Cari missionari

Lettere dei lettori

Lutto all’Avi
Lo scorso marzo ci ha lasciato Ardulino Lazzaron, storico socio della sezione dell’AVI di Trebaseleghe (Treviso) rapito da una malattia fulminante mentre si accingeva a tornare in Kenya per un nuovo progetto.
Ce lo ha comunicato l’AVI (Associazione Volontari
Italiani di Montebelluna – Treviso), che lavora in stretta collaborazione con molti missionari della Consolata.

ARDULINO LAZZARON
L’amore per l’Africa
Doveva esserci anche lui, nell’ultimo viaggio in Kenya. Aveva già in tasca il biglietto aereo, ma una visita medica di controllo prima della partenza e gli esami clinici lo avevano fermato. La rapidità della sua rinuncia ci aveva lasciati increduli e costeati. Ardulino Lazzaron, mio zio, era sempre stato un uomo energico, innamorato della vita, della sua famiglia, di tutte le persone semplici, indifese, sofferenti. Per questo l’Africa era arrivata dritta al suo cuore, dando un nuovo impulso alla sua esistenza, nutrendo ed accrescendo il suo desiderio di andare oltre il ritmo piatto della quotidianità. Aveva bisogno di emozioni intense, di sentimenti veri e profondi per cause umanitarie nelle quali attirare, travolgendole con il proprio entusiasmo, le persone che incontrava, per coinvolgerle nei progetti. Io sono una di queste. Per otto anni andammo in Kenya assieme e da quell’esperienza nacque l’ associazione Karibu di Scorzé, formata da un gruppo di volontari sensibili ai problemi dei paesi meno sviluppati e con grandi disparità sociali soprattutto per quanto riguarda la condizione femminile e dell’infanzia. Assieme, iniziammo un percorso di conoscenza e di operatività in un paese affascinante per la bellezza selvaggia della natura, ma in balia di devastanti piogge torrenziali alle quali si alternano periodi di siccità, con una carenza d’acqua in superficie diffusa nelle gran parte del paese. La difficoltà di comunicazione tramite una rete stradale spesso su terreni impervi, rese difficile la nostra opera di aiuto, ma allo stesso tempo alimentò la passione per la sfida e lo spirito di avventura. Ardulino fu sempre in prima linea per promuovere progetti educativi ed assistenziali in Kenya e raccogliere fondi. Era instancabile nel parlare con i nostri compaesani di quelle popolazioni lontane, delle quali riusciva ad evocare, assieme ai bisogni, la carica umana, i giorniosi sorrisi, la speranza di un futuro migliore di cui la nostra opera era il sostegno e lo è tuttora. Aiutare e far crescere la gente nel suo habitat naturale, rispettandone l’identità, fu lo scopo di Ardulino Lazzaron; per questo girava sempre con le foto dei bambini africani in tasca, per far vedere che il suo impegno era una realtà. Ricordo che in Kenya, nonostante non sapesse l’inglese e neppure lo swahili, riusciva a “parlare” con tutti. Era il primo nella preghiera, nell’entusiasmo di confondersi e sentirsi assimilato alla gente africana in uno scambio di reciproco amore. La sua opera caritatevole non si interruppe nemmeno nei suoi ultimi giorni. Quando andai a trovarlo in ospedale, mi chiese di portargli le fotografie ed il filmino dell’ultimo viaggio. “Qui c’è molta gente sensibile, che sicuramente ci sosterrà nei nostri progetti”, mi disse, con gli occhi che gli brillavano. Ai suoi nipoti era solito ripetere: “Anche voi dovete aiutare i bambini bisognosi. Andate in Africa a vedere come vivono. Non dovete lavorare solo per voi stessi, per avere una casa, per accumulare soldi”. Ardulino aveva un carattere forte, facile ad alterarsi, ma era anche capace di riconoscere i propri errori e di scusarsi, come seppe fare con me, dopo un malinteso, dandomi una grande lezione di vita. Il nostro compito di parenti ed amici è ora quello di mantener fede alle sue ultime parole: “Aiutate soprattutto i bambini poveri africani”. Per questo uno dei prossimi progetti in Kenya sarà dedicato a lui. Caro zio, ho visto in te la Luce di Dio. Certamente Egli non sta tra le nuvole, ma agisce dentro di noi e tramite noi. Ti prometto che porterò avanti l’opera iniziata insieme. Che tu sia nella Pace Etea!
Il Consiglio Direttivo AVI
email 05/04/2011

Guatemala
Salve Paolo: grazie tante, ho letto l’articolo in italiano e mi è piaciuto. Sicuramente non piacerà a molti del Guatemala, ma credo di aver detto la verità. Soltanto una piccola osservazione: Union Fenosa non ha progetti idroelettrici. Spero che l’affermazione del collegamento tra la morte dei leaders e la resistenza contro Union Fenosa non sia intesa come un’accusa contro la stessa. Di nuovo grazie di tutto.
Mons. Alvaro Ramazzini, Guatemala

Egemonia
L’esultanza statunitense dopo l’uccisione di Osama Bin Laden rievoca altre squallide immagini, ad esempio i corpi martoriati dei figli di Saddam Hussein; i prossimi saranno forse Gheddafi e la sua famiglia?
L’America non cambierà mai, ce lo dimostra ogni giorno Hollywood coi film d’azione nei quali l’orgasmo conclusivo è sempre la distruzione compiaciuta del “cattivo” con volumi di fuoco esagerati. La vendetta per l’immaginario statunitense è l’ultimo imperativo etico, dopo che ogni altro è stato svuotato dalla mercificazione. Questa volta il rituale macabro è anche sospetto: un cadavere fatto sparire in fretta, le immagini contraffatte apparse in rete. Perché occorreva euforizzare i cittadini americani? Il quadro internazionale sta cambiando: le rivolte in nord Africa sono state accese anche dalla speculazione finanziaria sui generi alimentari (vedi il quantitative easing della Federal Reserve nell’agosto 2010). Tutto accade proprio quando è sopraggiunto il cosiddetto picco del petrolio, ossia la fine della sua disponibilità a basso costo. Il disastro del golfo del Messico non sarebbe mai accaduto se la BP non avesse cercato petrolio a profondità marine prima considerate troppo dispendiose e troppo rischiose. L’incoscienza e la brutalità americane non devono stupire dati i precedenti: Dresda rasa al suolo a guerra finita, le bombe atomiche sul Giappone già sconfitto, la diossina sparsa sulle foreste del Vietnam, l’uranio impoverito nei vari teatri di guerra attuali. Ciò che stupisce ed amareggia è la nullità europea: una pseudo-destra francese che anticipa, giustificandole, le ingerenze USA in Nord Africa, una pseudo-sinistra (italiana e non solo) che plaude alla punizione del tiranno libico, senza considerare coloro che lo sostengono. Non dimentichiamo che la prevalenza statunitense nel mondo ha coinciso con un “ecocidio” di proporzione planetaria, che nessuno pare in grado di fermare. L’egemonia statunitense si regge su due pilastri:
1. Il consumismo spacciato per benessere, che occulta il saccheggio operato dall’alta finanza;
2. La criminalizzazione di ogni capo di stato che si opponga al baratto della sovranità nazionale col libero mercato.
Nessuno più di chi è impegnato nelle missioni credo possa aver capito che i dittatori, di destra o di sinistra, sono da sempre il pretesto interventista degli USA, indispensabili come il terrorismo. Le guerre, come spiega il saggio Shock economy dell’americana Naomi Klein, sono parte essenziale del gioco. Come può un’ Europa di antica tradizione e radici cristiane assoggettarvisi? Il sangue versato in Libia, Siria e altrove lo sarebbe stato anche senza l’azione destabilizzante atlantica? Negli USA con denaro pubblico si sono tamponate le voragini finanziarie della lobby bancaria, poi spalmate anche sull’Europa; è questa la democrazia da diffondere? Una società senza valori non ha futuro, e oggi è tutto il mondo a non avee. Non possiamo aspettare che il gigante USA imploda nel suo delirio, divorato dai conflitti interetnici, è necessario un mondo più saggio, da perseguire anzitutto astenendoci da una sudditanza che orienterebbe l’odio del terzo mondo contro tutta la cristianità.
Prof. Vincenzo Caprioli
www.iperlogica.it

Condivido con lei il disagio per come si sia fatto spettacolo dell’uccisione di Bin Laden.
Ho i miei dubbi, invece, quando si danno tutte le colpe all’America. In fondo l’egemonia dell’America fa comodo a tutti noi che, coscientemente o no, stiamo forse diventando più americani degli americani.
Una volta dicevano che «la storia è maestra di vita». La storia potrebbe ancora insegnarci tante cose, ma bisognerebbe essere degli studenti che hanno voglia di imparare.

su «Troppe riviste…»
Spett.le Redazione,
il 3 gennaio 2011 Il Sole 24 Ore ha dedicato un’intera pagina a 8/9 punti caldi della terra dove sarebbero potute scoppiare durante l’anno guerre o rivolte. Non era citato nessuno dei Paesi dell’Africa del Nord. Leggendo il Bollettino Salesiano del novembre 2010 c’era un servizio di Giancarlo Manieri che descriveva cosa succede attorno al Cairo, dove la gente lavora «in condizioni peggiori di quelle degli antichi schiavi d’Egitto».
Questo per dire che Riviste come Missioni Consolata, Nigrizia, Mondo e Missione, Il Bollettino Salesiano (per citae solo alcune), grazie anche alla presenza sul posto dei vari missionari, danno una fotografia della realtà di paesi lontani che nessun’altra fonte d’informazione sa dare in maniera così oggettiva.
Per questo mi sorprende e mi preoccupa che il seminarista Alberto V. (MC 05/2011, pag. 5) abbia chiesto di sospendere l’invio della vostra interessantissima rivista. Non voglio insegnargli nulla, ma sicuramente ha più tempo di me che dedico quasi ogni giorno 3 ore in auto per raggiungere e tornare dal posto di lavoro. Vivendo in comunità di 10 seminaristi, a tavola potrebbe scambiarsi le informazioni più importanti con gli altri seminaristi (senza che tutti leggano tutto). Interessa o no a questi seminaristi capire quelli a cui “prestate la vostra voce”? Perfetta e sferzante – a mio avviso – è stata la risposta della redazione data alla lettera.
 Vi auguro di continuare con coraggio.
Andrea Gobbo
via email, 27/05/2011

Carissimi, salve!
Vorrei essere «Alberto del seminario di M.». Mi farei portavoce dei miei solidali benedetti nove compagni/amici e del nostro amatissimo staff di formatori e accompagnatori, per ringraziare sentitamente della simpatia con cui ci regalate ancora la vostra rivista missionaria senza richiederci quote d’abbonamento. Scriverei: «Ci è assai caro che comprendiate come in effetti noi manipolo facciamo un po’ fatica a onorare tutti gli abbonamenti delle tante riviste che ci arrivano… Grazie a Dio e ai benefattori di alcune testate, invece, abbiamo la fortuna di poter arricchire la nostra formazione culturale a tutto tondo, nel panorama ecclesiale; anche se, ovviamente, non tutti leggiamo tutto, né tutto sempre alla pari approfondiamo e facciamo nostro. Non solo. La nostra biblioteca è aperta alla parrocchia, ai gruppi e ai singoli che vogliono frequentarla per ampliare a loro volta le proprie conoscenze in ambito d’informazione cristiana attraverso pubblicazioni che non si trovano facilmente in edicola, in libreria o in oratorio. Quindi, vi siamo grati anche a nome di altri, sperando così che qualcuno in più prenda nota del vostro c.c.p. e del codice del 5×1000 …
Riconosciamo che senza alcune riviste missionarie il nostro orizzonte ecclesiale moderno risulterebbe davvero… un po’ miope e provincialotto. I nostri superiori, crediamo, corrono serenamente “il rischio” che qualcuno fra i non troppi candidati al servizio diocesano… si orienti, prima o poi, ad gentes; loro cura e premura è infatti, tenerci ben  esposti al «vento dello Spirito», mentre ci educano al servizio del Regno e della Chiesa, nel Mondo. Grazie, allora, e ogni fraterno cordiale cristiano augurio!».
«Vorrei essere Alberto del seminario di M.», ma sono soltanto Elio ex seminarista che ai suoi tempi non restava mai senza il Piccolo Missionario e l’Italia Missionaria… ma oggi ritiene che anche allora sarebbe stato utile, su nelle sale di studio, avere a disposizione qualcosa in continuità; per parecchi anni poi ha provveduto in proprio con più abbonamenti, pur avendone ridotto il numero dopo gli anta senza mai eliminarli tutti.
Non sono un formatore né un vescovo, né un editore o distributore di (buona) stampa. Se fossi vescovo d’una diocesi con iniziale “M” e con dieci allievi in seminario vi pregherei di render noto che da oggi la mia diocesi raddoppia (pagando) l’abbonamento: uno per il seminario minore, uno per il maggiore; oppure vi direi un bel grazie per avermi aperto gli occhi, e correrei al mio seminario per capire se si sia trattato di un eccesso di zelo conservazionista (risparmiare la carta e spese postali) o scarsità di spirito missionario.
Aurelio Resta
Seriate (BG)

Andrea e Aurelio, grazie dei vostri commenti. La risposta non voleva essere «sferzante» (se ho dato quell’impressione, mi scuso con Alberto e i suoi amici!), ma simpatetica, anche se un po’ provocatoria. Questo perché, in fondo, in noi missionari (per vocazione) rimane un’apprensione: che i giovani sacerdoti, presi come sono dalle tante sfide del mondo attuale e della realtà in cui vivono, si dimentichino che sono responsabili del Vangelo fino agli «estremi confini…» proprio perché sacerdoti.




Un nonno vigile con i «baffi»

Dalla Valsugana all’Etiopia… con amore

«Da 21 anni sono nonno vigile delle scuole
elementari di Borgo Valsugana (TN), prestato ai miei nipotini “neri” dell’Africa: i loro sguardi e sorrisi sono gli stessi. Sognano di crescere, studiare, imparare a costruirsi un futuro…
a dispetto di tutto e di tutti. Nei miei viaggi ho visto l’altra faccia del mondo, mi si sono aperti altri orizzonti».
Così si presenta Giovanni De Marchi, cugino dell’omonimo missionario della Consolata, maresciallo dei CC in pensione con un sano «mal d’Africa».

