Cana (20) Tre villaggi per una sposa assente

Il racconto delle nozze di Cana (20)

Gv 2,1b: «[Uno sposalizio] avvenne a Cana di Galilea»
La Bibbia-Cei, ultima edizione (2008) fa spesso una scelta semplificativa nella traduzione, perché ha come obiettivo la proclamazione liturgica, e predilige quindi la comprensione immediata (orecchiabile) all’esattezza semantica del testo. Questo fatto crea problemi di notevole rilievo: da un lato esprime la coscienza che il popolo di Dio ha poca dimestichezza con la «Parola»; dall’altro rivela espressamente che si fa un uso strumentale della Bibbia che diventa così «supporto», ora della liturgia, come ieri lo fu della teologia. Sarebbe opportuno, anzi necessario, che la Bibbia fosse «incontrata» in se stessa indipendentemente dalla teologia o dalla liturgia o spiritualità. Sono queste che devono nutrirsi e «fondarsi» sulla Bibbia, non questa giustificare quelle. Se «il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), noi ci troviamo non davanti a un libro, ma a una Persona che deve essere incontrata, frequentata e conosciuta.
Un esempio di questa scelta poco lungimirante è proprio Gv 2,1 che la Bibbia-Cei traduce con «Il terzo giorno “vi fu” una festa di nozze a Cana di Galilea». Dire che «vi fu» uno sposalizio significa dire una banalità, affermare il fatto in sé, neutro e senza alcuna incidenza nella vita di chi legge. Il testo della Cei guarda al fatto delle nozze come un fatto passato, occasionale, di quel tempo senza alcuna connotazione o conseguenza.
L’evangelista invece connota lo sposalizio e dice con solennità che vi sono conseguenze che ci riguardano. Il testo greco, infatti, riporta: «kài thê(i) hēmèra(i) thê(i) trìtēē gàmos eghèneto en Kanà thês Galilàias – E nel terzo giorno uno sposalizio “avvenne/accadde” in Cana della Galilea». Anche un lettore che conosce poco il greco si accorge immediatamente che il verbo «eghèneto – avvenne/accadde», in italiano un passato remoto, ha qualcosa di grandioso in sé, perché è la spia che qualcosa di nuovo e non previsto sta per accadere. Dal punto di vista della morfologia il verbo è una 3a persona singolare del tempo aoristo indicativo medio del verbo «ghìnomai – divento» che in forma impersonale si traduce con «accade/avviene». Si trova in due costruzioni: «kài eghèneto» e «eghèneto dé» che traducono l’ebraico «wayehî», espressione frequentissima nella Bibbia. Spesso è usata all’inizio di frase sia in ebraico che in greco per dare importanza narrativa alla frase che segue, che altrimenti sarebbe una frase secondaria.
Nella doppia forma l’espressione ricorre circa 60 volte nel NT (greco); si trova 619 volte nell’AT greco (versione della LXX), mentre nella Bibbia ebraica si conta 816 volte. L’espressione è pregnante, perché si trova sempre a inizio di frase compiuta e ha un valore narrativo, cioè, mette in primo piano quello che segue immediatamente, rendendolo necessario per la comprensione dei lettori o ascoltatori. Una cosa è dire: «Vi fu una festa di nozze» e altra cosa è affermare: «Avvenne uno sposalizio»; oppure, non è lo stesso dire: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse un censimento su tutta la terra» (Lc 2,1), perché è ben diverso dire o scrivere: «Avvenne che in quei giorni, un decreto di Cesare Augusto …».
