Cana (26) La «donna» sacramento dell’abbandono credente

Il racconto delle nozze di Cana (26)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»
[lèghei hē mêtēr autoû toîs diakònois: Hò ti an lèghēi hymîn poiêsate]

Per capire questo versetto in tutta la sua portata è necessario ritornare indietro brevemente per sottolineare ancora il pensiero di fondo che stiamo cercando di dimostrare: il racconto delle nozze di Cana è un midràsh (commento attualizzante) del racconto dell’alleanza di Es 19. Come il Sinai fu «l’inizio» di Israele in quanto nazione, perché l’alleanza lo costituisce «popolo» a tutti gli effetti, così Cana è per l’autore «il principio» del nuovo popolo che nasce dall’antico. La madre di Gesù è il simbolo dell’Israele/sposa dell’alleanza nuova, che aspetta la redenzione del Messia, e i discepoli sono la premessa/promessa del nuovo popolo messianico che partecipa al banchetto nuziale, proiettato verso il futuro delle genti.
Il paradosso: prima fare e poi ubbidire
Sappiamo che l’evangelista vuole mettere in parallelo Mosè e Gesù: il primo come mediatore, il secondo come autore dell’alleanza. L’alleanza annunciata da Gesù non è un’altra alleanza, diversa da quella del Sinai, ma è la continuità di essa, anzi ne è lo sviluppo naturale. Con buona pace dei fautori della «teologia della sostituzione» che ancora oggi, dopo il concilio Vaticano II, propugnano ancora che la Chiesa è subentrata a Israele, eliminandolo dalla storia di salvezza, iniziata con l’esodo. La Chiesa è «dentro» Israele, da cui si discosta perché porta a compimento la sua fede in Gesù Messia.
È evidente che nel v. 5 la frase importante è: «Quello che vorrà dirvi, fate[lo]», che immediatamente richiama quanto gli Ebrei dicono ai piedi del Sinai, prima ancora di conoscere il contenuto dell’alleanza: «Quanto il Signore ha detto, noi [lo] faremo!». Il confronto tra i testi è sorprendente, si direbbe che Giovanni copia direttamente dalla Bibbia ebraica (non dalla versione greca della LXX che traduce in modo diverso, come vedremo):

Es 19,8 (cf 24,3)           Gv 2,5
Quanto il Signore          Quello che [egli = Gesù]
ha detto,                        vorrà dirvi
noi [lo] faremo               fatelo

Da una parte c’è Yhwh che ordina, dall’altra c’è Gesù che deve essere obbedito, per cui Gesù è posto dall’autore sullo stesso piano di Yhwh. Un modo per porre l’accento discretamente sulla divinità del figlio di Maria? Non possiamo spingerci oltre, ma il quarto vangelo non è nuovo a questo metodo (cf, per es., Gv 18,4-5). Questo parallelo, quasi fotocopia, tra i due testi si colloca all’interno del più generale confronto tra il Sinai e Cana:

Es 19,11.9                        Gv 1,11
Il terzo giorno                    Il terzo giorno
Yhwh rivelò                       Gesù rivelò
la sua gloria a Mosè         la sua gloria
e il popolo                         e i suoi discepoli
credette anche in lui         credettero in lui

Anche qui Gesù non è posto sullo stesso piano di Mosè, ma al livello di Yhwh perché Gesù nella nuova alleanza che ha in Cana il suo «principio» ripete e rinnova esattamente quello che Yhwh ha fatto e ha detto sul Sinai. Lo scenario è lo stesso, e i temi sono identici: il terzo giorno, la rivelazione, la gloria, il popolo/discepoli, la fede.
La madre impregnata del passato
Su tutti questi temi però quello che domina è quello della «obbedienza»: a Yhwh nel Sinai e a Gesù a Cana. L’obbedienza qui è espressa con due verbi «faremo» e «credettero». Da ciò possiamo rilevare che «obbedire» non è un atteggiamento passivo di sottomissione, ma una scelta attiva di adesione a una alleanza, a un progetto da realizzare («faremo») che si basa su un rapporto di intimità e di confidenza reciproca («credettero»). C’è una differenza tra i due testi: al Sinai il popolo ascolta il Signore e crede in lui, ma anche in Mosè; a Cana i discepoli/nuovo popolo ascoltano e credono in Gesù.
Il raffronto tra Mosè e Gesù, come spesso abbiamo detto, non è mai alla pari: a Cana Gesù supera notevolmente il grande condottiero, perché l’evangelista lo colloca sempre allo stesso livello del Signore. Infatti al Sinai non parla Yhwh, ma Mosè che riceve da Dio le parole da riferire al popolo nella sua funzione di mediatore; a Cana non c’è mediatore perché Gesù parla e agisce direttamente.
Le parole della madre di Gesù non sono una novità, ma riecheggiano una storia lunga e articolata, pro-vengono dal cuore della storia di Israele che si esprime in varie circostanze. Riportiamo solo qualche esempio: la risposta di Israele è così importante che la Bibbia la ripete quasi uguale tre volte (Es 19,8; 24,3.7). Dopo Mosè, il suo «attendente» Giosuè [in greco è sinonimo di Gesù – Yoshuà], prima di entrare e prendere possesso della terra promessa, rinnova l’alleanza a Sìchem in modo simile: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce» (Gs. 24,24).
La madre di Gesù è Israele
A Cana ci troviamo di fronte a un evento che non si può ridurre a un semplice matrimonio di circostanza. L’autore infatti con questo racconto ripropone, rinnova e celebra «il fatto» più importante di tutta la storia di Israele, quello che è la sorgente della sua stessa esistenza come «popolo/sposa di Yhwh», l’esodo, letto nella sua duplice valenza storica: di liberazione dalla schiavitù e di costituzione di una comunità ordinata e organica, l’assemblea di Israele nata dall’alleanza del Sinai.
Le parole del Signore dette tramite Mosè e la risposta del popolo detta tramite gli anziani, costituiscono la formula sponsale che sancisce le nozze definitive d’amore e di obbedienza. A Cana è la madre che in rappresentanza dell’Israele antico, introduce il nuovo invitandolo a entrare nel circuito salvifico del suo popolo che ora esce dal suo particolarismo e si apre al mondo intero. Sono infatti presenti i discepoli, dodici secondo la tradizione, un numero simbolico delle dodici tribù d’Israele, costituite da Giosuè prima dell’ingresso in terra promessa (cf Gs 14-19; Es 24,4; 28,21; Gen 49,28; Sir 44,23):

«3Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte,
dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai
agli Israeliti: 4“Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto
all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho
fatto venire fino a me. 5Ora, se darete ascolto alla mia
voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me
una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è
tutta la terra! 6Voi sarete per me un regno di sacerdoti e
una nazione santa”. Queste parole dirai agli Israeliti.
7Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro
tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore.
8Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore
ha detto, noi lo faremo!”» (Es 19,3-8).