Da oltre 20 anni Giovanni De Marchi ha smesso la divisa di maresciallo dei carabinieri e ha indossato quella di «nonno vigile»: cappellino con visiera, giacca bianca e paletta che portano la scritta ben visibile «vigilanza scolastica». Tutti i giorni, dalle 7.30 alle 8.00 del mattino, in Piazza De Gasperi di Borgo Valsugana (TN), si pianta davanti alle strisce pedonali, intima l’alt alle auto e ordina agli studenti con gentilezza e altrettanta fermezza di attraversare la strada che li porta al comprensorio delle scuole elementari e medie.
«Il contatto con la gente – confessa – è sempre stato un punto fondamentale della mia vita. Questo servizio mi dà la possibilità di conoscere e osservare i comportamenti della gente, soprattutto dei bambini, di cui apprezzo la spontaneità e semplicità».
Nonostante l’aspetto serio, accentuato dai suoi folti baffi da ordinanza, il nonno vigile si è acquistato fin da subito stima e simpatia di alunni e genitori. A Borgo Valsugana lo conoscono tutti, non solo per il suo impegno di volontariato, ma anche per il suo «mal d’Africa»: da alcuni anni raccoglie fondi per sostenere le attività di padre Paolo Angheben in Etiopia.
non per caso…
Giovanni De Marchi è nato nel 1937, lo stesso anno in cui un suo cugino, con lo stesso nome e cognome, veniva ordinato sacerdote tra i missionari della Consolata. Un segno del destino? Forse, anche se per tanti anni non si sentì particolarmente coinvolto nelle imprese del cugino missionario, almeno fino a quando questi restò in vita.
Ma dopo la morte di padre De Marchi, avvenuta a Fatima nel 2003, il nonno vigile cominciò a scoprie la figura eccezionale: ne restò affascinato e sentì subito l’urgenza d’impegnarsi anche a favore della gente per la quale suo cugino aveva speso la sua esistenza. Prima di tutto volle conoscere più a fondo la sua vita e la sua opera, interrogando soprattutto coloro che lo avevano conosciuto da vicino. «Mi raccontarono aneddoti inimmaginabili che dipingevano la sua figura di missionario straordinario, vero uomo di Dio, di una semplicità disarmante, amato da tutti. Decisi così di onorae la memoria alla sua maniera, cioè mettendomi a disposizione degli altri» spiega il signor De Marchi.
Si trattava di trovare il modo e il luogo. Lo scoprì subito, in un articolo che parlava di un collaboratore del cugino missionario in Etiopia fin dal 1974: padre Paolo Angheben, missionario della Consolata trentino, con il quale il nonno vigile si mise immediatamente in relazione epistolare, finché lo incontrò di persona nel 2005, quando padre Paolo toò in Italia per un breve periodo di vacanze.
«Fu un incontro che spiritualmente mi cambiò la vita – continua il signor De Marchi -. Nel 2006 iniziai a raccogliere fondi per la sua missione. Nel giro di due anni riuscii a fare 40 adozioni a distanza. Ma dentro di me cullavo un sogno ben più grande: sognavo l’Africa, l’Etiopia in particolare, incontrare la gente per la quale mio cugino aveva speso gli ultimi 32 anni della sua vita, dal 1970 al 1988 lavorando sul posto e, nel resto degli anni, a Fatima, chiedendo continuamente ai pellegrini preghiere e aiuti per i lebbrosi e i bambini handicappati della sua cara Etiopia». Il sogno divenne realtà nel gennaio 2006, quando padre Angheben lo invitò nella sua missione di Modjo. «All’improvviso mi trovai catapultato in un altro mondo – racconta il signor De Marchi -. Fu un’esperienza che mi permise di vivere a contatto con i locali, conoscendo la loro quotidianità fatta di sacrifici, sofferenze e privazioni».
«una scuola anche per loro»
Crocevia tra nord, sud ed est del paese, a 80 km da Addis Abeba, Modjo si presentava come un luogo strategico delle attività dei missionari della Consolata, con scuola matea per 250 bambini, dispensario e altre opere sociali, seminario minore con una ventina di aspiranti missionari, centro di animazione missionaria vocazionale, punto di riferimento per la formazione giovanile e centro di spiritualità per preti e religiosi, sotto la guida di padre Paolo.
Nei 24 giorni di permanenza in Etiopia, Giovanni visitò altre missioni in cui era presente la memoria del cugino missionario: Gambo con l’ospedale e il villaggio dei lebbrosi, Meki con le sue scuole superiori e professionali, Shashemane con la scuola per ciechi, Gighessa con l’istituto per handicappati… Per l’ex maresciallo fu un crescendo di emozioni, come egli stesso racconta,  percorrere «quelle terre intrise di sangue, lacrime, sudore e immensi sacrifici di tanti missionari e suore, promotori di fede e civiltà. Veri eroi silenziosi di grande umanità, umiltà e serenità interiore, che non chiedono nulla per sé ma per gli altri».
Lo stupore per le meraviglie compiute dai missionari e missionarie veniva contrastato dall’impressione suscitata dalle opere ancora da fare. L’esperienza più scioccante l’ebbe a Daka Bora, una comunità in aperta campagna nella missione di Modjo, come lui stesso racconta: «Entrai in una baracca dove erano assiepati una cinquantina di bambini, seduti sul pavimento di terra, che scrivevano sopra dei sassi. Mi dissero che quella era una scuola e che serviva per 300 alunni. Non potevo credere ai miei occhi. Promisi subito che, tornato in Italia, mi sarei dato da fare per procurare loro banchi un po’ più comodi».
E così avvenne. Il nonno vigile lanciò il progetto «Una scuola anche per loro» per raccogliere fondi, iniziando nelle 18 classi scolastiche di Borgo Valsugana, da quei 340 alunni dei quali da tanti anni era l’angelo custode sugli attraversamenti pedonali. Per meglio rendere l’idea, portò in aula un bel sasso e diede una dimostrazione pratica di come i loro compagni africani trasformano una pietra in banco di scuola. «Pensate voi bambini – disse in quell’occasione – quante cose si sprecano nelle nostre case. Perché non facciamo qualche fioretto e mettiamo da parte qualche soldino per aiutare questi fanciulli nell’acquisto di una cinquantina di banchi il cui costo si aggira sui 30 euro cadauno?».
E fu un successo. All’iniziativa aderirono anche vari enti e associazioni locali e il nonno vigile racimolò circa 12 mila euro: nel 2007 la scuola di Daka Bora era bella e finita, ingrandita e arredata a dovere, come poté constatare nel 2008, quando il signor De Marchi toò a Modjo per la seconda volta.
«Fu un’emozione indescrivibile, una gioia immensa – racconta -, velata però dalla visione di altri problemi urgenti, primo tra tutti la mancanza di acqua. Gli abitanti del paese erano costretti a percorrere fino a 12 chilometri a piedi per procurarsela. Qualche volta condivisi con loro questa fatica, suscitando non poco stupore, dato che questo compito è affidato ai ragazzini e non agli anziani».
L’anno seguente il villaggio era collegato all’acquedotto comunale, grazie ai fondi raccolti e inviati dal nonno vigile per pagare le condutture necessarie.
«il ponte della stella»
Nel frattempo padre Angheben era stato trasferito a Weragu, una zona poverissima e isolata, senza acqua né luce né mezzi di trasporto, dove gli unici edifici in muratura sono le strutture della missione, tra cui una scuola con 1.200 alunni e una piccola clinica gestita da due suore polacche, che visitano e curano donne e anziani e somministrano i vaccini ai piccoli.
Anche a Weragu, a contatto con la gente, Giovanni De Marchi non finisce di stupirsi, e racconta: «Queste persone, nonostante la povertà, hanno una grande dignità e non si lamentano mai. Salutavo ed ero sempre ricambiato. Sono stato accolto nelle loro capanne e mi hanno offerto il pane e un bicchiere d’acqua in segno di amicizia: cose talmente semplici a cui noi occidentali non siamo ormai più abituati». Anche qui il nonno vigile ha lasciato la sua impronta, promuovendo la costruzione del ponte sul fiume Minne.
Questo fiume divide la vallata in due; durante la stagione delle piogge è spesso in piena, travolgendo gente e animali che si azzardano ad attraversarlo, rendendo così impossibile l’accesso all’omonimo villaggio per vari giorni, isolando la popolazione dal resto del mondo e impedendo ogni attività della vita sociale: mercato, assistenza medica, accesso alla scuola e alla vita religiosa delle varie comunità. Un guaio soprattutto per moltissimi studenti, costretti a interrompere la frequenza scolastica.
La gente del posto ha cercato di superare l’ostacolo con grossi tronchi di albero gettati sopra le sponde del fiume; una soluzione sempre provvisoria, dato che un ponte del genere veniva spesso spazzato via dalla prima piena del fiume.
Per molti anni la popolazione di Minne fece appello al governo perché costruisse un ponte solido. Ci furono commissioni di studio e di esperti che studiarono la fattibilità del progetto, ma senza mai tradurlo nel concreto. Finché la missione decise di risolvere l’annoso problema con la costruzione di un ponte di grossi tronchi di legno montati su due spallette in cemento armato, ancorate alle rive del fiume, in modo da garantire il passaggio alla popolazione della zona, a macchine e camioncini di portata non superiore ai 35 quintali.
Ma un’altra campagna del signor De Marchi ha permesso la costruzione di un ponte tutto in cemento; lo ha chiamato: «Ponte della stella, della speranza e della solidarietà». «È stato inaugurato nel 2009 – continua il nonno vigile -; è lungo dieci metri e largo quattro; è stato progettato da Antonio Canevaro un geometra italo-etiopico; è costato 16 mila euro, di cui 14 mila donati dai borghesani».
«Rifugio di pace»
Nel mese di marzo del 2010, Giovanni De Marchi è tornato per la terza volta in Etiopia, consegnando a padre Angheben altri 9.600 euro, raccolti come al solito tra la gente e le associazioni di Borgo e della Valsugana, per contribuire alla costruzione della biblioteca del centro giovanile a Debre Selam, nel territorio della missione di Weragu.
Debre Selam (rifugio di pace, in amarico) è una cittadina nel cuore della regione dell’Oromia, centro amministrativo della provincia di Gololcha. Anche qui mancano elettricità, telefono e servizio postale.
La presenza della chiesa cattolica nella provincia del Gololcha risale al lontano 1896, con la fondazione della missione di Minne, da parte dei Cappuccini francesi, i quali anche a Debre Selam aprirono una scuola, che dopo altalenanti vicende fu consegnata all’amministrazione cittadina (vedi riquadro). Padre Angheben è riuscito a ottenere la restituzione del terreno e ad allargarlo, per costruirvi il centro giovanile.
Tra elementari, medie e superiori a Debre Selam fanno capo quasi 5 mila studenti, che frequantano le scuole in città e nelle succursali delle campagne circostanti: una marea di giovani bisognosi di aiuto e accompagnamento nel loro cammino di formazione intellettuale e professionale. Il centro giovanile ideato da padre Paolo Angheben è composto da una biblioteca che offre possibilità di studio e consultazione agli studenti delle scuole superiori in modo particolare; una sala avrà due-tre computer per insegnare le basi dell’informatica e per la ricerca via internet.
Accanto alla biblioteca sarà costruito un centro sportivo con un campo da calcio (60X90 m.), due di pallavolo e uno di pallacanestro, dato che lo sport è un’attività sempre più importante nel cammino di formazione umana e sociale dei giovani e per essi in città non c’è alcuna struttura sportiva. Ci sarà, naturalmente anche una piccola chiesa per offrire loro un cammino di formazione spirituale.
«Il costo del progetto – spiega il signor De Marchi – si aggira attorno a 85 mila euro. A beneficiae non saranno solo i 5 mila studenti, ma anche maestri e impiegati governativi, come la popolazione tutta, che potrà accedere agli impianti sportivi. Ma l’obiettivo principale resta quello di aiutare i giovani di Debre Selam a costruire il loro futuro e rimanere nella loro terra, di dare alla gente etiope, donne, uomini e bambini, le possibilità di vivere  con dignità e in pace».

di Benedetto Bellesi

(Rielaborazione di un’intervista pubblicata su La Finestra  n. 6 – 2010)

Benedetto Bellesi




Il «paradiso» dimenticato

Viaggio in uno stato «semi fallito»

Piccolo stato dell’Africa dell’Ovest ha una storia difficile. Oggi è diventato crocevia del traffico di cocaina. Ma la  popolazione è ospitale e ricca di cultura. Il paese vanta angoli stupendi e incontaminati. I guineani però stentano a prendere in mano il proprio destino.

Si arriva di notte a Bissau. Il caldo e l’umidità ti avvolgono immediatamente. La pista di atterraggio è illuminata grazie ad un generatore, mentre la città è per lo più al buio. Gli spazi appaiono subito ridotti, a partire dalla sala dell’aeroporto. Si tratta di un paese di piccole dimensioni, una superficie di appena 36.120 km2, per cui tutto, per certi versi, è più vicino e semplice. I suoi abitanti sono  un milione e seicentomila e la capitale ha il volto di una cittadella in cui è molto facile incontrarsi. Questo, insieme ad un certo fascino lusitano e ad una natura rigogliosa, la rende amabile, così come paiono subito simpatici e cordiali i guineani.
Ma molte sono le problematiche che il paese affronta.

Una storia travagliata
La Repubblica della Guinea-Bissau1, paese dell’Africa Occidentale, è stata per secoli colonia del Portogallo con il nome di Guinea portoghese. L’indipendenza è arrivata solamente il 24 settembre 1973, dopo una lacerante guerra decennale. È  il Paigc (Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde)  a liberare il paese dal giogo straniero. È un partito di ispirazione socialista, alla cui guida era il carismatico Amilcar Cabral, assassinato da uno dei suoi compagni sei mesi prima dell’indipendenza, la causa per cui si era battuto per più di vent’anni.
Il Paigc ha governato ininterrottamente fino al 1991, ma, dopo aver giocato un ruolo chiave per guidare il paese alla liberazione, non è stato in grado di condurlo allo sviluppo e al buon governo negli anni successivi. Solo nel 1994 si sono tenute le prime elezioni con un sistema multipartitico.
Uscita quindi dal colonialismo solo una trentina di anni fa, la Guinea-Bissau ha attraversato molti momenti di forte instabilità politica2, il cui culmine è stato raggiunto con lo scoppio della guerra civile il 7 giugno 1998. Gli scontri tra l’esercito nazionale e i ribelli sono durati 11 mesi e si sono conclusi con la vittoria dei rivoltosi al comando del generale Ansume Mané e la cacciata del presidente della repubblica João Beardino Vieira, detto Ninho. Si è trattato di una guerra particolarmente traumatica che ha provocato decine di migliaia di profughi, devastato la già debolissima economia e depotenziato le strutture statali.
Gli ultimi anni hanno visto succedersi numerosi golpe e sostituzioni di presidenti e capi delle forze armate. Nel marzo del 2009 nel giro di pochi giorni il presidente della repubblica, João Ninho Vieira (che era stato rieletto nel 2005, ndr.), e il capo di stato maggiore dell’esercito, Tagmé Na Waié, vengono uccisi da un commando militare. E nell’aprile 2010, è avvenuto un tentativo di colpo di stato comandato da due generali dell’esercito, Antonio Idjai e Bubo Na Tchuto, che si risolve con la nomina dei due a ruoli chiave di potere.

stato «fallito»?
Oggi la Guinea-Bissau è definito tecnicamente uno «stato fallito», con un governo che non controlla la totalità del territorio, ed è incapace di assicurare i servizi di base e di sicurezza3. Ha un bilancio statale fortemente deficitario e l’esercito è un apparato indipendente che sfugge ad ogni controllo. Con tali condizioni il paese è diventato il principale crocevia per il traffico della cocaina dall’America Latina all’Europa. Piccoli aerei e navi mercantili sfruttano la particolare conformazione territoriale, che conta uno splendido arcipelago (le Bijagos) di oltre 80 isole, dove non esistono controlli e frontiere. E sono proprio l’esercito e i suoi generali ad essere coinvolti in questi traffici. Secondo l’agenzia antidroga statunitense, la Dea (Drug enforcement administration, ndr.), le organizzazioni criminali colombiane riescono a trasportare ogni giorno circa una tonnellata di cocaina in Guinea-Bissau4. C’è chi oggi parla addirittura di «narco-stato».
Recentemente l’Unione europea ha annunciato di mettere in stand-by il suo programma per la riforma delle forze di sicurezza, uno dei punti strategici per il miglioramento dello stato. Spazientita dal mancato rispetto delle regole dello stato di diritto ha ritenuto impossibile svolgere ancora il suo compito. Per di più, a dicembre 2010, ha minacciato di sospendere del tutto gli aiuti allo sviluppo se la Guinea-Bissau non ristabilirà al più presto una situazione politica un minimo accettabile.
La popolazione vive guardando ai fatti con disincanto, consapevole dei gravi problemi ma troppo occupata dalle fatiche quotidiane. Spesso con la sola speranza di emigrare. Vediamo alcuni dati: oltre due terzi della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno e oltre il 21% con meno di 1 dollaro. L’aspettativa di vita, 45 anni, è tra le più basse al mondo. Si stima che solo oltre la metà della popolazione sia alfabetizzata e poco più di un terzo scolarizzata, nonostante negli ultimi anni stia crescendo molto l’accesso alla scuola, frutto di maggiore consapevolezza nella gente dell’importanza dell’educazione. Il livello di insegnamento, però, rimane scarso: basti pensare che la lingua utilizzata nelle scuole è (quasi sempre) il portoghese ma solo il 10% degli abitanti è in grado di parlarlo correttamente. Infine, il tasso di mortalità infantile è di circa il 13%. La situazione nutrizionale dei bambini dai 6 ai 59 mesi mostra che il 32% soffre di malnutrizione cronica, soprattutto nell’ambiente rurale5. Nell’ultimo periodo poi, con l’aumento generalizzato dei prezzi dei beni primari, le cose rischiano di aggravarsi ulteriormente. Il prezzo del pane e il costo dei mezzi di trasporto pubblici, un bene ed un servizio primari, sono aumentati del 50% in poche settimane.

