Meru (3) «You are heroes», voi siete eroi

Antologia

Così disse dei missionari del Meru mons. Arthur Hinsley nel 1928.
è incredibile avventura di un manipolo di missionari in un ambiente difficile, isolato e certo non favorevole che, cent’anni fa, pur con pochissimi mezzi e quasi ignorati in quelle aree remote, riuscirono nell’impresa di conoscere a fondo il popolo dei Meru, farsi accettare e mettere le basi di una cristianità oggi viva e rigogliosa.
A loro sono dedicate questi brani antologici che raccontano di uomini e donne, protagonisti di una storia che comincia ufficialmente il 13 dicembre 1911.
Queste pagine, tratte da pubblicazioni dei missionari della Consolata (scelte in modo totalmente arbitrario), coprono un arco di tempo volutamente limitato tra il 1911 e il 1940 (quando i missionari furono inteati dagli inglesi e spediti in Sudafrica), con alcune statistiche che arrivano fino al 1950.
Rimandiamo ad un futuro appuntamento l’aggioamento sulla situazione attuale della diocesi di Meru.
A.L.

ESPANSIONE AL MERU
Da Igino Tubaldo, Giuseppe Allamano. Il suo tempo – La sua vita – La sua opera, Vol. III, Torino 1982, pp. 735-738

Al vicariato del Kenya, affidato ai missionari della Consolata, appartenevano anche i due distretti di Embu e di Meru. Embu è la regione a sud del monte Kenya, compresa nella grande ansa del fiume Tana. Il Meru invece è la regione sulle falde del monte Kenya ad est.
La regione di Embu poteva dirsi persa per i cattolici, per il fatto che appena il paese fu occupato militarmente vi si recarono i missionari protestanti, – quasi un compenso per essere stati prevenuti dai missionari cattolici nel Kikuyu. Il Meru era stato occupato militarmente dagli inglesi tra il 1905 e il 1908; nell’Imenti, in una località chiamata precisamente Meru, era stato eretto un fortino (Fort Meru); il paese era ricchissimo di foreste, di torrenti, molto fertile; solo nella parte bassa regnava la malaria.
La popolazione – i Meru – è una tribù affine ai Kikuyu, con una certa somiglianza anche nella lingua e nei costumi. In questa regione e tra questa gente mons. Perlo pensa di fondare qualche missione e nel 1910 invia in perlustrazione i pp. Gays e Bertagna. La difficoltà per aprire delle missioni nel Meru erano più che altro burocratiche col governo inglese. Ecco come il Camisassa (il canonico Giacomo Camisassa, cofondatore dell’Istituto che visitò il Kenya dall’8 febbraio 1909 al 26 aprile 1912, ndr.) scrivendo all’Allamano il 4 agosto 1911 presenta la situazione:
«[ … ] Dal Goveatore precedente e dallo stesso Dr. Hinde, era stato adottato il principio che noi [cattolici] dovessimo stare a destra del Sagana, e la sinistra (Embu, Meru, ecc.) fosse pei protestanti. Questo Goveatore, [attualmente in carica] – nelle colonie i Goveatori sono affatto dispotici – non volle sapere di quella divisione tra destra e sinistra del Sagana, e volle adottare il principio che cattolici e protestanti potevano mescolarsi in tutta la Provincia del Kenya (come fan nell’Uganda) a patto di stare distanti 3 ore gli uni dagli altri. Questo ci fu favorevole, ché a Meru, pur essendovi già due applicazioni dei Protestanti (Presbiteriani e Metodisti, ndr.), ci restava posto (nei luoghi più popolati) per due missioni almeno, e sono queste due che avrebbero ora concesso a noi […]. Però, come ho detto, questo Goveatore ha il chiodo fisso delle 3 ore di distanza, e ciò praticamente ci chiude Embu, che con tre missioni protestanti distanti sei ore una dall’altra lo occupano nominalmente tutto».
Fu l’intraprendente mons. Filippo Perlo (dal 1909 vicario apostolico del Nyeri e primo vescovo residenziale del Kenya, ndr.) a spuntarla anche in questo caso. Ottenuta la licenza del governo per due missioni, il Camisassa comunicò immediatamente la notizia all’Allamano.