L’obbedienza incondizionata che il popolo di Israele mette in atto, secondo la versione greca della LXX ha dell’inaudito perché il popolo accetta di coinvolgersi nell’avventura di Dio prima ancora di conoscere il contenuto dell’alleanza che esprime il sentimento di abbandono tipico dell’innamoramento. Chi è innamorato non ragiona, ma «si butta», non fa calcoli, ma ama, non teme le conseguenze, ma sperimenta l’inatteso con trasporto e abbandono fiduciosi. «Faremo e ascolteremo» infatti esprime non l’ubbidienza a un ordine ricevuto, ma la libera e spontanea adesione della volontà che rende la scelta ancora più importante.
La tradizione giudaica, commentando questo comportamento di Israele, arrivava a paragonarlo al melo del Cantico dei cantici, dove l’amante donna dice del suo innamorato: «Come un melo fra gli alberi del bosco, così l’amor mio tra i giovani» (Ct 2,3). Il Talmud babilonese, a nome di Rabbì Chama figlio di Rabbì Chanina (260 ca.), commenta: «Perché gli Israeliti sono paragonati a un melo? Per insegnarti che come il melo mette fuori il frutto prima delle foglie, così anche i figli d’Israele dissero “faremo” prima di “ascolteremo”» (TB, Shabbat 88a).
Lo stesso testo del TB riporta l’insegnamento di Rabbì Simai (210 ca.) che immagina come nel momento della professione di fede di Israele che si abbandona al Signore, senza alcun calcolo, «seicentomila angeli del servizio scesero a deporre due corone sopra ogni membro del popolo eletto: l’una come premio del “fare” e l’altra dell’”ascoltare”» (in A. SERRA, Le nozze di Cana, 314).
Si capisce perché immediatamente prima (cf Gv 2,4), Gesù si rivolge alla madre con l’appellativo di «donna», assolutamente inconsueto in un dialogo tra madre e figlio. Anche Gesù sa che la madre non è la sua madre naturale, ma a Cana è il simbolo della sposa/Israele che qui svolge il ruolo di mediazione che al Sinai fu proprio di Mosè. Ella si indirizza ai «diaconi/servi», ma è come se parlasse per se stessa e per tutto Israele: «Quello che egli eventualmente vi dirà, noi dobbiamo farlo». Non un semplice invito esortativo, ma una constatazione obbligante: non possiamo esimerci da «quello che egli dirà» perché la sua parola è creatrice, prima di trasformare l’acqua in vino trasforma le persone che vi sono coinvolte assumendo un ruolo preciso: non sono servi dipendenti di un padrone per svolgere lavori di fatica, ma diventano «diaconi», ministri di una comunità che si appresta a celebrare le nozze con il suo Signore.
La madre di Gesù è la sposa fedele
Se l’evangelista fa dire alla madre di Gesù la stessa professione di fede del popolo d’Israele, ci sembra logico pensare che egli voglia porre una relazione tra i due e forse anche una identificazione. Nella letteratura profetica e sapienziale, Israele è spesso identificato con l’immagine della «donna» che il quarto vangelo usa cinque volte, e sempre a una svolta nella vita di Gesù: qui a Cana, con la donna samaritana (Gv 4,21), con la donna adultera (Gv 8,10), dalla croce di nuovo alla madre con «Donna, ecco tuo figlio» (Gv 19,26) e, infine, con Maria di Magdala (Gv 20,15), cinque pietre miliari che segnano la salvezza che si fa storia nell’immagine della «donna», figura del nuovo credente nella comunità nuova. L’uso di questo appellativo è anche diffuso nell’At e basta leggere i profeti (Os 1-3; Ger 2,2; 31,4.15; Ez 16,8; 23,4) o anche la letteratura extra-biblica (Il Targum del Ct; Sal-LXX 86,5; Apocalisse di Baruc 10,7; IV libro di Esdra 9,38-10,57; Qumran: 1QH III,3-12, ecc.).
Luca esporrà questa idea sviluppando il tema della «Figlia di Sion» del profeta Sofonia e applicandola a Maria nel saluto dell’angelo che annuncia il «vangelo della nascita» non a Maria di Nàzaret in quanto singola persona, ma a lei, espressione della «Figlia di Gerusalemme» cioè Israele (cf Lc 1,28; Sof 3,14).
Anche Luca non chiama Maria con il suo nome, ma la descrive come «piena di grazia – chekaritomēnē» che corrisponde alla qualifica di «graziosa» come Giuditta (Gdt 11,23), come Ester (Est 2,7), come la donna del Cantico (Ct 1,5; 6,4), come Susanna (Dn 13,31), come Sara, moglia di Tobia (Tb 6,12).
Anche Matteo tocca il tema in chiusura del suo vangelo, quando Gesù sul monte di Galilea si accomiata dai suoi e lascia loro il suo testamento per il futuro:

«16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul
monte che Gesù aveva loro indicato. 17Quando lo videro,
si prostrarono. Essi però dubitarono. 18Gesù si avvicinò e
disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla
terra. 19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli
nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho
comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo”» (Mt 28,16-20).

Al Sinai, Israele impegna se stesso nel professare la propria fede indiscussa in Yhwh; a Cana la madre di Gesù crede preventivamente per sé, in quanto Israele, e per i diaconi, in quanto Chiesa; in Matteo la professione di fede diventa la missione da portare in tutto il mondo fino alla fine della Storia. Il rapporto tra gli eventi non è casuale, perché in Matteo Gesù non incontrerà i discepoli «da qualche parte», ma esattamente «sul monte che Gesù aveva loro indicato» (Mt 28,16), così come Dio incontrerà il futuro popolo liberato non in un deserto senza vita, ma «su questo monte» dove Dio è già presente e aspetta una massa di schiavi che trasformerà in popolo a cui darà la carta costituente, la Toràh, cioè la coscienza di essere comunità.
Anche nell’esodo, il monte è indicato da Yhwh stesso a Mosè come segno di liberazione e di libertà: «Rispose: “Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte”» (Es 3,12).
Israele sul monte Sinai dovrà «servire» Dio, secondo il testo ebraico («’abad») e «fare un servizio liturgi-co», secondo il greco della LXX («latrèuō»). In Mt abbiamo gli stessi atteggiamenti: i discepoli «si prostrarono» (in greco: proskynèō) in un gesto di servizievole adorazione liturgica.
Al Sinai, Israele si consacra in una professione di fede senza ambiguità; in Mt è il Signore che prospetta la loro fede futura che assume la forma della missione universale, «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20).
Al Sinai Dio è con il condottiero Mosè: «Io sarò con te» (Es 3,12), sul monte di Galilea è Gesù che assicura la sua perenne Shekinàh/Dimora/Presenza: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Al Sinai, Dio dichiara la ragione del suo intervento: «Voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra!» (Es 19,5), mentre in Matteo è Gesù che dichiara: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18). Anche in Matteo come in Giovanni, la figura e l’opera di Yhwh sono appannaggio personale di Gesù di Nàzaret, ora risorto.
Alla luce di queste finestre che si aprono davanti ai nostri sguardi per la nostra contemplazione della parola di Dio in tutta la sua ampiezza, possiamo dire che il mandato missionario non consiste in altro che nell’invitare tutti i popoli «a fare e obbedire quanto il Signore ha ordinato»: il Signore dell’esodo e Gesù di Nàzaret.
Tutto questo può realizzarsi solo in un modo, sull’esempio della madre di Gesù: testimoniare con la pro-pria vita, la propria parola, la propria speranza che come discepoli crediamo veramente nella Persona di Gesù e accettiamo la sua Parola come criterio di vita prima ancora che come conoscenza razionale.
È in fondo quello che avviene nella celebrazione dell’Eucaristia che è il «luogo» privilegiato dove l’Assemblea di Dio «fa tutto quanto il Signore ha detto», memoriale perenne dell’esodo di Gesù, lungo tutto il cammino della Storia.
(26- continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Chicco di caffè in acqua bollente

Dalla fuga alle luci del palcoscenico

La storia di PascalJunior Mtombo sfuggito all’eruzione del vulcano Nyiragongo (Goma, Rep. Democratica del Congo) nel 2002 ed approdato a Dar es Salaam, in Tanzania, diventando leader di una band di successo. Il sogno della famiglia era di farlo lavorare in ufficio, il suo quellodi cantare, fin dall’età di 12 anni.