Le 4 Debolezze
Dal punto di vista macro-economico, il paese presenta quattro elementi di debolezza6. In primo luogo, la Guinea-Bissau ha un elevatissimo livello di dipendenza da un unico prodotto d’esportazione, l’anacardo (castanha de cajù), coltivato dalla maggioranza dei piccoli agricoltori del paese. La scelta di questa pianta è stata fatta dal primo governo indipendente e, se da una parte ha permesso di ricavae dei proventi, dall’altra, ne ha creato una monocoltura che soffoca la differenziazione dei prodotti agricoli. Circa il 5% della superficie totale del paese è coperto dall’anacardo, che rappresenta circa il 98% dei proventi delle esportazioni e il 17% delle entrate complessive dello stato. L’oscillazione del prezzo internazionale ha un impatto molto forte sull’economia e sui contadini guineani.
Il secondo punto debole è la dipendenza dalle importazioni di beni primari come il riso, che in passato era addirittura esportato. Il paese risente perciò gravemente dell’impennata dei prezzi mondiali di questo prodotto. 
In terzo luogo, la Guinea-Bissau ha una rete infrastrutturale molto degradata. Le strade non hanno una sufficiente manutenzione e la presenza di molti fiumi renderebbe necessaria la costruzione di ponti. Inoltre, il porto di Bissau è fatiscente ed avrebbe bisogno di un completo restauro.
Quarto: il governo riceve il 50% delle sue entrate dalla concessione di licenze per la pesca a navi battenti bandiera straniera, le quali portano il pesce in altri paesi. Molto spesso però i dati relativi alle licenze non vengono registrati in modo completo e trasparente, alimentando dinamiche di corruzione.
Dal punto di vista delle risorse minerarie – soprattutto fosfato, bauxite e petrolio – si prospetta che nei prossimi anni possa aumentare il loro sfruttamento, che oggi è ad un livello basso a causa della mancanza di infrastrutture e investimenti (il petrolio non è ancora estratto, ndr).

Una ricchezza intrinseca
C’è un altro settore attualmente ancora poco sfruttato ma che potrebbe portare occupazione e reddito: il turismo. L’arcipelago delle Bijagos è un’attrazione che potrebbe attirare visitatori e turisti. È un sito nominato nel 1996 dall’Unesco «riserva della biosfera», mentre il Wwf l’ha iscritto tra le 200 regioni di particolare importanza ecologica del mondo. Oltre alle bellissime spiagge incontaminate, la sabbia bianca e una varietà impressionante di specie marine (ippopotami, tartarughe e più di 150 diverse specie di pesci), sulle isole abita una popolazione dalle caratteristiche culturali e dalle tradizioni molto speciali. Gente che vive a strettissimo contatto con la natura ed i suoi equilibri. Per cui, anche in questo caso, se venisse sviluppato il settore turistico, occorrerà vigilare perché venga preservata la relazione tra il popolo bijagos e il suo ambiente.
La varietà e la diversità che contraddistingue la Guinea-Bissau passa anche per la quantità di etnie presenti. In una popolazione di piccole dimensioni sono presenti ben 36 gruppi differenti. Il più numeroso è quello dei balanta che raggiunge il 30% della popolazione totale, al quale seguono mandinga, fula, manjaco, pepel e altri. È un’ulteriore ricchezza di questa terra ed è interessante notare che le relazioni tra di essi sono solitamente segnate dalla solidarietà e da un basso livello di conflitto, pur conservando una buona dose di reciproci pregiudizi.
Dal punto di vista religioso il 55% delle persone è legato alla «religione tradizionale» ed è chiamato impropriamente animista. Il 30% è di religione islamica e il 15% circa è cristiano. In generale si può affermare che è una popolazione semplice, pacifica, profondamente religiosa e con un forte senso del sacro. Anche le relazioni tra le diverse confessioni religiose è segnata da rapporti pacifici.
L’animo pacifico, la solidarietà inter-etnica ed inter-religiosa sono sicuramente elementi positivi in un quadro economico e socio-politico non certo consolante. Di fatto, però, si percepisce un certo immobilismo generale nelle persone, abituate da anni a ricevere aiuti, per lo più calati dall’alto. Ed è proprio la logica dell’aiuto di organizzazioni inteazionali, Ong e a volte anche della chiesa che, insieme ad altri elementi storici e culturali, non ha favorito l’intraprendenza e la crescita del paese. Come scrive l’economista Dambisa Moyo7, si tratta di «un’economia aid dependent (dipendente dall’aiuto, ndr), ancorata cioè ai fondi umanitari come unica ma costante e torrenziale forma di sostentamento economico». Con la complice corruzione del governo.
Nel prossimo futuro, c’è da augurarsi che possa esserci innanzitutto stabilità politica e quindi meno potere ai militari. Un clima diverso potrebbe facilitare il lavoro delle tante persone che ogni giorno cercano di costruire una Guinea-Bissau migliore, indipendente e fiera di sé. Senza dimenticare che, come dice il detto criolo, la lingua parlata da tutti i guineani, «sorti sta na pe» (letteralmente, la fortuna viene dai piedi): solo chi muove i propri piedi e non rimane fermo, immobile, in attesa può far sì che buone cose accadano.

di Matteo Ghiglione

NOTE
1 – Al nome originario fu aggiunto quello della capitale Bissau per impedire la confusione con il vicino stato della Guinea, ex colonia francese.
2 – Nei primi vent’anni della sua esistenza (1974-1994) la Guinea-Bissau ha conosciuto cinque capi di governo, mentre nei dieci anni successivi (1997-2007) si sono succeduti ben nove primi ministri.
3 – L’Undp, l’organizzazione internazionale dell’Onu che ogni anno redige la classifica in base all’indice di sviluppo umano, le assegna in tale elenco il 173° posto su 182 paesi (Norvegia al 1° posto, Italia al 18°).
4 – F. Marzano, Il “paradiso” africano dei cartelli colombiani, www.thepostinternazionale.it, 19/02/2011.
5 – Caritas Guinée Bissau, Plano estratégico da Diocese de Bissau 2010-2014, marzo 2010.
6 – Banca Mondiale, Guinée Bissau, Para além de Castanha de Caju: diversificação através do comércio Estudo do Diagnóstico de Integração do Comércio para o Melhoramento do Quadro Integrado Assistência Técnica para Assuntos do Comércio Inteacional, 2009.
7 – Dambisa Moyo, Dead Aid, ed. Farrar, Strauss and Giroux, 2010.

Matteo Ghiglione




Boni piglia tutto

BENIN

Il presidente uscente vince al primo tuo e si proietta verso il
secondo mandato di 5 anni. Ma i disordini non mancano. La gente, però,
sceglie pace e stabilità.

«10 ans», questo dicevano le t-shirt distribuite durante la campagna elettorale per le presidenziali 2011-2016 a favore del candidato, inquilino uscente della Marina, Tomas Yayi Boni e l’obiettivo è stato raggiunto. I beninesi hanno riconfermato la fiducia nel «dottore» ed il mandato (salvo prevedibili eccezioni) della massima carica dello stato si concluderà nel 2016. Il risultato è stato più confortante delle migliori aspettative dei sostenitori della mouvance (appellativo con cui è conosciuta la coalizione sostenitrice del presidente uscente). Pochi, o forse nessuno, infatti si aspettavano che la Fcbe (questo il nome dell’alleanza Forces Cauris pour un Bénin Emérgent) potesse ottenere più della metà dei consensi già al primo tuo (53% dei voti) evitando così un ballottaggio, dato alla vigilia per scontato, soprattutto dopo una campagna elettorale dai toni così aspri. Manifesti dai messaggi altisonanti e minacciosi erano apparsi per le strade, con accuse di corruzione e di malversazioni da parte delle forze politiche di opposizione.

La legge elettorale ed il censimento degli aventi diritto avevano scatenato proteste e dato adito a violente accuse di frode. Alcune manifestazioni e incidenti si erano verificati in febbraio e marzo (da segnalare una manifestazione contro la Delegazione dell’Unione europea a Cotonou, principale finanziatore della Lepi, la lista elettronica elettorale) e la data delle elezioni è stata posticipata, per permettere di calmare le acque, dal 6 al 13 marzo. Tutti i partiti e movimenti d’opposizione uniti contro Boni. Le forze politiche avversarie (tradizionalmente legate a notabili locali e a zone geografiche ben precise), si erano infatti unite in una forza compatta dal nome Un (l’Union fait la Nation) guidati da una delle figure più influenti della storia democratica del paese, Adrien Houngbedji, noto e stimato avvocato, già sindaco della capitale politica Porto Novo e primo presidente della Camera dei deputati dopo il ritorno della democrazia nel 1991. L’Un aveva l’ambizione di convogliare il malcontento dei cittadini, delusi dalla politica del governo in carica da cinque anni. E l’operazione sembrava, di primo acchito, avere delle buone possibilità di successo, in quanto sanciva un patto elettorale tra i due partiti politici più influenti del panorama nazionale: il Prd (Parti du Renouveau democratique) di Adrien Houngbedji appunto e Rb (Rainaissance du Bénin) guidato dalla potente famiglia del primo presidente eletto del paese, Nicéphore Soglo. Purtroppo per i loro leader, la manovra non ha dato i risultati sperati e allo scrutinio del 13 marzo scorso, la coalizione ha raggiunto solo il 35,6% dei consensi.

La coalizione Un contava soprattutto sui voti dei cittadini del Sud del paese avendo sancito un tacito patto di non aggressione con un altro uomo politico che, alla vigilia delle presidenziali aveva creato grandi aspettative attorno alla propria candidatura: Abdullhay Bio Tchane. Quest’ultimo, la cui lista si chiamava semplicemente Abt, dalle iniziali del nome, doveva convogliare su di sé il voto di protesta del Nord, bacino elettorale del presidente uscente, ma non ha centrato il bersaglio. Abt è riuscita a racimolare solo il 6,4% dei consensi, nonostante un investimento e una visibilità pari agli altri candidati principali. A detta di molti, il successo del «dottore», Yayi Boni, più che la vittoria di una politica riuscita o il consenso verso la forza politica in carica, è stata frutto della volontà di pace dei cittadini beninesi che, alzandosi i toni elettorali, hanno preferito riconfermare Boni,  magari turandosi il naso, per paura di possibili scontri post elettorali. Il Benin è conosciuto in Africa per la sua tradizione pacifica ed anche in questa occasione ha dato prova della sua fama.

di Pietro De Nicolai da Cotonou

Pietro De Nicolai




Fuochi e speranze a Sud del Sahara

2011: cosa si muove nei paesi africani

La Costa d’Avorio stenta a ritrovare la pace, dopo 10 anni di guerra civile, mentre in Nigeria le elezioni scatenano violenze e morti. Intanto nel tranquillo Burkina Faso arriva un po’ di vento del Nord Africa e il «regno» di Blaise scricchiola. E nel piccolo Benin le elezioni si svolgono con relativa calma.

L’Africa dell’Ovest è una regione geopolitica a Sud del Sahara, composta da 15 paesi di area francofona, anglofona e, in minor parte, lusofona (si veda cartina pag. 51). Stati con storie simili di colonizzazione e indipendenza, e una gran varietà di popoli che, come spesso accade in Africa, sono divisi da frontiere artificiali, dettate dal colonialismo.
Esistono due grosse organizzazioni regionali: l’Unione economica e monetaria dell’Africa dell’Ovest (Uemoa) e la Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao, Ecowas in inglese).
La prima, nata nel 1994 dalla Umoa (Unione monetaria) del 1963,  ha come missione l’integrazione economica degli stati e dovrebbe favorire gli scambi commerciali e l’armonizzazione giuridica per arrivare a un mercato comune. Vi fanno parte solo paesi francofoni ad eccezione della Guinea-Bissau1, e hanno una moneta comune, il franco Cfa (nato ben prima dell’avvento dell’euro), che aveva un cambio fisso con il franco francese e ora con l’euro. Una regione di circa 80 milioni di abitanti, 3,5 milioni di km quadrati e un Pil (2009) di 67,9 miliardi di dollari (da confrontare con la prima economia mondiale, gli Usa, circa 15.000 miliardi o l’Italia, settima, ancora per poco perché superata dal Brasile, con 2.300 miliardi).
La Cedeao, nata nel 1975, è un organismo inter-governativo che ha come obiettivo quello di promuovere l’integrazione economica a livello di tutta l’Africa occidentale, ma anche mantenere la pace, sempre come presupposto al buon funzionamento dell’economia. Ne fanno parte 15 stati di varia area linguistica2: di fatto tutta la zona geopolitica nota come Africa dell’Ovest.
Negli ultimi mesi, in alcuni paesi ci sono stati movimenti e cambiamenti importanti. Ci siamo occupati del Niger nel numero di MC giugno-luglio: una storia positiva nel panorama del processo democratico in Africa. Esaminiamo ora alcuni altri accadimenti importanti che influenzano tutta l’area.

Nigeria
Le due «P»: potere e petrolio
Paese più popoloso dell’Africa, con i suoi 155 milioni di abitanti e una crescita demografica del 2,3%, la Nigeria è un vero gigante del continente.
A livello regionale, se il Pil di tutti i paesi Cedeao messi insieme nel 2008 era di 302 miliardi di dollari (il 38esimo posto nella classifica delle economie mondiali), due terzi era costituito dal Pil della Nigeria (207,1 miliardi). Questa si contende con l’Egitto il secondo posto come economia africana, mentre il primo, con grande distacco è occupato stabilmente dal Sudafrica.
Ma la Nigeria è soprattutto il primo produttore africano di petrolio (tallonato dall’Angola), con i suoi 2,5-2,6 milioni di barili al giorno. Il greggio, di ottima qualità, si estrae soprattutto nel delta del fiume Niger, quindi negli stati del Sud.
Il paese è una federazione di 36 stati più la capitale federale Abuja, che godono di larga autonomia. Nel Sud la popolazione è in prevalenza cristiana, mentre nel Nord sono maggioritari i musulmani.
Questi sono solo alcuni ingredienti che spiegano perché le molteplici tornate elettorali dello scorso aprile siano state precedute e seguite da violenti scontri.
Dal 2 al 26 aprile 73 milioni di nigeriani sono stati chiamati ad eleggere il senato, il presidente della federazione, i governatori degli stati e i parlamenti regionali.
Poco prima della consultazione più importante, quella presidenziale, si erano già verificati degli attentati. Il 9 aprile a Suleija, nel centro del paese, gli scontri avevano portato a 13 morti, mentre il giorno stesso dello scrutinio, a Maiduguri (Nord-Est) due bombe erano esplose senza causare vittime.
Il presidente uscente Goodluck Jonathan (53 anni) ha vinto le presidenziali con un bottino di 22 milioni di voti (57%), mentre il suo sfidante più pericoloso, l’ex dittatore Muhammadu Buhari, 69 anni, uomo del Nord, appoggiato dall’elettorato musulmano, ne ha ricevuti 12 milioni (31%).

Baciato dalla fortuna
Jonathan, già vicepresidente, divenne presidente alla morte di Oumarou Yar’Adua, nel maggio 2010. Il suo partito, il PdP (Partito democratico del popolo) ha sempre vinto le elezioni, dal 1999, con la fine della dittatura. Ma è regola non scritta, che i presidenti della Nigeria, pur dello stesso partito, si alteino tra cristiani e musulmani. La conferma di Jonathan va contro questa consuetudine esacerbando gli attriti tra i due gruppi. Sebbene poi gli osservatori dichiarino che le elezioni si sono svolte in modo globalmente corretto, i risultati in alcuni stati del Sud (95% o 99% per Goodluck) hanno fatto sospettare frodi denunciate dal partito di Buhari.
Così il Nord musulmano è «scoppiato» e la Croce Rossa ha parlato di 400 feriti, 70.000 sfollati e circa 500 morti nelle città di Kano, Kaduna, Zaria, Sokoto e altre. Gli scontri sono giunti fino a Jos, nel centro, città «confine» tra le maggioranze delle due religioni. Nonostante gli appelli alla calma di Buhari, che ha presentato un ricorso ufficiale, la folla inferocita ha attaccato e bruciato case, chiese e negozi. E spunta il nome di Boko Haram – una setta che si batte per la creazione di uno stato islamico nel Nord del paese – come possibile responsabile di alcuni attentati con uso di bombe.
Occorre ricordare che il Nord è più povero del Sud e, soprattutto, si calcola che il 70% della popolazione nigeriana non beneficia delle rimesse dovute al petrolio.

