungo, contradditorio e doloroso per la semplice ragione che cristianesimo e schiavitù sono andati a braccetto per secoli lasciando conseguenze profonde che durano ancora.
La Chiesa del secolo sedicesimo accettava la schiavitù che già esisteva anteriormente, considerandola normale e addirittura necessaria per offrire a questi «poveretti» la possibilità di entrare nel Regno di Dio. Il cristianesimo incise quindi enormemente sulla creazione di un sincretismo religioso nato dall’incontro delle diverse culture originarie dell’Africa con le tradizioni spagnole imposte con autorità ma non sempre con profondità e libertà. L’influsso religioso cristiano fu inesistente nei palenques (dove si rifugiavano gli schiavi che fuggivano), minimo nelle miniere, limitato nelle aziende agricole spagnole, e più consistente nella città di Cartagena dove i Gesuiti, soprattutto con p. Sandoval e p Claver (S. Pedro Claver), accoglievano nel porto e seguivano nella città con diverse iniziative pastorali gli schiavi che arrivavano dall’Africa.
Nonostante i limiti dell’evangelizzazione, le comunità afro con grande sapienza riscoprirono nel cristianesimo espressioni religiose che furono un’arma di sopravvivenza culturale e permisero di conservare e ricreare elementi mitici delle religioni africane. Questo perdura anche oggi e si manifesta soprattutto nelle feste patronali delle diverse comunità. E non saremo noi, poveri «untorelli», a cambiare questa realtà. Piuttosto siamo chiamati a capire e valorizzare questa cultura e tradizione e aiutare nella formazione di persone che siano sempre più coscienti dei propri valori alla luce del Vangelo di Gesù tanto distorto storicamente come rivoluzionario e dinamico oggi e sempre.
L’accettazione da parte del «negro-schiavo» del messaggio cristiano era difficile da giudicare. La sincerità poteva essere messa in dubbio dalla convenienza, ma sicuramente il senso di protezione che nasce dal battesimo e dall’idea dell’uguaglianza davanti a Dio aiutò lo schiavo ad accettare la sua condizione e a non perdere la speranza nonostante nella maggior parte dei casi fosse trattato come una bestia.
D’altra parte abbondarono i decreti e le ordinanze dei Re di Spagna che ricordavano ai proprietari di schiavi l’obbligo di provvedere alla loro catechizzazione perché si riteneva, con ragione, che la religione organizzata potesse essere un mezzo utile per il controllo sociale. Ma, come succedeva normalmente questi ordini reali, restarono lettera morta. Come restano lettera morta tanti documenti e disposizioni della Chiesa attuale e della Conferenza episcopale. E anche quelli di noi missionari, che con tutta la buona volontà continuiamo l’opera di evangelizzazione di questo popolo senza conoscee bene la storia, il linguaggio simbolico e la realtà più profonda. Ce ne rendiamo conto a ogni piè sospinto e allora tentiamo almeno di voler bene alla nostra gente e di camminare insieme con umiltà e coraggio verso la Luce che è apparsa nella notte di Betlemme per l’intera umanità.

Pasqua 2012: Villa Maria
Parecchi sono stati incuriositi dal nome di «Villa Maria» citato nella mia lettera precedente. è stato il primo nome di Marialabaja, fondata, secondo la tradizione, da Alonso de Heredia fratello di Pedro de Heredia, fondatore di Cartagena de Indias nel 1535. Mancano molti tasselli per ricostruire la storia di questo paese e del suo territorio, ma il titolo stesso di «Villa» indica che esisteva una popolazione residente che, tra l’altro, pagava tasse e contributi al Re di Spagna. Negli atti del processo di beatificazione di San Pietro Claver (1580-1654) appare ancora citata come Villa Maria e diverse volte si afferma che dopo Pasqua il nostro santo, «schiavo degli schiavi», visitava «Villa Maria popolazione di negri».
Poi tutto è scomparso, anche il nome. I continui attacchi dei nativi alle aziende spagnole, l’insicurezza, l’ambiente selvaggio della regione e le condizioni climatiche avverse, distrussero le case di fango e paglia e cancellarono ogni traccia di presenza umana. Nell’ambiente ostile e isolato rimase la gente con tanta voglia di vivere, e si moltiplicò. Dall’anelito di libertà della maggioranza nera della popolazione e dall’incontro-scontro con gli ultimi indigeni sopravvissuti alla conquista e i pochi coloni, si sviluppò un popolo e si originò una nuova cultura.
Più tardi «Villa Maria» fu rifondata e diventò «Maria la Baja» per distinguerla da «Maria la Alta», attualmente «El Carmen de Bolivar» dall’altra parte dei «Monti di Maria». Nel 1918 vi si stabilì il primo sacerdote (il salvatoriano tedesco P. Alexander Treittinger) e nel 1935 Marialabaja divenne Municipio affermandosi sempre più come la «dispensa alimentare» della regione per la sua terra fertilissima e un vasto e complesso sistema d’irrigazione realizzato dal governo negli anni ‘70.
Con la violenza degli anni 1995-2005 e le coltivazioni di palma iniziate nel 1998 il territorio, la cultura, l’economia, la società hanno subito un profondo cambiamento e non mancano le preoccupazioni per il futuro. Come missionari cerchiamo di stare molto attenti all’evolversi della situazione e camminiamo con il nostro popolo, animando la comunità «dentro e fuori del tempio», cercando nuove vie e possibili soluzioni alla luce della Parola di Dio e offrendo la nostra collaborazione a tutte le persone di buona volontà. E così, poco a poco, con tante difficoltà ma anche tante piccole soddisfazioni, ha preso forma il «progetto afro-educativo Villa Maria» del quale vi ho già scritto. «Villa Maria» perché vuole riscoprire le radici di questa terra, la sua storia, tradizione e cultura, per affrontare il presente e costruire un futuro che sogniamo insieme. Le diverse iniziative sociali della parrocchia animate dalla pastorale sociale e le piccole strutture realizzate in questi anni con la vostra solidarietà sono sfociate in questo progetto con la responsabilità della gente del posto a partire dalla nostra rete di piccole scuole, dalla cascina «Consolata» e dal «Centro Afro Allamano». La Fondazione «a partir de los niños», la «Società di sviluppo afro-rurale» (Cdar) per i progetti agricoli e la «Società Radici di Marialabaja per la sicurezza sociale» (Ramass) sono sempre più protagoniste del progetto, hanno ottenuto riconoscimento giuridico e fanno ora parte, con diversi altri gruppi agricoli e comunitari, della Sezione municipale di Agrosolidaria, una società cornoperativa nazionale che si identifica con questo slogan: «Hasta que tengamos una Colombia justa, debemos tener una solidaria» (Per avere una Colombia giusta, dobbiamo avee una solidale).
Se sono rose… A volte mi chiedo se vale la pena suscitare e accompagnare questi processi organizzativi e culturali. Per qualcuno è tempo perso perché i cambiamenti sono pochi e troppo lenti. Per altri è tutta una nostra montatura, perché se noi missionari lasciassimo, tutto cadrebbe. C’è poi chi dice: «Non sono affari nostri». Rispetto le opinioni altrui e che siano felici! A me piace vivere intensamente il momento presente. Ricordo il passato, che necessariamente insegna, e sogno il futuro, che stimola, ma mi piace vivere pienamente il presente e quindi anche questo progetto afro-educativo, con tutte le sue manifestazioni, incognite e contraddizioni. A chi ci ha accompagnato con affetto e pazienza auguro gli stessi sentimenti e tanta felicità.

Beppe Svanera
(1a parte: MC 2011/04 pp. 22-29;
2a parte: MC 2011/12 pp. 78-84).

Beppe Svanera




Kenya, uniti per la pace: ripartire dai giovani

Cooperando

Riunire migliaia di giovani perché possano discutere e confrontarsi, liberare il campo dagli odi fra
etnie, cercare le reali cause del conflitto e trovare una soluzione comunitaria. Questi gli obiettivi del progetto «Giovani uniti per la pace in Kenya» lanciato dai missionari della Consolata e dall’Associazione Africa Rafiki. Affinché la tragedia degli scontri post-elettorali del 2007 e 2008 non si ripeta e prevalgano il dialogo e la riconciliazione.

Era da poco passato Natale quando l’opinione pubblica internazionale fu bruscamente strappata alla tranquillità delle feste dai primi notiziari che parlavano di centinaia di morti e migliaia di sfollati in tutto il Kenya, risucchiato in una tanto inspiegabile quanto cruenta spirale di odio e violenza interetnica all’indomani delle elezioni politiche del 27 dicembre 2007. Increduli, con il disastro ruandese del 1994 ancora negli occhi, gli osservatori cercavano di spiegare come potesse essere successo quello che unanimemente era ritenuto impossibile: che, cioè, un paese come il Kenya, non certo estraneo alle tensioni fra etnie ma dimostratosi fino a quel momento capace di gestirle, stesse sperimentando la stessa follia collettiva che si era vista all’opera in altri paesi africani e che si sperava superata e irripetibile.
La crisi si chiuse il 28 febbraio del 2008, con l’accordo fra i due contendenti, il presidente uscente Mwai Kibaki e l’oppositore Raila Odinga e la formazione di un governo di coalizione. Rimaneva da far luce sulle violenze perpetrate in quei due lunghissimi mesi di conflitto, il cui drammatico bilancio registrava più di mille morti e seicentomila sfollati costretti ad abbandonare le proprie case nel timore di essere attaccati e massacrati da quelli che, fino a poche settimane prima, erano stati i loro vicini di casa.
Oggi, a quattro anni di distanza, il Paese si prepara a una nuova consultazione elettorale, prevista per la fine del 2012-inizio 2013, in un contesto certamente più disteso e pacificato nel quale però i cittadini keniani rimangono guardinghi. Sebbene il forte desiderio del paese di gettarsi alle spalle i traumi del 2008 nutra un ottimismo tutto sommato abbastanza diffuso, nessuno si sente di escludere del tutto che lo spettro del conflitto inter-etnico torni ad aleggiare non appena la campagna elettorale dei candidati alla presidenza entri nel vivo. Contraddittori sono stati anche i segnali in arrivo dal Kenya dal 2008 ad oggi: se, da un lato, il paese ha accolto in maniera tutto sommato equilibrata la recente decisione del Tribunale Penale Internazionale di incriminare quattro esponenti politici keniani – fra i quali il figlio dell’ex-presidente Jomo Kenyatta, Uhuru – per omicidio, crimini contro l’umanità, deportazione e persecuzione sulla base di affiliazione politica, dall’altro diverse fonti, fra le quali un report della BBC, hanno segnalato circa due anni fa un tentativo di armarsi che alcuni gruppi della Rift Valley avrebbero perseguito acquistando fucili d’assalto AK 47 e G3.
In questo contesto di fiducia prudente si inserisce l’iniziativa «Giovani Uniti per La Pace in Kenya», un progetto della durata di ventinove mesi che prevede l’organizzazione di forum per la riconciliazione in undici località del Kenya. L’obiettivo è quello di coinvolgere circa sedicimila giovani dei gruppi etnici che si sono scontrati nel 2008, in un processo di valutazione e riflessione comunitario sul conflitto post-elettorale per demistificare l’elemento etnico, riconoscere e individuare le reali cause del conflitto e cercare di rimuoverle attraverso la collaborazione e il dialogo all’interno della comunità.