È una calda e tranquilla giornata quando giunge la notizia della terribile eruzione vulcanica: c’è appena il tempo per fare un fagotto con l’essenziale ed organizzare la fuga. Scappano tutti: è il caos. Non importa se ricco o povero, la lava non risparmia nessuno, le automobili sono inutilizzabili poiché l’unica strada è stata distrutta. Tutti scappano con un obiettivo comune: la salvezza. Junior è soltanto un ragazzo, orfano di madre, come tanti dalle sue parti. L’incoscienza dell’età lo spinge a sfidare la lava, attende il suo arrivo con alcuni amici e gioca a lanciarvi dentro i sassi per osservare cosa succede. Non immagina, mentre inizia il suo cammino, che quella stessa lava, dopo averlo allontanato dalla sua casa e dal suo villaggio, sarà il primo passo di un cammino che lo condurrà alla realizzazione del suo sogno: diventare un cantante professionista!
Quando oggi gli domando se abbia mai pensato che in fondo quella fuga è stata la prima tappa verso il suo sogno, sorride dicendo di non credere che sia così. Mi spiega: «È stato determinante soprattutto il periodo della guerra: la quotidianità era dura». E sottolinea: «La vita dopo l’eruzione è tornata alla normalità in pochi mesi, mentre i problemi grossi erano appunto la situazione instabile e disordinata del conflitto».
L’esodo
Conoscendolo scopro quali sono le sue armi vincenti: impegno, passione e determinazione. Oggi (2011) Junior ha 25 anni, presentato da un amico comune mi offre gentilmente ospitalità nella sua casetta di Dar es Salaam. Apre le porte del suo mondo, ci facciamo lunghe chiacchierate e risate, discorsi a 360°: dalla politica alle ragazze, dalla musica alle esperienze di vita vissuta. Nasce da subito un’intesa, una condivisione del presente e del reciproco passato, di sogni, ambizioni e speranze per il futuro.
Junior rievoca, apparentemente senza eccessiva tristezza, il dramma dell’eruzione e mi racconta alcune vicende come quella di molti anziani che, ritenendo di essere al sicuro dopo l’eruzione, non abbandonarono le proprie case. Mi piace pensare che nonostante in cuor loro conoscessero il destino che li attendeva, abbiano preferito rimanere e morire nella loro terra.
Dopo alcune ore di viaggio – continua Junior -, arriva al confine con il Ruanda insieme a migliaia di altri profughi: dei bus li scortano fino ad un campo allestito per l’occasione nella cittadina di Mudende. Il campo è organizzato nella sede in disuso dell’università, distrutta durante il genocidio del 1994. È accolto con cortesia e gentilezza dai ruandesi. Ancora oggi sorride al ricordo dei biscotti ricevuti dagli addetti del campo profughi.
L’area è molto grande, i tetti sono distrutti, non ci sono materassi né porte e finestre, i servizi igienici sono inesistenti, ci sono tantissime persone, l’atmosfera comprensibilmente tesa e triste, ma Junior non si perde d’animo e trova perfino la forza di cantare. Trascorre lì tre mesi, la più grande risorsa sono i profughi stessi: si crea una grande famiglia, ci si aiuta a vicenda e si stringono amicizie.
Finita l’emergenza torna al suo villaggio e decide quasi immediatamente di partire per il Burundi: vuole concentrare le energie per realizzare il suo obiettivo. Non può contare sull’aiuto del padre con il quale non ha rapporti da tempo; la famiglia è troppo povera per poter pensare a lui. Lotta e fatica per racimolare i soldi necessari al viaggio. Parte per Bujumbura dove conta sull’aiuto di un amico che gli aveva promesso vitto ed alloggio, ma al suo arrivo alla stazione non c’è nessuno ad attenderlo. Non ha soldi, non conosce la città, si aggrappa allora a Didier, un ragazzo burundese conosciuto lo stesso giorno sul bus. Didier capisce la situazione, non rimane indifferente, lo invita a casa sua. Un giorno, camminando per strada, si sente chiamare, ritrova un amico che aveva completamente perso di vista da anni, in quel momento pensa: «È un angelo». Richard, il suo amico d’infanzia si trova lì in vacanza per la chiusura estiva della scuola ed è venuto a trovare la famiglia. Presenta Junior agli amici presso i quali soggioa e questi lo accolgono nella loro casa. «Sono un ragazzo molto fortunato – commenta Junior -, la mia vita è stata avventurosa, tante cose sono state dure ma poi si sono risolte!».
Musica, che passione
All’Alliance Française di Bujumbura incontra la cantante burundese Diana Kanyamozi. La conoscenza dà buoni frutti ed inizia a cantare con lei nel ruolo di back up, ovvero accompagnatore musicale. Non c’è alcuno stipendio ma almeno i pasti sono garantiti. Diana gli concede anche di cantare una canzone durante uno spettacolo, una buona opportunità di affacciarsi al palcoscenico. Poi, in una città dove il panorama musicale non lascia intravedere grandi opportunità, arriva inaspettatamente un famoso cantante franco-congolese: Lokua Kanza, proprio il cantante preferito di Junior. Motivo della visita? Ascoltare artisti locali per scoprire qualche nuovo talento: un’occasione semplicemente da non perdere!
Junior Gringo – lo chiamano così fin da bambino, dopo la proiezione di un film weste – è solo un ragazzo, non ha né invito né credenziali per poter avvicinare un personaggio così importante. Prova a chiedere il permesso agli organizzatori, ma la risposta è un sorriso ironico: è già tutto stabilito, nomi dei cantanti e degli strumentisti che faranno l’audizione. È molto triste vedersi chiuso questo spiraglio. Ma Junior non si dà per vinto, il giorno dell’evento aspetta la star davanti alla porta dell’Alliance Française, e quando questi arriva gli si fionda incontro per salutarlo. A sorpresa, Lokua ricambia il suo abbraccio. A quel punto Junior gli spiega di voler cantare ma di non essere nell’elenco e così è invitato dall’esaminatore in persona alle audizioni. Quando Lokua chiede di ascoltare i candidati separatamente, tutti rimangono interdetti. Pensano di dover cantare e suonare in gruppo, e la novità li intimidisce. Alla richiesta di chi voglia rompere il ghiaccio nessuno alza la mano… nessuno tranne Junior: ora o mai più! Sono presenti giornalisti, fotografi e tanti ospiti, lui è timidissimo, esordisce cantando con le mani in tasca. Conosce bene le canzoni di Lokua e ne canta una; questi si compiace e sorride. Alla fine riceve l’applauso ed un pollice in alto: canta bene, ha una bella voce ma non ha il portamento di un cantante professionista. La sera stessa Lokua lo invita a cena, Junior ricorda ancora queste parole: «Mi raccomando, non lasciare la musica, sei giovane e bravo, ancora qualche anno e sarai pronto!».