Burkina Faso
«Roi» Blaise barcolla
Paese saheliano tra i più poveri del mondo (sempre tra gli ultimi nella classifica dell’indice di sviluppo umano del Pnud), il Burkina Faso si è costruito la fama di «paradiso delle Ong». Questo anche grazie a una «stabilità politico-sociale» che lo contraddistingue dal 1987, quando il 15 ottobre fu assassinato il presidente Thomas Sankara, e Blaise Compaoré prese il potere con la forza.
Ma Blaise – come viene comunemente chiamato dalla popolazione – non aveva mai visto vacillare così la sua poltrona in quasi cinque lustri come nei primi mesi di quest’anno. Fa eccezione il 1999, quando dopo l’assassinio del popolare giornalista investigativo Norbert Zongo, si creò un grosso movimento popolare di protesta.

Il vento del Nord
Forse per l’influsso del «vento del Nord Africa», o forse per l’aumento spropositato del prezzo dei beni di prima necessità, anche gli animi dei tranquilli e operosi burkinabè si stanno scaldando.
Ma vediamo i fatti. Il 20 febbraio muore in circostanze misteriose lo studente Justin Zongo. Era agli arresti a Koudougou. Gli studenti delle scuole superiori della città manifestano contro il governo. La protesta si estende alle università e a diversi centri del paese. Assume anche risvolti violenti con incendi di macchine e uffici.
Tra il 22 e fine marzo sono i militari a protestare. Da Ouagadougou (capitale) a Fada N’Gourma, da Komboissin a Pô (confine con il Ghana). Chiedono la liberazione di alcuni loro commilitoni, arrestati per soprusi contro i civili (tra cui anche stupri). Spari e saccheggi si susseguono. I militari devastano le abitazioni di alcuni alti ufficiali, compreso il generale Dominique Djindjéré, capo di stato maggiore. Il governo minimizza parlando di «giovani soldati». Ma i militari arrestati vengono liberati e la magistratura a sua volta protesta. Per la prima volta in 24 anni viene istituito il coprifuoco notturno. Il presidente fa un discorso alla nazione per calmare gli animi. E organizza diversi incontri con i vertici militari.
A Ouagadougou si dice che siano soldati che hanno appoggiato l’avanzata delle truppe di Ouattara in Costa d’Avorio (non ufficialmente, vedi oltre), che una volta ritirate, prima della battaglia di Abidjan per non essere visibili, non hanno poi ricevuto il premio promesso.
La gente non ci sta
Ma un movimento più ampio della società civile sta prendendo piede. Protesta contro l’aumento del costo della vita e le disuguaglianze sociali. In Burkina, di 16 milioni di abitanti, circa la metà sopravvive con un euro e mezzo al giorno. L’aumento dei prezzi del carburante e il conseguente aumento di tutti i prodotti più importanti (riso, olio, zucchero, ecc.) accende il malessere della popolazione. L’8 aprile una grande manifestazione – si parla di alcune decine di migliaia di persone, tante per il paese – attraversa le vie della capitale per chiedere misure concrete contro il carovita, ma anche contro corruzione, impunità e mal governo. È organizzata dal Comitato di lotta contro il caro vita (Ccvc), associazioni di consumatori e sindacati.
Ma il momento più critico per il potere arriva la sera del 14 aprile: ammutinamento in seno alla guardia presidenziale, corpo scelto che deve proteggere il presidente, e il cui quartier generale è proprio dietro il palazzo presidenziale. Blaise fugge e si rifugia nella sua città di origine Ziniaré, a una trentina di chilometri dalla capitale. Altre caserme si ribellano. I militari escono nelle strade sparando, saccheggiano negozi, rubano macchine. Commettono violenze. I commercianti in collera per questi soprusi manifestano a loro volta. Scene mai viste in Burkina Faso.

Misure «paliative»
Blaise scioglie immediatamente il governo (15 aprile) e nomina il tecnico moderato Luc-Adolphe Tiao primo ministro. Tiene però il portafoglio della Difesa per sé. Ancora coprifuoco. Il presidente cambia diversi vertici militari.
Poi il colpo ad effetto: decide di sovvenzionare tre prodotti alimentari di largo consumo: riso, zucchero e olio, abbassandone il prezzo «per tre mesi». Concede premi extra ai militari, indennizza alcuni commercianti e cerca di imbonirsi la classe dei funzionari migliorando le condizioni salariali. Per fare questo «sbilancia» ulteriormente il budget dello stato, che funziona per oltre la metà grazie ad aiuti estei.
Ma i militari creano ancora disordini a Bobo-Dioulasso, seconda città del paese, a inizio giugno. E i commercianti, per rappresaglia, danno fuoco al municipio. Questa volta il governo cambia strategia e decide per la repressione inviando alcuni reparti scelti. Sette sono i morti, sei militari e una ragazza e decine i feriti.
Gli analisti si interrogano su quanto il potere Compaoré potrà ancora tenere, mentre da mesi ormai, si parla di una modifica costituzionale che permetterebbe al presidente di candidarsi per più di due mandati. Blaise si potrebbe ripresentare nel 2015.

Costa d’Avorio
La «locomotiva»
riuscirà a ripartire?
La Costa d’Avorio ha finalmente un nuovo presidente: Alessane Dramane Ouattara – Ado per i suoi sostenitori – vincitore delle elezioni di fine novembre scorso, ha potuto insediarsi il 21 maggio. Una delle due «locomotive» economiche dell’Africa dell’Ovest (insieme alla Nigeria) può forse pensare a ripartire. Locomotive perché le loro economie «trainano» tutte quelle deboli dei paesi della regione. La Costa d’Avorio, nonostante viva da dieci anni una stagione di grande instabilità politica e sociale, ha infatti un Pil pari a un terzo di tutta l’Uemoa (vedi tabella pag. 51). Il paese ha diverse industrie, ed è produttore di petrolio, ma soprattutto è il primo esportatore mondiale di cacao.
Dopo il ballottaggio delle elezioni presidenziali il 28 novembre, perse da Laurent Gbagbo, questi non ha voluto sapee di separarsi dal potere e si è auto proclamato vincitore (vedi MC febbraio 2011).
Nonostante gli appelli della comunità internazionale, Gbagbo ha fatto precipitare, ancora una volta, il paese nella violenza, acuendo la divisione tra Nord e Sud, tra gruppi etnici distinti, e scatenando i soprusi dei gruppi armati sulla popolazione civile. Nei due campi contrapposti. Gbagbo si è avvalso dei suoi miliziani fedeli, i Jeunes patriotes, giovani esaltati al soldo del presidente e al comando dell’oscuro personaggio Charles Blé Goudé, affiancati da mercenari liberiani. Ouattara, e il suo esercito delle ex Forze nuove (oggi Forze repubblicane della Costa d’Avorio), si è fatto aiutare dal Burkina Faso. Ad appoggiarlo politicamente nella regione, anche Senegal e Nigeria. Ma è stato grazie all’aiuto militare della Francia, ex potenza coloniale, alla quale Gbagbo aveva girato le spalle, per avvicinarsi a Usa e Israele, e alle Nazioni Unite3, che Ouattara è uscito vincitore dalla «battaglia di Abidjan», durata dieci giorni dal primo all’11 aprile. Gbagbo, asserragliato nel suo quartier generale, aveva resistito con ogni mezzo, respinto ogni negoziato. Così in poco meno di sei mesi sono stati oltre 3.000 i morti a causa degli scontri e delle persecuzioni che si sono innescate nei due campi4. Una crisi umanitaria con centinaia di migliaia di sfollati interni o sconfinati in Liberia. Una città, Abidjan, di oltre 6 milioni di abitanti (la seconda in Africa dell’Ovest dopo Lagos, Nigeria), messa sotto sopra, saccheggiata e devastata. Vittime che si sarebbero evitate, come le ulteriori ferite all’unità del paese, se Laurent Gbagbo avesse accettato il risultato delle ue e l’alternanza dopo dieci anni di presidenza (di cui gli ultimi cinque, protratti artificialmente a causa del conflitto).

Dividendi francesi
Molti vedono dietro la vittoria militare di Ouattara un ritorno della Francia come potenza ex coloniale. È chiaro che Nicolas Sarkozy, presidente francese, dalla Libia alla Costa d’Avorio sta cercando di riprendere posizioni sul continente africano.
Nel primo discorso il nuovo presidente ha parlato delle grandi sfide che lo aspettano, prima fra tutte «Riconciliare e riunire la Costa d’Avorio». Tra le sue priorità c’è quella di riportare la sicurezza, perché il paese è diventato invivibile, a causa delle armi in circolazione e delle milizie. Occorre riunificare l’esercito, mettendo insieme i nemici di ieri: le Forze repubblicane (di Ouattara) e quelle filo Gbagbo. Ma anche rilanciare l’economia: questo darebbe impulso a tutta l’area Uemoa. I primi carichi di cacao sono iniziati a ripartire all’indomani dell’arresto di Gbagbo. La crisi ha anche bloccato il passaggio delle merci verso i paesi dell’interno: Mali, Burkina Faso e Niger.
Alassane Ouattara ha annunciato un «governo di unità nazionale» dicendo che «membri moderati dell’Fpi (Fronte patriottico ivoriano, partito di Gbagbo, ndr.) potranno fae parte». Come primo ministro, a sorpresa, è riconfermato Guillaume Soro, già capo dell’esercito ribelle (Forze Nuove) e poi primo ministro di Gbagbo sulla base degli accordi di pace. Si pensava a un uomo del Pdci (Partito democratico della Costa d’Avorio), il partito dell’ex presidente Henri Konan Bedié, arrivato terzo e che ha appoggiato Ouattara al ballottaggio. Invece Soro, «in accordo con Bedié», sarà primo ministro almeno fino alle legislative, che il presidente promette entro fine anno. L’ex ribelle mantiene anche il portafoglio della difesa.

La coppia della discordia
E Laurent Gbagbo? Arrestato con sua moglie Simone (personaggio ritenuto da molti estremista) è in una località del Nord. Ouattara assicura che sarà giudicato dalla giustizia ivoriana, ma anche dalla Corte penale internazionale, per quanto riguarda i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Il presidente ha anche creato la «Commissione per il dialogo, la verità e la riconciliazione», con il delicato compito di aiutare la pacificazione. Il paese più importante dell’Africa dell’Ovest francofona, che dopo una lunga transizione stava ritrovando l’unità, è stato nuovamente scioccato e diviso, a causa di politici senza scrupoli. Le sfide dell’attuale dirigenza restano enormi: prima fra tutte curare le ferite generate dalla guerra civile e riconciliare la popolazione.

di Marco Bello

NOTE
1 – Fanno parte dell’Uemoa: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo.
2 – Oltre agli stati dell’Uemoa, fanno parte della Cedeao: Capo Verde, Gambia, Ghana, Guinea, Liberia, Nigeria e Sierra Leone. La Mauritania è uscita nel 2000. www.ecowas.int.
3 – L’Onuci, missione dei caschi blu in Costa d’Avorio, è presente nel paese con 10.000 militari dall’aprile 2004. I francesi hanno 1.400 uomini della Forza Licoe (rinforzata per l’occasione) nella base di Port Bouët vicino Abidjan. La Licoe ha come missione il sostegno delle forze dell’Onu e la protezione dei francesi, molto numerosi in Costa d’Avorio.
4 – Il rapporto di Human Rights Watch pubblicato il 2 giugno, ha raccolto testimonianze di 149 morti del campo pro Gbagbo, nei giorni successivi all’arresto dell’ex presidente e di 220 morti ad opera degli uomini di Gbagbo nei giorni subito precedenti.

Marco Bello




Dentro le mura

La difesa della fortezza

Al suo interno la «Fortezza» si organizza per respingere gli invasori. E con i «patti bilaterali» si militarizzano le coste di partenza dei migranti. Si crea così Frontex, agenzia comunitaria a «protezione delle frontiere». Ma i danni «collaterali» sono le vittime dei respingimenti. E le associazioni di volontariato cercano di dare soccorso.

Melilla, spagna
«Era l’ottobre del 2005 – ricorda Giorgio Calarco, di Medici senza frontiere, all’epoca medico attivo sul territorio di Nador, cittadina marocchina cresciuta intorno all’enclave spagnola di Melilla – mi hanno telefonato in piena notte: i militari marocchini stavano deportando oltre 600 persone nel deserto tra Marocco e Algeria, nei pressi di Rachidi. Avevano cercato di scavalcare la rete di Melilla tutti insieme, la polizia ha sparato uccidendo 6 persone, ha arrestato gli altri e li ha caricati su due pullman.
Il giorno seguente siamo partiti per cercarli, abbiamo visto i segni degli pneumatici dei pullman che facevano dietro front nel deserto e li abbiamo trovati. Molti avevano ancora ferite sanguinanti, mal medicate e ormai infette. Ci hanno detto che 13 persone erano morte nella notte. Ma non abbiamo mai trovato i corpi».
Nel gruppo, ricorda Calarco, c’era anche un signore distinto con un completo grigio e le ciabatte ai piedi: era un maliano che, uscito di casa senza portare con se i documenti in regola, era stato arrestato e deportato nel deserto con gli altri.
L’incredibile racconto di Giorgio Calarco testimonia gli «effetti collaterali» dei cosiddetti patti bilaterali realizzati dai paesi europei con paesi non comunitari in materia di «lotta all’immigrazione clandestina». Nel tentativo di fermare i «flussi di migranti» e «preservare lo status quo» dei «propri» cittadini.
La Spagna del socialista Zapatero, è stata tra i primi paesi ad adottare queste politiche: a partire dal 2004 ha promosso il «Sistema integrale di vigilanza esteriore» (Sive), realizzato grazie alla cooperazione poliziesca con le forze dell’ordine marocchine. Il sistema è basato su un accordo di riammissione in Marocco dei migranti entrati illegalmente in Spagna e sulla realizzazione di pattuglie miste ispano marocchine a controllo delle frontiere delle due enclave spagnole, in cambio di ingenti aiuti al «paese emergente». Il Sive, dal punto di vista dei numeri, ha sicuramente dato i suoi frutti.
L’estealizzazione dei controlli sui migranti oltre la frontiera dell’Unione europea (Ue) apparentemente è riuscita a frenare l’ingresso in Europa dal Marocco, impedendo che il paese arabo continuasse ad essere il terminale delle partenze dei subsahariani verso la Spagna e il continente. Ma non sono stati tenuti presenti i possibili effetti «collaterali», che sono risultati essere molto rilevanti. La chiusura della via marocchina ha infatti incrementato le partenze per mare dalla Mauritania, da dove solo nei primi tre mesi del 2006 sono giunti alle isole Canarie circa 3.000 migranti (per la maggior parte senegalesi e maliani). E quando il governo di Madrid ha provveduto a «militarizzare» anche la costa mauritana, le partenze si sono spostate sempre più a Sud, fino ad arrivare al Senegal e ai paesi del Golfo di Guinea. A costo di un numero impressionante di morti annegati. E quando anche questa via è stata «militarizzata», i flussi migratori hanno cambiato rotta, passando da Tunisia e Libia, per arrivare in Europa attraverso l’Italia.
Lampedusa, italia
Il Guardacoste G 107 «Carreca» della guardia di finanza e la motovedetta della capitaneria attraccano alla banchina del porto di Lampedusa. Sbarcano il loro «carico umano» e lo consegnano alle autorità portuali: 163 migranti salpati dalle coste libiche e soccorsi a 24 miglia marine dall’isola siciliana.
Il tenente della guardia di finanza Rosario Vicedomini, comandante dell’operazione, consegnati i migranti si concede un po’ di tregua: «La costa di Lampedusa è l’avamposto dell’Europa nel Mediterraneo, e appena ci sono due giorni di bel tempo arrivano i barconi di clandestini. L’unico modo per arginare il fenomeno è collaborare con i paesi di partenza, come si è fatto per le coste dell’Adriatico. Grazie anche al miglioramento delle condizioni di vita, oggi da paesi come l’Albania o il Montenegro il traffico di persone via mare è stato fermato».
Il tenente Vicedomini ricorda come la politica di contrasto all’immigrazione clandestina dai paesi dell’Est Europa degli anni ‘90 sia passata non solo attraverso operazioni di «polizia internazionale», ma anche grazie a politiche di cooperazione allo sviluppo con i paesi d’origine. L’Ue oggi sembra aver intrapreso un’altra strada: la creazione di una cintura realizzata dall’agenzia comunitaria Frontex (vedi box, www.frontex.europa.eu), un vero e proprio esercito, con navi, aerei, uomini, armi, e reparti speciali. Con il compito di tenere fuori «l’altro», di evitare che «lo straniero» arrivi sul territorio comunitario.
Nel mondo oggi è in corso una vera e propria guerra al «diritto di migrare». Una guerra che, come tutte le guerre, ha purtroppo dei danni collaterali. Che sono i morti alle frontiere. I dispersi. I respinti che non riescono ad arrivare in Europa né a tornare indietro. Persone che, secondo il censimento fatto da Gabriele Del Grande sul sito «Fortress Europe» (http://fortresseurope.blogspot.com, vedi box, intervistato su MC dicembre 2009), la fonte più attendibile a livello comunitario, in 10 anni sono almeno 16 mila. Restando a quelle che è stato possibile individuare.
Senza contare poi le migliaia di «stranded», quelle persone che rimangono bloccate in piccole realtà del deserto o grandi città costiere africane, di cui ha raccontato in modo magistrale Fabrizio Gatti nel suo diario di viaggio «Bilal» (Rizzoli 2007), perdendo a poco a poco la capacità di reagire ai soprusi.
Una strage spaventosa sulla quale si esercita sistematicamente la rimozione, sulla quale la scelta collettiva è quella di volgere lo sguardo altrove.
«Non dico sia una situazione nazista – dichiara Luca Rastello, autore di La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani (La Terza 2010) – non voglio paragonarla alle grandi tragedie del Ventesimo secolo, ma è un fenomeno che può degenerare, una situazione che, nelle modalità con cui si sta realizzando, ha qualcosa di goebbelsiano».