«Fattoria (del Mathari, Nyeri) 16 giugno 1911
Amat.mo Sig. Rettore,
«A soli tre giorni di distanza le scrivo nuovamente: 1° per darle la fausta notizia che è venuto finalmente il permesso di impianto di una Missione a Meru… La Consolata ha voluto pagarci la festa prima ancora del 20! E Deo gratias proprio di cuore. […] A giorni vi andrà Mons. e due missionari (non so ancora quali) a sceglier il posto e iniziar l’impianto. Non so ancora se v’andrò subito io, o se solo più tardi, come vorrebbe Mons. per timore che i disagi dei primi tempi di una Missione, quando si deve viver sotto la tenda, mi possano nuocere. Vedremo. Meru è perfettamente a nord del Kenya, con 93 mila capanne paganti tassa (mezzo milione di anime – stima esagerata, vedi la «Breve storia» qui sotto, ndr.), popolazione meno sveglia di quella di Nyere, ma buona e semplice, e molto agiata, perché il paese è fertilissimo, intensamente coltivato, ed i nostri PP. Cagliero e Saroglia, tornati ieri di là col bestiame sono concordi nel definirlo un Paradisus Domini venientibus in Segor [cf. Gen 13,10: «come il giardino del Signore, venendo da Seor/Segor», ndr.] molto più bello che il Kikuyu. Negli otto giorni che passarono colà furono festeggiatissimi dai molti lavoratori di Meru stati già qui alla Fattoria… che li riconobbero ed erano fieri di presentarli a tout le monde». […]
A fine giugno mons. Perlo, certamente non da solo, si recò nel Meru in perlustrazione, allo scopo di scegliere le due località. Vi rimase quasi tutto il mese di luglio. Il 25 luglio il Camisassa scrive all’Allamano:
«Finalmente Mons. è arrivato cinque giorni fa da Meru dopo quasi un mese di permanenza colà. E sì che non perdette tempo, avendo sempre girato ad esplorare il paese, accompagnato dallo stesso comandante del forte, col quale finì per indicare due posti ove vorrebbe stabilirsi [Keja, divenuta poi Imenti, ed Egogi, ndr.]. […]: ora Monsignore presentò regolare domanda del terreno su cui impiantarci, e spero fra 15 [giorni] aver (da Nairobi) risposta affermativa e definitiva. Solo allora si potrà essere certi che la cosa potrà effettuarsi… Così credo potrà far anche lei quando avrà ricevuto tale annuncio con altra mia lettera».
Per recarsi da Nyeri o da Fort Hall alle due progettate missioni occorrevano rispettivamente sei o cinque giorni di marcia. […]
Le pratiche però s’incepparono a Nairobi. Ne dà notizia il Camisassa da Fort Hall (Murang’a) all’Allamano con lettera del 30 ottobre 1911:
«Vorrei poterle dire che le due Missioni del Meru sono un fatto compiuto, ma pur troppo non lo sono ancora. […]; all’insistenza di Mons. [presso il Goveo], che reclamava l’osservanza dei patti, risposero chiedendo che ritornasse loro tutto l’incarto per esaminarlo for inspection!! E dire che di tale incarto debbono aver essi tutto il duplicato [ … ]. Col Goveo le cose son sempre un po’ rotte, ma ci dev’essere della vera persecuzione in parte del basso personale… di burocrazia. Non c’è che da pregar sempre la SS. Consolata che ci aiuti Lei».
Tutto dev’essersi appianato ai primi di dicembre. Il diario della stazione di Imenti (Keja – pronunciato Kegia, ndr.) inizia:
«Inviati da S. E. Mons. Filippo Perlo, Vic. Ap. di Nyeri, i due Rev. PP. Balbo Giovanni ed Olivero Luigi, provenienti dal Gekoyo, giungevano in questa località il giorno 13 Dicembre 1911. La carovana di 32 portatori agekoyo e dei due Padri sopranominati sostò e piantò le tende a Keja presso il Capo M. Kerundu; e la popolazione corse in gran folla a vedere i nuovi venuti, portando regali in cibarie di ogni genere. […]. Il 24 dicembre era pronto il primo capannone che servì per abitazione dei padri e cappella privata, in cui si celebrò la prima messa la notte di Natale 1911».
Nell’altra località Egoji, furono destinati i pp. Giovanni Toselli e Giuseppe Aimo-Boot. Il Camisassa ne dà notizia all’Allamano il 18 dicembre 1911. Ma già il 5 dicembre da Torino l’Allamano aveva scritto al Camisassa:
«Le ripeto, che sarebbe anche buona cosa una visita a Meru e nell’Uganda, se Monsignore potrà accompagnarla».
Al 2 gennaio 1912 il Camisassa scrive che partirà fra breve per il Meru. Il diario della missione di Imenti al 22 febbraio 1912 annota:
«Giunge alla missione il Rev. Vice-rettore Can. G. Camisassa, Sua Ecc.za Mons. Perlo, accompagnati dal Cd. Anselmo e dalle Rev. Suore Vincenzine, Sr. Carola e Sr. Anania. Gli Eccellentissimi visitatori possono constatare i disagi e le fatiche del missionario all’inizio di una nuova missione fra queste popolazioni non ancora tocche dall’ombra di alcuna civiltà».
E il 4 marzo 1912 il Camisassa scrive all’Allamano da Nyeri:
«Da due giorni son giunto dalla visita alle missioni di Meru, un giro completo attorno al Kenya, con un percorso di 450 kílom., viaggiando in media da 30 a 35 kilom. al giorno» […].
«Le popolazioni sono evidentemente affini agli Akikuiu, come ne è quasi identica la lingua: quei di Keja appaiono molto più semplici e bonari che gli Akikuiu – quei di Igogi più svegliati, robusti e ben piantati» […].
«I nostri missionari, tanto a Keja e che a Igocci [sic] furono accolti molto cordialmente – assai più che non ai primi tempi nel Kikuiu – senza mostrar diffidenza e sospetti… sicché tutti i Padri ne sono entusiasmati, e più soddisfatti che quando erano nel Kikuiu. […] Non le dico altro di questo viaggio, che mi fu veramente faticoso, ma grazie a Dio non ne soffersi».