Quel giorno Junior riceve un’ulteriore conferma circa la sua strada, essere apprezzato da un artista del calibro di Lokua Kanza vuol dire che ha davvero il potenziale per diventare professionista e raggiungere il successo.
In Tanzania via Uganda
Quell’incoraggiamento lo spinge a cercare fortuna altrove; dal Burundi all’Uganda il passo è breve, senza guardarsi indietro prosegue il suo viaggio. Approda a Kampala, una città grande ed animata dove spera in nuove opportunità. Il primo periodo si sistema da alcuni parenti della mamma, dopo solo due settimane viene ingaggiato da una jazz band. Mi confessa: «Durante il provino erano molto scettici perché non sapevo l’inglese, mi hanno accettato per la bellezza della voce».
Durante il periodo ugandese Junior colma la lacuna linguistica ed arricchisce il suo bagaglio culturale. Oggi ricorda con orgoglio di essere riuscito a pagarsi una stanzetta per la prima volta in vita sua. Soggioa circa tre anni in quella città, poi decide che è il momento di cambiare, di fare nuove esperienze.
Tuttavia le cose non vanno come aveva pianificato: vuole raggiungere Dar es Salaam, ma il denaro finisce presto viste le spese di vitto ed alloggio a Bukoba nell’attesa della nave per attraversare il lago Vittoria, il permesso per l’ingresso in Tanzania ed il trasporto. Il suo peregrinare lo conduce nel nord della Tanzania, nella città di Mwanza, ma è un disastro: per quasi due anni soffre la fame e dorme sulle sedie di plastica dello stesso locale nel quale canta, un postaccio dove la retribuzione è a stento sufficiente per i pasti. È il periodo più brutto della sua carriera e forse della sua vita.
Fortunatamente durante un concerto stringe amicizia con Samuel, un ragazzo israeliano. Tramite lui conosce Josephat, un pastore protestante della Glory of Christ Tanzanian church, che lo invita a raggiungerlo nella sua abitazione di Mikocheni, un sobborgo a nord di Dar es Salaam. Questi lo adotta come un figlio e lo introduce nella sua chiesa dove intraprende la carriera di cantante Gospel. La chiesa protestante di Mikocheni conta migliaia di fedeli che ogni domenica affollano il grande spazio dedicato alle funzioni. In quell’ambiente Junior si fa subito notare ed apprezzare da tutti.
L’incontro con Deo Mwanambilimbi, fondatore e cantante dei Kalunde band e suo vicino di casa, gli apre la strada alla carriera di professionista. Deo un giorno lo invita ad un concerto e gli fa cantare una canzone probabilmente solo per gioco. Sentendolo, rimane così colpito da scritturarlo. La band è conosciuta ed apprezzata, vincitrice per due volte consecutive – 2007 e 2008 – del Tanzania Music Awards.
Lo scorso 20 gennaio ho accompagnato Junior e Deo al Tanzania Music Awards 2011, l’evento nazionale più importante che premia le migliori band, canzoni e cantanti! Il massimo riconoscimento al quale possono ambire gli artisti locali. Il fatto di partecipare è già un bel successo per Junior.
cuor sincero
Junior è un ragazzo semplice, onesto ed affettuoso con ottime idee e fantasia. Non lesina energie e ci mette passione, si diverte, gli piace il suo lavoro, è sempre a caccia di nuove ispirazioni. È giovane ed affascinato dall’idea di conquistare un titolo. Canta e scrive canzoni in Inglese, Francese e Swahili. Il suo repertorio include musica modea e tradizionale tanzaniana, congolese ed africana, pop e cover inteazionali.
È l’anima del gruppo, il jolly della band, a volte fa il burlone e condisce tutto con ironia ed allegria. È colui che può creare da un momento all’altro la variante vincente, il fuori programma. Grazie al suo carisma ed alle sue potenzialità è diventato un punto di riferimento: e non si diventa leader per caso.
Non sono un intenditore di musica, apprezzo la sua voce e le sue doti artistiche, sono testimone delle sue qualità umane. Ha un sorriso sincero, coinvolgente e convincente. Dai suoi occhi traspare un’insolita dolcezza, la stessa percepita nella sua voce che però sa essere anche grintosa ed energica. Sa catturare l’interesse dell’ascoltatore e trasmettere emozioni. Nel suo quartiere tanti conoscono Junior Gringo, gli vogliono bene, non potrebbe essere altrimenti, in questo modo mi spiego come mai in passato sia stato sempre aiutato ben volentieri da tutti, di certo non è stata solo questione di fortuna.
Junior mi ha raccontato una storia narratagli dalla madre quando era bambino. «Ci sono tre pentole, nella prima una carota, nell’altra un uovo e nell’ultima dei chicchi di caffè. Messe le pentole sul fuoco dopo una decina di minuti la carota si cuoce e diventa morbida, l’uovo diventa solido ed i chicchi di caffè rimangono invariati colorando l’acqua». La metafora riconduce a tre tipologie di uomini: i primi come le carote sembrano duri e pronti a tutto, ma alla prima difficoltà si “ammorbidiscono”; i secondi apparentemente fragilissimi come le uova crude, all’occorrenza possono rivelarsi capaci di reagire con maggiore solidità; i terzi come il caffè apparentemente non mutano ma riescono ad adattarsi a tutte le situazioni senza problemi.
Parlando di sacrifici, rischi, impegno e tenacia per realizzare i propri progetti Junior Gringo ha commentato: «È come entrare nel cerchio dei pericoli e delle sfide, c’è chi proprio non vuole sapee e rimane fuori. Chi entra ma rimane bloccato ed impaurito non sapendo cosa fare. Chi entra, lo attraversa e meravigliato esclama: ce l’ho fatta!». Ed ha concluso: «Molti ragazzi pensano positivo, molti altri negativo. In Congo ci sono tantissimi cantanti più bravi di me solo che non hanno creduto di potercela fare o non hanno avuto possibilità. Tu sei cresciuto insieme agli amici e hai fatto con loro le scuole, poi ognuno ha preso la propria strada, probabilmente qualcuno ti avrà detto: “Sei pazzo ad andare in Africa!”. Un tuo amico leggendo il tuo articolo potrebbe pensare che non sia il migliore, o che non scrivi per la migliore rivista in circolazione, però tu sei partito per un paese lontano, non sei rimasto a casa scrivendo comodamente dalla tua stanza, sei venuto qui con impegno e volontà. Ho trascorso molto tempo chiedendomi se avrei mangiato il giorno dopo: quando arriva un’opportunità bisogna impegnarsi al massimo e darsi da fare per realizzare i propri sogni. Bisogna combattere, lavorare sodo per vivere come un re».