Patrasso, Grecia
«In Grecia è facile entrare. Il difficile è uscie» dice Hamid, afghano di 14 anni, accampato con altri 500 connazionali nella «forest», come la chiamano loro, un grosso uliveto alla periferia est di Patrasso. Braccato dalle forze dell’ordine, attende il momento di imbarcarsi per l’Italia. Ogni due tre giorni la polizia arriva all’alba, distrugge le baracche di teli e cartoni, arresta quattro o cinque ragazzi e va via. «Non si tratta solo di esecuzione degli ordini, ma di atti di brutalità degli agenti di polizia» denuncia Johannis Lamprous, dell’associazione umanitaria Kinisi. «Picchiano i ragazzi, li insultano, rubano loro soldi e cellulari e spesso orinano sui loro materassi».
Brutalità e negazione dell’accoglienza. Queste le strategie messe in campo da Atene per contrastare l’immigrazione clandestina. Tanto che in Grecia, che con il tasso del 2% di riconoscimento dello status di rifugiato, contro la media Ue del 20%, è il paese meno «accogliente» dell’Unione, nessun immigrato vuole rimanere.
Il Consiglio d’Europa e le Nazioni Unite hanno più volte puntato il dito contro la Grecia accusandola di non essere in grado di garantire protezione a migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Nel mese di aprile 2008 poi, la Finlandia per protesta ha annunciato che avrebbe interrotto i trasferimenti dei migranti non europei provenienti dalla Grecia, mentre la Germania e la Svezia hanno limitato la sospensione dei trasferimenti ai soli minori non accompagnati. Secondo i principi del «Regolamento Dublino II» infatti, i migranti senza documenti richiedenti asilo, devono restare nel paese europeo d’ingresso ad attendere risposta. Senza possibilità di spostarsi in altri paesi membri. Si tratta di un regolamento criticato da più parti. Contro cui ha espresso le sue perplessità anche l’Alto Commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani Thomas Hammarberg. Dichiarandosi favorevole alla: «Proposta della  Commissione europea di un meccanismo che sospenda i trasferimenti e che dia sollievo agli Stati sotto elevata pressione. Un sistema simile potrebbe aiutare a garantire i richiedenti asilo e le loro domande».
Si tratta di una richiesta di modifica delle norme su cui insistono in modo particolare i paesi della frontiera meridionale dell’Ue, ovvero Italia, Francia, Spagna e Grecia. Interessati in questi giorni dall’arrivo di migliaia di persone dalla sponda Sud del Mediterraneo. Paesi a cui Bruxelles ha sostanzialmente delegato la «gestione dei flussi dei migranti» verso l’Europa intera. Una delega finalizzata alla creazione di un «cuscinetto» che preservi l’Unione e, in specifico, metta definitivamente «al riparo» gli Stati centrali. Paesi centrali che, in termini di accoglienza, molte volte hanno già dato più dei loro alleati mediterranei. Una delega che, alcune volte, mette purtroppo i paesi dell’Europa meridionale al riparo da possibili «richiami» dell’Unione per la violazione dei diritti giuridici ed umani nei confronti dei migranti. In un meccanismo di do ut des.

Calais, Francia
Sono le sette del mattino, e dagli ingressi di «Casa Africa» di rue Des Scartes, dietro la stazione del treno di Calais, arriva il rumore dei fischietti dei ragazzi di No Border. No Border è un network europeo di persone che si adoperano per l’aiuto agli immigrati clandestini, che in Calais ha un forte nucleo. Il fischio aumenta, la confusione pure, e nel giro di pochi secondi arrivano sette furgoni a sirene spiegate da cui scendono di corsa una ventina di poliziotti. Sudanesi, eritrei, etiopi, somali ed altri ancora salgono sui tetti. Alcuni vengono fermati e caricati sui mezzi. Ci sono uomini in divisa della Polizia locale di Calais, della gendarmeria nazionale, della polizia nazionale e addirittura i «famosi» Crs, gli uomini della Compagnies Républicaines de Sécurité, corpo della Polizia nazionale francese con funzioni antisommossa. Alcuni brandiscono delle scale telescopiche per salire sui tetti. Ma dopo mezzora, improvvisamente, tutti gli uomini in divisa risalgono sui loro mezzi e se ne vanno. In pochi minuti i migranti scendono dai tetti dell’edificio urlando di gioia.
«Gli immigrati clandestini a Calais vivono in condizioni spaventose – spiega Sylvie Copyans, dell’Associazione Salam -, in immobili occupati abusivamente, o nel bosco. Trattati come cani dalla polizia. Vengono percossi e poi arrestati. Le loro baracche vengono distrutte col fuoco. La polizia non può mandarli a casa così rende la loro vita quanto più orribile possibile. È una caccia all’uomo. Conoscete il film “Welcome” di Philippe Lioret? La sceneggiatura l’abbiamo scritta proprio qui, nel tavolino a fianco». Il film, del 2009, aveva suscitato un certo scalpore in Francia e nel resto d’Europa. Raccontando la vita e le peripezie degli immigrati clandestini bloccati a Calais in attesa di passare in Inghilterra. Per realizzarlo regista e sceneggiatore sono stati insieme a Sylvie e agli altri volontari di Salam per più di un anno. In molti pensavano che il film avrebbe avuto la forza di «scuotere le coscienze» della gente e, soprattutto, dei governanti di Parigi. Che la Francia, patria della Liberté, Egalité, Frateité si indignasse e trovasse un rimedio per queste persone in difficoltà. Ma così non è stato. Anzi. La situazione dei migranti che continuano a vivere braccati dalle forze di polizia è peggiorata. Oggi vengono utilizzati come pedine di scambio tra Italia e Francia per la revisione di una fallimentare politica europea sull’immigrazione. Che negli ultimi 10 anni invece di puntare sulla cooperazione internazionale con la società civile dei paesi del Sud del Mediterraneo è scesa a patti con i loro regimi retti da presidenti poco democratici come Zine El-Abidine Ben Ali in Tunisia, Abdelaziz Bouteflika in Algeria, Mohammed VI  in Marocco o Muammar Gheddafi in Libia.

di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Fuori le mura

Cosa pensa chi tenta di entrare

Introduzione

«Fortezza Europa»

Esistono alcuni luoghi ai confini dell’Europa mediterranea diventati ormai un simbolo nell’immaginario delle persone. A Nord come a Sud. Nel bene e nel male. Sono «terra promessa» e «barriera all’invasione». Sono «speranza di vita» e «difesa dello status quo». Sono «porta d’ingresso» e «portone sbarrato».

Si tratta di Patrasso, Lampedusa, Calais e Melilla. Quattro luoghi di paesi mediterranei: Grecia, Italia, Francia e Spagna. Sono nomi che corrono di bocca in bocca da Kinshasa a Abidjan, da Khartoum a Asmara, da Baghdad a Kabul. Alimentando leggende e sogni. Nomi sui quali si investono denaro e, spesso, la stessa vita. Ma anche luoghi in cui i paesi europei tentano di mettere in atto le loro direttive in materia di «lotta all’immigrazione clandestina». Concentrano forze di polizia per bloccare l’ingresso alle popolazioni dal Sud del mondo. Sono luoghi diventati, loro malgrado, il simbolo dei gendarmi dell’Europa.

Si tratta di due immagini contrapposte di uno stesso luogo geografico. Una vista dal Sud e una dal Nord del mondo. Sono luoghi in cui vengono alla luce in maniera netta due letture del mondo. Località dove le differenze e le ingiustizie che, all’inizio del terzo millennio continuano ad aumentare, vengono esasperate. Da una parte un «Nord ricco» e dall’altra un «Sud povero» del pianeta.
Due punti di vista che vanno raccontati attraverso le testimonianze delle persone raccolte in questi luoghi simbolo. Migranti, forze di polizia, operatori sociali, medici, volontari delle Ong, residenti. Per capire davvero di cosa si parla quando si dice «Fortezza Europa».

Fuori le mura

Le rotte dei flussi migratori sono dinamiche, variano a seconda degli eventi e del clima. È come un fluido che tenta di entrare non appena si apre una falla. E i gendarmi europei corrono a chiudere il buco. Ma subito si forma un’altra breccia.

Melilla, spagna
«Fratello, questa è una guerra. Soltanto Dio sa come andrà a finire. Ho tentato di scavalcare la valla (rete posta a protezione della frontiera spagnola di Melilla) tre volte. Mi hanno sempre preso. Mi hanno picchiato e riportato alla frontiera con l’Algeria. Qui dal Marocco è sempre più difficile passare». Ibrahim, camerunese di 25 anni, ha lo sguardo basso sulla terra brulla della foresta di Oujda, città marocchina al confine con l’Algeria. È in Marocco ormai da 2 anni e mezzo, e la doppia recinzione di rete e filo spinato alta 6 metri che circonda i 12 chilometri quadrati della cittadina di Melilla, enclave spagnola in terra d’Africa, è diventata la sua ossessione. «Per passare la rete bisogna avere dei jeans, un giubbotto a maniche lunghe e dei guanti di cuoio – spiega Sibo Kamara, ivoriano trentenne seduto a fianco a Ibrahim – altrimenti il filo spinato in cima alla barriera ti strappa la pelle. Si scavalca la prima rete con una scala e se ne lancia un’altra per scavalcare la seconda. Ho provato già tante volte ma non sono mai riuscito. Quest’inverno un compagno avanti a me è riuscito a passare. Ma per me non c’è stato nulla da fare».
Mukete, altro ragazzo camerunese, alto e magro, è rimasto «prigioniero della foresta» con Ibrahim e decine di altri immigrati subsahariani clandestini: provengono dal Camerun, Costa d’Avorio, Liberia, Guinea-Bissau, Guinea Conakry, Sierra Leone, Ghana, Nigeria, Gabon e vivono alla giornata, braccati dai militari marocchini e costretti a dormire sotto gli alberi. «Il nostro mondo finisce sul limite della foresta – spiega – sono quasi due anni che vivo nascosto tra questi alberi. Se esco e mi prendono i militari mi portano a morire nel deserto dell’Algeria. Sto aspettando il momento migliore per mettermi in marcia per Melilla o Ceuta». Come i suoi compagni Mukete è convinto che si tratti solo di tempo, perché «non è possibile che ci fermino – continua – mi hanno detto che stanno costruendo una terza rete intorno a Melilla. Ma non riusciranno a fermarci. Ho lasciato il mio paese in cui non avevo nulla, sono entrato in Nigeria, ho attraversato il Niger, poi il Mali, l’Algeria e infine sono arrivato qui in Marocco. Ora non è giusto che ci impediscano di andare verso una vita migliore, non abbiamo fatto niente di male».

Le rotte
Sono lontani i periodi in cui dalle frontiere europee di Ceuta e Melilla passavano centinaia di persone in fuga dai paesi africani. Oggi le «rotte» per l’Europa sono altre. Da qui non si passa più. Da Ceuta e Melilla i flussi si sono spostati verso le coste che si affacciano sulle Canarie: Marocco del Sud, poi territori Saharawi, Mauritania e fino in Senegal. Ma presto anche lì i «gendarmi europei» hanno cercato di bloccare la via. Allora i flussi si sono spostati dalle coste tunisine e libiche verso l’Italia. Poi dalla Turchia in Grecia. Ora, dopo gli ultimi accadimenti nei paesi maghrebini, nuovamente da Libia e Tunisia. Ma alcuni attendono ancora qui in Marocco, nella speranza che «cambi nuovamente il vento». E che la via spagnola all’Europa si riapra. Altri invece sono semplicemente «insabbiati». Dopo anni di tentativi non hanno più le forze per rimettersi in viaggio.
«Le spinte migratorie sono come l’acqua: seguono una legge fisica di alta e bassa pressione. Se creo una barriera per fermare il flusso, questo pian piano la aggirerà trovando sempre nuove strade». Padre Joseph Lepine è un attento osservatore dei processi migratori. È un prete cattolico settantenne, che da oltre 30 anni vive nella chiesa cattolica marocchina di Oujda, edificata proprio a fianco alla moschea cittadina, per accudire i numerosi giovani cattolici che vengono a studiare nell’università. «Sono oltre 10 anni che vediamo arrivare gente disperata dai paesi subsahariani diretta in Spagna – racconta -. Ma, da circa tre, la situazione è precipitata». Centinaia di persone giungono dall’Algeria e si installano nella foresta adiacente l’università: uomini, donne e bambini.
Il campus universitario, il secondo per importanza nel paese, è una sorta di rifugio per gli immigrati clandestini subsahariani. Verso le cinque di sera, quando gli studenti finiscono le lezioni e tornano ai loro alloggiamenti, gli immigrati entrano nel campus per attingere acqua potabile, lavarsi e rilassarsi qualche ora. All’interno della struttura universitaria infatti, secondo una storica usanza marocchina, la polizia non può entrare senza il permesso di studenti e rettore.
«La situazione in città è di assoluta emergenza – spiega il professor El Arbi Mrabet, preside della Facoltà di diritto dell’Università di Oujda – e in tutto il Marocco non esiste un solo centro di accoglienza per clandestini. Ed è solo per questo motivo che permettiamo agli immigrati di entrare nel campus la sera. Ma resta il fatto che la nostra struttura è finalizzata allo studio e non all’accoglienza».
I migranti clandestini per l’enclave spagnola di Melilla sono da sempre un fiorente business. «Il problema degli immigrati clandestini subsahariani – spiega José Palazon, presidente dell’Ong Prodein di Melilla – continua ad essere strumentalizzato per richiamare l’attenzione internazionale su Melilla e chiedere più risorse economiche». E ancora oggi, benché dalla valla non si passi quasi più, nel Ceti (Centro temporal de imigración) «lavorano tutta una serie di società private e Ong che percepiscono un mucchio di soldi – continua Palazon -. E solo la costruzione della terza valla a Melilla e Ceuta è costata quasi 40 milioni di euro». Si tratta di una ulteriore rete costruita qualche anno fa in mezzo alle due già esistenti: una barriera inviolabile, con tanto di labirinto di cavi d’acciaio e irroratori di liquido al peperoncino urticante.

