Cana (21) «C’era là la madre di Gesù»

Il racconto delle nozze di Cana (21)

Gv 2,1c: «[Uno sposalizio avvenne a Cana di Galilea] ed era la madre di Gesù là»
(kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi)
Sapevamo già che Gesù ha relazioni parentali particolari o almeno interessanti: è il «Figlio unigenito che viene dal Padre» di cui viene a farci «l’esegesi» (Gv 1,14.17); è «il Figlio di Dio» testimoniato da Giovanni il battezzante (cf Gv 1,34) e riconosciuto da Natanaele che lo va a cercare di notte (cf Gv 1,49). Sapevamo anche che Gesù stesso si autopresenta come «Figlio dell’uomo» (Gv 1,51) e dai «vangeli dell’infanzia» sia di Mt che di Lc sappiamo anche che ha due genitori: Giuseppe e Maria che egli tratta abbastanza malamente quando ricorda loro che devono stare al loro posto: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49), non considerando l’angoscia e il dolore dei due malcapitati che credendolo scomparso si sono disperati a cercarlo. Si rivolge ai genitori contrapponendoli a un altro «Padre». Il testo di Lc è interessante perché probabilmente è la versione cristiana del rito ebraico della «Bar Mitzvàh – Figlio del Comandamento», il rito del passaggio alla maggiore età di ogni ebreo maschio al compimento del dodicesimo anno e all’ingresso nel tredicesimo. Da questo momento ogni Ebreo diventava maggiorenne e poteva leggere la seconda lettura (i profeti) nella liturgia della sinagoga. Noi ora non possiamo occuparcene.
Dalla sposa alla madre
L’autore del IV vangelo a sua volta ci informa che c’è una «madre» (cf Gv 2,1) che partecipa alle nozze: non sappiamo se come semplice invitata o come parente. Anche questa «madre» però in Gv ha una particolarità: è sempre senza nome perché non viene mai indicata ed è un altro indizio che ci costringe a salire di livello. Una precisazione è necessaria: nella letteratura Giovannea quando si parla di «madre» indica sempre Maria di Nàzaret definita secondo il costume orientale con la sua funzione (cf Gv 2.1.3.5.12; 19,25.26.27); quando si parla di «sposa» si indica invece sempre la Chiesa (Gv 3,29; Ap 18,23; 21,2.9; 22,17). È importante sottolinearlo, perché nel racconto di Cana abbiamo «la madre», ma non «la sposa», nonostante si tratti di «uno sposalizio»; bisogna intendere cosa vuole dirci l’autore.
Riguardo alla parentela, Gesù è descritto da Gv come «unigenito del Padre» (Gv 1,14.18), «Figlio di Dio» (Gv 1,34.49) e «Figlio di Giuseppe» (Gv 1,45), per cui ora abbiamo un nuovo rapporto di parentela, preludio dei tempi nuovi: inizia l’èra della mateità della Chiesa, la sposa che genera la nuova umanità, immagine del Figlio.
Dal punto di vista delle relazioni umane, c’è chi pensa che la presenza della «madre di Gesù» sia dovuta a legami di parentela. Scrive a questo proposito Raymond E. Brown: «Esiste una tradizione apocrifa che Maria fosse la zia dello sposo, che un prefazio latino dei primi del III secolo identifica come Giovanni figlio di Zebedeo» (Giovanni, I,126). Un fatto è certo: la Madre è presente alla festa di nozze; anzi «doveva» esserci (v. più sotto la spiegazione dell’uso dell’imperfetto del verbo «essere»), ma anche perché da nessuna parte si dice che era stata invitata, come invece si afferma nel versetto seguente per Gesù e per i suoi discepoli.
Se il motivo della presenza fosse stata la parentela, anche Gesù avrebbe dovuto essere trattato come parente e avrebbe dovuto essere già là. Non si capisce perché per lui l’evangelista sente la necessità di dire che «era stato invitato» (Gv 2,2), mentre non sente questa necessità per la madre. Gesù e i suoi discepoli possono essere stati invitati da qualche conoscente, come Natanaele che era di Cana, il quale poteva avere interesse che la presenza di Gesù, personaggio noto, avrebbe dato certamente lustro e importanza al matrimonio.