Presi alla sprovvista
«We were caught unaware», (siamo stati presi alla sprovvista). Padre Jacob Ndong’a non si dava pace, e con lui tutti i missionari presenti in Kenya, anche quando nel 2009 la situazione intea era in corso di normalizzazione e la «Commissione per la verità, la giustizia e la riconciliazione», istituita dal nuovo governo, era al lavoro per investigare sui crimini commessi durante gli scontri. La mediazione internazionale dell’ex-presidente ghanese John Kufuor e dell’ex-segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, insieme alle pressioni della comunità internazionale, avevano portato già nel febbraio del 2008 a un accordo fra Mwai Kibaki e Raila Odinga, che avevano formato un governo di coalizione nel quale i due rivali erano, rispettivamente, presidente della repubblica e primo ministro, ma, al di là degli accordi politici di stabilizzazione, il paese era ancora profondamente traumatizzato.
I segni della violenza, d’altronde, erano tutt’altro che cancellati: a Kisumu, città del Kenya occidentale sulle rive del lago Vittoria, in pieno centro città gli edifici dati alle fiamme durante il conflitto rimanevano, neri di fuliggine e sventrati, come cicatrici non ancora rimarginate e pronte a riaprirsi al primo strappo.
Il senso di frustrazione implicito nelle parole di padre Ndong’a derivava principalmente dalla consapevolezza, condivisa dalla maggior parte dei missionari e degli operatori umanitari attivi in Kenya, che gli scontri post-elettorali del 2007 – 2008 avevano cause molto più profonde della semplice contrapposizione etnica, cause che però erano state ampiamente sottovalutate nel loro potenziale distruttivo.
Ad essere preso alla sprovvista è stato in effetti un Paese intero, chiesa cattolica compresa, che pure da anni nei suoi documenti segnalava la gravità della situazione e l’urgenza di risolvere una volta per tutte il problema della terra. La speranza di elezioni pacifiche aveva fatto sottovalutare la campagna di odio etnico messa in atto nei mesi immediatamente prima delle elezioni con ampio uso di radio locali e cellulari. Questo ottimismo «a tutti i costi» aveva lasciato campo libero a quella parte di classe dirigente che aveva volutamente strumentalizzato l’elemento etnico per fomentare tensioni da capitalizzare come merce di scambio nell’arena politica. Nella maggior parte dei casi, le violenze sono state perpetrate da giovani frustrati dalla mancanza di prospettive occupazionali che avevano accettato, in cambio di una manciata di scellini offerti dagli emissari di politici di diversi schieramenti – ben organizzati già da mesi -, di impugnare la panga (il tipico coltellaccio usato dai contadini per far di tutto, dal tagliare alberi al pulire la terra dalle erbacce, dal macellare un animale al farsi uno stuzzicadenti) e diventare giustizieri e difensori del proprio gruppo etnico.

Il conflitto e le sue cause
Proprio questo disagio giovanile è una delle chiavi di volta per comprendere i fatti del 2007 – 2008. Il tasso di disoccupazione, in Kenya, è intorno al 40%: circa sedici milioni di keniani non hanno un lavoro. Di questi, dieci milioni sono giovani fra i 18 e i 30 anni. «L’assenza di prospettive e la difficoltà a garantirsi la sussistenza», commentava padre Gigi Anataloni, missionario della Consolata e direttore della rivista The Seed di Nairobi all’epoca degli scontri, «si trasformano velocemente in mancanza di fiducia in se stessi e nel futuro. Giovani in questa condizione, che vivono di espedienti e che covano una rabbia e una frustrazione profonde, non sono difficili da coinvolgere in azioni violente in cambio di denaro».
Al disagio giovanile si aggiungono altri fattori, primo fra tutti quello dell’iniqua distribuzione della terra. «È un problema che affonda le sue radici nel colonialismo», precisa padre Michael Njagi da Mombasa, dove particolarmente serie sono le conseguenze del mancato riconoscimento del diritto alla terra. «Fu durante l’epoca coloniale che i nativi di zone di particolare interesse agricolo furono sfollati verso aree meno fertili per poter assegnare le loro terre ai coloni europei, sulla base di quanto sancito dal leggi come il Crown Lands Ordinance del 1902 poi rimpiazzato dal Govement Land Act del 1915. Il principio di gestione comunitaria delle terre andò perduto, accantonato in favore del modello occidentale di possesso privato.
A peggiorare la situazione furono le ridistribuzioni successive all’indipendenza, spesso attuate dai nuovi governi in maniera poco chiara a favore di individui potenti e ben introdotti, in grado di corrompere le autorità preposte all’assegnazione delle terre. Si calcola che circa il 60% di tutte le terre arabili sia nelle mani di pochi latifondisti, tra cui molti membri di governi passati e presenti.
Infine, ed è il fatto più di recente, le multinazionali straniere si stanno accaparrando i pezzi di terra migliori e, secondo le stime del Ministero della terra del Kenya, una serie di proprietari assenti, keniani e stranieri, posseggono oltre settantasette mila ettari di terra solo nella zona costiera fra Malindi e Mombasa dove le comunità locali sono costrette a vivere pagando affitti mensili e rischiando costantemente di essere sfrattate e allontanate».
Ulteriore elemento da tenere in considerazione, se si vogliono ricercare le cause reali del conflitto, è l’elevato tasso di corruzione, presente a tutti i livelli della società keniana, che in un contesto di risorse scarse o scarsamente utilizzate limita ulteriormente i margini di ridistribuzione della ricchezza. Se il modo più efficace e diffuso per garantirsi un impiego o un incarico è quello di corrompere chi è nella posizione di concederlo, è evidente che la stragrande maggioranza dei keniani è esclusa dalle dinamiche del mercato del lavoro. «È da questo insieme di fattori», riflette Josephat Khamasi Bandi, responsabile della ong keniana Yupk – Youth United for Peace in Kenya, «che si deve partire per tracciare un quadro realistico delle tensioni alla base del conflitto post-elettorale. La rivalità interetnica ha certamente aggravato queste tensioni ma non le ha causate e, senza queste ingiustizie di fondo, le rivalità tribali da sole non avrebbero potuto causare scontri su larga scala come quelli del 2008».

Il progetto «Giovani Uniti per la pace in Kenya»
È su questa serie di riflessioni che si è basata l’ideazione del progetto Giovani Uniti per la Pace in Kenya. Nato come movimento spontaneo di migliaia di giovani che, all’indomani degli scontri, si riunirono a Dagoretti, nella periferia di Nairobi, per discutere dell’accaduto e cercare risposte pacifiche e comunitarie alla violenza, il progetto attuale è l’ampliamento e l’estensione di quell’iniziativa quasi istintiva. Il responsabile di Yupk, Josephat Khamasi Bandi, è oggi il cornordinatore del progetto ed è impegnato in un intenso lavoro di organizzazione e supervisione dei forum.
«Nel 2008 abbiamo cominciato dalla zona della Rift Valley, dove gli scontri erano stati più aspri e sanguinosi», spiega Josephat, «e abbiamo organizzato forum di due giorni in ventisei parrocchie. A ogni forum partecipavano almeno cinquanta persone, molte delle quali erano proprio i perpetratori delle violenze. Il nostro obiettivo era quello di riunirle e permettere loro di confrontarsi: spesso il risultato erano scontri verbali piuttosto accesi, frutto di un risentimento ancora molto vivo. Ma, piano piano, grazie alla mediazione dei nostri moderatori, le persone trovavano la motivazione e le parole per aprire un dialogo e cominciavano a riconoscere che il problema non era essere kikuyu, luo, kalejin o samburu, bensì non avere a disposizione risorse che permettessero a tutti di garantirsi il sostentamento o il rispetto dei diritti più basilari, come il diritto al lavoro, alla terra, all’acqua. I risultati sono stati incoraggianti, per questo abbiamo deciso di cercare fondi che permettessero di allargare l’iniziativa a tutto il paese».
Oggi il progetto tocca undici località in tutto il Kenya e sono previsti centosessantacinque forum in ventinove che coinvolgeranno oltre sedicimila persone. Durante questi forum si replicheranno le modalità di invito al dialogo e al confronto già sperimentate nella Rift Valley, «naturalmente», aggiunge Josephat, «adattando l’iniziativa alla realtà locale e ai problemi prevalenti in quel contesto. Un conto è far comunicare kikuyu e kalejin che hanno come principale motivo di contesa la ripartizione della terra, altra cosa è aprire un dialogo fra Samburu e Pokot, che competono per l’accaparramento del bestiame e il controllo delle risorse idriche».
Le fasi del progetto sono essenzialmente due: la prima ha lo scopo di accompagnare i partecipanti dei forum fino alle prossime elezioni in un percorso di risanamento della memoria (healing of memories) e presa di coscienza dei propri diritti e doveri di cittadini. La seconda, che comincerà subito dopo le elezioni, darà una valutazione dei risultati ottenuti durante la prima fase – anche alla luce della reazione dei partecipanti a eventuali tensioni pre e post-elettorali – e getterà le basi per una gestione comunitaria dei conflitti e delle diatribe intee.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




La religione del potere

Le minoranze cristiane e l’Islam

Nel 2011, le violenze contro le minoranze non islamiche sono state frequenti. Si sono contate numerose vittime e molti cristiani sono fuggiti all’estero. Parlare di intolleranza religiosa è facile, ma non sempre corretto. Spesso dietro le violenze ci sono i giochi del potere. Ieri Mubarak, oggi i militari hanno tutto l’interesse a distrarre gli egiziani dai problemi della quotidianità. Nel frattempo, in attesa delle elezioni presidenziali, la «rivoluzione» langue.