INCIDENTI DI MISSIONE
Di p. Luigi Olivero da Ihembe da «La Consolata» 2/1915, pp. 26-27

Da una lettera del nostro missionario P. Olivero, addetto alla nuova stazione di Ihembe nel distretto di Meru a nord del Kenya, stralciamo questo brano drammatico e impressionante.
[Questo è il primo e unico racconto pubblicato sulla nostra rivista circa le nuove missioni del Meru. Il missionario scrive al canonico Allamano dalla prima missione ancora provvisoria, prima del trasferimento a Imenti/Mojwa. Il racconto è abbastanza insignificante in sé, ma contiene descrizioni interessanti della realtà, dei primi contatti con la gente ed è rivelatore dello zelo missionario di quei primi pionieri per i quali dare un battesimo era il massimo risultato possibile.]

Permetta, venerato Superiore, che le racconti ora un fatto alquanto tragico capitatomi il 27 luglio [1912?], che viene a confermare sempre più due verità: la prima, che Maria SS. Consolata ha una cura specialissima dei suoi figli missionari; la seconda, che Iddio tutto dispone per il nostro meglio, giacché è proprio in questa circostanza che giunsi a tempo per amministrare un battesimo.
In compagnia di un neo-catechista mi recavo, per la visita giornaliera, a Soria, luogo di popolazione densissima, ad un’ora dalla missione, dove pochi giorni prima avevo lasciato una madre con due bimbi malaticci. Speravo che la medicina loro data avesse prodotto qualche buon effetto, e, nel caso contrario e di aggravamento del male, avrei amministrato il santo battesimo.
Cammin facendo pensavo appunto al come avrei potuto compiere quest’atto, senza dare troppo nell’occhio ai circostanti, per non ingenerare prevenzioni nella loro mente così facile a fantasticare, per lo più in male, su ogni nostra azione, e per non sollevare sul nostro conto dicerie ancor più strane e dannose. Da parte sua il neo-catechista che mi camminava a fianco: un giovane sui 20 anni alto e tarchiato della persona, tanto che stonava non poco vicino a me piuttosto mingherlino, mi esprimeva confidenzialmente il suo timore di ricevere i soliti affronti e rimproveri dagli indigeni, solo per il fatto che ci indica le strade e le capanne. Questi poveri selvaggi, non conoscendoci ancor bene, ci classificano generalmente come spioni degli ufficiali del governo inglese. Era uno stretto sentirnero quello per cui si camminava, fiancheggiato a destra e a sinistra da una fitta siepe, a guisa di muricciuolo, e corrente in una valletta che è probabilmente l’antico cratere di un vulcano aperto da una parte o dalla lava, o dall’erosione di secolari piogge. Del resto questa regione presenta costantemente il medesimo fenomeno di configurazione. Vista dall’alto, sembra seminata di tanti monticelli conici dalla cresta rotondeggiante, perfettamente tornita e rivestita di fine erbetta, alcuni dei quali presentano al loro fianco una grande squarciatura che costituisce appunto una piccola valle. Lascio ai geologi di studiae le origini e m’accontento di indicare il fatto.
Da più di un’ora camminavamo solleciti, quando d’improvviso risuona dalla parte opposta il grido assai noto dello mbu, corrispondente al nostro allarme. È dapprima un grido isolato, che si fa subito più intenso, per diventare poi un formidabile coro di voci alte e concitate, e al grido di mbu si aggiunge quello esplicativo di: Ngiogo! Ngiogo! – l’elefante! l’elefante! -.  A quelle grida che si facevano sempre più rumorose, a quel nome che mi indicava tutta la gravità del pericolo, confesso che il sangue mi si rivoltò nelle vene: m’arrestai, volsi rapido lo sguardo in tutte le direzioni, e non vedendo capanne vicine nelle quali rifugiarmi, affretto col mio compagno il passo, per cercare altrove un qualsiasi riparo.
Avevo percorso appena un cento metri, che vediamo le peste fresche fresche del passaggio dell’elefante. Il catechista ha un brivido, e facendomisi più dappresso, me le mostra col dito teso e gli occhi sbarrati. Anch’io però come lui ho già compreso il grave pericolo scampato: se fossimo stati un tre minuti più avanti saremmo caduti senza dubbio vittime sotto i piedi di quel bestione […].
Passato quel momento di emozione, acceleriamo nuovamente il passo e ci portiamo su di un piccolo poggio dominante la valletta. Vi troviamo affollati molti indigeni, specialmente donne e fanciulli, che avevano abbandonato inconsideratamente i villaggi ed erano saliti su quell’altura per essere più al sicuro, non pensando che all’elefante era tanto facile la salita lassù, come ad un cavallo la corsa per una via piana. […] La maggior parte di quegli indigeni si aggruppava attorno ad un uomo, il quale, tutto tremante per lo sbigottimento e con i fianchi ammaccati, raccontava ai presenti la sua avventura. Non appena aveva sentito dietro a sé l’iroso barrito dell’elefante e il pesante calpestio delle poderose zampe, era corso al primo albero che aveva veduto, vi si era aggrappato e aveva cominciato ad arrampicarvisi, quando l’elefante lo raggiunse e cercò colla proboscide di afferrarlo a metà vita. Fortunatamente un colpo di coltello, di cui i neri son sempre muniti, ben diretto e menato con la forza della disperazione, ebbe per effetto di far ritirare per un istante la proboscide all’animale, cosicché il pover uomo poté finire di arrampicarsi e mettersi in salvo.