Francesco Cosentini

Francesco Cosentini




Una priorità … alla volta

Intervista a mons. Josè Luis Ponce de Leon, vicario apostolico di Ingwavuma

Dall’inizio del 2009 mons. José Luis Ponce de Leon, missionario della Consolata
argentino, è alla guida del vicariato apostolico di Ingwavuma. Tre anni di sede vacante hanno accumulato numerose urgenze, che vengono affrontate una per volta, mentre vecchi e nuovi progetti cercano di
rispondere alle sfide del distretto più povero del Sudafrica, tra le quali l’Aids e le miserie che
ne derivano.

«Quando fu annunciata la mia nomina a vescovo di Ingwavuma, nel novembre 2008, un periodico italiano mi telefonò a Roma, domandandomi quali fossero i piani per il vicariato. Fui preso alla sprovvista: quali piani potevo avere senza conoscere il luogo, la sua gente e la sua storia? Del vicariato conoscevo solo Saint Lucia, dove avevo fatto un ritiro e poi vi avevo portato due o tre confratelli per studiare lo zulu alla scuola di padre Declan Doherty. Non conoscevo niente di questo luogo». Così mons. José Luis comincia a raccontare la sua esperienza missionaria alla guida del vicariato di Ingwavuma.

Come mai sei stato nominato vescovo di Ingwavuma e non di Dundee, dove avevi già lavorato?
Fino a tre o quattro anni fa, quasi metà delle diocesi del Sudafrica erano vacanti. Nel 2006 è arrivato il nuovo nunzio, mons. James Patrick Green: ha visitato le diocesi, ha parlato con la gente e ha fatto gradualmente le nomine. Nominare vescovi scelti fuori dalle diocesi di destinazione penso sia stata la sua policy: lo ha fatto con tutte le sedi vacanti eccetto una. Così a Dundee, dove lavorai per 10 anni svolgendo vari incarichi a livello diocesano, è stato mandato un prete di Durban, mentre io sono a Ingwavuma.
Penso che tale policy porti dei vantaggi, soprattutto perché obbliga a capire la realtà nuova e sconosciuta in cui si è chiamati a lavorare.

Qual è la novità di Ingwavuma?
Anche se il vicariato di Ingwavuma confina con la diocesi di Dundee, si tratta di una realtà diversa. Dundee porta l’impronta dei francescani e dei missionari della Consolata; Ingwavuma quella dei Servi di Maria. Sono arrivati qui nel 1948; in 60 anni hanno evangelizzato questa zona; esistono ancora alcune chiesette che risalgono ai benedettini di Santa Ottilia, primi missionari nello Zululand, ma a fondare e sviluppare la Chiesa sono stati i Servi di Maria della provincia americana.
Per molti anni, come mi hanno raccontato, andavano di famiglia in famiglia chiedendo alla gente di mandare i figli a scuola, facendo dell’insegnamento il principale mezzo di evangelizzazione, finché il governo tagliò i sussidi alle scuole cattoliche e divenne impossibile portarle avanti. Verso gli anni ‘70 passarono a costrure cappelle e seguire le piccole comunità.

Dopo tre vescovi Servi di Maria, come sei stato accolto?
Forse i serviti stessi hanno chiesto un vescovo esterno al loro ordine. Mi hanno accolto tutti con molto calore: Servi di Maria e clero diocesano, religiose e laici, anche se ero un illustre sconosciuto. Fin da subito ho detto alla gente che volevo conoscerla e che avrei visitato tutte le comunità, ma senza preavviso. Ho spiegato pure che quando non capiscono cosa dico, devono dirmelo. E continuo a insistere: «Vi prego, non dite: “Yebo baba, yebo baba” (sì padre), anche se non mi capite».

E com’è andata?
Hanno tentato di farmi cambiare idea: era per loro inconcepibile accogliere il vescovo senza fare festa e dargli così una buona impressione. Spiegai che volevo vedere «una domenica normale», come quelle che vivono settimanalmente i loro preti. E i preti mi hanno aiutato in questo, dicendomi dove e quando andare, dandomi qualcuno per guidarmi, ma mai hanno avvisato la gente del mio arrivo. Ho incontrato comunità vive che preparano liturgie vibranti e partecipate anche in assenza del prete; altre invece si sono mostrate paurose e fragili. In tutti i casi c’è stata una sincera gratitudine. «Siamo felici che ti ricordi di tutti noi e diciamo grazie perché percorri le stesse strade che fanno ogni domenica i nostri preti, senza preoccuparti di distanze e altre difficoltà che incontri per venire a visitarci». A Ingwavuma, alla fine della messa mi hanno detto: «Il tuo predecessore è arrivato giovane ed è invecchiato insieme a noi; anche tu sei arrivato giovane: ti auguriamo di invecchiare tra di noi».

Quanti fedeli conta il vicariato?
Il vicariato di Ingwavuma (nome della prima missione aperta nel suo attuale territorio) si estende da nord a sud per 250 km e per 80 km da est a ovest; conta circa 600 mila abitanti, dei quali 25 mila cattolici (4% circa), sparsi in 5 parrocchie o missioni: a nord Ingwavuma e Ngwanase confinanti con il Mozambico, al centro Ubombo con le omonime montagne, a sud Mtubatuba e Hlabisa, dove c’è la cattedrale. Ogni parrocchia conta da15 a 20 comunità: 75 nell’intero vicariato. Le ho visitate quasi tutte.
Fino a sette anni fa tutti i preti, vescovo compreso, erano Servi di Maria, eccetto un diocesano. Alla fine del 2004 sono stati ordinati i primi preti diocesani. Oggi nel vicariato lavorano 14 preti: 8 diocesani e 6 Serviti. Ci sono anche due comunità di suore.
In sette anni c’è stato un ricambio di personale, con i Servi di Maria dimezzati (ormai tutti sopra i 70 anni) e sostituiti da giovani preti diocesani. Il passaggio generazionale obbliga a un cambiamento di visione pastorale e missionaria, ma soprattutto di prospettive, di aspettative e metodi, di cui ho già parlato ai fedeli: i Serviti, quasi tutti stranieri, avevano aiuti dall’estero e potevano sostenere economicamente il vicariato; i diocesani invece dovranno essere sostenuti dalle proprie comunità.

Quali sono le priorità affrontate in questi tre anni?
Quando arrivai nel vicariato, rimasto senza vescovo per tre anni, tutti si aspettavano che prendessi subito delle decisioni. Invece ho radunato preti e suore per presentarmi, dire la mia storia e domandare cosa si aspettavano da me. Poi ho chiesto quali fossero secondo loro le priorità pastorali da affrontare. Dopo aver messo a fuoco le varie urgenze, dissi loro che, considerando le nostre forze limitate e la vastità del territorio, bisognava scegliere una priorità alla volta: realizzata o avviata la prima, passare alla seconda.
Tutti hanno scelto la catechesi, nel suo senso più ampio, come cammino di fede vissuta quotidianamente, esperienza personale di Cristo e impegno per farlo conoscere a tutti.
Per realizzare tale cammino c’è bisogno di catechisti. Abbiamo mandato dieci persone, due per parrocchia, alla settimana di formazione per catechisti al centro Pax Christi di Newcastle; corso che si tiene ogni anno all’inizio di gennaio, tempo di ferie, dato che molti dei nostri catechisti sono anche maestri. Dopo tale corso essi erano preparati per formare altri catechisti. Si sono costituiti in due équipes e nei finesettimana di marzo e di maggio 2010 hanno tenuto il loro primo corso nei centri di Hlabisa e Ngwanase. La risposta ha superato ogni aspettativa: oltre 150 persone, provenienti da tutte le missioni, hanno partecipato a tutti gli incontri e li hanno animati attivamente. Anch’io sono stato presente a tutti questi raduni: ho compreso ancora una volta che la presenza del vescovo, anche senza dire una parola, è per tutti un segno di quanto io ritenessi importante ciò che stavano facendo.

Quale sarà la seconda priorità?
Il cammino è ancora lungo. La seconda priorità sarà la preparazione di un’équipe itinerante per la formazione di laici, animatori e leader di comunità. La preparazione di questa squadra, di cui farò parte io stesso, avverrà tramite il corso apposito di tre settimane organizzato a Johannesburg dal Lumko Institute, organismo della Conferenza episcopale Sudafricana. Esso ci darà un linguaggio, una visione comune e insieme potremo anche vedere come tradurre tutto ciò nella nostra realtà rurale.