Il Cairo. Le recenti tornate elettorali, in tutti i paesi del nord-Africa, hanno portato al potere i partiti di matrice islamica. Marocco, Tunisia ed Egitto si sono scoperti conservatori più di quanto ogni analista avesse anticipato. La Camera bassa del Parlamento egiziano è composta per il 40% dai rappresentanti del partito Libertà e Giustizia (costola politica del movimento dei «Fratelli Musulmani») e per il 28% dagli eletti nelle file del partito salafita di Al Nour. La svolta islamica del paese, dopo la caduta di Mubarak, ha messo in fuga decine di migliaia di cristiani.
In Egitto vivono 83 milioni di persone di cui circa un decimo sono di fede cristiana. Questi dati sono però approssimativi. Infatti, nell’ultimo censimento, di inizio anni Ottanta, il dato sulla confessione religiosa non è considerato attendibile. La maggioranza dei cristiani appartengono alla Chiesa di Alessandria d’Egitto, e vengono chiamati copti, al-Qubat in arabo. Questa denominazione viene dal greco aiguptioi e definiva i discendenti cristiani degli antichi egizi, che nel VII secolo non si convertirono all’islam, dopo la conquista del paese da parte degli arabo-musulmani. Dopo secoli di discriminazioni, la situazione dei copti inizia a migliorare a cavallo tra ’800 e ‘900. Le prime violenze interconfessionali del dopo-Mubarak si registrano il primo gennaio 2011: ad Alessandria un attentato suicida uccide 21 persone e ne ferisce altre 79 alla messa di fine anno. Nei mesi successivi si registrano altre violenze: l’8 marzo in un quartiere periferico della capitale ci sono 13 morti: 7 cristiani e 6 musulmani. Sono invece 12 i morti l’8 maggio, a causa degli attacchi nei confronti di due chiese nei sobborghi del Cairo, ma l’episodio più cruento avviene a inizio autunno. Centinaia i feriti e 36 morti è stato il bilancio degli scontri avvenuti il 9 ottobre al Cairo nelle vicinanze di Maspero, nome della torre della radio-televisione pubblica egiziana situata sul lungo Nilo del Cairo. I giornali di tutto il mondo hanno raccontato questi scontri come l’apice della violenza interconfessionale, divampata in Egitto dopo la caduta di Mubarak. Quando l’11 febbraio 2011 viene dato l’annuncio che Mubarak lascia il potere, lo Stato rischia di sbandare e l’esercito, che da sempre è considerato dagli egiziani come il garante della stabilità, prende il controllo del paese. La legge d’emergenza, che dà al Presidente (carica ricoperta ad interim dal generale Tantawi) poteri speciali, resta in vigore. Il presidente, sino alle elezioni che si terranno entro giugno 2012, rimane formalmente Hosni Mubarak, ma tutte la sue funzioni sono espletate da Tantawi, che siede a capo del «Consiglio superiore delle Forze armate» (Scaf). Con il passare dei mesi, i rivoluzionari di piazza Tahrir prendono le distanze dall’operato dei militari e ricominciano le proteste. Prima al riparo delle differenti confessioni religiose e poi sempre più dichiaratamente contro lo Scaf. Il punto più violento è la settimana prima delle elezioni, a novembre 2011, quando negli scontri muoiono più di 80 persone. In queste manifestazioni partecipano persone di ogni estrazione: giovani laici come uomini con le barbe lunghe, emblema dei salafiti. Tra questi anche un anziano sacerdote ortodosso che racconta: «La giunta militare ha deciso di ucciderci. Ha cominciato sin dall’11 febbraio. Ha ucciso i copti a Maspero. Ha ucciso egiziani, cristiani e musulmani in piazza Tahrir».
Abeer Saady è la vice-direttrice del sindacato dei giornalisti egiziani, unica donna eletta tra la dirigenza dell’istituzione. Saady ha vissuto la rivoluzione e gli scontri dell’ultimo anno sempre in prima linea: «Quello che è successo a Maspero è tutt’altro che uno scontro religioso. In quella marcia c’erano copti e musulmani, assieme pacificamente. Marciavano per raggiungere la torre delle telecomunicazioni, quando sono stati attaccati dai militari. Queste violenze sono state documentate da un famoso blogger Alaa Abdel Fattah, che era presente alla manifestazione, e che ha usato tutti i social media per documentare quanto accadeva». Alaa, dopo i fatti di quella notte, è stato arrestato dai militari ed è rimasto nelle carceri egiziane per diversi mesi. «La controrivoluzione e l’esercito – continua la Saady – cercano di distruggere la credibilità di blogger e giornalisti. Si usa e si abusa della religione in questi casi». Sono in molti gli egiziani a pensarla come la sindacalista: Ibrahim ciondola per piazza Tahrir, si avvicina e ascolta interessato i discorsi che vedono in contrapposizione cristiani e musulmani: «Io sono musulmano, prego tutti i giorni, ma ho sempre frequentato le scuole cattoliche. Nel mio palazzo non vive nessun cristiano, ma in quello davanti a me ce ne sono diversi. In Egitto e soprattutto qui al Cairo, viviamo assieme. Certo puoi riconoscere i cristiani: hanno feste e abitudini diverse dalle nostre, ma non tanto da essere meno egiziani di me!». Mentre fa l’elenco di tutte le attitudini comuni tra cristiani e musulmani, assicura che non esiste discriminazione per le minoranze: «Se si fanno delle differenze vengono dalle persone corrotte che ci governano. La notte degli scontri a Maspero, mentre la gente iniziava a morire per strada la televisione pubblica, controllata dall’esercito, incitava all’odio inter-religioso. Il telegiornale raccontava che un gruppo di copti aveva attaccato l’esercito».

SUOR MARINA
Il quartiere di Eliopoli si trova alla periferia del Cairo, ci vuole più di un’ora di tram per arrivarci dal centro. La zona è residenziale, molto pulita e curata. Qui vive una numerosa comunità cristiana, vi risiedono sia cattolici che ortodossi. Suor Marina vive da cinque anni nel convento che si trova vicino a una delle chiese del quartiere, quella di Santa Fatima. È originaria di Assuan, città del sud dell’Egitto. Il suo velo è bianco e dalle maniche del vestito blu fa capolino il tatuaggio di una croce sul polso sinistro. Questo particolare sembra ricordare i punti di contatto che il cristianesimo ha con la tradizione locale, per la quale le mani delle donne accolgono disegni fatti con l’henné. «In questo convento – racconta suor Marina- ci sono sette suore, due maestre (suore anch’esse, ma con il ruolo di seguire le nuove vocazioni nel cammino verso i voti), io sono una di queste, e cinque postulanti. Anche qui, come in Europa, viviamo un periodo di crisi delle vocazioni, ma le postulanti sono il segno che non lasceremo l’Egitto. Siamo egiziane anche noi». Mentre racconta del convento e dei suoi studi a Roma, traspare la sua tranquillità e anche quando, incalzata dalle domande sul rapporto con i musulmani, ricorda i giorni degli scontri più violenti non c’è in lei alcuna rabbia: «In quei momenti ci siamo chiuse in convento. Avevamo un coprifuoco e solo due di noi andavano a fare la spesa, il rapporto con l’esterno era principalmente il sacerdote che veniva ogni giorno a dire messa. Molti cristiani – continua Suor Marina- hanno lasciato il paese, i giornali parlavano di un vero e proprio esodo. Tanti sono andati in America o hanno raggiunto dei parenti in Europa, molti sono andati proprio in Italia». Suor Marina non perde il suo tono sereno nemmeno parlando degli scontri e delle decine di morti che ne sono conseguiti, anche se ammette: «Abbiamo avuto paura. Con le altre sorelle non sapevamo se ci avrebbero mandato via e tutt’ora non sappiamo quali sono le intenzioni del nuovo governo. Proprio per questo le comunità cristiane, senza fare differenza tra i riti, sono più unite che mai». Uno dei fattori più imprevedibili, in questi mesi di transizione, è proprio il governo. Infatti questo non è composto dagli eletti nelle consultazioni elettorali di novembre, ma da membri della Giunta militare. Suor Marina riprende: «Con i Fratelli Musulmani alla guida del paese la situazione potrebbe migliorare, basti pensare che hanno fatto eleggere nelle loro liste diversi cristiani. Questi parlamentari non avrebbero mai avuto la forza per farsi eleggere autonomamente, ma essendo stati inseriti nelle liste di Libertà e Giustizia adesso possono rappresentarci in Parlamento». Suor Marina versa il thé e prepara un vassoio con i dolci «tipici egiziani» sottolinea. «Viviamo accanto ai musulmani. Per noi non sono stranieri, ne noi lo siamo per loro. Certo ci sono dei punti di attrito, ma nei giorni delle rivolte contro Mubarak, a difendere le strade di questo quartiere c’erano, uno accanto all’altro, giovani islamici e cristiani». L’unico nervo scoperto lo si tocca parlando dell’evangelizzazione: «In effetti per chi si converte la vita è tutt’altro che semplice. Se un musulmano diventa cristiano accetta di non vivere più la normalità, ed è costretto a lasciare l’Egitto; molti di essi vanno negli Stati Uniti. Allo stesso tempo, un copto che si converte all’islam non è detto che venga accettato senza problemi. Queste sono situazioni che una buona democrazia potrebbe risolvere ed è per questo che vorremmo un governo laico. Non vedo perché la religione debba influenzare le decisioni politiche, rischiando così di incitare comportamenti discriminatori». Facendole notare che il partito salafita aspira a introdurre la Shaaria, la legge islamica, risponde: «È giusto difendere la democrazia. Quindi, nessuno deve avere l’obbligo di portare il velo». E conclude con una battuta: «Anche se per me non cambierebbe molto. Dato che lo indosso ogni mattina…».

DISEGUAGLIANZE
La contrapposizione e le discriminazioni all’interno della società egiziana sono però visibili e ce ne parla Said Shehata, egiziano e da diversi anni professore alla London Metropolitan, autorevole università inglese: «La questione dei cristiani ha radici profonde. Non si applica lo stesso diritto per la costruzione di chiese e moschee: quest’ultime si possono costruire molto più facilmente. Nelle tensioni tra cristiani e musulmani – continua il professor Shehata- il vecchio regime ha avuto un ruolo importante: la questione religiosa è stata utilizzata per dividere le persone. Questo è avvenuto per far sì che il popolo non si focalizzasse sul regime, ma fosse interessato e preoccupato per altre questioni. Detto questo, è evidente che non c’è uguaglianza tra cristiani e musulmani: solo uno dei 26 governatori egiziani non è un fedele dell’islam, solo pochi ambasciatori sono cristiani e anche le posizioni di governo non sono equamente distribuite. Questi fattori ci portano a dire che c’è una discriminazione anche a livello politico nei confronti dei cristiani». Secondo lo studioso il problema «non è stato creato dai musulmani, ma dal regime e la società ora se lo porta dietro. La tensione c’è ancora e l’unica possibilità di risolverla è partire dall’idea che cristiani e musulmani sono cittadini con eguali diritti». La speranza per la costruzione di un nuovo Egitto post-rivoluzione passa anche dalla soluzione dei conflitti interreligiosi. «Entrambe le comunità – conclude il professore – devono essere coinvolte nella stessa misura. Bisogna incentivare le leggi che cancellino ogni tipo di discriminazione e in particolar modo bisogna usare i media e l’educazione perché parlino dei valori comuni invece che di presunte differenze».

Cosimo Caridi

Cosimo Caridi




God Bless America!

La «religione civile» statunitense

Gli Stati Uniti, melting pot sociale, hanno avuto bisogno di un collante. È così nato il «culto alla nazione», con i suoi riti, profeti, luoghi e scritture sacre. E gli Usa di oggi celebrano e proteggono queste tradizioni.

Gli Stati Uniti sono la nazione che meglio è riuscita nel corso della storia ad incarnare una profonda religiosità civile e a farla convivere con le più diverse forme di religiosità «spirituale». Fino all’articolo (1967) di Roberth Bellah, Civil Religion in America, che ha coniato il termine «religione civile», gli studi precedenti avevano cercato di dimostrare come lo stato-nazione e la sua idea nazionalistica secolarizzante fossero ritenuti i successori del sentimento comunitario religioso. L’articolo di Bellah però, scritto soprattutto per giustificare l’intervento americano in Vietnam, ha dimostrato come proprio il nazionalismo possa assumere vesti religiose e come ci sia perfettamente riuscito negli Stati Uniti. Il melting pot degli americani, venuti da tante terre diverse, funziona, secondo il sociologo, perché tutti – pur mantenendo nella maggior parte dei casi la loro religione d’origine – adottano una «religione civile» che ha i suoi simboli e i suoi riti: la bandiera, l’inno, le feste, le parate, il culto della presidenza. Tutti siamo abituati, ad esempio, ad udire benedizioni come il famosissimo God bless America alla fine dei discorsi dei presidenti. Il merito della religione civile americana, secondo Bellah, sta non solo nell’aver saputo evitare i conflitti con le «religioni religiose», ma anche nell’aver trovato creative forme di convivenza e sovrapposizione. Sono stati costruiti, infatti, simboli potenti di solidarietà nazionale che sono riusciti a mobilitare livelli profondi di motivazione personale per il raggiungimento di traguardi nazionali. La religione civile, inoltre, non è assimilabile a un generico «culto della nazione americana», ma si può intendere come «una comprensione dell’esperienza americana alla luce di una realtà ultima ed universale».

I riti americani
Ma dove è oggi più visibile la religione civile e con che strumenti è più facile conservarla e trasmetterla di generazione in generazione? Di sicuro nei discorsi dei presidenti e in tanti simboli, riti e feste nazionali sacre che scandiscono il ritmo stagionale dei cittadini americani: l’Indipendence Day, il Thanksgiving Day, il Veterans Day e il Memorial Day. Ma anche nei tanti luoghi sacri nazionali oggi preservati grazie al lavoro del National Park Service. Questo ente nasce  nel 1916, proprio con lo scopo di custodire il patrimonio storico (e naturalistico) della nazione, prendendosi cura dei luoghi in cui la storia è avvenuta, secondo l’idea che, si legge nel sito: «La storia è ovunque, è parte di ciò che noi eravamo, di ciò che siamo e di ciò che saremo». La religione civile, infatti, è ciò che unisce nel profondo un popolo e le sue istituzioni, è la «narrazione» della sua vicenda storica e della sua tradizione culturale. La storia e il servizio offerto dai parchi storici, dunque, si inserisce nel più ampio orizzonte dell’educazione del cittadino americano. Diversi sono infatti i servizi offerti dai parchi per studenti ed insegnanti perchè è attraverso la trasmissione della memoria storica e la conoscenza di alcuni luoghi di importanza simbolica, che si crea e si sostiene l’orgoglio e un forte senso di appartenenza nazionale.