Intanto al suono del corno da più parti accorrono i cacciatori, fra cui alcuni Wakamba specialisti in queste cacce e che appunto per cacciare erano venuti a passare un po’ di tempo qui a Ihembe. Chi palleggia la lancia, chi brandisce il coltellaccio, chi agita lo ngiogoma (clava), chi semplicemente urla a più non posso: tutti cercano di far ritornare 1’elefante alla piana, per poterlo colà uccidere senza contravvenire al divieto di caccia posto dal governo inglese su questi altipiani. L’animale però non ne volle sapere; che anzi, uscito dalla bananiera ove erasi rifugiato, barrendo furiosamente, si diresse verso di noi, e ad un trecento metri, raggiunta una donna la quale fuggiva, esasperato dall’inseguimento, l’assalì, l’infilzò colle zanne, lanciandola a terra semiviva a parecchi passi di distanza, e, come soddisfatto da questa vendetta, ritoò indietro, mentre un grido di orrore usciva dalla bocca di noi tutti. Ma non era tempo di lamentarsi, bensì di agire; ed ero io che dovevo agire ad ogni costo, affrontando qualsiasi pericolo. Non si trattava della salvezza di un’anima? Invocando la Consolata e l’angelo custode vado di corsa verso l’infelice per soccorrerla, mentre i circostanti si dicono a vicenda: «Il Patri va a risuscitarla».
La poveretta che riconosco subito per la Ghecioe, una tra le più assidue ai catechismi domenicali, giaceva a terra immersa nel proprio sangue, giacché le zanne dell’elefante, data la violenza dell’assalto, le avevano squarciato il ventre. Constatai però che viveva ancora, e subito tolsi di tasca l’acquasantino per battezzarla, ma nella fretta esso mi sfugge di mano e l’acqua si versa. Corro allora nel villaggio poco distante, cerco in tutte le zucche e in tutti i recipienti in cui m’incontro, e finalmente trovo al fondo di uno un po’ d’acqua, quanto è sufficiente per il sacramento: la raccolgo, ritorno presso alla moribonda, e mentre ella volge verso di me gli occhi quasi spenti, come a pregarmi con quello sguardo insistente e pieno di dolore di ridonarle la vita che le sfugge, io verso sulla sua fronte, anch’essa intrisa di sangue, l’acqua battesimale e pronunzio commosso le parole sacramentali. La pupilla già vitrea dell’infelice pare in questo istante rianimarsi come vivificata da un raggio di luce soprannaturale, poi nuovamente si spegne; il suo volto si contrae, il suo corpo ha un leggero sussulto, ed essa spira, ridonando a Dio l’anima bella e santificata.
Mi alzo e rifaccio la strada, portando ai presenti la notizia di quella morte. Un urlo di indignazione fa eco alle mie parole e tutti, inaspriti da questa vittima umana, gridano: «Bisogna uccidere l’elefante, bisogna ucciderlo anche se l’uffiziale del Forte ci impiccasse tutti!». E la caccia alla belva ricomincia. I cacciatori, armati tutti di archi e di frecce avvelenate, si radunano, si intendono, si dispongono, ed avanzando cautamente cercano di accerchiare l’animale. Questo, sempre più furioso, tenta la fuga da una parte, ma un nugolo di frecce, alcune delle quali gli si conficcano nelle cai, lo arresta suo malgrado; egli scrolla come in un brivido violento la grande carcassa, barrisce spaventosamente e si volge dalla parte opposta; ma anche da questa parte lo accoglie un buon numero di frecce ben dirette. Disperato, alzando minacciosamente la proboscide, ansando, grondando sangue, si aggira su se stesso per tentar un’altra via, si arresta, riprende la corsa, ma oramai il veleno inoculatogli dalle frecce produce il suo effetto; i suoi movimenti si fanno sempre più lenti, i suoi barriti sempre più fievoli, si ferma, si piega, e tutta quella gran massa con un sordo rumore si rovescia pesantemente a terra. Gli altri indigeni, che dal poggio avevano seguito con ansia lo svolgersi dell’impressionante caccia, alla caduta della belva emettono grida di gioia, e i più arditi corrono in un coi [insieme ai] cacciatori a vedere l’elefante ucciso. Era ancor giovane; le zanne misuravano solo m. 1,20; era alto m. 2,30; lungo m. 3. Squartato lì sul momento dai cacciatori, tutte le donne con le loro bisacce andavano a gara nel portar via la carne, lasciando le ossa alle iene e agli sciacalli. Le zanne furono portate all’uffiziale del Forte.
Per quel giorno, vedendo la gente così impressionata dell’accaduto, non credetti più opportuno proseguire la visita ai villaggi, ma ritornai alla Missione ringraziando il Signore e Maria SS. Consolata. Ero scampato da un grave pericolo, ed avevo salvato un’anima!
P. Olivero M. d. C.