Lampedusa, italia
Sono passate da poco le nove di sera quando il Guardacoste G 107 «Carreca» della guardia di finanza e una motovedetta della capitaneria fanno ingresso nel porto di Lampedusa. A bordo, rispettivamente, 76 e 87 migranti: 163 persone salpate dalle coste libiche e soccorse dopo oltre dodici ore di navigazione su un barcone lungo 17 metri, a circa 24 miglia marine dall’isola siciliana. Sono maghrebini e subsahariani in fuga dai paesi nordafricani in rivolta. Tra loro anche 13 donne e 2 bambini, di sei e dieci anni. Un fenomeno che si ripete tristemente uguale tutti i giorni. L’ennesimo sbarco di clandestini sull’isola.
Sulla banchina attendono tutte le divise possibili e immaginabili: poliziotti, carabinieri, finanzieri, marinai. Poi il personale delle Ong pronto a prestare i primi soccorsi. Infine gli operatori dei media in cerca di notizie.
La piccola isola siciliana da mesi è chiamata ad affrontare l’accoglienza di migliaia di immigrati provenienti da Sud. Una vera e propria «pressione umana» che, solo recentemente, le altre regioni italiane stanno cercando di alleviare, accettando di accogliere alcuni migranti in fuga. È il caso di Kochri, giovane tunisino non ancora venticinquenne scappato dal suo paese in rivolta, sbarcato a Lampedusa e trasferito in Calabria.

Centri di «accoglienza»
Seduto di fronte ai container del centro d’accoglienza Sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto, nel Crotonese, la struttura d’accoglienza per richiedenti asilo più grande d’Europa, il giovane non crede ai suoi occhi. «Sono arrivato una settimana fa a Lampedusa – racconta il migrante tunisino – e ora sono stato trasferito in questo centro su un aereo della guardia di finanza, insieme ad altri 100 compagni».
È aprile di quest’anno. L’isola siciliana, avamposto europeo in mare africano, è al collasso. Con migranti lasciati per le strade e strutture di accoglienza stipate. «Quando mi hanno detto che ci trasferivano ero felice – continua -, credevo fosse la seconda tappa verso una nuova vita nel vostro paese. Poi la sistemazione in brandine a terra, senza coperte. La delusione. Questa è una prigione fatta di gabbie per animali, senza rispetto né dignità. Perché? Non siamo ancora in Europa qui?».
La struttura calabrese di Isola di Capo Rizzuto è formata da una tendopoli più un campo di 162 container, di pochi metri di ampiezza ciascuno, in cui vengono stipati 12 – 15 e forse più migranti. E la capacità ricettiva complessiva non ha eguali in Europa: 1.300 posti. Si tratta di una delle numerose strutture allestite in fretta e furia dal governo italiano all’indomani della crisi dei paesi del Nord Africa. Quando gli sbarchi sull’isola di Lampedusa sono aumentati in maniera esponenziale.
Ma la situazione di emergenza nella piccola isola siciliana è endemica. Non è mai cessata. A partire dall’inizio degli anni 2000, quando il vecchio Cpa (Centro di prima accoglienza) di Lampedusa ricordava le carceri militari afghane o irachene: una cinta di rete sormontata da rotoli di filo spinato, cancelli con inferriate e abbondanti fari di illuminazione. Situato proprio a ridosso dell’aeroporto, con mezzi militari e uomini armati all’esterno che pattugliavano il perimetro 24 ore su 24. All’interno una serie di container metallici ospitavano i dormitori e i servizi. «Il centro ha una capienza di 190 persone – spiegava nel 2004 Claudio Scalia, della Misericordia di Palermo, allora responsabile del Cpa -. Ma a causa dei ripetuti sbarchi ci siamo già trovati a ospitare anche 1.100 persone, tutte insieme». In seguito, nel 2007, il Centro di prima accoglienza è stato trasformato in Centro di soccorso e prima accoglienza e trasferito in una ex caserma dell’esercito sull’isola, che nell’ottobre del 2009 è stato chiuso, in quanto, dichiarava una nota del ministero: «Non ci sono più immigrati da ospitare per effetto della politica dei respingimenti adottata dal governo».
Il ministro Roberto Maroni infatti, pochi mesi prima aveva dichiarato: «Il 2009 sarà l’anno della fine dell’emergenza, così come il 2008 è stato un anno record sul fronte sbarchi. Due giorni fa – spiegava il titolare del Viminale – ho incontrato l’ambasciatore libico ed entro gennaio spero che i pattugliamenti possano partire. Ciò ci consentirà di chiudere con il fenomeno degli sbarchi prima della stagione turistica».
Poi la situazione dei paesi Nord africani è precipitata. E 10 anni di impegni in patti bilaterali della politica italiana in materia di immigrazione sono andati in fumo. «Lampedusa continua ad essere una realtà offshore – spiega Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), membro della Rete antirazzista siciliana e docente di Diritto privato all’Università di Palermo – un’isola de-territorializzata, dove non funzionano le normali regole di un paese democratico. Per legge, gli immigrati che arrivano sul nostro territorio dovrebbero avere una procedura davanti al magistrato entro 48 ore. Ma non succede, perché da Agrigento i giudici si recano sull’isola, se va bene, una volta a settimana. Evidentemente l’articolo 13 della Costituzione qui non esiste».
Patrasso, Grecia
Afghani, sudanesi, somali, eritrei, kurdi, iracheni e palestinesi, in tutto un migliaio di persone, vivono accampati nei pressi del porto d’imbarco per l’Italia. Sono organizzati in campi abusivi, chi all’aperto, chi sotto i vagoni dei treni, chi in case abbandonate, divisi per area di provenienza. Senza assistenza, né acqua né luce, con servizi igienici di fortuna.
In città solo l’associazione umanitaria Kinisi si prende cura di loro, ma la situazione è totalmente fuori controllo. E Patrasso è solo la punta dell’iceberg di un sistema d’immigrazione clandestina che parte da Kabul come da Karthoum o dalla Cisgiordania, per entrare in Europa attraverso il confine tra Turchia e Grecia. Storie di fatiche, ingiustizie, soprusi, violazioni, a volte morte. Tutto per arrivare nell’avamposto europeo del mar Egeo, nell’enclave ellenica, da dove i migranti clandestini, in attesa di permesso di soggiorno o richiedenti asilo, tentano di entrare in Italia, nascosti nei container o attaccati sotto i rimorchi dei tir in attesa di imbarcarsi sui traghetti per Bari, Ancona o Venezia. Per rimanerci o per potersi spostare «liberamente» in altri paesi europei confinanti.
Il giovane Abdullah, 18enne leader di un gruppetto di otto ragazzi giunti dallo stesso villaggio, racconta la sua epopea: «Ho impiegato più di due mesi ad arrivare qui. Sono partito dal mio villaggio, a Nord di Kabul, per Kandahar. Da lì sono passato in Pakistan, per proseguire verso l’Iran. Sono arrivato al confine tra Iran e Turchia con passaggi in auto, e accompagnato da guide locali lungo le montagne sono entrato in Turchia. Van, Ankara, poi Istanbul, Smie e infine il centro di Paganì, sull’isola di Lesbo. Ora sono a Patrasso da 6 mesi in attesa di andare in Italia, perché voglio entrare davvero in Europa…».
Mohammud invece, 50enne ingegnere minerario del Sudan, racconta: «Sono arrivato ad Ankara in aereo dal Cairo. Sono scappato da Karthoum lasciando moglie e quattro figli perché ero sulla lista nera del governo». Una volta ad Ankara, Mohammud ha contattato un «passeur», un trafficante di uomini, per entrare in Europa. Come? «Con il cellulare naturalmente, chiamando un numero avuto da un connazionale incontrato al Cairo». Detto fatto, per la modica cifra di 600 dollari Usa, molto meno del passaggio dalla Libia all’Italia, o dal Marocco alla Spagna, Mohammud è stato imbarcato su un gommone che dal porto di Smie, sulla costa turca, lo ha portato nell’isola greca di Samos.
Dopo due mesi di fermo è stato rilasciato con un permesso bimestrale in attesa di risposta per la domanda di asilo. «È da sei mesi che sono in Grecia e ancora non mi hanno comunicato niente», dice l’ingegnere. Che è costretto a dormire da clandestino insieme a 200 tra connazionali, somali, eritrei, sotto alcuni vagoni dismessi presso la stazione a Ovest di Patrasso.
«Ormai l’unica strada per entrare in Europa è la Turchia», sosteneva Bawa Hissen Folase, giovane sudanese, nella primavera del 2010. «Dal Marocco non si passa più perché i militari sparano. E le Canarie, Ceuta e Melilla sono completamente bloccate dalla polizia spagnola. Dalla Libia verso l’Italia nemmeno, respingono le barche». «Io ci sono stato: ho lavorato tre anni a Tripoli per pagarmi il passaggio verso Lampedusa. Poi la polizia italiana ci ha fatto tornare indietro. Eravamo 18, nella traversata i più deboli sono morti».
Amir, iracheno sulla ventina, è arrivato a Patrasso con un colpo di arma da fuoco in corpo. Cosa che, conferma Johannis Lamprous dell’associazione Kinisi, accade spesso. Ora è guarito e, con una decina di ragazzi afghani, attende che un tir si fermi al semaforo per balzare sotto il rimorchio. Con il rischio di essere arrestato dalla polizia.
«Il modo per andare in Italia ci sarebbe» dice Magal, giovane afghano. «Basta avere i soldi e un passaggio si trova». Lo prova il recente ritrovamento da parte della polizia portuale di Patrasso di un camion con 25 immigrati nascosti in un doppiofondo. «Questi traffici sono organizzati direttamente da Atene, da lì arrivano i camion carichi di clandestini diretti nei porti di Venezia, Ancona o Bari» spiega Mihalis Sidiropoulos, studente di legge attivista di Kinisi. Il costo del «passaggio» è variabile, può arrivare a 2.000 euro.
Nel frattempo, per i clandestini senza soldi, anche la strada dell’imbarco dal porto di Patrasso si sta chiudendo. Negli ultimi mesi solo poche decine di ragazzi sono riusciti a partire. E ancora meno a superare i controlli italiani nel porto di destinazione. Una nuova via sembrava essersi definita attraverso la Turchia, verso le frontiere con la Repubblica di Macedonia. Poi Serbia, Ungheria e Austria. Ma con l’esplosione delle rivolte in Tunisia, Algeria e con l’intervento Nato in Libia, tutto è nuovamente cambiato. E si è riaperta d’improvviso la via di Lampedusa.
«Ieri mi ha chiamato un amico che dormiva con noi, qui nella “forest” – racconta Hassan, giovane afghano -. Lui ce l’ha fatta. Era appena arrivato a Calais, in Francia. E tra pochi giorni finalmente arriverà in Inghilterra». Meta di molti migranti provenienti da paesi anglofoni.
Calais, Francia
Scende la notte sul porto di Calais, affacciato sullo stretto della Manica, nel Nord della Francia. Le luci a giorno rischiarano il piazzale asfaltato, cinto da una rete alta tre metri, dove stazionano i camion in attesa dell’imbarco per l’Inghilterra. È praticamente territorio inglese, nel senso che uomini e merci arrivano dopo aver passato la dogana. Fatta di controlli rigorosi: controllo delle bolle di carico, apertura dei container, inserimento di pertiche di ferro nei passa ruota e sotto la scocca dei camion, rilevazione attraverso apparecchi elettronici di eventuale anidride carbonica emessa da «clandestini» nascosti nel carico.
Yasir, l’amico di Hassan di Patrasso, percorre rue de Moscov, passa il ponte Ventillard che divide la città vecchia dal porto, cammina lungo il perimetro della rete e all’improvviso, con agile mossa, entra. Immediatamente scatta un allarme e arriva un’auto della polizia inglese. Yasir viene bloccato, si siede sul bordo del marciapiede insieme a due poliziotti e si fa offrire una sigaretta. Questa sera è la terza volta che tenta di scavalcare la rete. La polizia ormai lo conosce, ma non sa cosa fare per fermarlo. Gli inglesi attendono i colleghi francesi, che arrivano, caricano Yasir in auto e lo portano fuori dal porto, verso il centro di Calais. Pont Ventillard, rue de Moscov, e il ragazzo afghano viene rilasciato per strada.
«Vengo da un paese a nord di Kabul – spiega Yasir in un inglese stentato – e sono partito da casa ormai da tre anni». Aveva 12 anni, primo di quattro fratelli e una sorella, quando perse il padre ucciso in una sparatoria. Decise di partire per raggiungere l’Inghilterra, dove alcuni amici dei suoi parenti erano riusciti a costruirsi una nuova vita. Come i suoi conterranei ancora bloccati a Patrasso è entrato in Iran attraverso le montagne per poi andare in Turchia. Da lì si è introdotto illegalmente in Europa attraverso la Grecia. «Sono stato bloccato per due anni a Patrasso – racconta sorridendo -. Poi dopo tantissimi tentativi, finalmente sono riuscito a passare nascosto in un camion che è sbarcato a Venezia». In treno, attraverso il Col di Tenda, è arrivato a Parigi. E via fino a Calais, dove lo aspetta l’ultimo sforzo che lo divide dalla sua meta.
Simone, il fotografo che mi accompagna in questo viaggio, mostra le foto fatte a Patrasso, nel campo degli afghani. Yasir riconosce immediatamente Hassan e gli altri suoi amici.
«Tra tre o quattro giorni avrà fatto il salto dall’altra parte, in Inghilterra. Come tutti». Spiega Sylvie Copyans. Cinquantadue anni, ex impiegata di banca, Sylvie è uno dei soci fondatori di Salam, associazione di Calais che fornisce aiuto umanitario a migranti clandestini. Seduta ad un tavolino del café brasserie «La Tour» della centrale Place d’Arme offre una Coca Cola al giovane afghano. «Qui in Francia non possono fermarlo – continua la donna -. Ha 15 anni, è minorenne, e dovrebbe essere a scuola». Invece vive accampato come tanti altri suoi connazionali tra quello che resta della «Forest», un bosco ai margini della zona industriale di Calais, e i bungalow occupati abusivamente sulla spiaggia. Spiaggia dalla quale, ironia della sorte, si vedono le bianche scogliere di Dover dall’altra parte dello stretto della Manica.
Casa Africa
«Pochi mesi fa Casa Africa era un’altra cosa – racconta Adam, sudanese del Darfur che vive nello squat Casa Africa di Calais da quattro mesi -. Poi la polizia un giorno è arrivata con le ruspe e ha spianato tutto quello che c’era all’interno dei capannoni». Compresi gli effetti personali di chi vi abitava. E i cumuli di macerie agli angoli degli stanzoni vuoti, con materassi a terra e fuochi accesi per scaldarsi e cucinare, testimoniano ancora l’operazione. Unica oasi ordinata: un’area di tappeti di una decina di metri quadrati, circondata da un bordo di legno, nella quale pregano a tuo i musulmani. «Sono scappato dal mio villaggio nel Sud Ovest del Sudan – racconta Adam uscendo dalla zona di preghiera – inseguito dall’esercito che voleva arruolarmi». I militari sono arrivati a cavallo nella notte, hanno portato tutti fuori dalle case e le hanno incendiate.
«Mi ricordo le frustate che schioccavano nell’aria – continua Adam -. Sono subito scappato il più lontano possibile». Adam è stato successivamente inteato in un campo profughi. E non ha mai più saputo nulla dei suoi fratelli e dei suoi genitori. «Sono arrivato a Lampedusa nel 2009 – racconta il sudanese – ed ho chiesto asilo a Roma. Ho anche chiesto che mi aiutassero a rintracciare la mia famiglia, ma nessuno è riuscito a saper nulla. Ora aspetto il momento giusto per passare in Inghilterra. Nella speranza che non mi scoprano, altrimenti mi rispediscono a Roma. Dove hanno le mie impronte digitali».
Poco distante da Casa Africa, in rue de Moscov, nel centro storico di Calais, c’è un grande piazzale asfaltato dove all’ora dei pasti si accalcano centinaia di persone in attesa. È il centro di distribuzione del cibo messo a disposizione dal Comune alle associazioni che si occupano dei migranti. Si danno il tuo tra associazione Salam, La Belle Etornile, Secours Catholique e l’Auberge des Migrantes. Garantendo la distribuzione di colazione alle 10, pranzo alle 12 e cena alle 18.
«Sono arrivato da due settimane a Calais» racconta Hassan con la faccia sconvolta, in un italiano fluente. Dormiva nello squat chiamato «Casa Palestina» quando sono arrivati i poliziotti. L’hanno arrestato e tenuto tutta la notte in centrale con le manette. È stato appena rilasciato e mostra i segni rossi ai polsi. «Sono arrivato a Lampedusa dalla Libia e ho vissuto sette anni in Italia, a Vigevano. Facevo l’idraulico e stavo bene. Avevo la casa, l’automobile, andavo in discoteca con gli amici. Ma ora in Italia c’è la crisi, la mia ditta ha chiuso ed io ho perso il permesso di soggiorno, come tanti miei amici stranieri. Ma qui in Francia è terribile. Non si può vivere così. Provo ancora una settimana a passare in Inghilterra. Se non ci riesco too in Italia. Se solo avessi i soldi per passare…».
E sì, perché anche qui chi ha tra i 500 e i 1.000 euro a disposizione per pagare il passeur, arriva in Inghilterra senza problemi. Attende direttamente a Parigi, per essere poi nascosto in un camion che attraversa la Manica nell’Eurotunnel o su un traghetto del porto di Calais. Ma chi non ha soldi può solo tentare la fortuna. Sperando di passare indenne i controlli. Magari con un sacchetto di plastica in testa per non rilasciare anidride carbonica che potrebbe essere rilevata dagli apparecchi della polizia.