La seconda forma annuncia con solennità che non si tratta di un fatto banale, ma di un evento portatore di senso e mette in guardia il lettore/uditore che qualcosa di unico e straordinario sta succedendo. Questo fatto spiega anche perché la Scrittura ne fa uso ricorrente, quasi costante: è un modo letterario per rendere imminenti, contemporanei e vivaci gli interventi di Dio che in questo modo entra nella storia con un passo che imprime cambiamenti e suscita eventi rilevanti: «Il Dio biblico imprime le orme del suo passaggio nell’argilla della nostra ferialità» (Serra, Le nozze di Cana, 191). Se lo sposalizio «storico» di Cana è un fatto banale in se stesso, non lo è più nella penna dell’autore del vangelo di Giovanni che ci avverte che quel fatto banale è portatore di un senso nuovo che bisogna scoprire.
La geografia di Dio
L’avvenimento che «accade», cioè lo sposalizio, si compie in una località geografica: Cana della Galilea, sulla cui identificazione da secoli si discute con altee posizioni. L’espressione «Cana della Galilea» nel vangelo di Giovanni ricorre 4 volte (cf Gv 2,1.11; 4,46; 21,2) e viene a formare una inclusione, trovandosi sia all’inizio del vangelo (2 volte nel racconto delle nozze di Cana) sia alla fine (apparizione del risorto ai discepoli). In mezzo ritroviamo la stessa espressione «Cana della Galilea» all’inizio del racconto della guarigione del figlio del centurione romano (cf Gv 4,46), per cui potremmo dire che i primi quattro capitoli del vangelo si svolgono «da Cana a Cana», passando per Gerusalemme (cf Gv 2,13.23; 5,1), il Giordano (cf Gv 3,23), la Samaria (v. la donna dai cinque mariti + uno; cf Gv 4,4) e Cafaao (cf Gv 2,12).
È la geografia della salvezza perché senza geografia Dio non parla e non agisce: l’incarnazione e la rivelazione dell’alleanza deve avvenire nella «storia» cioè in «un luogo» che diventa sacramento dell’incontro con Dio. Nessun credente può vivere senza geografia, perché questa segna i confini della propria esperienza, unita alla storia come sviluppo degli eventi. Nessuna spiritualità è possibile al di fuori della geografia della storia individuale e di popolo perché il Dio di Gesù Cristo è «Emmanuel, Dio-con-noi», cioè Dio verificabile in un tempo e in uno spazio. Gv non cita questi luoghi per curiosità o per amore di cronaca, ma per ragioni teologiche: è il Lògos che vive «presso Dio, rivolto verso Dio, che era Dio» che opera da «Cana a Cana», che «sale a Gerusalemme», oppure «parte per la Galilea» oppure ancora si sposta «nella regione della Giudea».
È il Lògos eterno, la Sapienza esistente prima della creazione che «pianta la sua tenda» nella geografia e nella storia di Israele, il nuovo Tempio dove possiamo incontrare Dio faccia a faccia senza il terrore di dovere morire (Gen 33,31; Es 33,11).
Cana: una o tre?
Il villaggio di Cana, nel IV Vangelo, è sempre accompagnato dal complemento denominativo/specificazione «della Galilea», quasi un accorgimento necessario per distinguerlo da altre omonimie. Ancora oggi essa indica la località, custodita dai francescani e frequentata dai pellegrini che la tradizione indica come il luogo del «segno» dell’acqua trasformata in vino. Le ricerche archeologiche e gli studi delle fonti hanno però riproposto la problematica della sua identificazione, per la quale addirittura si sono ipotizzate tre località:
1- Qana: 12 km a sud-est di Tiro, di cui si parla nel libro di Giosuè, collocata nella tribù di Aser (cf Gs 19,28), nel Libano meridionale (antica Fenicia), che non ha nulla da spartire con la Cana del IV vangelo, anche se il Libano la sfrutta per motivi turistici.
2 – Kefr/Kafr Kenna: 6 km a nord di Nàzaret, a est di Sèfforis, nella regione della Galilea e che, ancora oggi, corrisponde alla Cana tradizionale.
3 – Khirbet Qana: 14 km a nord di Nàzaret nella valle di Battòf o Bet Netòfa, ai piedi del monte Asamòn.