L’IMPIANTO DI UNA SEGHERIA nella foresta degli elefanti a Meru
Di Fratel Benedetto Falda da «La Consolata», 10/1922, pp. 156-159

[Dopo dieci anni dall’inizio delle missioni nel Meru, padri e suore vivevano ancora in case di fango e di tronchi costruite alla spartana. Passata la bufera della guerra e ritornati tutti i missionari al loro ministero, era finalmente ora di dare anche alle nuove missioni delle strutture decenti. Nel Nyeri tutte le case venivano prefabbricate alla «stazione industriale» di Tuthu e in pochi giorni portate alle loro destinazioni dove venivano assemblate. Ma il Meru era troppo distante. Si decise quindi di installare una segheria provvisoria in loco, in una foresta assegnata dal governo coloniale inglese. Dell’impresa fu incaricato il provetto fr. Benedetto Falda con l’aiuto di un altro fratello e due padri. Dopo un’accurata preparazione, trasportò tutto il materiale  su «quattro carri vagoni, 80 buoi e la macchina a vapore». Il viaggio durò quindici giorni per coprire oltre 150 km. Dovevano costruire «6 case per i padri, 6 per le suore, 6 scuole, mobilia per case e per scuole, ecc.». Il 15 maggio 1921 il fratello scrisse un lungo resoconto la cui prima parte fu pubblicata sull’antenata di questa rivista nell’agosto 1922. Qui vi presentiamo la seconda puntata.]

Come un bolide fra i scimioni
Se la salita era stata penosa, la discesa del versante di Meru, dove eravamo diretti, ci si presentò difficile per le numerose pietre che ingombravano la strada e che cagionavano ai pesanti carri continui scivolamenti, colpi, balzi e rimbalzi. Finalmente la via si fece più pianeggiante, scomparirono le pinete e ci trovammo in piane un po’ ondulate, con pasture di erba finissima, e, all’orizzonte, la linea di montagne che forma la frontiera abissina di Moiale.
Piegammo a destra, costeggiando sempre il Kenya, e peottammo nella piana dei famosi Maasai, i greggi dei quali erano pascolati da giovani selvaggiamente fieri, armati di lunga lancia. Il giorno seguente proseguimmo il viaggio, che ora si compiva tranquillamente; la strada si estendeva in quei piani che parevano senza fine; ma non ci fu dato di veder selvaggina sino alla sera, quando facemmo una vera distruzione di galline faraone grosse come tacchini, che, ai colpi di fucile, rimanevano intontite, senza saper darsene ragione, finché cadevano colpite.
Non sto a dilungarmi nel racconto di tutti gli altri incidenti; solo vi dico che, il dì seguente, arrivammo nelle foreste di cedro, dove cominciammo ad avere comunicazione cogli abitanti. Il forte governativo distava ancora una giornata di cammino. Passammo alcune ore a pulire la macchina e suoi accessori, come si farebbe per una persona; ed invero ci era troppo cara, ed ogni sua piccola parte era vitale anche per noi, perché costituiva, per la nostra futura segheria, il cuore pulsante.
Il giorno dopo, i due Padri rimasero all’accampamento; io invece colla bicicletta, che avevo portato sui carri, partii alla volta del forte e poi verso la Missione di Maria Ausiliatrice (Tigania), per vedere se i ponti, che dicevano numerosi, erano resistenti; e nello stesso tempo cercare il punto della foresta adatta al nostro scopo. L’altro mio confratello, accompagnato dai neri del paese, doveva esplorare un’altra strada, o meglio dire sentirnero indigeno, e veder se si sarebbe potuto passare colla macchina nella brughiera, nel caso che i ponti fossero stati troppo deboli. Dirvi quel che provai in quel viaggio, tutto solo in paese sconosciuto, non è facile.
La strada era aperta in una magnifica foresta di cedri e altissimi mogani, che guardavo con una voglia matta di fae tante vittime per la erigenda segheria, ma forse quel luogo era ancor troppo distante dal punto dove ci saremmo impiantati. Dopo un’ora e mezzo di magnifiche volate, rallentate qualche volta con trepidanza dove scorgevansi i segni evidenti del passaggio degli elefanti, arrivai dove la foresta, aprendosi, lascia scorgere tutto il Meru. Che meraviglia! Là in basso, fra la verdura, erano le case del forte che, dipinte in bianco e rosso, facevano un magnifico contrasto col selvaggio panorama del paese.
Il primo saluto, quando ancora mi trovavo lontano dall’abitato, lo ricevetti da una lunga processione di scimie rosse, dal muso di cane e che come questi ab-baiavano. Potete immaginarvi come rimasi, quando, venendo giù da una discesa a passo di volata, mi trovai di fronte a un centinaio di questi scimioni! Non, ebbi il tempo di levarmi il fucile da tracolla e sparare per impaurirli – che, quanto a ferirli, me ne sarei guardato, perché allora diventano terribili – che entrai in quelle file come un bolide, suonando a distesa il campanello ed emettendo grida da ossesso. Se aveste visto che corse! Quella massa in un baleno si divise, si smembrò, ed eccoli tutti sugli alberi fiancheggianti la strada, emettendo essi pure grida indiavolate: un vero pandemonio! Ad ogni modo mi liberai bene, e pensando poi chi avesse avuto più paura, io o loro, conclusi che tutti assieme eravamo contenti di essere… fuggiti!

