Bisturi e passione

Medici di frontiera (2): Sivlio Galvagno e il CCM

Trentatre anni fa partiva per la prima volta. In Africa ha vissuto e continua a tornarvi.
Il suo cruccio è garantire il diritto alla salute per tutti. Così il chirurgo piemontese si racconta.

«In Italia non si capisce che in molte parti del mondo il diritto alla salute esiste solo sulla carta. In Kenya dicono che hai diritto alle medicine e che le cure sono gratuite, ma se poi non paghi non ottieni nulla. E ti mandano a comprare anche il filo di sutura. Mi è capitato, a Nairobi, lavorando nelle baraccopoli, che un ragazzo operato con una placca per una frattura di gamba, richiedesse di toglierla perché l’aveva già rivenduta ad un altro paziente. Venendo al controllo mi diceva: “Sto bene; togli la placca che qualcuno la sta aspettando”».
Chi parla è Silvio Galvagno, medico chirurgo di Manta, nei pressi di Saluzzo (Cn), che da 33 anni si adopera affinché il diritto alla salute prenda consistenza in Africa e in altre latitudini.
Discreto, quasi schivo, ma molto disponibile, Silvio non ama parlare di sé. Ma si sforza perché crede anche in questa dimensione, la comunicazione, per cambiare lo stato delle cose.
Fin dai tempi del liceo, Silvio, con amici di Saluzzo, fonda l’associazione «Club 3», con l’intento di attivarsi per il Terzo mondo. Poi all’Università si iscrive a medicina e … «Sentii parlare di un certo dottor Meo». Giuseppe Meo (vedi MC marzo 2011), uno dei fondatori dell’Ong «Comitato collaborazione medica» (Ccm). All’epoca, inizi anni ’70, il Ccm era composto da Meo, da sua moglie, e dall’inossidabile Roberto Masino. Tutti ancora in prima linea.
«Andai a parlare con Meo spiegandogli che avrei voluto partire. Lui disse che mi dovevo preparare come chirurgo». Silvio imposta gli ultimi anni degli studi sulla base dei consigli del dottor Meo. «Essere come medico il meno specialista possibile. Certamente la chirurgia di base in Africa è fondamentale e salva la vita. Come ricucire qualcuno che è stato incornato e ha le budella fuori dalla pancia».

Africa (CON MARIA TERESA)
Il grande giorno arriva nel 1979. Silvio ha una scadenza, perché sostituirà il servizio militare con il volontariato all’estero, ma il posto su un progetto seguito dal Ccm non si libera.
Giuseppe Meo trova allora una possibilità nell’ospedale di Sololo, della diocesi di Marsabit, Nord del Kenya, all’epoca appoggiato da un’associazione di Negrar (Verona), l’«Unione medica missionaria italiana».
È fatta. Silvio passa due anni a Sololo, in una zona sperduta ai confini con l’Etiopia.
«Mi davano 60.000 lire al mese. Ero da solo nella gestione dell’ospedale – ricorda – in quel periodo non c’erano le suore». Qualche tempo dopo, diviene vescovo a Marsabit, padre Ambrogio Ravasi, missionario della Consolata. Il Ccm firma una convenzione con lui e inizia una collaborazione che continua ancora oggi.
Nel frattempo, Silvio si sposa con Maria Teresa Caselle, medico al pronto soccorso delle Molinette di Torino, che condivide con lui questa passione. «Come viaggio di nozze siamo stati via due anni, volontari ancora a Sololo». Sono gli anni ’85-‘87. Silvio e Maria Teresa vi tornano per altri due anni, con il primo figlio nel 1990.
Vanno ancora a lavorare in Kenya per altri due anni. Questa volta al Nazareth Hospital, appena fuori Nairobi, che era gestito delle suore della Consolata (oggi passato alla diocesi).
«Era un grosso ospedale, molto buono, dove come Ccm avevamo un progetto per ricoverare i poveri delle bidonville, in collaborazione con padre Alex Zanotelli. Io andavo tutti i mercoledì pomeriggio all’ambulatorio nella discarica, dove c’era Sara, infermiera, che poi è morta di Aids».
L’intenzione è di stare lì e mandare i figli a scuola a Nairobi. «Però le scuole africane non ti danno nessuna sicurezza quando rientri (non sono riconosciute dal nostro sistema scolastico, ndr), mentre le scuole private sono per le élite e a noi non piaceva».
Quindi, quando il figlio più grande deve iniziare la prima elementare, la famiglia rientra in Italia. Silvio non perde però il «vizio» e si butta a capofitto nelle attività con il gruppo del Ccm che già opera a Torino e in diversi paesi africani. Da allora compie missioni chirurgiche per periodi brevi (un mese, un mese e mezzo), per poi tornare alla base di Manta.