La nascita della nazione
Il principale luogo sacro nazionale che celebra l’origine degli Stati Uniti d’America è di sicuro la colonia di Plymouth in Massachusetts. Qui, infatti, quattro secoli fa, sbarcarono i primi Padri Pellegrini, dopo un duro viaggio attraverso l’Oceano Atlantico. Oggi a Plymouth c’è la Plymouth Plantation, un «museo vivente» che mostra l’insediamento originario della colonia attraverso una ricostruzione del villaggio inglese del XVII secolo. Nella sezione del museo ad esso dedicata, gli attori parlano, si comportano e vestono in modo adeguato per il periodo. Gli abitanti della colonia raccontano la dura vita degli inizi, ma anche il sogno, la fede e la perseveranza che li accompagnava nella costruzione di una nuova società basata su diritti e libertà.
Tra i passaggi decisivi nello sviluppo della religione civile in America, il primo e, forse, più importante, è legato alla rivoluzione americana (1775-1783). Partita dalla capitale del Massachussets, Boston, con la rivolta del tè, la rivoluzione ha consacrato la figura di George Washington a «Mosè nazionale» in grado di guidare il suo popolo verso la liberazione. Non c’è nessun altro periodo della storia americana, durante il quale così forte si sia sentito il dovere e il diritto di creare un nuovo mondo, una nuova società, come durante la rivoluzione americana. Thomas Paine catturò lo spirito del tempo, usando, ancora una volta, riferimenti «religiosi», quando scrisse: «Abbiamo in nostro potere la possibilità di far ricominciare il mondo, ancora una volta. (…) La nascita di un nuovo mondo è a portata di mano». Oltre all’appello per la creazione di un mondo nuovo, la rivoluzione ha prodotto profeti (come George Washington, Thomas Jefferson e Thomas Paine, tra gli altri), martiri, rituali, bandiere, festività e vacanze sacre, e pure una «Sacra Scrittura»: la Dichiarazione di indipendenza e la Costituzione.
Il Minute Man Historical Park, tra Lexington e Concord, in Massachusetts, è il luogo in cui è cominciata la Rivoluzione, il 19 aprile 1775 (A Revolution begins – A Nation is bo). I visitatori hanno la possibilità di attraversare il campo in cui è stato sparato il colpo che dette inizio alla rivoluzione: «The shot heard round the world» (il colpo che si è udito in tutto il mondo), riprendendo una frase che è poi divenuta la strofa iniziale dell’Inno di Concord di Ralph Waldo Emerson e che già dimostra l’importanza e la carica simbolica attribuita all’evento. Quel colpo, sparato forse accidentalmente, dà inizio alla rivoluzione americana e ai successivi scontri tra i due eserciti: la milizia e l’esercito regolare britannico che avevano combattuto fianco a fianco pochi anni prima nella guerra franco-indiana. È il momento fondante della ribellione, quando prende vita ed esce allo scoperto dopo una serie di azioni segrete. È anche la prima volta che un esercito composto di miliziani sfida il più potente esercito dell’epoca.
Nel parco è presente una statua dedicata al Minute Man, il soldato della milizia, che diventa il simbolo di una battaglia e dell’impegno per l’affermazione degli ideali di democrazia e libertà, contro chiunque, anche se più grande e potente, come nel caso dell’esercito britannico, voglia negarli o metterli in discussione.

Il «non ritorno»
Moltissimi sono i parchi celebrativi della rivoluzione americana ed un altro che merita attenzione è il Saratoga National Historical Park: A Crucial American Victory (Una vittoria americana cruciale). A Saratoga, infatti, nell’autunno del 1777 le forze americane incontrarono, sconfissero e costrinsero alla resa l’esercito britannico, segnando «il punto di svolta della rivoluzione americana», espressione con cui la battaglia di Saratoga è poi stata conosciuta e tramandata. Saratoga ha, infatti, rinnovato le speranze di indipendenza e, nell’epica che circonda la rivoluzione, «ha cambiato per sempre il volto del mondo». Il forte significato simbolico della battaglia di Saratoga sta nel fatto che l’imponente esercito inglese fu costretto ad arrendersi agli americani, cioè, ancora una volta, a coloro che volevano creare un nuovo mondo basato su libertà, democrazia e giustizia.
La religione civile sembra finora aver garantito un’unità culturale, basata sulla conquista e la difesa della democrazia, sulla libertà e l’uguaglianza di diritti e di doveri, per un popolo dalle diverse fedi e culture. Ma in un momento storico caratterizzato dalla globalizzazione e dallo sviluppo di società sempre più complesse e multiculturali permane il dubbio se la religione civile possa ancora essere il collante in grado di tenere insieme una nazione. E se gli americani saranno ancora in grado di riconoscersi come cittadini di questo Paese.

Viviana Premazzi

Viviana Premazzi




Ho sentito un grido d’aiuto

Conversazione con padre Nicholas Muthoka

Tra risate fragorose e solennità del contegno, la missione italiana di un giovane sacerdote kenyano. Un autoritratto involontario, più che un confronto su grandi temi. Un piccolo spaccato di una nuova generazione di uomini consacrati, a cinquant’anni dal Vaticano II. Mentre il papa invita la Chiesa a pregare per le vocazioni.

«Tre parroci si trovano al bar e conversano su un problema comune: la presenza di pipistrelli nelle loro chiesette di campagna. Uno dei tre inizia: “Io ho provato col fucile, ma l’unico risultato è stato di riempire di buchi la chiesa”. “Io invece ho provato col veleno e sono spariti, ma dopo un po’ sono tornati”. “Io invece – dice il terzo – ho trovato la soluzione: li ho battezzati, poi li ho cresimati, e da allora in chiesa non si sono più fatti vedere”».
Il libro di «barzellette da preti» che padre Nicholas tiene in mano mostra i segni dell’usura, e il missionario ha tutta l’aria di conoscere bene il suo contenuto. Lo sfoglia mentre ci accoglie nel suo ufficio e ci fa accomodare su una sedia molto bassa. Sulla superficie di vetro della sua scrivania, sgombra e pulita, campeggia un piccolo crocifisso di bronzo che il nostro interlocutore sovrasta dall’alto.
Padre Nicholas fa precedere e seguire alla lettura delle barzellette le fragorose risate per le quali è ormai conosciuto da molti ragazzi, giovani e famiglie di Torino e dintorni.

A Roma con Marx
Padre Nicholas Nyamasyo Muthoka, nato nel 1981 a Machakos, provincia di Easte, Kenya, è stato ordinato sacerdote nel settembre scorso: «È stata la prima ordinazione nel mio paese da 37 anni a questa parte» dice con visibile orgoglio. Entrato nel seminario minore diocesano a 14 anni, ha sentito una seconda forte chiamata all’età di 18, quando ha iniziato l’iter formativo della Consolata che l’ha portato a Nairobi, Sagana, Roma e Torino, dove ora lavora.
«Fino a 14 anni ho studiato nel villaggio: studiavo, portavo al pascolo gli animali e lavoravo a casa. I miei genitori erano insegnanti, molto quadrati. Eravamo otto figli: uno è morto a causa del morso di un serpente. Siamo cinque maschi e due femmine. Ho studiato nelle diverse scuole in cui insegnava mia mamma, e per questo durante gli ultimi due anni non sono mai stato punito dagli insegnanti: mi dava lei le botte a casa. Però un giorno in cui lei non era a scuola, nell’ultima settimana della primaria, gli insegnanti si sono vendicati: non ricordo cosa avessi fatto, forse parlavo in classe, e me ne hanno dato tante».
Padre Nicholas ha un ricordo molto positivo degli anni in seminario, a eccezione del primo anno a Roma, nel quale ha sperimentato una crisi di fede dovuta alla discordanza tra ciò che vedeva nella «città del Papa» e l’idea che si era fatto dell’Europa cristiana. «Avevo idealizzato Roma considerandola il centro della fede. Mi aspettavo un altro modo di vivere il cristianesimo. In Europa la Chiesa che ho conosciuto dai missionari non è vissuta nella società. Sono venuto a contatto con una realtà che mi è sembrata senza Dio. Non riuscivo a capire come mai gli italiani che sono venuti in Kenya portando Gesù Cristo non prendessero con serietà la fede. Un mio fratello che aveva studiato Karl Marx, quando ero piccolo mi aveva detto che il cristianesimo era una creazione dei bianchi. Quando sono arrivato a Roma ho pensato: “Mio fratello aveva ragione”. Ora sono sette anni che vivo in Italia, la perseveranza mi ha aiutato a superare la crisi e adesso mi trovo molto bene tra gli italiani».

Missione Italia
Le statistiche dicono che in Asia c’è un sacerdote ogni 47mila abitanti, in Africa uno ogni 27mila, mentre in Europa ce n’è uno ogni 3.700 e in Italia uno ogni 1.200. Queste cifre sono forse uno dei motivi per cui gli europei, gli italiani, e gli stessi missionari nati nel Bel Paese, fanno fatica a considerare l’Italia come terra di missione. «Dire ai preti, ai Vescovi italiani, i quali hanno visto la loro terra dare tanti missionari per evangelizzare il mondo, che l’Italia è terra di missione, non è difficile. La maggior parte è d’accordo, lo afferma con decisione, ma in fondo non mi sembra convinta dentro, non lo sente. Il problema è una concezione riduttiva di missione per cui “ad gentes” è uguale a “mancanza di preti”. Non è vero. È questione di proporre una vita vissuta pienamente. Può anche esserci un prete ogni mille persone, ma se poi la società va per conto suo vuol dire che c’è ancora bisogno di evangelizzazione. Io ogni settimana incontro molti ragazzi nelle scuole, insieme parliamo delle cose concrete della loro vita: questa è evangelizzazione. La Chiesa non è presente lì dove vado io, è per questo che mi considero missionario».
Il nostro interlocutore si accalora parlando degli studenti incontrati nelle scuole superiori e ci parla di un altro preconcetto che rende difficile agli italiani considerare il proprio paese come luogo di missione: «I missionari spesso sono visti come uomini che vanno dai poveri per costruire scuole, ospedali, pozzi. Se la missione è ridotta a questo, l’Italia non è una terra di missione. Nelle problematiche sociali italiane, grazie a Dio, la Chiesa ha già un impegno forte senza bisogno di noi. Qui in Italia c’è un certo senso di autosufficienza, e questo fa male a tutti: quando vado nelle scuole e faccio vedere filmati che parlano di povertà, di guerra, di Aids, di conflitti intertribali, di solito i ragazzi sono d’accordo che sono situazioni in cui l’intervento di un missionario è importante, ma quando parliamo di divorzio, droga, solitudine, depressione, sofferenze che colpiscono le persone in Italia, allora dicono che sono cose normali, che non c’è bisogno dei missionari per affrontarle».
Forse perché parla di scuola e di studenti, padre Nicholas, dietro la sua scrivania, assume un contegno solenne da insegnante, alzando l’indice. «Italia ed Europa sono luoghi di missione perché non c’è la pienezza della vita di cui Gesù ha parlato, non c’è quella pace interiore che proviene dall’incontro con Cristo. Se non si attua un intervento educativo serio, concreto, io temo che quando questi ragazzi cresceranno e diverranno politici, dirigenti, ognuno penserà per sé, e allora, altro che democrazia».
La profezia funesta del missionario viene subito seguita dalla proposta di una soluzione: «Bisogna parlare di Dio: si possono affrontare le problematiche dei ragazzi a livello psicologico, di amicizia, però finché non si arriva a Gesù Cristo, non si risolve niente. Ci sono dei demoni che vengono cacciati solo attraverso la preghiera. Ci sono certe abitudini di vita, certi vizi, che, senza Gesù Cristo, non si possono superare. La missione è andare incontro alla gente che magari non soffre materialmente – benché con la crisi attuale si rischia di soffrire anche da questo punto di vista – ma soffre dentro».