Il motivo però della differenza tra la madre, che è «già» sul luogo delle nozze, e Gesù, che giunge all’inizio della festa, non bisogna cercarlo nel grado di parentela o in un invito interessato, perché ci porremmo sempre al livello immediato delle banalità; bisogna invece andare oltre le apparenze e penetrare il simbolismo che Gv ha inteso esprimere.
La semplice constatazione che «la madre di Gesù era là» potrebbe essere solo una notizia di cronaca, ma in Gv nulla è scontato e infatti dietro il senso domestico di una presenza materiale a una festa nuziale come tante altre, c’è la dimensione teologica che l’autore vuole mettere in evidenza.
Abbiamo detto spesso, e lo sottolineiamo di nuovo, che Gv usa lo stile della duplicità di significato: dietro le parole materiali di uso comune si nasconde la teologia cristologica. Non si tratta più dell’importanza del senso comune delle singole parole, ma del fatto straordinario che ciascuna di esse ha «settanta significati» per affermare la ricchezza inesauribile della Parola di Dio che nessun linguaggio, nessuna parola possono pretendere di contenere.
Qui ci troviamo espressamente di fronte a una «rivelazione» della personalità di Gesù, il Figlio di Dio. Se dal Sinai scendeva una Legge pietrificata, a Cana avviene la «manifestazione», l’epifania della persona stessa di Dio che si presenta alle nozze dell’alleanza nuova, come lo sposo atteso dall’amante del Cantico dei Cantici, e questo sposo è Gesù.
Significato dell’imperfetto «era»
L’abbinamento del verbo essere con l’avverbio «era … là» è tipica di Gv, che in tutto il vangelo la usa dieci volte, di cui due nel racconto di Cana (cf Gv in 2,1.6; 3,23; 4,6; 5,5; 6,22.24; 11,15; 12,9.26). L’uso, infatti dell’avverbio locativo «là – ekêi» con il verbo «essere» al tempo imperfetto, ritorna anche in 2,6: «C’erano poi là sei giare di pietra» (Gv 2,6). Questo richiamo ravvicinato, e identico sintatticamente, è fatto apposta per creare un parallelo tra la madre e le giare:
– Gv 2,1: «Ed era la madre di Gesù là»
                (kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi).
– Gv 2,6: «Poi erano là sei giare di pietra»
                (êsan dè ekêi lìthnai hydrìai).

Il verbo «essere» al tempo imperfetto ha valore qualitativo e indica una azione continuativa e duratura nel passato e intende dire che la madre stava «là» fin dall’inizio, come dire che «c’era da sempre».
Ogni volta che l’autore del IV vangelo deve introdurre un personaggio importante con un ruolo particolarmente significativo, usa sempre il tempo imperfetto:
– Gv 2,1: «C’era la madre di Gesù».
– Gv 3,1: «C’era tra i farisei un uomo di nome
                Nicodemo».
– Gv 4,46: «C’era un funzionario del re».
– Gv 5,5: «C’era lì un uomo che da 38 anni era malato».
– Gv 11,1: «C’era un malato, Lazzaro».
– Gv 12,20: «C’erano dunque tra quelli che erano saliti
                    per il culto, alcuni greci».

L’uso dunque dell’imperfetto del verbo «essere» è costante in Gv e forma quasi uno schema di presentazione importante (cf SERRA, Le nozze di Cana, 202-204).
La madre  e le giare
La sua presenza non è casuale: non è venuta per le nozze, ma c’era già come se aspettasse quelle nozze che sono il motivo della sua attesa. Lo stesso si deve dire delle giare di pietra, perché anche esse «erano là, distese per terra/che giacevano» prima ancora che le nozze iniziassero. È evidente che Gv ci vuole comunicare un simbolismo particolare sia della madre che delle giare, perché l’una e le altre non sono coreografiche, ma hanno un ruolo preciso e una funzione determinante. La madre e le giare «erano là», cioè aspettavano che finalmente avesse luogo lo sposalizio. La madre rappresenta il popolo d’Israele in attesa di essere ripreso come «sposa» dell’alleanza nuova rinnovata, perché è reduce dalle nozze dell’antica alleanza sinaitica finita in esilio, cioè in corruzione.