La famiglia allargata
La famiglia Galvagno fa scelte coraggiose e impegnative anche sul fronte dei figli: un’adozione e due affidi, dopo il primo figlio. Una vera «famiglia allargata», all’africana.
«In questo è Maria Teresa che “tira”, io da solo non ce l’avrei mai fatta» sorride Silvio. Ed è orgoglioso di parlare dei figli:
«Il primo studiava a Parigi e ora ha finito, poi abbiamo un figlio peruviano che sta facendo l’Erasmus a Madrid. È stata con noi una ragazza in affido, che ora è sposata e ha una bambina. Questi tre sono a posto. Con noi c’è ancora un ragazzo, che sta frequentando la scuola secondaria».
Alla domanda se è più difficile operare in condizioni estreme in Africa o educare i figli Silvio risponde: «I figli sono facili quando sono piccoli, ma poi crescono e diventa molto più complicato». Maria Teresa è andata in pensione presto e si è impegnata in questa famiglia allargata. Oggi gestisce, come volontaria, anche la bottega del commercio equo a Saluzzo: Solidarmondo.
«Siamo ancora tornati in Africa con i figli per ferie, mentre periodi più lunghi e di lavoro li ho fatti da solo».

Chirurgo di guerra
L’11 settembre 2001 trova Silvio impegnato con il Ccm. «Era un periodo in cui andavo in Africa solo a farmi venire dei “mal di testa”: beghe e discussioni a non finire di programmi che andavano male. Sololo compreso. Parlandone a casa dicevamo, ma è possibile con quello che sta succedendo in Afghanistan? E scrissi due righe ad Emergency».
Era il Natale 2001 e l’Ong milanese di Gino Strada non si fa sfuggire l’occasione. Silvio parte per l’Afghanistan a inizio 2002. Compie diverse missioni con Emergency, lavorando in Afghanistan (Kabul e Lascarga), Iraq (Kirkuk e Soulimanya), Sierra Leone, Darfur.
«Ho trovata buona la filosofia di Emergency finché riguardava la chirurgia di guerra, me ne sono staccato quando si è parlato di cardiochirurgia. Fare un ospedale in Sudan per operare gratuitamente bambini e adulti malati di cuore ha un rapporto di costo / benefici, molto sfavorevole. Con i costi per operare un bambino al cuore ne operi 1.000 di appendicite, oppure ne curi 10.000 con altre malattie più endemiche. In Africa le malattie killer sono broncopolmonite, malaria, diarrea: costa poco curarle e coinvolgono tantissima gente. Per un intervento al cuore, poi occorre fare sempre controlli sofisticati, e i pazienti che vengono da lontano non potranno neppure seguirle».
Silvio torna al Ccm, che non ha mai veramente lasciato. Ne diventa presidente e attualmente vice presidente. Per avere più tempo lascia l’ospedale pubblico di Savigliano, vicino a casa, e specializzato in Germania in chirurgia vertebrale, lavora in una struttura privata convenzionata: «Così ho uno stipendio assicurato e una migliore gestione del tempo: niente tui e guardie. Posso impegnarmi con il Ccm in Italia e quando faccio le missioni all’estero non devo consumare le mie ferie». Scelta «scomoda» e impegnata.

A cavallo tra due continenti
«Adesso faccio le missioni con il Ccm quando c’è bisogno e dove c’è bisogno». Si occupa in particolare dei progetti dell’Ong in Etiopia e in Uganda (nel Lacor Hospital della Fondazione Corti). A novembre 2011 va in Etiopia, a Filtu, dove arrivano i somali in fuga dalla carestia (vedi MC novembre 2011). Poco prima era volato in Rwanda, su richiesta del Don Gnocchi, per organizzare meglio un centro per bambini portatori di handicap. Senza dimenticare il Sud Sudan, dove ha operato in due piccoli ospedali rurali a Adior, Bungagok, seguiti dal Ccm. «Lì facciamo operazioni chirurgiche per insegnare a operare agli infermieri, su patologie semplici, come l’eia inguinale. Abbiamo operato 45 eie, alternandoci: una io e una un infermiere. Prossimamente andrò in Uganda, a Gulu, dove il Ccm ha un progetto con un grosso ospedale universitario, governativo, ma seguito dalla Fondazione Corti di Milano. Ci hanno chiesto di organizzare un reparto di 90 letti di traumatologia. Sembra che gli incidenti della strada siano in aumento in Africa, mentre diminuiscono le lesioni da guerra. Come Ccm abbiamo una decina di ortopedici che si sono dati disponibili ad andare periodicamente a Gulu».