Immaginario e realtà di due continenti
Data la sua esperienza italiana, ogni volta che torna in Kenya, padre Nyamasyo, come viene chiamato da alcuni giovani che lo frequentano, viene assalito da domande sul suo «paese adottivo» in modo del tutto simile a quello con cui in Italia si ricopre di domande il missionario che torna dall’Amazzonia o dalla Corea. «La gente è molto attratta. Quando sono stato a casa qualche mese fa ho dato dell’Europa un’immagine molto positiva: una Chiesa che ha radici, la serietà della gente nel darsi da fare, ad esempio sotto l’aspetto professionale, ma anche la sincerità delle persone. Parlo di queste cose per spronare i miei conterranei a imparare da questa società. Però poi metto in guardia, parlo della globalizzazione, dico che non tutto funziona, esorto i giovani a stare attenti ad alcuni disvalori europei come il mettere al centro i soldi invece della persona umana. Alcuni mi hanno chiesto: “possiamo venire in Europa a lavorare?”. Io ho detto loro che sarebbe meglio stare a casa per far sviluppare il Kenya».
L’immagine che nel suo paese si ha dell’Europa è quella attraente di un continente benestante in cui si vive nel benessere. È l’immagine di sé che l’occidente, tenta di dare al mondo, oltre che a se stesso, anche attraverso il possesso quasi esclusivo dei mezzi di comunicazione e d’informazione a livello globale. Chiediamo a padre Nicholas cosa ne pensa dell’immagine stereotipata dell’Africa che propongono i mass media italiani, accompagnati e confermati a volte da Ong e da missionari: quella di un continente in guerra, che soffre fame e malattie, popolato di gente priva di iniziativa, incapace di badare a se stessa, disperata. Il missionario, dopo la sua risata di rito, ammette di averci sofferto: «Temevo che incontrandomi, la gente pensasse di trovarsi di fronte a un poveretto, bisognoso di aiuto. Era una questione di autostima, di complesso d’inferiorità. Ora, avendo quotidianamente contatto con la gente e conoscendo i suoi pregiudizi, non ci soffro più. Un po’ è vero quello che viene raccontato dell’Africa: quando si parla di gente povera è vero. È vero che gli slums sono luoghi invivibili, che nel mio villaggio ci sono situazioni di orfani, di Aids, è vero che ci sono gli animali, ci sono i safari. È tutto vero. L’Africa non è tutta oro, però non è nemmeno tutta problemi! Che venga raccontata la verità non mi fa problema, l’importante è che tutti ci accorgiamo di non essere autosufficienti. Renderci conto che in Italia abbiamo i nostri problemi, che in Kenya abbiamo i nostri problemi».
L’immagine di Africa veicolata dai media fa il paio con l’immagine degli immigrati. «Io tecnicamente sono straniero, interiormente no. Ci sono miei amici che hanno vissuto esperienze di razzismo. Personalmente non ho mai subito discriminazione. Forse perché sono prete. Anche nelle famiglie che incontro, o con gli anziani. Parlando con loro ho riscontrato che c’è paura del migrante, dell’invasione, però è una paura ideale, che non ha conseguenze nell’incontro personale. Ad esempio mi capita che persone mi fermino per chiedermi indicazioni sulle strade. Se ci fosse razzismo, non chiederebbero a me». In ogni caso, il problema dell’intolleranza nei confronti dell’altro è una caratteristica di tutti i popoli: «In Kenya c’è tra le diverse etnie. L’arrivo di migranti non è percepito come un problema di per sé, non c’è la paura di un’invasione. Se l’arrivo di somali, ad esempio, provoca reazioni di intolleranza è per questioni di etnia. Per i kenyani il problema sta nel fatto che siano somali. L’intolleranza è quella tra le diverse etnie per questioni storiche. Ad esempio per l’etnia dei kamba, a cui io appartengo, nei tempi antichi l’intolleranza verso altri era una questione di orgoglio: l’etnia kamba era quella perfetta, scelta da Dio, aveva gli usi e costumi più belli. Gli altri erano stranieri, cattivi. I miei antenati andavano regolarmente ad attaccare i masai, che erano i nemici perfetti, non perché avessero fatto chissà cosa, ma perché erano masai. È una questione storica che si deve leggere negli usi e nelle tradizioni, e poi c’è la manipolazione dei politici a fini elettorali».

«Ho sentito il grido del mio popolo»
Il giovane missionario in altre occasioni ci aveva detto di aver capito alcune problematiche del suo paese stando in Italia, in particolare venendo a contatto con la realtà del consumo critico e parlando con le famiglie che fanno parte del Consolata GAS, Gruppo di Acquisto Solidale nato nel Centro di Animazione di Casa Madre. «Io non ho mai vissuto in uno slum. Ci sono andato una volta. Però mi sembrava normale. Vicino al mio villaggio c’è una multinazionale che produce cemento. Questo si sparge tutto attorno entrando nei polmoni delle persone che vivono nella zona. Di questo la gente non si accorge, pensa che sia tutto normale, che siano i wasungu che lavorano come sempre. Ho sempre saputo che il Kenya è un paese povero. Ciò che non sapevo era il perché. I meccanismi dell’economia internazionale, l’impoverimento, le multinazionali straniere che sfruttano le nostre terre». Il suo modo solenne di parlare, tra uno scoppio di risate e l’altro, diventa ancora più grave: «Ci sono persone abituate a fare distinzioni tra il sociale e lo spirituale. Le problematiche sociali ci interrogano, e la fede senza le opere è morta: non si può distinguere tra una Chiesa che si impegna socialmente e un’altra che si impegna spiritualmente. È l’unica fede che si esprime nell’aiuto al povero e nella preghiera: è il pane spezzato, l’unico Gesù Cristo. Allora le problematiche sociali riguardano lo spezzare il pane. “Ho sentito il grido del mio popolo”, dice il Signore a Mosé. “Date voi da mangiare”, dice Gesù. Non si può convivere con il peccato, anche con quello strutturale, ossia l’ingiustizia sistematica, lo sfruttamento dell’altro».

Italia (e giovani) in crisi esistenziale
Padre Nicholas ha assistito all’esplosione della crisi economica che sta colpendo l’Italia. Nonostante si dichiari a più riprese inadeguato a fare commenti rispetto alla situazione economica e politica italiana, gli chiediamo di dirci qualche sua impressione a pelle: «Penso che la crisi sia reale, però i timori sono esagerati. Gli italiani non sanno cosa significa non avere patrimonio, non avere niente. Io vengo da un paese povero. La mia famiglia non è povera perché i miei genitori lavoravano entrambi, e noi figli abbiamo studiato tutti. Però ho vissuto in una situazione in cui non c’era patrimonio. In Italia c’è da ringraziare Dio per il patrimonio che i genitori hanno potuto accumulare negli anni per aiutare i figli. Per dirla in poche parole, non vedo che gli italiani muoiano di fame. C’è però una seconda considerazione: i ragazzi non sono pronti a vivere nella precarietà economica, e la mancanza di lavoro li manda in crisi. La loro preoccupazione è giusta, non perché manchi qualcosa: si mangia, si comprano i biglietti per il concerto, si va al cinema, in piscina, la vita va avanti. Ma la preoccupazione è seria perché i ragazzi non sono pronti, e questo li manda profondamente in crisi. Se mio fratello sta un anno o due senza lavorare, si preoccupa, però non va in depressione. Qui entra in gioco una questione esistenziale».

Evangelizzare la cultura
Il riferimento reiterato al mondo giovanile italiano che il nostro interlocutore sta iniziando a conoscere nella sua frequentazione delle scuole, ci induce a chiedergli di descriverci un po’ meglio in cosa consista il suo lavoro di evangelizzazione: «L’Occidente ha un ruolo importante nel mondo, e i ragazzi che incontro nelle scuole saranno i futuri leader dell’Europa. Bisogna essere presenti dove si crea la cultura per mettervi la luce del Vangelo. Stimolare i ragazzi a prendere sul serio la loro vita. Il lavoro che faccio nelle scuole consiste in un confronto culturale ed evangelico con i popoli del mondo, partendo dal grosso patrimonio accumulato dai nostri due istituti di missionari e missionarie della Consolata. Come vivono gli altri il corpo, la sessualità, la libertà, la progettualità, la condizione giovanile, gli aspetti profondi della vita? Partiamo da questi aspetti, poi ci interroghiamo su come i nostri ragazzi vivono le stesse esperienze, e infine arriviamo alla visione cristiana».
Per padre Nicholas è un lavoro di evangelizzazione: la sua intenzione è vocazionale, vuole cioè che i ragazzi si rendano conto della serietà della vita, e aiutarli a scoprire la loro strada.
«I missionari sono quelli che vanno. I primi missionari andavano nei villaggi. Leggendo la realtà di Torino mi sono chiesto: quali sono i villaggi nei quali posso andare? Ho identificato la scuola, e in essa mi sto impegnando».

Vocazioni, dono della carità di dio
Il 29 aprile si celebrerà la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. Il messaggio del papa si intitola: «Le vocazioni, dono della carità di Dio», e lo slogan pensato dalla Cei per la stessa giornata è: «Rispondere all’amore… si può». «Io ho iniziato il cammino per diventare prete perché ho visto il mio parroco lavorare. Ho visto quello che faceva e ho pensato: “Posso anche io fare questo”. La mia vocazione è nata in un contesto di Chiesa che vive e serve. E la maggioranza delle vocazioni nascono così, come doni della carità di Dio e non come risposta a un’esigenza personale, o della propria famiglia. La vocazione è questo: rispondere all’amore che abbiamo ricevuto. Chi ha ricevuto tanto dona tanto e viceversa. Nel contesto dell’Italia di oggi, i ragazzi che incontro, non so quanto amore abbiano ricevuto. Dio dona alla Chiesa le vocazioni, ma a seconda dell’amore che le persone hanno ricevuto. La missione è aiutarle a sperimentare veramente l’amore di Dio. Quando l’avranno sperimentato, si potranno donare. Un ragazzo a scuola mi diceva: “L’amore non è possibile: i miei si sono separati e nessuno mi ha interpellato. Litigavano, volavano i piatti. Mia sorella si è sposata e si è separata. Mia cugina si è sposata ed è durata un anno”, sembrava una litania. E questa situazione oggi è generalizzata. Dobbiamo buttarci a insegnare a questi ragazzi e alle famiglie come vivere l’amore, così che si possano donare. Come dice padre Franco Gioda: “Lì dove c’è una lacrima noi dobbiamo esserci”».
Padre Nicholas, al richiamo del pranzo ormai pronto nel refettorio della Casa Madre dei missionari della Consolata, ci congeda, mettendo nuovamente al centro il libro con il quale ci aveva accolti: «Un giovanotto va dal parroco gesuita della sua parrocchia a chiedergli in prestito l’automobile. Il gesuita gli dice: “Non te la darò se prima non ti tagli i capelli!”. Il ragazzo fa: “Padre, ma anche Gesù aveva i capelli lunghi…”. E il gesuita: “Infatti andava a piedi”».

Luca Lorusso


Luca Lorusso




L’Arca secondo Anna

Una vita dentro l’Arca

Anna, 68 anni, è italiana di nascita ma francese di adozione. Il suo racconto ci porta sui passi di una conversione personale verso la non violenza.

C’è un termine portoghese, cantinho, che descrive al meglio la sensazione che si ha entrando in casa di Anna. Il cosiddetto cantinho si utilizza per indicare un angolo familiare e accogliente nel quale rifugiarsi per trovare ristoro. Così è l’appartamento di Anna: piccolo, profumato di legno chiaro e con una vista impagabile sull’abbazia di St. Antornine. Il dialogo con Anna è un tempo di perfezione «assoluta». Si instaura quella semplice intimità che solo la verità può trasmettere. Anna è forte e la sua forza le regala un aspetto giovanile e dinamico. Con voce calda e modulata si racconta e racconta.
«Provengo dalla cultura degli anni ‘60, quando i giovani si sentivano desiderosi di scoprire culture diverse, vivere la spiritualità in maniera più autentica, conoscere l’India. Il grande sogno era potersi differenziare dai propri genitori e stravolgere il mondo».