Le giare sono il segno visibile della Toràh scritta e orale, incisa su tavole di pietra (Es 24,12; cf Mateos – Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 133 e 137) che sono diventate il «sacramento» del cuore di pietra di Israele descritto dal profeta Ezechiele e in attesa del trapianto del cuore di carne (cf Ez 11.19; 36,26). La madre e le giare sono il simbolo della sinagoga che attende il Messia:
a) le giare sono pronte per innovare la purificazione che il popolo dovette fare ai piedi del Sinai: «Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo”» (Es 19,10-11).
b) la madre è già sulla scena perché deve accogliere sia lo sposo, il Figlio, sia i figli che tornano dall’esilio, ponendo fine alle lacrime di Rachele che piange i suoi figli esiliati (cf Ger 31,15). La madre qui assume un connotato di dirompente profezia, perché annuncia l’arrivo del Messia e, al tempo stesso, chiude il tempo dell’attesa: il vino coservato nella cantina del monte Sinai, il vino della Parola di Dio ora scorre abbondante e invade la Chiesa, l’Israele fedele, il nuovo popolo che non è sostitutivo del primo Israele, ma ne è la continuazione nel segno del compimento.

L’espressione «la madre di Gesù» è una costruzione con un soggetto (la madre) e un genitivo (di Gesù) che tecnicamente si chiama «genitivo adnominale», perché riceve senso compiuto e pieno dal nome da cui dipende (cf R. Cantarella – C. Coppola, Nozioni di Sintassi Greca, Milano 1971, § IX,II,1). Senza il nome sarebbe semplicemente «la madre di…» nessuno.
Madre, Israele e Messia
Maria è chiamata sempre «la madre di…» Gesù, espressione che ricorre ben dieci volte su undici occorrenze (cf Gv 2,1.3.5.12; 6,42;19,25[2x].26[2x].27). La sola volta in cui ricorre il termine «madre» non riferito a Gesù è nelle parole di Nicodemo, alle prese con il tentativo di rientrare da adulto nel grembo di sua madre (cf Gv 3,4). Il motivo dell’anonimato è di due ordini: la madre è conosciuta e tutti sanno chi è, ma anche perché non è importante la sua persona, ma ciò che rappresenta, il simbolo che rappresenta. Approfondiremo questo aspetto nel commento al v. 4, quando Gesù si rivolge alla «madre» con l’appellativo di «donna».
Ancora oggi in oriente presso gli Arabi, «madre di…» è titolo onorifico, perché la mateità dà alla donna un nome nuovo, facendole assumere una personalità nuova che le fa perdere il nome proprio e subordinandola all’esistenza del figlio (G. Segalla, Giovanni, 160). Nel Cantico dei Cantici, lo sposo [il re Salomone], nel giorno delle nozze, è incoronato dalla madre (cf Ct 3,11; cf Manns, Jésus 72).
A Cana la madre «era là» per incoronare il figlio, l’«amato del Padre», che con le sue nozze conclude l’alleanza annunciata dal profeta Geremia (cf Ger 31,31) e porre fine al lutto di Rachele perché inizia la nuova vita dei suoi figli che tornano dall’esilio della morte. La madre deve incoronare il figlio nel segno dell’acqua-vino e accompagnarlo fino all’ora suprema delle nozze, l’ora del sangue e dell’acqua (cf Gv 19,34) quando sulla croce sarà spremuto come l’uva matura fino a dare il suo Spirito vitale all’umanità nuova rappresentata dalla madre/nuova Eva e dal discepolo/ nuovo Adam, consegnando loro lo Spirito (cf Gv 19,30).