A livello sociale quali sono gli impegni del vicariato?
Quando andai a chiedere aiuto in Germania, il direttore di una Ong mi accolse con queste parole: «Per noi il Sudafrica è una nazione ricca: devi convincermi che io devo aiutarti». Gli posi sotto gli occhi un dossier con le statistiche ufficiali governative, mostrando come il distretto di Khanyakude (territorio del nostro vicariato) è uno dei due distretti più poveri del Sudafrica, soprattutto a causa dell’Aids, che colpisce il 30-40 per cento della popolazione. La pandemia ha falciato praticamente quelli della mia generazione, tra i 40-50 anni, lasciando tantissimi orfani che vivono per strada o in baracche, presso nonni e parenti in condizioni di miseria.
Nel vicariato non esiste alcun orfanotrofio né struttura specifica per tali bambini, ma abbiamo progetti di aiuto per più di 3 mila orfani, con lo scopo di farli crescere nel proprio ambiente e comunità. Cioè, provvediamo a costruire casette a due stanze per gli orfani e le persone che se ne prendono cura. Tale progetto è spesso complesso: bisogna procurare certificati di nascita e documenti di identità di cui sono sprovvisti molti bambini e chi li accudisce; assicurare il diritto di proprietà del terreno dove si costruisce la casa, ottenendo il riconoscimento da parte dell’autorità tribale; quindi seguire le pratiche per iscrivere i bambini agli uffici di assistenza sociale e alla scuola, fornire loro uniformi e materiale scolastico, visitare i beneficiari del progetto per conoscere i loro bisogni e controllare che tutto proceda bene…
Sono già state costruite una cinquantina di case e altrettante sono già sponsorizzate dalla Germania. Nella zona di Hlabisa il progetto è iniziato da poco; la maggior parte delle realizzazioni sono nel nord del vicariato, dove aiutiamo anche molti orfani mozambicani.
In questa zona direttori o ex direttori di scuola hanno cominciato a prendersi cura di alcuni orfani: ora ne aiutano più di mille. Li ho molto lodati, perché questa volta l’iniziativa non parte da uno straniero, prete o suora, ma da laici cattolici, che si prendono cura della propria gente. E noi ci serviamo di loro per costruire queste case: essi identificano chi ne ha veramente bisogno e continuano a seguirli nella loro situazione scolastica e sanitaria.

Tu hai una lunga esperienza anche nella prevenzione del virus e cura dei malati di Aids.
Come chiesa cattolica abbiamo affrontato il problema molto prima del governo. Anzi, da parte governativa c’è stata una grande confusione: nel 1998 Mbeki aveva fatto un bellissimo discorso sulla gravità della situazione, ma, diventato presidente si è rimangiato tutto, dicendo che l’Aids è una malattia come le altre, che non si trasmette da madre a figlio e che i farmaci antiretrovirali non servono. L’attuale presidente ha aggravato la situazione.
La Conferenza episcopale sudafricana ha avuto un’intuizione geniale: ha istituito uno speciale «Ufficio Aids», con lo scopo di cornordinare la raccolta di fondi delle organizzazioni inteazionali e la loro distribuzione per sostenere i programmi di assistenza ai malati di Aids. Nella mia esperienza a Madadeni e a Daveyton mi bastava pensare un progetto, farlo firmare dal vescovo, presentarlo all’Ufficio Aids a Pretoria e gli aiuti arrivavano regolarmente, rendendo poi conto dell’impiego degli aiuti ricevuti.
Con l’arrivo dei farmaci antiretrovirali, la Conferenza episcopale ha svolto ancora una volta un’azione pionieristica, individuando e organizzando vari centri per la distribuzione dei farmaci e per il controllo dei loro effetti. Uno di essi è il centro San Gabriele a Mtubatuba. Oltre a questo centro, abbiamo una «clinica mobile»: ogni settimana una nostra auto raccoglie i pazienti per strada e li porta in una delle nostre cappelle dove ricevono gli antiretrovirali.
I nostri progetti rimangono ancora all’avanguardia e sono apprezzati per serietà ed efficienza, nonostante la modestia delle strutture: un laboratorio Toga sistemato all’interno di un container, con macchinari che eseguono analisi sul posto, senza attendere i risultati dagli ospedali delle grandi città con un notevole risparmio di tempo. A ciò si deve aggiungere che i nostri operatori arrivano nei luoghi dove nessuno arriva.

Quanti sono i pazienti curati con antiretrovirali?
Al momento nel vicariato sono 1.300 i malati di Aids che prendono regolarmente antiretrovirali. I soldi provengono dagli Stati Uniti, tramite il Pepfar (Presidencial emergency plan for Aids releif). A partire dal 2013 tali aiuti non verranno più versati a chiese o organismi particolari, ma ai singoli governi. Abbiamo aperto un dialogo con gli amministratori locali, dicendoci disposti a continuare il nostro lavoro, purché ci vengano foite le medicine, che sono la parte più costosa del progetto; altrimenti dovremo chiudere. Il governo ha risposto che vuole prendersi la totale responsabilità dei pazienti in questione: al nord 600 di essi sono stati trasferiti in 10 giorni all’ospedale di Manguzi, vicino al Mozambico; quelli in cura nel centro di Mtubatuba passeranno gradualmente agli ospedali locali entro il mese di maggio 2012.

E come l’avete presa?
È giusto che il governo si assuma le sue responsabilità, dopo che la Chiesa ha svolto un ruolo di supplenza in assenza dello Stato. Ma rimangono delle perplessità. La gente non si fida del servizio statale: teme che la distribuzione dei farmaci non avvenga in modo regolare, specialmente in caso di scioperi, che possono durare a lungo come è capitato l’anno scorso. Inoltre, molte persone, a causa dello stigma ancora legato all’Aids, rifiutano di recarsi all’ospedale locale, per paura che amici e colleghi di lavoro vengano a scoprire la loro malattia. E senza la regolare assunzione di antiretrovirali il paziente muore, anche per un semplice raffreddore.

Quale futuro?
È chiaro che a livello di vicariato dovremo rivedere il nostro lavoro con i malati di Aids. In un incontro con i responsabili del progetto Aids abbiamo fatto due scelte: continuare i progetti a favore degli orfani, pensando alle generazioni di domani; intensificare il programma di formazione Education for life, (educazione per la vita), destinato soprattutto ai giovani, poiché il problema della prevenzione rimane una grande sfida. Non manca l’informazione da parte di mass media e governo, per prevenire Aids, ma non bastano i preservativi; occorre formare alla responsabilità e offrire motivazioni per sfidare preconcetti mentali, culturali e di situazioni concrete.
Ma c’è dell’altro. Sono entrato da poco in contatto con la dottoressa Barbara Ensoli, cornordinatrice del centro nazionale Aids dell’Istituto superiore di sanità, dove si sta studiando un vaccino per prevenire l’HIV e neutralizzare l’Aids. La fase preventiva richiede ancora tempo, le sperimentazioni terapeutiche invece stanno dando buoni risultati. Tali esperimenti, grazie a un programma di cooperazione a livello di governi, sono in corso anche in Sudafrica. In un incontro con Barbara e il suo team, abbiamo presentato il nostro lavoro nel vicariato e sono rimasti impressionati dalla competenza tecnica dimostrata dai nostri operatori nel rispondere alle loro domande. La conclusione è stata: «Dobbiamo lavorare insieme». Chiusa una fase, se ne sta aprendo un’altra. Lo speriamo.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Il «padre bianco» a cavallo

Padre Eusebio Francesco Chini

Ricorre quest’anno il 3° centenario della morte di uno tra i più grandi (e più sconosciuti) pionieri dell’America primitiva: padre Eusebio Francesco Chini (1644-1711), gesuita, cartografo, astronomo, scienziato, esploratore, scrittore, soprattutto missionario e difensore degli indiani; percorse immense distese di territori in Arizona, Califoia e altrove, fondando missioni, costruendo città, seminando fede e civiltà. 