La scelta della foresta
Mezz’ora dopo ero al forte, consistente in due case: una per la posta e per gli ascari; l’altra per il comandante. Scritte e spedite alcune cartoline per informare i miei Superiori del felice arrivo, ripresi la via per strade ancor più piane e magnificamente tenute, facendo la conoscenza cogli indigeni Wameru. Il loro parlare è così musicale che il saluto pare una carezza; sono molto più socievoli e gentili degli aghekoio, e tutti per strada salutano. Gli uomini sono bei tipi di guerrieri, colle lunghe lance, ma non hanno, come i Maasai, la ferocia di assassinare facilmente i viandanti forestieri. Portano i capelli lunghi, fermati a treccia dentro uno straccio ornato all’esterno di perline; il corpo unto di olio e ocra. Così pure le donne portano molti oamenti che dan loro un aspetto gioviale. Ebbi l’impressione di arrivare in un paese in festa.
Contai 18 ponti solo tra il forte e la missione, ma tutti abbastanza buoni; e passai anche la foresta dove più tardi avremmo deciso di impiantare la segheria. Vicino ad un torrente, alcuni neri intenti a guardare qualcosa come impauriti, mi fecero segno di fermarmi. Scesi e vidi subito un enorme pitone sul ciglio della brughiera, gli sparai un colpo di fucile che lo fece attorcigliare come una salsiccia, ma occorsero due altri colpi per finirlo. Nella sua agonia si stese per lungo, occupando tutta la strada: era lungo circa cinque metri. Peccato che, essendo io solo, e i neri non avendo voluto toccarlo, dovetti lasciarlo preda alla iena, mentre sarebbe stato un bel esemplare per il nostro museo di Torino.
Arrivai alla stazione Maria Ausiliatrice [Tigania] accolto festevolmente dalle suore, che da un anno si trovano colà a far del bene, e dal padre che mi fu largo di gentilezze. All’indomani cercammo un punto adatto della foresta, e, dopo molto aggirarci di qua e di là, concludemmo col scegliere un tratto di foresta a tre ore dalla missione, quello appunto per cui ero passato in bicicletta e che mi era parso il migliore per qualità di alberi. Il giorno dopo, lasciata la bicicletta alla missione, ritornai all’accampamento per un sentirnero indigeno, per meglio osservare le foreste, e vi arrivai alla sera, stanco morto. Il mattino seguente ricaricammo tutto sui carri e partimmo per la meta che avevamo scelta.

L’incontro cogli elefanti
Il mio confratello coadiutore ed io ci davamo il cambio a guidare la locomobile; e mentre uno guidava la macchina che camminava adagio, l’altro badava alla carovana dei carri che precedeva. Mi trovavo appunto addetto a questo secondo ufficio, quando uno dei nostri carrettieri viene di corsa e tutto trafelato a chiamarmi e dirmi di arrestare la carovana perché un gruppo di elefanti stava sulla strada per cui dovevamo passare. Too indietro ad assicurarmi ed armarmi, se del caso, e trovo radunati alcuni indigeni del paese che concitatamente indicano colla mano, in lontananza, dove la strada costeggia un pendio, nella brughiera non folta, grosse macchie rossastre che si muovono e si rincorrono. Contro il parere degli indigeni, che ci volevano dissuadere, decidemmo di avanzare cautamente, essendo abbastanza sicuri sui nostri grandi carri. Raccomandai solo ai neri di non parlare, che, se assaliti, allora tutti insieme avremmo fatto il più grande baccano possibile. Ero contento di vedere così da vicino tanti elefanti.
Così, io sul primo carro, gli altri carrettieri sul proprio, avanziamo. Quando stiamo per oltrepassare il punto dove si trovano le bestie, e quasi pensiamo che già siano fuggite, un barrito, che par emesso da una cornetta, ci fa dare un più rapido giro al sangue. In una mano tengo il fucile e nell’altra una trombetta, pronto, se assaliti, a far rumore ed anche a sparare. Dopo il barrito, di nuovo silenzio. I neri stanno accovacciati sui rispettivi carri, e i buoi, per nulla intimoriti (cosa che io temevo), avanzano adagio e tranquilli; i carri su queste strade molli non producono il più leggero scricchiolio, e così, ritto sul carro, posso godermi uno spettacolo indimenticabile. In un pianoro, a destra della strada, dolcemente in declivio, stanno scherzando tranquillamente dieci enormi elefanti, che, visti così da vicino, paiono bestie antidiluviane. Alcuni si rincorrono, altri pascolano e mangiano foglie di alberelli che curvano con la loro tromba. Paiono sacchi enormi di carne.
Non sembrano avvedersi per nulla del nostro passaggio, cosicché possiamo contemplare, a nostro bel agio, quello splendido giardino zoologico. Ma non appena tutti i carri sono passati e si odono i primi rumori della locomobile avanzante pesantemente, i bestioni si ristanno come sorpresi, volgono dalla nostra parte i loro occhi sproporzionatamente piccoli, tendono in ascolto le enormi orecchie prima penzoloni, e… meditano il colpo. Non diamo loro il tempo. Ad uno squillo della mia cornetta comincia un sì assordante pandemonio, che i pachidermi, impauriti, si danno alla fuga. La locomobile fischia disperatamente e ininterrottamente; i carrettieri, ora ritti sui carri, si scalmanano a batter chi i tamburi e chi le latte di petrolio; altri soffiano dentro a coi speciali per trae suoni inqualificabili; altri, non sapendo a che appigliarsi, gridano a squarciagola agitando le lunghe fruste. E il pandemonio dura finché gli elefanti scompaiono nella foresta.
Poche ore dopo raggiungevamo la mèta sani e salvi, e con il macchinario in buone condizioni, nonostante il lungo e difficile viaggio. Ringraziammo assieme e di cuore il Signore e Maria Vergine Consolata, poi ci mettemmo all’opera, incominciando il disboscamento del tratto di foresta dove la nuova segheria doveva essere impiantata.