Anna, cosa ti spinse a ricercare uno stile di vita diverso?
«Tre aspetti influenzarono le mie scelte: la cultura degli anni ‘60 e il sogno che rappresentava (nel 1968 mi trovavo a Parigi), la ricerca di una vita spirituale coerente e di un’esistenza “giusta”. Nel 1969, mio marito ed io, che al tempo abitavamo in Franca, conoscemmo Lanza del Vasto. Fu durante la conferenza che tenne, nella piccola cittadina della Bretagna dove ci trovavamo. Mi accorsi che dietro il dibattito filosofico c’era una proposta di vita reale. Lanza del Vasto aveva fondato una comunità di gente che aveva scelto di abbandonare una vita privilegiata e di battersi per la giustizia».

La decisione di entrare in comunità fu immediata?
«Non immediata ma risoluta. Con Lanza del Vasto scoprii Gandhi e la nonviolenza. Avevo il desiderio di vivere la nonviolenza ma non sapevo come metterla in pratica. Dopo aver iniziato un percorso di lettura sui libri di Lanza del Vasto, andammo nel 1974 per due settimane alla Borie Noble. Cinquecento ettari di terra e sassi: una vera comunità rurale senza elettricità, acqua calda e nessun tipo di tecnologia. Per noi fu la scoperta della bellezza assoluta. Lanza del Vasto diceva: “Qual è la forma della verità? È la bellezza”. Non vanità e ostentazione, bensì sobrietà e bellezza. La chiave per elevarsi e vivere pienamente la spiritualità. Dopo un altro mese di prova comunitaria, nel 1976 lasciai il lavoro di assistente sociale, mio marito diede le dimissioni e, insieme alle nostre due bambine, ci trasferimmo alla Borie Noble».

Come rispose la comunità alle vostre necessità di cambiamento?
«La vita all’Arca corrispondeva a ciò che desideravamo: una vita molto attiva per quanto riguardava l’azione nonviolenta e vissuta con estrema semplicità. Occorreva solo essere lì: “presenti al presente”. Anche la scuola era all’interno della comunità in un’ottica di coerenza tra l’ideologia comunitaria e i programmi didattici. La vita spirituale era molto aperta e non dogmatica, scandita nei tempi di silenzio, nella preghiera e nella meditazione. “Ciascuno approfondisca la propria tradizione religiosa e impari a conoscere le altre, riconoscendone i tesori”, erano le parole di Lanza del Vasto».

Dieci anni alla Borie Noble. E in Italia, cosa stava accadendo?
«I dieci anni alla Borie Noble sono stati gli anni più intensi della mia vita. Eravamo convinti che avremmo cambiato il mondo e questa forza si avvertiva a distanza. Molti giovani arrivavano alla Borie Noble e ne sposavano la filosofia. Nel frattempo, i libri di Lanza del Vasto iniziarono ad essere tradotti e conosciuti anche in Italia. Era il tempo delle conferenze che portò molti italiani a conoscere l’Arca. Iniziammo così ad organizzare campi estivi in Italia, a San Vito dei Normanni, città natale di Lanza del Vasto, con una partecipazione sempre più numerosa di italiani: oltre le 150 persone».

Nel 1981 muore Lanza del Vasto, cosa accadde nell’Arca?
«In Italia il movimento dell’Arca era fervido e così nel 1986 monsignor Luigi Bettazzi mise a nostra disposizione un casale a nord di Ivrea con 7 ettari di terra intorno. Fu un periodo di splendore e di approfondimento di ciò che avevamo appreso nei primi 10 anni. La divulgazione dell’azione nonviolenta, la semplificazione della vita prese forma anche in Italia e richiamò molti seguaci».

Dal 1993 vivi a St. Antornine, perché questa comunità?
«Nel 1993 la comunità in Italia morì e, in seguito a una mia profonda crisi personale ed esistenziale, scelsi di venire a vivere qui. St. Antornine era una grande e giovane comunità che aveva iniziato un lavoro di rivisitazione dei fondamenti dell’Arca: un’indagine su cosa fosse essenziale mantenere all’interno delle comunità e cosa si potesse invece eliminare. In questo senso St. Antornine intraprese un importante lavoro psicologico e spirituale, approfondendo le scienze umane su cui Lanza del Vasto non ci aveva lasciato strumenti adeguati».

Lanza del Vasto parla spesso di unità tra vita e parola. Nel tuo cammino è stato possibile tutto ciò?
«È stato possibile solo quando mi sono accorta che era indispensabile cercare l’unità in me stessa. Un grosso lavoro impregnato di psicologia e spiritualità. È stata la scoperta dell’assioma che si potrebbe formulare così: non puoi cambiare nulla intorno a te se prima non cambi te stesso. Viviamo tempi caotici dove tutto evolve ma se non si parte da noi non può avvenire nessuna trasformazione sociale. La vita quotidiana in comunità mi regala un’unità di vita e mi aiuta a chiedermi: sono in unità con me stessa? Ho capito dove sono violenta con il mio essere e mi sto dando degli strumenti per aiutarmi? È un lavoro interminabile ma fondamentale».

Nel tuo percorso di riconciliazione dove è intervenuta la spiritualità?
«Non sono cattolica ma cristiana e solo facendo questo profondo lavoro su me stessa ho riscoperto il Vangelo. I testi mi parlavano di ciò che mi stava accadendo. Ho appreso solo con il tempo che per essere in equilibrio occorre riconciliarsi con la propria storia, uscire dalla maledizione per entrare nella benedizione. Ho imparato a vivere la vita pensando che è una storia sacra, che ha un senso e che deve convergere verso lo stesso punto. Presenza e conciliazione, speranza e fiducia, accettazione del presente possono aiutarci a lodare ogni giorno la bellezza della vita».

E dentro l’Arca, che importanza ha la fede e come è vissuta?
«Per l’Arca è in tutto. Pulire per terra è spiritualità, lavorare nei campi, scrivere, mangiare… vivere con la coscienza di una vita spirituale.
Il richiamo alla vita spirituale è fermarsi. Noi abbiamo la campana che suona tutto il giorno e sappiamo che in taluni momenti dobbiamo “richiamarci a noi stessi”. Ma questo “prendersi il tempo” si può fare ovunque».

Per noi, estei alla comunità e in preda al caos, come può avvenire questo «tempo benedetto»?
«Riferendosi alla spiritualità, Shantidas diceva: “È l’inizio di una grande avventura”. Qualsiasi cosa si stia facendo, si interrompe un attimo, ci si mette in asse con se stessi e ci si riappropria del proprio essere. Si può cominciare con 15 minuti di meditazione silenziosa o con un testo sacro, lasciandosi parlare diritto al cuore, alla propria vita. Il tempo della preghiera serve a ricordarci il perché del nostro essere nel mondo. Qui e ora. Ha un senso la nostra vita? Da dove veniamo e dove stiamo andando?
Poi, c’è il tempo della gratitudine, della coscienza dell’amore di Dio, scoprendo chi è per noi Dio. Mettersi allo scoperto con tutte le nostre piccolezze e meschinità, certi del suo amore».

L’azione nonviolenta: come si traduce praticamente?
«Con progetti ad hoc contro gli Ogm, supportando l’immigrazione, accogliendo i rifugiati politici e lottando per l’antinucleare e per il disarmo nucleare della Francia. Abbiamo inoltre una équipe che si occupa di sensibilizzare i giovani alla nonviolenza nelle scuole. Siamo, da sempre, disponibili ad accogliere chiunque voglia sperimentare la vita comunitaria. È un’accoglienza gratuita che permette alle persone interessate di vivere il nostro stesso stile di vita».

L’Arca è strutturata in maniera gerarchica?
«Un responsabile di casa viene eletto ogni tre anni dal Capitolo, ovvero l’insieme delle persone che sono impegnate nella casa. Si diventa membri dopo uno stage di un anno a cui segue un postulato di due anni. Nessuno dei membri ha un lavoro esterno, ma ognuno ha un’occupazione all’interno della struttura. Dopo un mese di stage nella comunità, si può partecipare alle riunioni settimanali della casa».

Come sopravvive l’Arca economicamente e come sono gestite le finanze di voi membri?
«Attraverso l’affitto delle sale dedicate a conferenze, seminari e sessioni di formazione e con l’area attrezzata per l’accoglienza dei gruppi. Il ricavato confluisce in un’unica cassa che viene poi ripartita ai membri per le spese personali. In qualità di single percepisco un piccolo contributo mensile, non è certo un lusso ma permette una vita più distesa rispetto a quando non era contemplato».

Semplificare la vita o essere radicali. Cosa ti ha insegnato l’Arca?
«Mi ha insegnato che l’essere troppo radicali può essere deleterio. Le comunità sembravano inizialmente concepite solo per i giovani: senza luce, con i bagni spartani, isolate dal mondo. Le cose cambiano, la gioventù passa e anche le comunità si sono dovute adeguare, perché quello che conta maggiormente è l’attenzione verso la persona. Se a 30 anni non importa avere l’acqua calda e la doccia in casa, a 80 diventa un fattore non più trascurabile. Complice della semplicità deve essere sempre il rispetto e la conoscenza delle esigenze personali».

Possiamo dunque definire «decrescita» misurata lo stile di vita attuale?
«Non amo molto il termine decrescita. Quello che mi nasce dal cuore è invece un elogio della ricchezza: esser ricchi dentro per poter condividere. Oggi, ho piena coscienza che le macchine sono solo strumenti per poter lavorare meglio, il computer ci aiuta nelle relazioni, ci mette in contatto con il mondo. La vita è movimento e se si rimane indietro si rischia di rovinare il cammino intrapreso fino a quel momento. Le crisi comunitarie, come quelle personali, servono proprio a riflettere sui passi fatti e a “purificarci” dalle cose inutili».

Quali differenze tra chi vive nelle case e chi si impegna solo nel movimento?
«Fino al 2005 l’Arca era un ordine, non religioso, composto da persone che si impegnavano con i voti. Venivano soprannominati “compagni” quelli che vivevano insieme la stessa regola di vita nella casa comunitaria e “alleati” coloro che si impegnavano per il movimento dell’Arca al di fuori delle strutture comunitarie. Oggi, non esiste più differenza tra chi vive all’interno e chi all’esterno. Il rinnovamento è dato dal medesimo impegno sia per i compagni sia per gli alleati che sottoscrivono la Carta dell’Arca. Questa trasformazione è stata necessaria perché le case comunitarie iniziavano a chiudere e si sentiva la necessità di far vivere il movimento. Solo le comunità che si sono trasformate e hanno saputo adeguarsi ai tempi sono riuscite a sopravvivere».

Puoi regalarci una tua immagine sul futuro dell’Arca?
«Quest’anno ci sarà il Capitolo generale e potremo fare un vero bilancio di questi ultimi anni. Personalmente mi sembra che ci sia un buon fermento, che molti giovani si stiano impegnando nel movimento. Quello che ho potuto notare come responsabile per 10 anni della nonviolenza nell’Arca è che, aldilà dei limiti stessi della comunità che vanta solo 200 persone impegnate in Europa, l’Arca rimane una porta aperta su un mondo “altro” fatto di riconciliazione, conciliazione e unità».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Obiettivo: vita comunitaria

Le famiglie e la vita nell’Arca

Durante la nostra visita all’Arche conosciamo in refettorio una giovane famiglia. Manuelle e Emanuel hanno 3 bambini: la primogenita di 7 anni, un piccolo di 5 e una neonata di 7 mesi. Vivono in comunità da 4 mesi e ci raccontano le loro motivazioni e la loro esperienza.