«Fu il più caratteristico pioniere e missionario di tutto il Nord-America: esploratore, astronomo, cartografo, costruttore di missioni e fattorie, grande allevatore di bestiame e difensore delle frontiere. La sua vita non è solo quella di un individuo eccezionale: essa illumina la storia della cultura di gran parte dell’emisfero occidentale nella stagione pionieristica». Così il suo primo biografo, Herbert Eugene Bolton, presentava nel 1936 Eusebio Francesco Chini.
Figura poco nota tra noi, ma celebre anche fra i protestanti americani, è uscita da oltre due secoli di oblio grazie agli studi e pubblicazioni del Bolton, fino a meritare una statua nel Campidoglio di Washington, accanto ad altri due pionieri e fondatori di stati americani: il gesuita Jacques Marquette (Michigan) e il francescano Junipero Serra (Califoia).
La sua formazione
Eusebio Chini nacque nel 1645 a Segno, nella VaI di Non, poco distante da Trento, ma abbastanza per mettere in questione la sua nazionalità: «Sono un trentino tirolese; non so se definirmi italiano o tedesco – scriveva alla marchesa di Aveiro nel 1680 -. La città di Trento, anche se si trova ai confini del Tirolo, appartiene per lingua, tradizioni e leggi all’Italia. D’altra parte, il Tirolo appartiene alla Germania… Comunque, per 18 anni sono vissuto quasi nel cuore della Germania».
Ricevuta la prima educazione nel collegio dei gesuiti a Trento, completò la sua formazione al di là delle Alpi: liceo vicino a Innsbruck (1662-65), studi superiori di filosofia e teologia nelle università di Ingolstadt, Friburgo, Monaco, senza trascurare matematica, astronomia, geografia, cartografia.
A 20 anni, nel 1663, entrò nella Compagnia di Gesù, emise la professione nel 1667 e aggiunse al nome di battesimo quello di Francesco, in onore del Saverio, al quale aveva fatto voto di farsi gesuita e missionario in caso di guarigione da una grave malattia. Ogni anno scrisse al superiore generale, manifestando il desiderio di essere un giorno mandato in Cina, dove il suo celebre cugino Martino Martini aveva speso ingegno e vita per una quindicina d’anni.
Ordinato prete nel 1677, venne finalmente esaudito: fu destinato alle «Indie»; ma nel sorteggio tra lui e un compagno, invece di quelle orientali (che includeva la Cina) gli toccarono le Indie occidentali: fu destinato alla Nuova Spagna, cioè al Messico.
Imbarcatosi a Genova con altri 18 compagni nel marzo 1678, arrivò a Cadice a metà luglio, quando la Flotta Reale era già partita per il Nuovo Mondo.
In attesa di una nuova spedizione, rimase a Siviglia per due anni e mezzo: ne approfittò per praticare lo spagnolo; si interessò di agricoltura, farmaceutica e scultura; si occupò di matematica e astronomia: con strumenti costruiti da lui stesso studiò il corso di una cometa apparsa tra il 1680-81, e ne pubblicò la descrizione appena giunto in Messico. A Siviglia cambiò l’ortografia del cognome in Kino, per evitare la cattiva pronuncia spagnola.
missione quasi fallita
Arrivò in Messico nel 1681 mentre si stava preparando una spedizione per esplorare e colonizzare la Bassa Califoia. Padre Kino fu scelto come «cosmografo regio» e cappellano del gruppo. Composta di due navi, 100 soldati e tre gesuiti, la spedizione salpò da Sinaloa nel gennaio 1683; sballottata dai venti, approdò nella baia di La Paz il 1° aprile. Dopo una settimana di esplorazione apparvero i primi indiani guaicuros che minacciosi intimarono agli intrusi di uscire dalla loro terra. Padre Kino e padre Goñi offrirono loro mais, biscotti e collane; pochi giorni dopo essi tornarono con frutta, piume oamentali e altri doni.
Il ghiaccio era rotto; le visite si ripeterono e cominciò l’evangelizzazione; ma i soldati continuarono a diffidare e uccisero senza ragione una decina di indigeni. «L’uso sconsiderato delle armi – scrisse padre Kino il 16 luglio 1663, commentando questo e altri fatti – fa fuggire i nativi, i quali si rifugiano sui monti. I metodi pacifici e gentili, insieme con la carità cristiana, aiuteranno invece moltissime anime a fare ciò che sarà loro insegnato e richiesto. Colpiti infatti dai nostri metodi pacifici, i nativi avevano cominciato a temere e abbandonare tutto ciò che avevamo spiegato loro che non era bene fare. Avevano cominciato a recitare alcune preghiere… a farsi il segno della croce, a mezzogiorno s’inginocchiavano alla recita l’angelus».
Dopo tre mesi la spedizione toò nel continente per vari motivi: paura dei guaicuros, assenza di metalli, pietre preziose e perle (cose che interessavano gli spagnoli), difficoltà di rifoimenti. Intanto padre Kino aveva tracciato alcune mappe e raccolto 500 vocaboli indigeni.
Organizzata una seconda spedizione, il 6 ottobre approdarono più a nord, nel luogo poi chiamato San Bruno, in onore del santo del giorno. L’impresa fu più fortunata della precedente: gli indigeni si mostrarono molto cordiali e aiutarono subito a costruire la cappella; i coloni cominciarono a coltivare la terra per dare autosufficienza alla colonia; il territorio veniva esplorato da costa a costa, fino al Pacifico.
Intanto i missionari imparavano la lingua e annunciavano il vangelo, rispondendo alle domande che gli indiani ponevano guardando il crocifisso che pendeva davanti al loro petto.
Le risposte fluivano con facilità, ma il discorso si inceppò quando dovettero spiegare la risurrezione. Quale parola usare? Come far capire l’idea di risurrezione dai morti? Lo racconta padre Kino in una lettera scritta il 6 ottobre 1684: «La parola “risorgere dai morti”, tanto importante per la nostra fede… sono riuscito a ricavarla… prendendo delle mosche che, soffocate nell’acqua, ripulite con certi succhi e ricoperte di cenere, poi messe al sole le ho richiamate in vita; con continue domande sono riuscito a ricavare la parola “ibimu huegite” che significa “risuscitò”».
Ma la Califoia non offriva né perle né oro per pagare le spese di spedizione; il viceré tagliò i fondi e San Bruno fu abbandonato nel maggio 1685, con grande delusione di padre Kino, costretto anche lui a troncare 18 mesi di missione, in cui erano state battezzate solo 14 persone in punto di morte, ma aveva istruito 400 catecumeni. Il missionario promise di tornare; cercò inutilmente di convincere i confratelli a fare una terza spedizione: la missione fu ripresa 12 anni dopo da un suo caro amico Giovanni Maria Salvaterra.
«prete a cavallo»
L’esperienza califoiana incise profondamente nel metodo missionario di padre Kino. Prima di tutto imparò ad apprezzare l’indole dei nativi e si convinse che essi andavano avvicinati con sistemi opposti a quelli usati dai soldati spagnoli, avidi e rozzi. Poi pianificò il modo di operare in modo indipendente, prendendo le distanze dalla burocrazia ufficiale, soprattutto, studiando i modi di sostenere finanziariamente le missioni. Con tale metodo coniugò gradualmente, per 24 anni, evangelizzazione e promozione umana nella Pimeria Alta, la regione dei Pima del Nord, oggi divisa tra Arizona (Usa) e Sonora (Messico). Vi arrivò il 15 marzo 1687 e si stabilì nel villaggio di Cosari, subito ribattezzato Dolores, dal nome della missione di Nuestra Señora de los Dolores, che divenne il suo quartiere generale. Era l’estrema frontiera settentrionale del Cristianesimo negli inesplorati deserti del Nord-Ovest. Oltre al quadro dell’Addolorata, portava con sé una copia della Real Cédula, cioè un decreto regio che esentava per almeno 20 anni dai lavori forzati nelle miniere e dalle imposte i futuri convertiti. 