Il lavoro compiuto
Da una lettera successiva dello stesso coadiutore Benedetto Falda, apprendiamo alcune notizie sui primi lavori compiuti dalla nuova segheria nella foresta degli elefanti.
Foresta degli elefanti, Meru, 23 aprile, 1922.
Piantammo il laboratorio vicino ad un fiume per aver abbondanza d’acqua per la macchina a vapore, e in un pianoro per facilità di trasporto. La macchina a vapore fa funzionare la grande sega circolare, la piallatrice, la mortasatrice, un piccolo mulino e un’altra sega circolare. In nove mesi, essendo noi tre coadiutori e due padri, tagliammo 476 alberi dei quali molti hanno il diametro di un metro; poi 2.500 stepponi; preparammo il materiale per 18 case con pavimenti, soffitti, parti estee ed intee; ed ancora una riserva di legname per altre tre case complete. Inoltre si fecero 36 letti, 26 tavole, 60 porte, 40 battenti doppi per finestre, 52 vasestas per finestre. S. E. Mons. Perlo ci scrive di incominciare i trasporti colla macchina a vapore, e, a questo fine, ci mandò lo splendido tamagnone Tolotti che, in un coi due grandi tamagnoni (nome in piemontese italianizzato di grandi carri agricoli) fatti da noi, ci aiuterà a trasportare in pochi mesi le 300 tonnellate di materiale.
Noi qui ci troviamo benissimo. Gli indigeni impiegati al lavoro, mentre da principio erano affatto incapaci e scappavano ogni volta che mettevo in moto la sega, adesso si sono assai bene abilitati. Il grande frastuono della macchina è per noi come un inno di gloria a quel Signore che ci diede la vocazione all’apostolato e ci fece membri di questa schiera di pionieri del Vangelo, che si ripromettono di condurre a Gesù milioni di anime.
Coad. Benedetto Falda M. d. C.

MEKINDORI
Da Ottavio Sestero, I fioretti di padre Cencio, pp. 61-63, EMI Bologna 1992

La missione di Mekindori era allora solo un segno topografico segnato sulla carta geografica privata di mons. Perlo. In realtà non esisteva ancora nulla, eccetto la brughiera e le iene che l’abitavano.

Prima notte
[Questo capitoletto è tratto da Ottavio Sestero, Il Nibbio e altri racconti, pp. 117-118, EMC – Torino 1959]
Il padre Dolza, di felice memoria, se ne arrivò a Mekindoli, a prender possesso della nuova missione, la sera del 20 ottobre 1922. La missione non era che un tratto di brughiera con un mucchio di tavole per la futura costruzione.
I portatori dei pochi bagagli, ricevuta la mercede, si squagliarono in cerca di qualche capanna ospitale per passarvi la notte. Il padre, rimasto solo col suo cagnolino, si affrettò a piantare una vecchia tenda sdruscita. Consumò la sua magra cena, dividendola cameratescamente col suo botolo fedele, che con gli occhi fissi sulla bocca del padrone contava i bocconi, aspettando impaziente e supplice che di quando in quando venisse il suo tuo. Poi il padre Dolza, recitate le orazioni, stese due tavole nella tenda, si avvolse in una coperta e vi si coricò come in un morbido letto.
Si era nella stagione delle piogge. Il cielo appariva carico di nuvoloni pesanti e l’oscurità profonda. Allegra esperienza, trovarsi in un angolo sperduto dell’Africa, lontano le diecine di miglia dal primo centro civile, solo, di notte, in una tenda precaria, con un uragano imminente e numerose iene affamate vaganti all’intorno!
E l’uragano venne più violento e più rabbioso che mai, con un ventaccio sì furioso che pareva che tutti i diavoli del Jombene soffiassero su quella povera tenda. Il padre Dolza conosceva l’Africa e sapeva che il terreno rammollito dalla pioggia rallentava la sua presa sui piuoli; perciò stimò prudente alzarsi e aggrapparsi tenacemente al palo centrale della tenda, la quale già dava segni di collasso. Fatica inutile! Un colpo di vento furibondo investì la tenda; il palo bagnato gli scivolò dalle mani e la tenda scomparve nel buio; la fioca lampada da campo, rovesciata, diede un guizzo e si spense.
La pioggia veniva giù come una doccia a tutta pressione e in pochi minuti il povero missionario fu bagnato fino all’osso. Brancicando nel buio, cercò affannosamente la cassetta dell’altarino portatile, e, trovatala, vi si sedette sopra per salvare dal diluvio le ostie e gli indumenti sacri. Così raggomitolato e assiderato, la pioggia lo flagellava senza pietà. Il cagnolino gemeva pietosamente e invano cercava un riparo sotto le ginocchia del padrone. Tutt’intorno si sentivano i grugniti soppressi, i singulti e le sghignazzate beffarde delle iene. A tratti, lividi lampi squarciavano l’oscurità. Il padre Dolza non era un pusillanime, e tanto meno un novellino d’Africa, eppure confessò che in quella notte molte lacrime si mescolarono con la pioggia. Quanto durò questa tortura? Durò fino a quando una pallida luce annunziò il nuovo giorno. Allora, malgrado fosse rotto e fradicio, dovette muoversi per non morire assiderato. La pioggia cessò a poco a poco con l’inoltrarsi del giorno e il missionario si accinse a preparare l’altarino e a celebrare la prima messa nella nuova missione.
Così ebbe inizio la sua vita di missione vera e propria.