Schematicamente si può affermare che le fonti antiche sono incerte; fino al Medio Evo i pellegrini conoscono e frequentano Khirbet Qana; dal XVII secolo i pellegrinaggi dirottano verso Kefr/Kafr Kenna, specialmente per impulso del francescano Francesco Quaresmi, uomo di grande cultura che, come responsabile della Custodia di Terra Santa, visitò tutti i luoghi scrivendo tra il 1619 e il 1626 l’opera «Historica Teologica et Moralis Terrae Sanctae Elucidatio» (Descrizione storica, teologia e morale della Terra Santa, in 2 volumi), ancora oggi considerata dagli studiosi l’opera più considerevole sui luoghi della memoria del Signore. In modo particolare, la tradizione di Kefr/Kafr Kenna si diffonde dal XIX secolo con l’edificazione di una chiesa, forse su una sinagoga preesistente. Per quest’ultima si schierano archeologi e studiosi di matrice francescana come padre Bellarmino Bagatti e il biblista, suo confratello, Emmanuele Testa1.
Secondo Eusebio di Cesarea (265-340, che riporta la testimonianza di Giulio Africano, morto nel 240)2 a 4 km a ovest da Khirbet Qana, esisteva al suo tempo un villaggio, Kaukàb, dove risiedevano ancora parenti di Gesù. Ancora oggi, è questa località a mantenere il monopolio di mèta indiscussa di pellegrinaggi identificata come la Cana delle nozze evangeliche.
Sulla identificazione archeologica, si crede che la parola definitiva sia stata detta dall’ultimo lavoro scientifico dovuto a un prete spagnolo, Júlian Herrojo3; non è un archeologo, ma ha svolto un lavoro straordinario di ricerca, analizzando criticamente tutti i testi letterari esistenti, pervenendo a una conclusione obbligata: la Cana evangelica non è quella dei pellegrinaggi abituali o Kefr/Kafr Kenna, ma è Khirbet Qana, nascosta ancora in parte sotto il terreno e che nascosta resterà, perché sarà difficile scalzare una tradizione ultramillenaria che continua a guidare i pellegrini all’altra Cana.
Fonti bibliche
L’esame delle fonti bibliche non è complicato in se stesso, ma pone qualche problema, perché l’interpretazione che ne danno i documenti posteriori di epoca cristiana non sempre sono univoci e chiari. Nell’AT il lemma «Qānāh» ricorre solo nel libro di Giosué: due volte per indicare il nome di un torrente (Gs 16.8; 17,9 che il greco della LXX traduce rispettivamente con «Chelkàna e Karàna») e una volta per indicare una località della tribù di Aser, localizzata in Libano: «La quinta parte (della terra) sorteggiata toccò ai figli di Aser… Il loro territorio comprendeva: …Cammon e Qānāh fino a Sidone la Grande» (Gs 19,25-30, qui vv. 24.25 e 28). Il nome Qānāh appare in una lista di località conquistate da Ramses II (ANET, 256; LOB, 181) e, con buona probabilità, corrisponderebbe al villaggio arabo di Qāna, 10 km a sud est di Tiro, cioè la Cana fenicia o del Libano (ABEL, Géographie II, 412), come accennato sopra. L’ortografia ebraica, Qānāh, è nota anche da una lista di località sacerdotali che, dopo la rivolta di Bar Kochba nella terza guerra giudaica (132-135), attesta la presenza a Cana della famiglia del sacerdote Eliasib (cf. GEIB, 244; DALMAN, Les Itinéraires 110). Lasciando da parte il Libano che dista non meno di 100 km dal luogo che ci interessa, restano le altre due località che sono contese dagli studiosi (v. nota 1).
Nel NT il villaggio di Cana è menzionato 4 volte e sempre nel IV vangelo (cf Gv 2,1.11; 4,46; 21,2) e in tutte le 4 occorrenze, probabilmente per distinguerla dall’altra, è chiamata «Cana della Galilea».