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Suor Irene è «Venerabile»

«Oggi, 2 aprile 2011, il Santo Padre Benedetto XVI ha ricevuto in Udienza privata Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Angelo Amato, S.D.B., Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Nel corso dell’Udienza il Sommo Pontefice ha autorizzato la Congregazione a promulgare il Decreto riguardante le virtù eroiche della Serva di Dio Irene
Stefani (al secolo: Mercede), religiosa professa dell’Istituto delle Suore Missionarie della Consolata; nata ad Anfo (Italia) il 22 agosto 1891 e morta a Gekondi (Kenya) il 31 ottobre 1930».

Poche righe, apparse sul sito del Vaticano. Un’informazione succinta, discreta, essenziale. Eppure era un messaggio che custodiva un giorniello di buona notizia: la Chiesa ha riconosciuto ufficialmente che sr. Irene Stefani ha vissuto il Vangelo con amore ed eroicità!
Sr. Irene è ora «venerabile»*.
Questa notizia è stata resa pubblica solo un mese prima dell’inizio del X capitolo generale delle Suore Missionarie della Consolata e del XII dei Missionari.
«È un dono preziosissimo – ha scritto Madre Gabriella Bono, allora superiora generale delle suore -. Sr. Irene ci è di esempio di santità missionaria e ci è di guida: lei intercede per noi! Suor Irene è stata chiamata a donare la vita in un’epoca di sofferenza per la gente del villaggio, a Gekondi (Kenya). Di fronte al rischio non si era tirata indietro; aveva compreso che le opportunità per vivere la vita in pienezza sono uniche. Pienezza significa – allo stile del Crocifisso – svuotamento di sé, mitezza, perdono, misericordia, consegna della propria vita agli altri per amore di Dio. E Irene non perse la sua opportunità! Lasciandosi contagiare dalla peste del morente che stringeva nelle sue braccia, abbracciava in qualche modo tutta l’Africa, quella di ieri e quella di oggi. Con le sue ferite e le sue speranze. Sorelle carissime – aggiungeva Madre Gabriella – celebriamo le meraviglie dell’Amore del Signore nella Sua Serva fedele sr. Irene, e ci sentiamo in particolare comunione con tutta la Famiglia Consolatina, lassù in Cielo e sparsa nel mondo missionario».
La vita di sr. Irene è stata breve e semplice. Nasce nel 1891 ad Anfo, in riva al lago d’Idro in Val Sabbia, Brescia, un paesino di montagna fortemente militarizzato per la vicinanza del confine con l’Austria. A 13 anni, dopo che in paese ci fu la funzione per la partenza verso il Kenya di don Angelo Bellani con gli appena fondati Missionari della Consolata, Mercede, esprime il desiderio di partire missionaria. La morte della mamma nel 1907 la carica della responsabilità di assistere i numerosi fratelli. Ma nel 1911, alla notizia della fondazione delle Missionarie della Consolata, prende la sua decisione e il 21 giugno dello stesso anno è accettata dall’Allamano nel nuovo istituto. Prende i voti nel 1914 e parte per il Kenya. Dal 1914 al 1920 presta servizio negli ospedali militari inglesi per i portatori africani. Dal 1920 al 1930 svolge il suo servizio a Gekondi, insegnando, incontrando gente, invitando alla scuola e al catechismo, curando i malati, assistendo le partorienti, salvando i bambini abbandonati nella brughiera. Muore il 31 ottobre 1930 contagiata dalla peste.
Eccezzionale è stato invece l’amore con cui ha vissuto i suoi brevi anni: un amore eroico come i santi sanno avere.

Di Gigi Anataloni

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* Venerabile: «Titolo attribuito ai servi, e alle serve, di Dio dopo che la Congregazione delle cause dei santi (in passato la Congregazione dei riti) ha riconosciuto, e il papa ha proclamato, l’eroicità delle loro virtù o il fatto del martirio; il servo di Dio venerabile – del quale è introdotta la causa di beatificazione – non può essere
oggetto del culto pubblico».
(Enciclopedia Treccani)

Gigi Anataloni




Cana (24) «Vino non hanno»

Il racconto delle nozze di cana (24)

«La nuova alleanza nel mio snague, che è versato per voi»

Gv 2,3: «Venuto a mancare il vino, dice la madre di Gesù a lui: “Vino non hanno”».
(kài hysterêsantos òinou lèghei hē mêtēr toû Iēsoû pros autòn: Ôinon oùk èchousin)

Fatti i preparativi per lo sposalizio, preso atto che le nozze di Cana sono le sole in tutta la storia dell’umanità che si celebrano senza sposa, del tutto assente; conosciuti gli invitati importanti ai fini del IV vangelo, con il v. 3 entra in scena uno dei protagonisti eccellenti: «il vino», in greco «òinos». Nel racconto ricorre ben 5 volte: al v. 3 (2x), al v. 9 (1x) e al v. 10 (2x). Questa «abbondanza» di vino non solo materiale (sei giare per una capienza totale da un minimo di 240 a un massimo di 480 litri), ma anche letteraria (5 occorrenze) è indice di importanza e ci invita a prestare attenzione se vogliamo cogliere il significato inteso dall’autore.
Al «protagonista vino» abbiamo dedicato ben due puntate da due angolature diverse:
    – Il vino dalla prospettiva del Messia nel suo simbolismo cristologico (cf MC 10 [2010] 24-26).
    – Il vino dalla prospettiva di abbondanza nel suo simbolismo escatologico (cf MC 11 [2010] 21-24).
Rimandiamo a queste due puntate per non ripeterci. Sarebbe bene che i lettori interessati ad un approfondimento rileggessero i due testi perché sono utili per capire quanto diremo ancora. Chi avesse smarrito i nn. 10 e 11 del 2010 sopra citati, può consultare il sito della rivista MC on line sempre disponibile: http://www.rivistamissioniconsolata.it/cerca.php?cat=25  (consigliamo anche per chi ne avesse la possibilità di aggiungere l’exursus «Il vino nell’Antico Testamento e nella tradizione giudaica» in Aristide Serra, Le nozze di Cana, 249-273.
Un significato universale
Il testo del vangelo annota semplicemente che a un certo punto è «venuto a mancare il vino» (v. 3a). Qualcuno ha fatto male i conti o gli invitati ne hanno approfittato e quindi, nel pieno della festa, sorge un problema. Fermarsi a questa lettura però sarebbe molto banale. Il testo così come lo abbiamo è testimoniato dalla maggior parte dei codici e in particolare dai papiri Bodmer P66 (tra i sec. II e III) e P75 (tra i sec. VI e VII). Vi sono però alcune varianti che fanno capire l’importanza del tema. Il codice «Alpha*», risalente al sec. IV, legge: «E vino non avevano perché il vino delle nozze era stato terminato», che è una forma più estesa, esplicativa: vuole cioè chiarire il pensiero e spiegando allunga. Una regola della critica testuale è che tra due testi, in genere, è da scegliere quello più breve e più difficile, perché brevità e difficoltà sono segnali di maggiore antichità. Chi vuole spiegare le cose per chiarirle, certamente è successivo al testo.
Di fronte a questo fatto, la madre di Gesù che avevamo incontrato al versetto precedente per la prima volta prende la parola e fa notare la situazione: «Vino non hanno». Anche qui lo stesso codice «Alpha*» riporta un’altra variante che dice: «Vino non c’è». Apparentemente non c’è differenza tra i due testi, ma solo apparentemente, perché la variante semplifica molto e dal punto di vista teologico pone l’accento solo sul vino che è il soggetto della frase, mentre il testo accettato pone l’accento sulle persone, in questo caso, gli sposi in quanto sono essi che «non hanno vino», anche se la sposa è assente e lo sposo è figura secondaria che compare solo per essere rimproverato dal maestro del cerimoniale (architriclino). Proprio la particolarità di uno sposalizio senza sposa e con lo sposo che c’è e non c’è, ci apre a prospettive nuove e ci fa dire che essi sono espedienti per andare oltre le apparenze come molto spesso Giovanni ci costringe a fare. L’espressione «venuto a mancare il vino» in greco è un genitivo assoluto (funziona esattamente come l’ablativo assoluto in latino) che assume un valore generale, fuori dal contesto stesso in cui si trova. Il verbo «ysteré» in greco se riferito al tempo indica «essere ultimo/venire per ultimo»; se riferito allo spazio significa «venire dopo»; se riferito a persone o cose indica mancanza e privazione e quindi «manco/ho bisogno/sono escluso». L’uso di questo verbo in Gv è un «hàpax» cioè un termine usato una sola volta in tutto il vangelo per cui non si possono fare confronti, ma dobbiamo cogliee il senso solo in questo contesto.
Il genitivo assoluto, «venuto a mancare il vino», che in se stesso esula dal testo perché se ne potrebbe anche fare a meno senza modificare la struttura sintattica della frase, ha invece un valore importante perché l’autore lo usa fuori contesto e quindi con un senso universale, così universale che si può applicare a tutta l’umanità: non solo gli sposi, che hanno fatto male i calcoli, ma è l’umanità intera che è carente, manca, ha bisogno del vino nuziale.
Per questo motivo rifiutiamo le varianti testuali; «vino non c’è» è solo una costatazione povera del fatto che non si può continuare a fare baldoria perché manca il vino e non ha quindi la stessa forza del testo che sottolinea la tragedia della situazione: nessuno ha più vino, come a dire «non c’è il Messia» tanto atteso.
La madre/Israele non è in grado di dare la gioia della vita (il vino) ai suoi figli. Anche in un’altra circostanza e contesto il popolo sperimenta la mancanza di pane, quando di fronte alle folle che lo seguono, Gesù prende atto che «non hanno di che mangiare» (Mc 8,2) e più avanti i discepoli discutono che «pani non hanno» (Mc 8,16). Pane e vino sono gli alimenti esclusivi del banchetto messianico, secondo la regola della comunità di Qumran: «E quando (preparano la mensa per mangiare, o il) mosto (per bere, il sacer)dote sten(derà per primo la mano per benedire le primizie del pane) e del mosto (…)» (4Q258[4QSd], fr. I col. II [=1QS, V,21-VI,7]).
Il vino della Sapienza eucaristica
Sia la tradizione biblica che quella giudaica avevano identificato il vino con la Parola di Dio; Donna Sapienza, infatti, «ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola» alla quale invita «chi è privo di senno: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato (per voi”» aggiunge la LXX) (Pr 9,2.5). Il Sapiente è colui che si nutre della Parola del Signore perché «nella Toràh del Signore trova la sua gioia, la sua Toràh medita giorno e notte» (Sal 1,2; cf Dt 4,5-6; Sal 107,43; 119/118,99…; Gdt 8,26-27.29, ecc.).
Il pane e il vino della Sapienza sono quindi la Parola del Signore. Anche nell’Eucaristia, la Chiesa prepara la duplice mensa del Lògos che carne diventa (cf Gv 1,14) e del vino, alimenti che significano la Shekinàh/Dimora/Presenza della santa Trinità. Il vino preparato dalla Sapienza è quindi il vino della Toràh, cioè la natura stessa di Dio.
Nel libro del Siracide la Sapienza che parla in prima persona s’identifica con la vite: «Io come vite ho prodotto splendidi germogli» (Sir 24,17) per concludere che «tutto questo è il libro dell’alleanza del Dio altissimo, la Toràh che Mosè ci ha prescritto, eredità per le assemblee di Giacobbe» (Sir 24,23).
Anche Gesù si identifica con la vite: «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1) e il frutto che egli porta è «l’eucaristia della nuova alleanza (Mt 26,29 e parr.)» (Bibbia-Cei 2008, nota a Gv 15,1) dove si manifesta la volontà del Padre, cioè la sua Parola, cioè ancora il Figlio come progetto per l’umanità attraverso Israele e la Chiesa: «In principio era il Lògos e il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14). L’immagine della vite e della vigna è classica nella Bibbia e si riferisce abitualmente a Israele (cf Is 5,1; Ger 2,21; Ez 15,2-6; Ez 19,10-14; Sal 80,9-16).
I rabbini amano raccontare che quando il sacerdote Melchisedek, uomo senza origini e senza ascendenti, accolse Abramo con i doni del pane e del vino (cf Gen 14,18), lo istruì anche nella Toràh del Signore Dio (cf Gen R 43,6 a 14,18). In questa ampia gamma di simbologia, è logico condividere la conclusione della tradizione giudaica che vede nel monte Sinai la cantina dove Dio ha conservato il vino della Toràh in vista dell’alleanza con Israele quando uscì dall’Egitto.  L’espressione della donna del Cantico dei Cantici: «Egli mi ha introdotto nella cella del vino» (Ct 2,4) è interpretata dal Targum (cf Tg Ct 2,4) e dal Midrash (Ct R 1,2.5; 2,4.1; 6,10.1) come il monte Sinai che Yhwh ha adibito a cantina del vino della Toràh. A riguardo abbiamo già scritto nella settima rubrica dedicata alle nozze di Cana:
«Il quinto personaggio è il “vino” che è il segno messianico per eccellenza. Il midràsh ebraico (Cantico Rabbà 2,4) equipara la Toràh, cioè la Parola di Dio al vino e il monte Sinai è descritto come la cantina dove Dio, prima ancora della creazione del mondo, ha conservato il vino-Toràh per la festa delle nozze messianiche: “Il Sinai è la cantina dove fin dalla creazione del mondo è stato tenuto in serbo per Israele il vino delizioso della Toràh. Disse l’Assemblea d’Israele: Il Santo – benedetto egli sia – mi ha condotto alla grande cantina del vino, cioè al Sinai” (Ct R 2,12; cf Nm R 2,3; Pr 9,5). In Gv 2,10 vi è un accenno a questa cantina, quando il maestro di tavola rimprovera lo sposo di avere conservato il vino eccellente fino ad ora  (“tu hai conservato il vino buono [= bello] fino ad ora – sý tetêrekas tòn kalòn òinon éôs àrti”)» (MC 9 (2009), 22).
A questo punto, prima di andare avanti, non è inutile una riflessione attualizzante sullo stato della Chiesa di oggi in rapporto a quanto detto sopra. Dal testo del vangelo apprendiamo che l’espressione assoluta «venuto a mancare il vino» ha un valore universale e quindi può e deve essere applicato anche a noi e al nostro tempo. L’AT aveva il Sinai come «cantina del vino della Parola», preparato prima ancora che Israele uscisse dall’Egitto; secondo altri testi che abbiamo esaminato nelle puntate precedenti, il vino delle nozze di Cana richiama il «vino del Messia», perché i suoi tempi saranno segnati da una abbondanza senza misura. Tutte queste tipologie di vino sono proiettate nel futuro, cioè aprono una dimensione non solo di speranza, ma spingono a procedere con lena e passione verso i tempi di domani, perché ci avvicinano sempre di più all’incontro con «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2).
(24 – continua)

Paolo Farinella




Consolate il mio popolo

Inacio Saure, missionario della Consolata, vescovo di Tete (Mozambico)

Consacrato vescovo di Tete in Mozambico il 22 maggio 2011, accolto calorosamente 15 giorni dopo da fedeli e autorità civili della diocesi,
mons. Inacio Saure, missionario dellaConsolata, mozambicano, ha dichiarato che la sua sarà una missione di consolazione, come è scritto nel suo stemma episcopale. La situazione che si trova ad affrontare presenta problemi vecchi e nuovi che richiedono una forte dose di
coraggio e di consolazione.