La casa e la malaria
Nel frattempo il fratel Benedetto Falda lavorava con ritmo accelerato e febbrile, ed un bel giorno arrivò a Mekindori una carovana che portava il necessario per fabbricare una casetta decente e solida. Ma fratel Davide, incaricato di questa costruzione, era impegnato altrove e per alcuni mesi non sarebbe stato disponibile.
Il padre Dolza fece accatastare tutto quel legname avendo cura di lasciarvi un buco nel mezzo, un antro buio e scomodo per dimorarvi, che però aveva il vantaggio di non venire asportato, come la tenda, nelle notti di tempesta.
Nel frattempo, con l’aiuto della gente del luogo, provvide a far fabbricare una capanna per ospitare il fratello che doveva venire a costruire, ed intanto cominciava a farsi una cerchia di amici fra gli abitanti dei dintorni.
Ma lasciato a se stesso e propenso com’era a far penitenze e digiuni per vincere, come diceva lui, i diavoli del Jombene, e più ancora fiaccato da violenti attacchi di malaria, in breve venne ridotto a tal punto di esaurimento che i padri delle missioni limitrofe ne rimasero seriamente preoccupati.
Un giorno il padre Calandri, residente a Ighembe, si incontrò col padre Manfredi, che veniva da Toro, e discutendo sul caso, gli disse: «Se rimane ancora qualche tempo in quella tana, da solo, un giorno o l’altro lo troveremo stecchito… o pazzo!».
I due missionari decisero quindi di andare in suo soccorso; si recarono assieme a Mekindori per portarselo ad Ighembe finché si fosse ristabilito. Arrivati a Mekindori, il padre Dolza non si vedeva.
Un nero accennò loro la catasta di legname. Bussarono alla barricata della tana; silenzio di tomba.
Gridarono forte: «Padre Vincenzo, apra! Siamo noi!».
Nessuno rispose. Certamente qualcosa non andava.
Puntarono le spalle e sfondarono l’uscio posticcio. Il padre Dolza era là, coricato sulle tavole, non ancora morto, ma neppure molto vivo.
Lo svegliarono dal suo dormiveglia affannoso e incosciente; gli somministrarono una bevanda tonificante che a buon conto avevano portato e gli dissero: «Padre, siamo venuti per portarla a Ighembe».
«A Ighembe?», mormorò con voce flebile. «Che ci vado a fare? Lasciatemi qui. è la mia missione… e voglio morire qui».
«Suvvia, Padre, non dica sciocchezze! Chi parla di morire? Bisogna lavorare, altro che morire! E deve venir via di qua».
«No, no. Ho deciso. Io non mi muovo. Morirò qui. Scavatemi solo una fossa, che io non ce la faccio più».
Vedendo la sua testardaggine, i due ricorsero ad una bugia strategica e il padre Calandri gli disse in tono severo: «Finiamola con queste storie. Ordine del vescovo: lei deve recarsi a Ighembe». «Ordine del vescovo?» fece eco il padre Dolza rianimandosi. «Dov’è quest’ordine?».
Il padre Calandri frugò nelle tasche, fingendo di cercare una lettera che naturalmente non c’era. Il padre Manfredi gli venne in aiuto dicendogli in tono di rimprovero: «Al solito! L’ha dimenticata a casa quella benedetta lettera del vescovo». «Oh, vero! L’ho dimenticata sul tavolo! È seccante!», e poi, rivolto al padre Dolza, aggiunse: «Ma non importa, la lettera c’è e lei deve venire».
«Se è così», mormorò il padre Dolza rassegnato, «verrò, forse domani. Oggi non riesco a stare in piedi».
«Così va bene», disse il padre Calandri, e aggiunse: «Gli ordini dei superiori vanno eseguiti».
In quella tana non c’era assolutamente posto per altri. I due samaritani somministrarono al malato una buona dose di chinino e ritornarono alla loro missione.
Padre Dolza ci pensò seriamente nella notte e decise di obbedire a qualunque costo, anche se ciò fosse costato quattro ore di marcia su gambe incerte e tremanti.
Il mattino seguente, quando i due amici arrivarono per aiutarlo, la tana era vuota e l’usciolo ben chiuso. Si guardarono sorpresi: «Acciderba, che fegato! Come avrà fatto a partire da solo in quelle condizioni?».
P. Manfredi si gettò subito all’inseguimento temendo di trovarlo svenuto sul ciglio del sentirnero, ma per quanto trottasse non riuscì a raggiungerlo per via. Lo trovò a Ighembe che si era buttato, senza forze, su un pagliericcio per smaltire la dura maratona.
(Ottavio Sestero)

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