Padre Kino cominciò subito a esplorare il territorio. Organizzò e guidò 50 spedizioni, in media due viaggi l’anno, da cento a mille chilometri ciascuno; esplorò in lungo e in largo tutta la regione dell’Alta Pimeria, attraversando deserti e aprendo molti nuovi sentirneri, fino a raggiungere, primo europeo, i fiumi Gila e Colorado.
Tali esplorazioni erano anche missioni itineranti. Conquistata amicizia e simpatia degli indiani, egli predicava loro il vangelo, spesso mediante un interprete; dopo una sommaria istruzione battezzava bambini e moribondi; stabiliva una rete di comunità che poi lui stesso o altri visitavano regolarmente per continuare la catechesi, celebrare il culto e formare alla vita cristiana. In 24 anni fondò e fece crescere 24 missioni, sparse su un territorio di 4.200 kmq; percorse a cavallo complessivamente più di 30 mila km, attraverso il deserto più ostile del continente. Lo chiamavano il «padre a cavallo». Convertì più di 30 mila anime: è passato alla storia come «l’apostolo dei Pima». 
missionario e ranchero
Per coniugare il binomio vangelo-promozione umana, padre Kino dedicò particolari cure all’agricoltura e all’allevamento. Dove passava, il deserto rifioriva. Fece arrivare dall’Europa semi di grano e ortaggi, piante da frutta e viti con cui organizzò una quarantina di fattorie agricole; insegnava agli indigeni a canalizzare l’acqua per irrigare le svariate coltivazioni intensive.
Fondò anche una trentina di ranchos, dove allevava con successo numerosi armenti di buoi, pecore e cavalli, da fare impallidire i cowboys arrivati due secoli dopo in quelle stesse zone.
Di suo non possedeva neppure un capo di bestiame; tutto faceva per dare alle missioni fondate o da fondare una base di autonomia economica e assicurare la sussistenza e il progresso degli indigeni delle medesime missioni. Riuscì perfino ad aiutare i confratelli che si trovavano in difficoltà: a padre Salvaterra, che stentava a mandare avanti la sua missione in Califoia, mandò 300 capi di buoi e cavalli in una sola volta; altri 1.400 capi alla missione di San Saverio, non lontana dalla quella di Dolores.
«grande padre» degli indios
Per trasformare i pima e altre etnie (meri, sobaipuri, pápago, gila) in agricoltori e allevatori, padre Kino dovette lottare su più fronti. Tanto ben di Dio attirava l’attenzione e i saccheggi degli apaches, stanziati a oriente delle sue missioni. Per difendersi dai loro saccheggi il missionario dovette insegnare agli indigeni anche l’uso delle armi. Fattosi «voce dei senza voce» padre Kino difese strenuamente i diritti degli indigeni, accusati di essere ladri, incostanti, viziosi, refrattari alla civiltà e spesso sfruttati e umiliati dai militari e coloni spagnoli. Furono anni di sofferenze e frustrazioni enormi, accresciute dalla ribellione dei Pima, nel 1695, che mise a ferro e fuoco ben sei missioni e varie fattorie e che causò, soprattutto, l’uccisione del suo caro amico, il gesuita siciliano padre Saeta. Padre Kino si fece mediatore e riuscì a riportare la calma: fu firmato un trattato di pace tra i capi dei Pima e le autorità coloniali. Ciò nonostante coloni e proprietari di miniere montarono una campagna di accuse, invidie e calunnie, credute dalle autorità civili e religiose, con lo scopo di chiudere le missioni in Pimaria, lasciando la frontiera della Nuova Spagna nelle mani dell’esercito e dei coloni.
Padre Kino intraprese un viaggio di 2 mila chilometri a cavallo e raggiunse Città del Messico, dove incontrò i suoi superiori e il viceré, smontò una per una le calunnie e ottenne ciò che voleva: la missione della Pimaria continuava, con l’invio di cinque nuovi missionari, e lui stesso fu riconfermato nel ruolo di guida delle missioni. Ritornato a Dolores i Pima lo acclamarono loro «grande padre bianco».
Calunnie e invidie continuarono, anche da parte di qualche confratello, che lo accusava di stare più a cavallo che in chiesa, di dedicarsi più all’esplorazione e alla promozione umana che all’evangelizzazione; stava quasi per essere rispedito in Califoia, quando arrivò l’ordine da Roma, del superiore generale, di lasciarlo continuare nella Pimaria Alta. Dalla fine del 1697 fino alla morte poté consolidare il lavoro già svolto e fondare nuove missioni, la più celebre è quella di San Xavier del Bac presso Tucson in Arizona.
l’isola che non c’è
Gioie e dolori, successi e delusioni, incomprensioni, calunnie e persecuzioni… tutto era stimato e proclamato da padre Kino «favori celestiali», come scrisse nelle sue lettere (ce ne sono pervenute 93) e soprattutto nella Cronologia della Pimeria Alta: Favori Celestiali, diario che abbraccia il periodo della sua vita dal 1687 al 1706. Altro libro importante del 1695 è la biografia del suo confratello e protomartire della Pimaria Alta: Inocente, Apostolica y Gloriosa muerte del venerabile padre Francisco Xavier Saeta…
Fin dall’inizio, assieme al lavoro apostolico e organizzativo, il Kino non smise mai di effettuare accurate rilevazioni scientifiche e geografiche, che traduceva in mappe e relazioni che contengono aspetti politici, economici, etnologici, militari, geografici ecclesiastici e missionari.
Oltre agli scritti, ci sono pervenute 32 carte accertate; in esse sono registrati fiumi e valli, monti e selve, villaggi di cristiani e pagani, sentirneri e sorgenti d’acque… dati indispensabili per i futuri missionari, esploratori, viaggiatori e per la sopravvivenza degli stessi indigeni. Tra le 32 mappe, a procurargli più fama fu quella intitolata «Paso por Tierra a la Califoia», in cui dimostrò che la Califoia era una penisola e non un’isola come si credeva da oltre 50 anni (vedi riquadro).
Ormai anziano, stanco e ammalato, la morte lo colse, poco più che 65enne, il 15 marzo 1711, mentre consacrava la missione di Santa Magdalena de Sonora, chiamata poi Magdalena de Kino. Sepolto presso l’altare, la sua tomba divenne meta di pellegrinaggi da parte delle genti da lui evangelizzate. Poi il ricordo si affievolì per la soppressione dei gesuiti e per la cacciata successiva dei francescani (1828) che li avevano sostituiti.
La riscoperta di padre Kino partì dall’Arizona, dopo che questa regione fu incorporata negli Stati Uniti (1912). Nel 1965 una statua del grande missionario, proclamato secondo fondatore dell’Arizona, fu posta nella sala del Campidoglio di Washington, insieme ai grandi della patria.
Nel 1971 l’arcivescovo di Hermosillo ha iniziato il processo per la causa della sua beatificazione. Le popolazioni di entrambi gli stati, Arizona e Sonora, attendono che anche la Chiesa riconosca la santità del loro padre nella fede e nella civiltà.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi