Nel deserto a 50 gradi

Introduzione

Ero già stata in Senegal nel 2007, coinvolta in un progetto di contrasto all’immigrazione clandestina. Avevo girato per le periferie di Dakar, conoscendo amici e realtà africane immaginabili e non. Fui sorpresa nel vedere come l’Africa dell’ovest fosse differente da quella orientale; fin dall’ora compresi come sia sbagliato parlare dell’Africa come di una realtà monolitica: tradizioni, cultura, lingue sono totalmente diverse tra est e ovest.
Reincontro la mia amica Rosalie, che ancora sorride nel ricordare l’espressione che feci quando mi portò in uno dei più noti locali senegalesi in cui mi fu servita carne di montone su un foglio di carta usato al posto del piatto, da mangiare con le sole mani… A me che ero una fervente vegetariana!
Rosalie, cristiana cattolica, in un Senegal al 90% musulmano, mi racconta come sia difficile portare avanti e far accettare alla mamma e ad altri famigliari la sua relazione con un ragazzo cattolico del Togo di cui non conoscono la cultura e la lingua. Rosalie, cresciuta ed educata nelle scuole delle Suore missionarie di Maria, è decisa a sposare un ragazzo cattolico. «Non sai quanto è difficile trovare un ragazzo senegalese cattolico. E io non voglio essere la seconda o terza moglie di qualcuno che magari dall’oggi al domani mi butta fuori di casa senza se e senza ma. Ecco perché, nonostante i miei 35 anni non mi sono ancora sposata. Non voglio accontentarmi di un marito che abbia più mogli. Per non parlare del fatto che gli uomini senegalesi, nonostante si sposino, sono ossessionati dal desiderio di diventare mariti di anziane donne bianche che li mantengano. Questa situazione puoi ben capire come abbia stravolto le aspettative, la cultura e i modi di vivere dei giovani senegalesi».
Mi sembra inconcepibile tutto ciò, in un paese di ferventi musulmani. Mi immergerò in una realtà schizofrenica: dalla città santa dell’islam, Touba, al turismo sessuale senza freni; dall’intervista al «grande marabut», i cui uomini gli siedono ai piedi come cagnolini, alla movida nottua dei locali in cui incontrerò gente di tutte le età e orientamenti.
Ma sto accorciando troppo il mio reportage, direbbe Karen Blixen. Andiamo per ordine. Sono andata in Senegal nel maggio del 2010, per realizzare un libro fotografico per conto dell’associazione «Karibu Insieme Per Crescere», una Onlus di Cervia che da anni opera in Tanzania e in Senegal, costruendo pozzi in luoghi remoti e isolati. Dopo aver visto I Care Tanzania, il mio libro per le missionarie della Consolata, hanno voluto fae uno anche loro per raccogliere fondi e mostrare cosa siano riusciti a realizzare nonostante le esigue risorse.

Arrivo all’aeroporto di Dakar con il presidente dell’associazione Antonio Pescini e sua moglie Patrizia che è già buio. Una ventata di caldo umido mi si appiccica addosso mentre aspetto che l’impiegato si decida a mettere un timbro sul passaporto. Non faccio in tempo a girarmi che già due «guardie del corpo», sorridendomi dall’alto dei loro due metri, afferrano il carrello con i miei bagagli… Li lascio fare. È inutile dire loro che non ne ho bisogno, che non voglio, sarebbe solo l’inizio di un’estenuante trattativa che in quel momento il mio fisico, impegnato a lottare con quell’umidità asfissiante, non potrebbe affrontare. È sempre così quando arrivo in Africa, anche se il caldo del Senegal mi ha messo a dura prova più che in altri paesi.
Ad aspettarci fuori dall’aeroporto c’è Paco, un giovane senegalese dalle mille risorse, che ci accompagnerà nelle prossime settimane. Carichi di valige e borse, entriamo nella sua macchina diretti a Saly, una località costiera, conosciuta dai turisti non solo per il mare. L’indomani, davanti a uno straordinario oceano, non possiamo fare altro che godercelo.
Il giorno seguente partiamo per l’entroterra, per inaugurare tre pozzi e fotografare i progetti realizzati. E inizia l’avventura! Paco ci viene a prendere con un ibrido di Peugeot, una crasi di quattro modelli di macchine diverse, troppo bassa per attraversare strade sterrate e deserto; ma, più che prepararci al divertimento non possiamo fare!
Dopo esserci incastrati nella macchina, prima a vicenda e poi con le valigie, partiamo alla volta di Mbar, nella regione di Kaolack. In queste settimane macineremo chilometri e chilometri attraversando in lungo e in largo le tre regioni di Kaolack, Diourbel e Fatick, nei villaggi dove l’associazione ha realizzato pozzi e un dispensario di ginecologia.

Il deserto ci avvolge a perdita d’occhio. La solitudine del paesaggio viene rotta da concentrazioni di maestosi baobab e di tanto in tanto da villaggi. La temperatura inizia a salire, supera facilmente i 35°, poi i 45° fino ad arrivare a 52° nei giorni successivi. L’umidità è così spessa da rendere il cielo dello stesso colore della sabbia. Polvere, sabbia e ancora sabbia.  
Mi perdo a osservare un deserto ricoperto di buste di plastica, lattine e bottiglie. È impressionante vedere chilometri e chilometri di sabbia nuda, ricoperta di così tanta spazzatura che cerca di sciogliersi. Ma è inutile farsi domande sul perché non si riesca a sviluppare una coscienza ecologica in Africa: è certamente un problema che, fino ad oggi, non è mai interessato a nessun partito politico o associazione presente nel paese.

Romina Remigio

Romina Remigio

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