In questo senso, per Gv «Madre di Gesù» è un titolo cristologico, come cristologica è la prospettiva di tutta la scena. Maria, figura del popolo nuziale dell’antica alleanza, ora è presente alle nuove nozze di Dio con l’umanità, simboleggiate nelle nozze di Cana.
Maria è la personificazione del popolo d’Israele che attende lo sposo e Gesù, suo figlio, è lo sposo che giunge per «prendere possesso» legittimamente del suo popolo. Il nome del villaggio «Cana», in ebraico «Qanàh», significa «acquistare/comprare»: il luogo geografico dell’intervento di Gesù è profetico perché esprime già il valore teologico dell’azione. Non si tratta di un matrimonio di routine, ma di un evento salvifico perché il Messia viene nel mondo «per acquistare» (redimere) non più Cana, ma la «madre» che rappresenta il popolo di Israele. Rachele era rimasta sepolta sulla via di Betlemme a piangere per i suoi figli che andavano esuli in Egitto (cf Ger 31,15; Mt 2,18). A Cana invece «c’è la madre» che accoglie il Figlio/ Messia per essere nuovamente resa feconda di figli.
Madre e popolo messianico
A Cana inizia la nuova mateità nella persona della madre, «consacrata» genitrice del popolo Israele rinnovato. Questo processo troverà il suo compimento ai piedi della croce, quando non sarà più simbolo di un Israele, ormai realtà troppo esigua, ma in rappresentanza di Eva, «la madre di tutti i viventi» (Gen 3,20), riceverà dal Figlio suo, «l’amato dal Padre», la consegna del secondo figlio, «il discepolo che egli amava» (cf Gv 19,26; 20,2; 21,7.20), immagine e figura di Adamo e della nuova umanità «“ri-”creata». Ciò che comincia a Cana si perfeziona al Calvario, che è il vertice del vangelo, ai piedi della croce, là dove «l’ora» che a Cana vide «il principio dei segni» (Gv 1,11) esplode nella manifestazione/rivelazione al mondo della «gloria di Dio» nell’uomo crocifisso. Come a Cana la madre era già lì per consumare l’attesa del popolo orfano, così anche al Calvario, la madre è ancora già e sempre lì: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre …» (Gv 19,25).
Sinai, Cana e Gòlgota stanno insieme e si richiamano a vicenda: l’uno non può sussistere senza gli altri. Cana sta tra i due monti «salvifici» a fare da legame teologico. Al Sinai si celebra la nuzialità come promessa: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» (Es 24,7), sintetizzato dal profeta nella formula sponsale: «Voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio» (Ger 11,4). Dal monte Sinai con le tavole di pietra discende, la volontà di Dio si essere il «Dio di Israele», l’identità di Israele, l’unità della nazione come popolo e il fondamento di questa unità che è la Toràh, la Legge come coscienza e come compito.
A Cana si compiono le nozze: lo sposo è accolto dalla madre. Cessa il lutto, finisce la vedovanza, inizia la nuova storia di Israele.
Al Gòlgota la Toràh non è più scritta sulla pietra, ma sulla carne viva del Figlio che versa il sangue della vita per dare vita all’acqua dell’umanità arsa dalla fame e sete della Parola di Dio (cf Am 8,11): «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscirono sangue ed acqua» (Gv 19,34). Come Eva uscì dal fianco di Adamo, così la nuova umanità esce dal fianco di Cristo, attraverso l’acqua del battesimo e il sangue dell’eucaristia che compiono quanto è stato visto e sperimentato a Cana con l’acqua trasformata in vino.
Il Sinai, come abbiamo già visto nel capitolo dedicato al vino, era considerato dagli Ebrei come la cantina di Dio, dove era conservata fin dalla creazione del mondo il vino messianico di cui la Toràh era la premessa e la promessa. Sulla croce il sangue di Cristo è versato tutto, consumando ogni riserva come aveva profetizzato il gesto di Cana, quando i servi riempiono le giare di pietra «fino all’orlo».
 (21 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella

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