Gv 2, 1.11: inizio e chiusura (inclusione) del racconto delle nozze di Cana.
Gv 4, 46: guarigione a distanza del figlio del centurione di servizio a Cafaao (cf Gv 4,46b).
Gv 21, 2: qui si dice che l’apostolo Natanaele è originario di «Cana della Galilea».
Nel racconto dello sposalizio di Cana, l’attenzione è centrata sulla trasformazione dell’acqua in vino: fatto così importante che l’autore sente la necessità di ricordarlo come evento quando parla della guarigione del figlio del centurione romano: «Andò di nuovo (dalla Samarìa) a Cana della Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino» (Gv 4,46). Subito dopo l’autore aggiunge che il centurione romano si trovava (in missione?) a Cana, ma viveva di norma a Cafaao, la città dove Gesù era sceso con sua madre e i suoi discepoli subito dopo le nozze (cf Gv 2,12). Gesù dunque scende a Cafaao, va in Samarìa dove incontra la donna samaritana al pozzo (cf Gv 4,1-42) e risale a Cana. Qui incontra il centurione romano che è di Cafaao: questi indizi non ci dicono dove sia Cana, ma affermano che deve essere vicina a Cafaao se si verifica questo «via-vai» frequente.
In tutti e 4 i testi, quando l’evangelista nomina la località usa sempre l’articolo individuante: non dice «Cana “di” Galilea», ma è più preciso perché non vuole sbagliare né ingannare i suoi lettori; egli parla di «Cana “della” Galilea», con una denominazione specifica che indica una località ben conosciuta nelle vicinanze di Cafaao o comunque del lago di Tiberiade. Tutte e due le località sono vicine, se consideriamo che le distanze al tempo di Gesù non erano quelle odiee che seguono vie asfaltate e tortuose, ma erano più contenute perché strade che si percorrevano a piedi o mulattiere. C’è un diario di viaggio dell’«Anonimo Piacentino» (560-594) che è interessante perché ancora nel VI secolo accenna a una liturgia rituale di due idrie usate per offrire vino e all’usanza diffusa nei luoghi santi e in tutto il mondo di scrivere i nomi di chi si vuole ricordare sul tavolo di legno:
«Da Tolemaide (Akko), lasciammo il litorale e giungemmo ai confini della Galilea, nella città di Diocesarea, in cui adorammo in molti il cestello (testo incerto) della santa Maria. Nello stesso posto c’era la sedia di quando l’angelo venne a lei. Quindi, dopo 3 miglia, giungemmo a Cana, dove il Signore partecipò alle nozze, e ci sedemmo sullo stesso sedile, dove, indegnamente, scrissi il nome dei miei genitori. Delle due idrie che sono qui, una la riempii con vino e così piena la caricai sul collo e l’offrii sull’altare e nella stessa fonte ci lavammo in benedizione» (Recensio Prior Rhenaugiensis 73) .
L’excursus letterario, archeologico e geografico che abbiamo fatto potrebbe sembrare arido ed eccessivo nell’economia di una rubrica «giornalistica», ma solo ai superficiali, perché la Parola di Dio è sempre «Parola» sia in chiesa, sia in un libro, sia in una rivista e dovunque deve essere onorata e approfondita con lo stesso zelo e ardore. La geografia non è estranea alla fede, perché è il luogo dove ciascuno di noi ha incontrato il Signore e come gli innamorati conservano memoria viva dei luoghi e tempi del primo innamoramento, anche noi dovremmo conservare «memoria innamorata» degli spazi fisici dove il Signore a ciascuno di noi «manifestò la sua Gloria». La Bibbia ci insegna come fare.
 (20 – continua)

Paolo Farinella




Non ti è lecito

«Se verrete a conoscere chiaramente che sono in pericolo la salvezza e l’onestà delle figliole,
non dovrete per niente consentire, né sopportare, né aver riguardo alcuno.