Consolamini populus meus: è il motto dello stemma episcopale di mons. Inacio Saure, preso da Isaia 40.1 per significare la caratteristica del suo ministero di vescovo. La consolazione, ha spiegato nel suo messaggio dopo l’ordinazione, è ciò di cui c’è maggiormente bisogno nella diocesi di Tete, oltre a far parte del suo carisma in quanto missionario della Consolata.
La Consolata non è nuova nella diocesi di Tete: vi arrivò nel lontano 1926, con la prima spedizione dei suoi missionari in Mozambico.
80 anni dopo…
A quei tempi il territorio dell’attuale diocesi di Tete si chiamava «Alta Zambesia»; sotto l’aspetto religioso faceva parte della Prelazia del Mozambico, che comprendeva l’intero territorio della colonia portoghese. La guidava mons. Rafael de Assunção.
Quando i missionari della Consolata chiesero di poter lavorare in Mozambico, il Prelato concesse l’autorizzazione affidando loro unicamente la circoscrizione di Zumbo, che aveva come centro la missione di S. Pietro Claver di Miruru, nella Zambesia superiore, ai confini con l’allora Rodesia, e permettendo di aprire una casa procura a Tete.
La regione era stata evangelizzata dai Gesuiti fin dal secolo XVI, ma quando i missionari della Consolata misero piede in Mozambico (1925) la maggior parte delle missioni erano in uno stato di semi-abbandono. La forza missionaria occupava una piccola parte del territorio: il clero secolare stava attorno a Lorenço Marques (oggi Maputo) e lungo il litorale; pochi religiosi, come francescani e monfortani, continuavano la cura di alcune missioni costruite nell’interno.
Alle tensioni tra secolari e religiosi si aggiungevano soprattutto gli umori politici del Portogallo. Così, quando il marchese di Pombal cacciò i gesuiti dal Portogallo (1759), questi furono espulsi anche dal Mozambico. Toarono nel 1881 e fondarono nell’Alta Zambesia due importanti centri di evangelizzazione a Boroma e Miruru; ma furono di nuovo espulsi nel 1910, in seguito alla rivoluzione che instaurò la Repubblica del Portogallo e scatenò un furioso anticlericalismo in tutti suoi territori.
Per alcuni anni le missioni di Miruru e Boroma furono affidate ai Verbiti tedeschi; ma con lo scoppio della prima guerra mondiale anche questi missionari furono allontanati, perché tedeschi e considerati nemici. Così Miruru rimase abbandonata fino al 1926, quando arrivarono i primi otto missionari della Consolata. L’anno seguente arrivarono sette suore della Consolata; a Tete rimase padre Peyrani che, oltre al compito di procuratore, svolse per due anni la funzione di parroco della chiesa di San Tiago.
Nel 1932 anche i missionari della Consolata lasciarono definitivamente l’Alta Zambesia, per concentrare la loro presenza nella regione del Nyassa.
Oggi, un altro figlio della Consolata, mons. Inacio Saure, è stato chiamato a guidare tutto il territorio dell’Alta Zambesia, diventato dal 1962 diocesi di Tete. Il nuovo vescovo incontra una situazione per molti aspetti simile a quella trovata dai missionari della Consolata 80 anni fa; anzi, le vicende storiche del passato e e i problemi del presente hanno moltiplicato le sfide alla missione di «consolazione» del nuovo vescovo.
La guerra e non solo…
«Metà della diocesi non ha assolutamente assistenza religiosa» spiega padre Tiago Palagi, comboniano italiano, dal 2009 amministratore apostolico della diocesi di Tete, dopo la rinuncia per limiti di età di mons. Paulo Mandlate, per 33 anni vescovo della diocesi. «Sei distretti su dodici, non hanno una missione, non hanno un padre, non hanno una suora – continua il missionario mostrando sulla mappa la regione nord-occidentale della provincia di Tete -. Su 27 parrocchie, 13 sono praticamente abbandonate da decenni».
Questa regione è stata zona di guerra ancora prima delle altre parti del Mozambico. A partire dal 1970, durante la guerra coloniale, i missionari furono imprigionati ed espulsi, perché diventati scomodi testimoni delle atrocità dell’esercito portoghese, come i massacri perpetrati nella regione di Mucumbura (1971) e a Wiriyamu.
Con la proclamazione dell’indipendenza del Mozambico, continua padre Tiago, «abbiamo queste due realtà: una parte della diocesi in cui c’è vita e vitalità perché c’è stata sempre una presenza missionaria di padri e suore, anche se c’è stata qualche difficoltà per riadattarsi alla nuova situazione creata dalla nazionalizzazione di scuole e altre opere; l’altra metà delle missioni, a nord del lago di Cabora Bassa, rimaste senza missionari e distrutte completamente dall’incuria e dalla successiva guerra civile».
Alcune missioni, diventate basi politiche e militari del Frelimo, furono bombardate dalla Renamo che, stabilitasi definitivamente nella zona, creò un cordone militare che per una dozzina d’anni rese impossibile qualsiasi comunicazione tra le comunità e i missionari e la diocesi in generale.
Finita la guerra civile e tornata la pace nel paese (1992), sono mancate le forze e la volontà «politica» per riprendere il lavoro in quelle missioni. Da una parte i missionari rimasti erano pochissimi, con le energie che venivano meno per l’età, e le congregazioni religiose non sono ritornate nelle loro antiche missioni, a causa della crisi di vocazioni. Dall’altra parte l’ordinario locale non ha cercato né favorito l’arrivo di nuovi istituti religiosi, a differenza di altri vescovi mozambicani, che hanno cercato nuove forze missionarie e hanno promosso la formazione del clero diocesano.
Attualmente, la diocesi di Tete, che si estende per oltre 100 mila kmq (pari al Nord-Italia), con una popolazione di oltre 2 milioni di abitanti, conta circa 270 mila cattolici, con una sessantina di suore e 31 preti; di questi solo 5 sono diocesani, impegnati nel lavoro pastorale, mentre altri 3 sono all’estero per specializzazioni. La scarsità di clero diocesano la dice lunga sulla situazione ecclesiale della diocesi, che il prossimo anno celebrerà le nozze d’oro della sua creazione.
Le speranze per il futuro sono per ora basate su tre studenti in teologia, una quindicina di seminaristi in filosofia e 25 nel seminario propedeutico a Beira.
«Entro quest’anno dovremmo avere una nuova ordinazione -spiega padre Tiago -. Se avessimo un prete all’anno sarebbe un successo. Tutti i nostri preti diocesani sono stati ordinati negli ultimi cinque anni; sono giovani e hanno bisogno di essere aiutati e guidati nel loro lavoro. Il vero problema per preti e seminaristi è formarli, sostenerli, accompagnarli; far loro sentire la gioia di essere preti… Sarà questa la prima delle raccomandazioni che farò al nuovo vescovo: dedicarsi il più possibile ai preti e ai seminaristi e non aver paura di perdere tempo con loro».
diocesi in stato di missione
Nonostante la distruzione di tutte le strutture delle missioni e l’assenza tanto prolungata dei missionari, le comunità di quelle regioni sono sopravvissute, sia religiosamente che economicamente recandosi nei paesi confinanti, soprattutto in Zambia e in Malawi; molte di esse si sono organizzate per recarsi nelle parrocchie di questi paesi per ricevere i sacramenti.
I contatti sono stati ripresi negli ultimi due anni. Padre Tiago ha cercato di visitare le missioni abbandonate per scoprire le comunità ancora vive e ha raccolto il loro lamento: «Ci avete abbandonati. La diocesi ci ha dimenticati». L’amministratore apostolico ha subito organizzato autentiche «spedizioni missionarie» con padri, suore e seminaristi maggiori, dando così un segnale concreto che la diocesi vuole riprendersi la cura pastorale di tutti i suoi figli, specialmente in quei luoghi di difficile accesso e dove da troppo tempo manca una presenza missionaria stabile.
«Abbiamo fatto un’assemblea con preti, religiosi e religiose e ho spiegato come la diocesi appartiene a tutti; quindi ho proposto loro di lasciare per una settimana o 10 giorni le loro parrocchie o loro attività, per spostarsi nelle zone più lontane e abbandonate, in modo da assicurare anche ad esse un’assistenza più capillare almeno due o tre volte l’anno. La risposta è stata unanime e generosa».
Non è un’impresa facile. Sono viaggi come ai vecchi tempi: bisogna portarsi dietro tutto, dal combustibile all’acqua da bere, al cibo, agli attrezzi per riparare l’auto in caso di avarie non troppo grosse; si convive con le comunità cristiane, adattandosi alle condizioni precarie che si incontrano; si approfitta della stagione secca, perché mancano le strade. Alcune sono state cancellate dalle acque del lago di Cabora Bassa; per raggiungere alcune località come la provincia di Zumbo, bisogna passare dallo Zimbabwe.
«Raggiunta una comunità, ce n’è stata indicata un’altra e poi altre ancora – racconta padre Tiago -. Siamo ritornati missionari del mato, della foresta. In questi due anni la gente ha respirato di nuovo aria di missione e sta aspettando, ha una grande voglia di riprendere l’evangelizzazione in tutta la diocesi. E questa è la sfida grande che attende il nuovo vescovo, mons. Inacio Saure: portare la presenza di chiesa in tutto il territorio diocesano; una vera missione di consolazione lo aspetta: visitare le comunità, soprattutto quelle più sperdute e abbandonate; non sarà un lavoro di ufficio; l’abbiamo avuto per 33 anni un vescovo di ufficio».
le mani sul… carbone
Tete è naturalmente inserita in un contesto socio-economico locale e nazionale, le cui pressioni si fanno sentire anche a livello ecclesiale. Tale situazione è caratterizzata dalla «corsa all’oro» da parte delle multinazionali; oro reale in varie parti, ma soprattutto «oro nero», cioè il carbone. I paesi emergenti, con enorme fame di energia (Brasile, India, Cina, Australia…), stanno investendo miliardi di dollari in «mega progetti» in varie parti del Mozambico per sfruttae le risorse naturali: carbone, petrolio, gas naturale, diamanti, sabbia pesante…
Per quanto riguarda la provincia di Tete, il governo mozambicano ha firmato contratti con la compagnia brasiliana Vale do Rio Doce e con l’australiana Riversdale per l’estrazione del carbone su grande scala nelle zone di Moatize e Benga. Sono state già avviate miniere di carbone a cielo aperto, con conseguenze non indifferenti per l’ambiente e per la salute degli abitanti.
Ancora più gravi sono i risvolti sociali. La gente non riesce a capire cosa stia succedendo: vede enormi quantità di auto di lusso, macchinari e automezzi che intasano le strade, ma non ne ricava alcun beneficio; anzi, vede crescere la sua povertà. La disponibilità di denaro di manager e tecnici stranieri fa lievitare i prezzi delle materie essenziali per la sopravvivenza, tanto che Tete è diventata la città più cara del Mozambico. Anche il capretto, cibo base della popolazione di questa regione, ha ormai prezzi proibitivi.
Le nuove industrie minerarie non producono lavoro per i locali: il lavoro è per gente che viene da fuori, magari anche mozambicani di altre parti del paese, gente con una minima specializzazione che può trovare o si illude di trovare lavoro in queste imprese. Gli operai locali senza alcuna qualifica possono essere utilizzati inizialmente per i lavori pesanti e dismessi quando non servono più, come è capitato a 6.500 manovali impiegati da una delle ditte subappaltatrici della Vale, per chiudere i pozzi di epoca coloniale, e poi licenziati a lavoro ultimato, provocando proteste e scioperi tra i minatori.
Un’altra conseguenza sul piano sociale è lo spostamento di popolazioni intere; migliaia di contadini sono stati costretti ad abbandonare le loro terre, per essere trasferiti a 30 o più chilometri di distanza, in villaggi detti di «reinsediamento», con abitazioni malfatte e precarie, anguste e invivibili per gente abituata a spazi ben diversi. Questa popolazione ha perso le proprie radici e ha trovato ben poco di ciò che poteva essere un beneficio.
I mega progetti non producono ricchezza neppure per il paese. Si dice che fanno alzare il Pil (prodotto interno lordo), ma è una illusione e una falsità assoluta, perché la ricchezza prodotta non appartiene al Mozambico. La Vale è padrone assoluto delle concessioni ottenute dal governo: tutto ciò che c’è nel sottosuolo, che viene estratto ed esportato appartiene alla compagnia. Lo stesso vale per le concessioni alla Riversdale: il governo non sa neppure cosa c’è nel sottosuolo, se vi è solo carbone o anche altri minerali; ma lo sanno bene le multinazionali.
I contratti stipulati tra governo e multinazionali mancano di assoluta trasparenza, per cui allo stato vengono solo le briciole. Le compagnie si fanno belle, magari, costruendo qualche scuoletta, ripitturando l’ospedale o con altri lavoretti del genere, ma al tempo stesso portano via a piene mani la ricchezza del paese, senza che la gente del luogo ne benefici minimamente.
Del problema si è interessata anche l’ultima assemblea generale della Conferenza episcopale del Mozambico nel maggio scorso: il prof. Tomás Selemane ha spiegato ai vescovi l’impatto dei mega progetti sulla popolazione mozambicana, i conflitti sociali che ne derivano, le strategie delle multinazionali e gli interessi occulti di governanti e leader politici; l’esperto ha proposto anche azioni concrete per affrontare la situazione e far sì che lo sfruttamento delle risorse del paese produca qualche benessere anche per la gente comune.
«Abbiamo posto la domanda e continueremo il discorso, nella prossima assemblea della Conferenza episcopale» spiega padre Tiago. Di fatto, è stato avviato uno studio per avere cifre e dati concreti, elementi dettagliati e inconfutabili prima di parlare e prendere una posizione chiara e coraggiosa. Non basta denunciare le compagnie per la corsa all’accaparramento delle materie prime, ma anche chi favorisce tale fenomeno, i contratti occulti di persone di partito o di governo o di gruppi limitati.
«È evidente che come chiesa – continua padre Tiago – sarà necessario non solo denunciare ciò che sta capitando, ma mettersi dalla parte di chi sta soffrendo di tali conseguenze. Questo è quello che abbiamo davanti agli occhi. Per ora, dal punto di vista di chiesa, è ancora un discorso marginale, ma il problema si farà sentire sempre più: anche questa è una sfida che il nuovo vescovo dovrà affrontare, insieme a tutti i vescovi del Mozambico».

Benedetto Bellesi

Inacio Saure: la sua storia

Padre Inácio Saure è nato il 2 marzo 1960, a Balama, diocesi di Pemba, in Mozambico, dove ha frequentato le scuole elementari e medie.
Dopo lo scoppio della guerra civile entrò nel seminario della Consolata a Maputo; frequentati i corsi di filosofia e il 1° anno di teologia nel seminario S. Agostino di Matola (1990-1992), proseguì gli studi teologici presso l’Istituto superiore di Teologia S. Eugenio di Mazenod a Kinshasa (R.D. del Congo), dove conseguì nel 1998 il baccellierato in teologia.
Emessa la prima professione religiosa nell’Istituto Missioni Consolata il 7 gennaio 1995 e quella perpetua il 15 maggio 1998, fu ordinato presbitero l’8 dicembre dello stesso anno.
Dopo l’ordinazione ha ricoperto i seguenti incarichi:
– 1999-2001 vicario curato della parrocchia S. Mukasa Lukunga, a Kinshasa;
– 2002-2005 parroco della chiesa Mater Dei e superiore della comunità a Mont-Ngafula (diocesi di Kisantu); direttore della scuola d’informatica e vice superiore regionale;
– 2006 fu destinato in Mozambico per lavorare nell’ambito della formazione;
– 2006-2007, dopo aver studiato la lingua italiana a Roma, ha frequentato un corso per maestri dei novizi presso l’istituto Mater Christi a Bobo-Dioulasso nel Burkina Faso;
– 2008 rettore del seminario medio e filosofico dei missionari della Consolata a Matola e, da dicembre dello stesso anno, è stato maestro dei novizi presso il Noviziato Internazionale della Consolata a Maputo.

Benedetto Bellesi