L’appartamento di Manuelle e Emanuel è lo specchio della vivacità familiare. Giochi sparsi, un buon profumo di biancheria e molta energia nell’aria. A loro sono riservate tre stanze: una per i due bambini più grandi, un luminoso tinello in cui ci accolgono e un piccolo studio che funge da camera da letto per loro e per la piccolina.

Chiesa e vita comunitaria
«L’Arca è per noi l’opportunità di fare la vita comunitaria che desideravamo. Io sto partecipando alla Fève e mia moglie segue i bambini e fa vita comunitaria; l’anno prossimo faremo il contrario. Alla fine dei due anni avremo un’idea chiara per valutare se il nostro futuro sarà dentro l’Arca o altrove. Quello che possiamo dire, per questi primi mesi, è che la qualità della vita qui è molto buona». A parlare è Emanuel, da sei anni Pastore della Chiesa Riformata di Francia, che ci racconta anche come è nata l’idea di un’esperienza nell’Arca. «Ho sempre cercato, anche nella mia parrocchia in ambito rurale, di creare uno stile di vita comunitario. Celebravo il culto, ero a disposizione dei parrocchiani, insegnavo il catechismo. Quello che auspico di fare nel futuro è di riuscire a conciliare i due aspetti: la vita comunitaria “durante la settimana” e la celebrazione del Culto la domenica».

Ecumenismo e riforme
Il carattere aperto ed ecumenico dell’Arca ha permesso al pastore protestante Emanuel di entrare in comunità e partecipare alla Fève. Gli chiediamo un ritratto della spiritualità all’interno dell’Arca. «Lanza del Vasto era cattolico ed era la guida assoluta. Anna, Jeannette e Michèle ci raccontano che lui pensava e gli altri lavoravano. Successivamente la comunità ha vissuto la spiritualità in modo differente. Oggi, non esistono più patriarchi e gli aspetti conservatori sono stati eliminati. È stato come un movimento di riforma all’interno dell’Arca stessa. Questo consente una grande autonomia di decisione e la massima apertura in termini di spiritualità e scambio con le altre religioni». 
Gli chiediamo se c’è qualcosa di particolarmente rilevante nella vita all’Arca: «Molti anziani vengono in questa comunità sperando di potersi fermare a vivere ma l’Arca non è organizzata per questo. Per Michèle e Jeannette che hanno sempre vissuto qui è differente, ma per chi non ha fatto un certo percorso è difficile. Lo sperimentare la vita comunitaria mi ha fatto pensare che sarebbe interessante creare una comunità per persone anziane sole, non una casa di riposo ma uno spazio aggregativo, dove ognuno conservi la propria indipendenza, il proprio talento e si renda utile alla comunità».

Vita di famiglia nell’Arca
Lasciare il proprio lavoro (Manuelle è psicomotricista), cambiare scuola ai bambini e fare “famiglia” all’interno di una grossa comunità come questa, comporta molti cambiamenti.
A rispondere è Manuelle: «I bambini sono molto contenti di vivere in questa grande casa famiglia. Si sono create subito delle relazioni con gli altri bambini e non esiste il problema del babysitting (Manuelle sorride). Non è tutto così semplice però, occorre dialogare molto con loro e spiegare che le dinamiche della comunità sono differenti da quelle della famiglia mononucleare. Questa particolare struttura dell’Arca è grande e nel week end si riempie di gente che prenota le sale per conferenze o seminari, ai bambini è necessario mettere delle restrizioni perché la sicurezza non è certo quella delle quattro mura di casa. Manca sicuramente il controllo e l’intimità. La grande casa è protettrice ma a volte anche un po’ opprimente e non mancano i sacrifici in termini di “decrescita”. Per noi che siamo stagisti e non membri della comunità non è disponibile un bagno privato nell’appartamento e questo, con tre bimbi, non è sempre semplice.
Non da meno è la differenza con le altre famiglie sui metodi pedagogici. Noi siamo contrari a far vedere la televisione ai bambini ed altre famiglie invece accettano che televisione e computer siano sempre a disposizione dei piccoli. Su questo, il cammino verso la nonviolenza insegna molto: imparare a relazionarsi attraverso il dialogo e a smussare gli attriti, accettando le differenze, favorisce la convivenza pacifica. In questo senso sono già state fatte molte migliorie rispetto al nostro arrivo e la motivazione, comune a tutti, a vivere in armonia facilita e rende piacevole il quotidiano».
Rimettersi in discussione con la propria famiglia ed entrare in una grande comunità, con le sue regole e i suoi tempi è una bella sfida. Ma, esiste una sorta di gerarchia all’interno dell’Arca e da chi vengono prese le decisioni più importanti? «È necessario fare una puntualizzazione e dividere la vita dell’Arca in due tempi». A parlare è nuovamente Emanuel, mentre la moglie ci versa una tisana e richiama a un po’ di disciplina i piccoli nella stanza accanto. «Una volta si era più dipendenti, perché chi sceglieva la vita in comunità non aveva lo stipendio ed era supportato completamente dalle finanze comunitarie. Oggi, ogni famiglia ha un piccolo introito mensile con cui decide la priorità delle proprie spese. Nessuno controlla o si permette di criticare le scelte fatte. Le decisioni generali sulla comunità vengono prese dai membri stessi, mentre noi stagisti partecipiamo a delle commissioni operative che approfondiscono le varie problematiche e cercano le soluzioni. Ogni settimana c’è una riunione della casa in cui sia i membri che gli stagisti partecipano. Qui si discute tutti insieme e si  prendono decisioni comuni. Il principio cardine di tutto il nostro lavoro è che non ci si può fermare. La nonviolenza e la spiritualità sono un cammino perenne, una ricerca costante di equilibrio e coerenza prima dentro se stessi e poi nelle relazioni interpersonali».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




A scuola di saggezza

I giovani e la vita nell’Arca

Sempre più incuriositi dai due anni di formazione alla non violenza, la cosiddetta Fève (Formazione e sperimentazione alla vita comunitaria), ci rechiamo nella biblioteca comunitaria dove ci aspettano Marie e Vincent.

Ci troviamo davanti due ragazzi poco più che ventenni, dai tratti fini e dai modi gentili. Sono fidanzati e hanno deciso di affrontare insieme il percorso della Fève. Marie, 24 anni, è nata e cresciuta nell’Arca di St. Antornine, ma ha già sperimentato cosa significhi vivere al di fuori dell’abbraccio della comunità. «Quando cresci nella comunità non ti fai molte domande, non ti rendi conto di vivere in modo “alternativo”. Vedi tante persone. Alcune le conosci da sempre e sono la tua famiglia, altre restano per qualche anno, altre ancora passano e se ne vanno».
Anche lei se n’è andata, ma solo per un po’. Tre anni di psicologia all’università, Barcellona, Grenoble, l’adesione insieme a Vincent al movimento degli Squatters. In mezzo anche un’esperienza all’altra Arca, quella rurale della Borie Noble. Utile, questa, per imparare tanti mestieri manuali, trovare un proprio stile di vita, un saper-fare che garantisca il necessario sostentamento senza vincolarsi a un lavoro di routine, che Marie dimostra, anche in modo molto espressivo, di aborrire. «Vivere insieme non è facile, ho constatato quanti conflitti possano sorgere anche tra individui pieni di buona volontà. Gli spazi comuni sono luoghi di equilibri delicati. Per viverli senza conflitti bisogna darsi delle regole e maturare come individui. La Fève è stata concepita qui a St. Antornine da persone con l’esperienza adatta a comprendere e spiegare le difficoltà e gli ostacoli che si incontrano nelle relazioni di coppia, di famiglia o di comunità. In questo modo ci prepariamo al futuro, seminando il grano della nonviolenza dentro di noi con la speranza di essere un giorno adulti migliori, almeno di averci provato forse più seriamente dei nostri coetanei degli anni ‘70, che in molti casi hanno fallito nel tentativo».

Il mondo cambia, i giovani anche…
«La violenza distrugge i progetti collettivi», a parlare è ora il ventitreenne Vincent. «L’ho sperimentato nelle “occupazioni” e nei tentativi di comunità fatti in modo “artigianale” dai miei amici, ai quali mi sono avvicinato con curiosità e interesse negli anni passati. Qui stiamo imparando strumenti e antidoti a queste pulsioni, lavoriamo sulla qualità dei rapporti interpersonali, imparando le tecniche di comunicazione nonviolenta, anche di matrice americana, e i metodi di gestione dei conflitti e della riconciliazione».
Vincent è un geografo, il suo sogno di ragazzino era lavorare al «Departement National de Geographie». Le esperienze di vita, la maturazione personale e il mutato scenario del mondo del lavoro lo hanno cambiato. Politicamente si sente un anarchico, ma ha capito che vivere un’esistenza individualista, creare una famiglia chiusa su se stessa o difendere un salario fisso non è quello che desidera per sé.

Formazione e sperimentazione
Marie ci parla ancora delle Fève: «È un progetto nuovo, questo è il suo secondo anno. È un corso non ancora riconosciuto dallo stato, che si avvale però di formatori estei, psicologi e professori provenienti dal mondo delle Università. Il numero di partecipanti è variabile, ma non dovrebbe superare le 12 persone all’anno, con età non superiore ai 35 anni. L’ammissione è sottoposta al giudizio dei membri della comunità che verificano comportamenti e motivazioni nell’arco di una settimana di vita comunitaria, obbligatoria e propedeutica per chi desidera intraprendere questo cammino. La formazione avviene a settimane altee, nella prima si fanno le sessioni formative che durano circa tre giorni. Nela successiva si sperimenta ciò che si è appreso, vivendo e lavorando insieme agli stagisti e ai membri stessi dell’Arca. Ogni settimana, al martedì pomeriggio, interviene una psicologa, con cui ci si confronta sui problemi legati alla convivenza e ai rapporti interpersonali. Lo facciamo tutti insieme, senza false ipocrisie o remore di sorta, con i membri dell’Arca».

Decrescita economica e crescita interiore
Chiediamo, pragmaticamente, se il corso della Fève potrà dare sbocchi lavorativi per il suo futuro. La domanda è evidentemente quella sbagliata, non sembra essere apprezzata da Marie che ci risponde con una piccola smorfia sul volto.
«Forse sì, forse no. Alcune associazioni sono interessate a replicare un corso sulla nonviolenza. In generale c’è fermento e voglia di divulgare. Piuttosto all’interno della comunità si imparano molti lavori: giardinaggio, cucina, vasellame, cucito, questi sì utili per il nostro futuro e per le persone che sono vicino a noi».
Stiamo parlando con una ragazza che non avverte certo l’ansia di trovarsi un lavoro, che sente l’urgenza di una crescita personale più che economica. Ma, di fronte alla scelta di Marie come reagiscono gli amici e i conoscenti?
«In generale, quando parlo per la prima volta dell’Arca, cioè dell’eco sistema in cui sono cresciuta, le persone si spaventano, non capiscono o confondono il concetto di comunità, ad esempio, con “sesso libero’”. Li invito a conoscerci e chi viene qui, si trova sempre a suo agio, si diverte e resta piacevolmente sorpreso. La reazione dipende comunque da persona a persona: ci sono i ricettivi e ci sono gli scettici».