Se non potrete provvedere voi, ricorrete alle madri principali e, senza riguardo alcuno,
siate insistenti, anche importune e fastidiose» (Sant’Angela Merici).

Da anni, insieme a tre mie consorelle (suore Orsoline del S. Cuore di Maria), sono impegnata
in un territorio a dire di molti «senza speranza». Un territorio, quello casertano,
sempre più in ginocchio per il suo grave degrado ambientale, sociale e culturale, dove
anche la piaga dello sfruttamento sessuale, perpetrato a danno di tante giovani donne
migranti, è assai presente con i suoi segni di violenza e di vera schiavitù.
Come donna, come consacrata, provocata dal Vangelo di Gesù che parla di liberazione e di speranza,
insieme alle mie consorelle, ho scelto di «farmi presenza amica» accanto a queste giovani
donne straniere, spesso minorenni, per offrire loro il vino della speranza, il pane della vita e il
profumo della dignità.
Oggi, osservando il volto di Susan chinarsi e illuminarsi in quello del suo piccolo Francis, scelto e
accolto con amore, ripensando alla sua storia – una tra le tante storie accolte, la quale ancora
bambina (16 anni) si è trovata sulle nostre strade come merce da comprare, da violare e da usare
da parte di tanti uomini italiani – sono stata assalita da un sentimento di profonda vergogna, ma
anche di rabbia.
Ho sentito il bisogno, come donna, come consacrata e come cittadina italiana, di chiedere perdono
a Susan per l’indecoroso spettacolo a cui tutti, in questi giorni, stiamo assistendo. E non solo a
Susan, ma anche alle tante donne che hanno trovato aiuto e liberazione e alle tante, troppe donne,
ancora schiave sulle nostre strade. Ma anche ai numerosi volontari e ai tanti giovani che insieme
a noi religiose credono nel valore della persona, in particolare della donna, riconosciuta e rispettata
nella sua dignità e libertà.
Sono sconcertata nell’assistere come da «ville» del potere alcuni rappresentanti del governo,
eletti per cercare e fare unicamente il bene per il nostro Paese, soprattutto in un momento di così
grave crisi, offendano, umilino e deturpino l’immagine della donna. Inquieta vedere esercitare, in
maniera così sfacciata e arrogante, un potere che riduce la donna a merce e dove fiumi di denaro
e di promesse si intrecciano con corpi trasformati in oggetti di godimento.
Di fronte a tale e tanto spettacolo l’indignazione è grande!
Come non andare con la mente all’immagine di un altro «palazzo» del potere, dove circa duemila
anni fa al potente di tuo, incarnato nel re Erode, il Battista gridò con tutta la sua voce: «Non ti è
lecito, non ti è lecito!».
Anch’io oggi, anche a nome di Susan, sento di alzare la mia voce e dire ai nostri potenti, agli Erodi
di tuo, non ti è lecito! Non ti è lecito offendere e umiliare la «bellezza» della donna; non ti è lecito
trasformare le relazioni in merce di scambio, guidate da interessi e denaro; e soprattutto oggi
non ti è lecito soffocare il cammino dei giovani nei loro desideri di autenticità, di bellezza, di trasparenza,
di onestà. Tutto questo è il tradimento del Vangelo, della vita e della speranza!
Ma davanti a questo spettacolo una domanda mi rode dentro: dove sono gli uomini, dove sono i
maschi? Poche sono le loro voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi
c’è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo
mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c’è un
grande bisogno di liberazione.
E allora grazie a te, Susan, sorella e amica, per aver dato voce alla mia e nostra indignazione, ora
posso, come donna consacrata e come cittadina, guardarti negli occhi e insieme al piccolo Francis
respirare il profumo della dignità e della libertà.

Sr. Rita e sorelle, comunità Rut

Suor Rita