Come cambia l’Africa
In oltre trenta anni di lavoro Silvio assiste ad alcuni cambiamenti: «Abbiamo visto l’africanizzazione di molti ospedali che erano gestiti da missionari bianchi. Oggi sono sostituiti da missionari africani o da laici locali. È successo anche a Sololo, a un certo punto era gestito da tre africani assunti dalla diocesi. Ma l’esperienza si è poi chiusa. In Uganda, ad esempio, c’è già un gruppo medico molto valido, si fa un progetto specialistico».
Un passo oltre l’urgenza. «Questo è il nostro obiettivo. Chi l’ha perseguito da sempre è Giuseppe Meo».
Uno dei pilastri della filosofia Ccm è il cosiddetto «capacity building», ovvero la costruzione di competenze, capacità, nel personale locale. Formazione sul campo, assunzione di responsabilità.
«Noi cerchiamo di far sì che siano loro a fare le cose. Anche perché non possiamo essere sempre presenti».
Ma c’è un altro punto fondamentale per il Ccm: «In secondo luogo, importante, è ritornare e fare coscentizzazione in Italia, sul territorio. Sensibilizzare i nostri concittadini. Affinché si capisca cosa vuol dire povertà e assenza di diritti in campo sanitario. Che non c’è mutua, assicurazione, nulla. Ti fanno la prescrizione e poi ti danno il foglietto dicendoti di andare a comprare. Fuori dell’ospedale ci sono le farmacie private. Far conoscere quello che facciamo, è fondamentale».
Questo si realizza con incontri, articoli sui giornali medici e articoli divulgativi. Diversi gruppi in provincia di Cuneo sostengono progetti del Ccm. In quest’ottica Silvio pubblica un libro di ricordi (vedi box) «Ho recuperato un po’ di appunti, altri li avevo persi. Li ho raccolti per condividere con i lettori le sensazioni che io provavo».
Negli anni sono cambiati anche i finanziamenti. Fino a qualche tempo fa, il ministero degli Affari esteri italiano finanziava progetti di sviluppo. Ora ha quasi azzerato.
«Nei progetti Ccm finora riusciamo ancora a offrire tutto gratuitamente per la popolazione. Gli ospedali di Bungagok e Adior, ad esempio, sono finanziati da due progetti: uno della Regione Liguria e uno della Regione Toscana, nonostante la crisi. A Sololo c’è un progetto mamma-bambini in cui i bambini sotto i 5 anni e le gravide non pagano. Sono soldi raccolti da diversi gruppi di appoggio Moretta, Savigliano, in provincia di Cuneo».

I volontari di domani
Le missioni sono sempre realizzate da volontari che si pagano i viaggi e vengono preparati prima della partenza. «Ci sono giovani interessati a partire. Quelli meno esperti vanno in posti più facili tipo Sololo. Fanno un mese, due. Poi al ritorno realizzano incontri. Medici, infermieri, tecnici. Studenti che vanno a fare tesi».
Lui e il dottor Meo fanno queste missioni e cornordnano gli altri. Il Ccm è poi composto da una struttura di persone impegnate nell’amministrazione, negli aspetti tecnici della cooperazione, nella comunicazione.
Il Ccm realizza tutti gli anni un corso di medicina tropicale in alcuni ospedali torinesi. Corso molto seguito, fino a 80 iscritti tra medici, infermieri e tecnici.
Che messaggio mandare a un giovane interessato?
«A un giovane direi che se dovessi ricominciare rifarei tutto quello che ho fatto, perché è un mondo affascinante, perché ci credo. Forse è più difficile adesso che una volta avvicinarsi a queste realtà, perché le leggi erano più consone in passato e i finanziamenti erano maggiori. I giovani sono da incoraggiare».

Marco Bello

Marco Bello