La spiritualità nelle giovani leve
Come vivono la spiritualità i giovani come te, cresciuti qui? «La ricerca spirituale vuol dire, per noi, soprattutto fermarsi e fare spazio, riflettere. Il rappel (richiamo), il suono della campanella durante la giornata, serve proprio a questo. È un suono che arriva improvviso e ci dice di fermarci un momento per dedicarci a noi stessi e fare un minuto di meditazione. I giovani amano molto questa cosa. La preghiera resta un gesto soprattutto privato, come nella società estea. Chi è cresciuto qui, in genere, ama molto i rituali, i bambini ed i ragazzi vanno sempre alla preghiera della sera. Ma c’è chi non ci va: mia sorella, ad esempio (ride…). Ma in generale gli aspetti ecumenici sono molto apprezzati».
Decidiamo di salutare Marie e Vincent con una provocazione. La Francia di oggi, come vi considera? Gli ultimi seguaci di una bella utopia o cos’altro?
Marie sorride ma evita il trabocchetto. «È una bella utopia, ma funziona, tant’è che le comunità dell’Arca esistono da più di 50 anni. Ci sono membri che hanno trascorso tutta la vita in queste comunità. In Francia c’è un buon movimento, spesso mirato a obiettivi specifici, che collimano con le battaglie molto concrete che anche le nostre comunità hanno “combattuto” in passato. L’anti Ogm e il localismo di Josè Bové è una di queste. C’è molta gente che conosce il pacifismo, ma sa poco di comunicazione nonviolenta, e di nonviolenza intesa soprattutto come lavoro dell’individuo su se stesso».
Come non darle ragione? L’Arca di Lanza del Vasto, profeta della nonviolenza, ha introdotto già dalle sue origini concetti ultra modei. Ha cercato «l’altro mondo possibile», la «decrescita felice», il sostentamento a chilometro zero, in tempi non sospetti. Ha perseguito con fermezza e caparbietà la promozione dell’essere umano, andando molto oltre i concetti di tolleranza e solidarietà.

Luca Cecchetto

Luca Cecchetto




Tra tradizione e modernità

Incontri

Michèle e Jeannette sono le due donne più «mature» della comunità dell’Arca di Saint Antornine. Attraverso le loro parole, percorriamo un pezzo della loro vita personale e della storia della comunità.

Bussiamo alla porta di Michèle all’imbrunire. La sua abitazione – seppur piccola come tutti gli appartamenti riservati ai single – trasuda eleganza e cultura. Alle pareti, quadri, icone e fotografie testimoniano una vita di ricerca e di «bellezza» nel senso alto del termine. È Michèle, una gentile signora francese di 82 anni, a raccontarci i primi tempi della vita in comunità con Lanza del Vasto.

Un incontro che cambia la vita
«Sono cresciuta all’ombra di due differenti religioni, quella cattolica di mia madre e quella ebraica di mio padre. L’incontro con Shantidas è stata la luce che ha illuminato la mia vita spirituale e quella di molti della mia generazione. Avevo 26 anni e lavoravo all’Università come medioevalista e archeologa; mio marito ne aveva 31 e apparteneva alla famiglia dei proprietari dei Magasins Printemps di Parigi, di cui al tempo ne era anche il direttore. Un giorno Lanza del Vasto tenne una conferenza sulla non-violenza gandhiana presso l’Università dove lavoravo. Vi partecipai insieme a mio marito – con cui condivisi tutto fino alla sua morte – e con un gruppo di colleghi, professori e ricercatori. Le sue parole e la sua figura ci ammaliarono: sobrietà, dignità e intelligenza ci conquistarono, così come la sua bellissima moglie Chanterelle, di origine ebrea. Inizialmente li seguimmo non tanto come maestri ma come un padre e una madre. Era la fotografia di un patriarcato con figli non piccoli ma maturi, tutti con dei pensieri già costruiti e una vita alle spalle».

Le prime comunità
Mentre Michèle parla è come se gli arredi stessi raccontassero di un tempo, le luci soffuse e i libri sparsi trasmettono memorie e saperi. Così, insieme alla sua voce, torniamo indietro nel tempo e possiamo ripercorrere la fondazione delle varie comunità. «Quando decidemmo di aderire al movimento dell’Arca avevamo quattro figli, un quinto sarebbe poi nato nelle comunità. Lasciammo i nostri lavori per dedicarci totalmente al movimento. Non rimpiansi mai la decisione presa. I primi anni ci stabilimmo in una casa di proprietà di Chanterelle a Vaucluse, dove rimanemmo per sei anni; successivamente costruimmo la comunità della Borie Noble in una zona al tempo completamente abbandonata. Non avevamo preconcetti verso la proprietà privata, si faceva uso di donazioni di benefattori e del lavoro degli uomini e delle donne della comunità che di volta in volta si trasformavano in muratori, contadini, sarte, tessitrici, ricamatrici etc. Essere un membro dell’Arca voleva dire innanzitutto essere coerente con ciò che si pensava. Ideologia e azione correvano sullo stesso binario; la ricerca della spiritualità e l’impegno verso la giustizia e la nonviolenza confluivano anche negli sforzi economici e nel lavoro fisico per ristrutturare le case, inizialmente affittate e poi comprate».

Talenti e spiritualità
Abbandonare una vita agiata e la propria professionalità, non è stato il risultato di ripensamenti o di sofferenze? «Alla base del credo dell’Arca c’è sempre stato un grande rispetto per ogni personale talento. L’attenzione a non frustrare ogni attitudine è all’ordine del giorno. Le attività pratiche si alternano con quelle artistiche o intellettuali, in modo tale da non doversi mai identificare solo con un’attività. Siamo anche contadini, ma soprattutto contadini che coltivano la propria saggezza. Pur lasciando il lavoro di ricercatrice, ho continuato ad approfondire le mie conoscenze senza abbandonare i miei saperi ma arricchendoli di nuova luce. Non solo lavoro però, l’impegno deve poter sfociare nel rituale festivo per dare un senso di gioia condivisa a tutto l’operato».
La spiritualità è centrale per le comunità dell’Arca. Domandiamo a Michèle come siano i rapporti con la Chiesa locale e come sia vissuta la religione a St. Antornine.
«Noi non siamo una Chiesa e quindi non ci sono rischi di concorrenza, i rapporti sono ottimi. Anche all’interno della comunità non esistono obblighi nei confronti della religione, partecipare all’ufficio cristiano deve essere una libera scelta. Quotidianamente prepariamo delle preghiere ecumeniche ed interreligiose in cappella. Il lunedì è dedicato agli indù, il martedì ai musulmani, il mercoledì ai cercatori di verità senza appartenenza religiosa specifica, il giovedì ai buddisti, il venerdì ai cristiani, il sabato agli ebrei e la domenica ai cattolici».
E i giovani? Cinquantasei anni all’interno di una comunità sono tanti, come tante sono le trasformazioni avvenute. Sui cambiamenti e sulle nuove leve dell’Arca, Michèle ci offre la sua opinione: «Questa comunità si è evoluta naturalmente. Forse la spiritualità ha ceduto un po’ il posto alla meditazione, ma ciò che rimane inalterato è la ricerca della felicità e dell’equilibrio interiore. La Fève (*) ha favorito un grande scambio di relazioni umane tra giovani e anziani, non solo un ricambio generazionale ma un’evoluzione sinergica. L’esperienza dei più “maturi” deve accogliere e sostenere i più giovani, aiutarli nelle soluzioni ma anche farsi ridare nuovi stimoli. La complicità e il dialogo sono le chiavi per far crescere una comunità».
(*)  La Fève è la «Formazione e Sperimentazione alla vita comunitaria», ispirata alla ricerca di una società nonviolenta basata sulla giustizia e la pace, attraverso una formazione biennale all’Arca Saint Antornine.

Jeannette e la nonviolenza
Dopo esserci calati in un tempo e in una dimensione diversa dall’ordinario, per Michèle è giunta l’ora di preparare la preghiera della sera. Ci congediamo da lei che con fare discreto ci invita a raggiungerla successivamente per il momento spirituale.
Approfittando di un po’ di tempo libero, andiamo a conoscere Jeannette. Con lei abbiamo scambiato qualche parola in cucina la mattina, mentre era intenta a pelare patate per tutta la comunità. Jeannette, 86 anni, ha la dolcezza data dalla semplicità e dall’esperienza. Il suo piccolo nido domestico vanta una sorta di anticamera dove un telaio fa da protagonista all’intera scena. Jeannette ama tessere e lo fa ancora per vocazione e passione.
Ci accoglie in una ridente cucina. In tutta la comunità non c’è nulla di ostentato e anche in questo piccolo angolo di Jeannette la sobrietà si traduce in calore. «Tutto è nato grazie a mio marito che aveva letto “Pellegrinaggio alle sorgenti” e aveva iniziato a farmi conoscere Lanza del Vasto dai suoi scritti». Così ci racconta Jeannette che continua: «Lanza del Vasto venne a tenere una conferenza nel piccolo paese di montagna dove abitavamo. Fu un colpo di fulmine. Aderimmo subito al movimento ma, avendo i bambini piccoli, non c’era posto per tutta la famiglia in comunità e dovemmo attendere qualche tempo prima di prendee parte. Fondammo nel frattempo un gruppo ecumenico in Bretagna. La prima comunità in cui abitammo fu la Borie Noble, poi ci trasferimmo a Bellecombe e infine – dal 1983 – qui a St. Antornine. Questa struttura era inutilizzata da molti anni e mio marito contribuì a renderla agibile».
Se per il marito di Jeannette – deceduto da 11 anni – la decisione di diventare membro dell’Arca passò attraverso le letture e l’interiorizzazione del credo di Lanza del Vasto, chiediamo a Jeannette quali furono le sue motivazioni. «Durante la seconda guerra mondiale, sviluppai un forte sentimento di odio verso i tedeschi. Volevo ucciderli per placare il mio dolore. Sentivo crescere dentro me una violenza inaudita. Lanza del Vasto mi insegnò a riflettere e a sottomettermi alla nonviolenza. È stato importantissimo passare molto tempo con lui, prendere coscienza del mio problema e cercare di risolverlo».
Come era Lanza del Vasto? «Era bello e nobile d’animo ma allo stesso tempo semplice e capace di mettersi al servizio degli altri. Umile seppure molto intelligente e colto. Potevo rivolgermi a lui come a un padre aperto e disponibile. Accogliente. Egli si sentiva sempre alla ricerca e discepolo del vero maestro,  Gandhi. È stata una vera fortuna conoscerlo, è riuscito a sostenermi e a trovare la risoluzione dei tanti conflitti con i miei genitori».
Negli anni ‘40 parlare di comunità doveva essere pionieristico, come fu il rapporto di Jeannette con la famiglia di origine? «I miei familiari erano commercianti di scarpe, non intellettuali. Quando appresero la notizia della mia motivazione ad entrare in comunità pensarono che fossi impazzita. Continuare a mantenere i rapporti è stato un processo lungo e complesso ma la nonviolenza mi ha insegnato proprio questo: accettare l’altro, confrontarsi con il diverso e giungere al dialogo pacifico».
E la spiritualità, quanto tempo prende della sua giornata e come si attua? «La ricerca spirituale è fondamentale per vivere insieme. È la spinta che ci fa comprendere, perdonare, essere forti, ci sostiene e ci aiuta a decidere. Per fare meditazione occorre però prendersi del tempo, svegliarsi presto, darsi delle regole, liberare un po’ di spazio per se stessi e per la riflessione comune».
Il racconto di Jeannette è confortante, la sua apertura verso il nuovo, la profondità dei suoi gesti e delle sue parole ci incantano. Una domanda ci sorge dal cuore: come è vivere la terza età all’interno di una comunità? «Siamo rimaste in poche “anziane” a St. Antornine e non ho molte persone della mia epoca con cui parlare. Ma non mi sento sola qui dentro. Se fossi fuori patirei molto di più la solitudine. La vicinanza con i giovani riempie le mie giornate: sono molto diversi da come eravamo noi ma assolutamente interessanti. Mi piace parlare con loro, fanno domande intelligenti e si crea sempre una relazione autentica. L’insegnamento di Lanza del Vasto è del tutto attuale, i valori che ci ha voluto tramandare sono importanti per tutte le età e per tutte le epoche.
L’essenziale è dentro di noi: accettare noi stessi e volerci bene in prima istanza per poter imparare a voler bene agli altri e a essere nonviolenti».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini