Cana (19) Il matrimonio al tempo di Gesù, nella Scrittura, nel Giudaismo

Il racconto delle nozze di Cana (19)

La Mishnàh (Qiddushìn – Matrimonio 1,1) insegna: «Una donna è acquistata (ebr.: qanàh;) in tre modi: con denaro, con contratto e con rapporti sessuali»; allo stesso modo si acquista uno schiavo (cf Mishnàh, Qiddushìn 3,1). È importante sottolineare il senso che gli Ebrei davano al matrimonio come «acquisto» della donna, perché la riprenderemo nell’esegesi che faremo del nome della cittadina dove «avvenne» lo sposalizio, cioè «Cana» che, etimologicamente, deriva dal verbo ebraico «qanàh» che significa «acquistare», da cui si capisce perché la Mishnàh parla di «donna acquistata».
Con le nozze la donna diventa «una proprietà» dell’uomo che, appunto, al momento di prenderla in casa, la compra versando il «prezzo» concordato alla famiglia di lei. In alcune parti, specialmente in campagna e nei villaggi c’era l’usanza che la dote versata dal fidanzato fosse corrispondente al «peso» della donna che, quindi, la famiglia faceva ingrassare l’anno di fidanzamento precedente il matrimonio. In ebraico «essere pesante» si dice «kabèd», che deriva dal sostantivo «kabòd» che vuol dire «gloria»; una persona gloriosa è una persona «pesante», cioè consistente, stabile, solida. Una persona magra, un capo, una donna, hanno poca consistenza e quindi valgono poco.
Il sogno di Dio
Fin dalla creazione il matrimonio è parte integrante del disegno di Dio, che crea un uomo e una donna perché insieme, uniti sessualmente, siano «immagine di Dio». In Gen 1,27 infatti si legge che «Dio creò Adam [= genere umano] a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: “zakàr weneqebàch” li creò», dove l’espressione ebraica significa propriamente «pungente e perforata» che apre una prospettiva straordinaria sulla personalità «nuova» che realizza il matrimonio perché è nel rapporto sessuale che si manifesta in piena compiutezza l’immagine di Dio. È qui che trova il suo compimento e la sua maturità la «chiesa domestica» (Lumen Gentium, 11) che nell’intima unione degli sposi esprime e rivela profeticamente l’unità indissolubile del Padre, del Figlio e dello Spirito1. Non solo, ma il matrimonio monogamico è un richiamo costante al matrimonio di Dio e Israele, la nazione che Dio «si è acquistata» tra tutte le nazioni della terra (cf Es 15,16; Dt 7,6; 14,2; Os 2,21-22), allo stesso modo che la Chiesa, sposa di Cristo, è stata «acquistata» con il sangue di Cristo (cf At 20,28; Ef 5,23-24.32). Sul tema della nuzialità esclusiva, è sufficiente rimandare al Cantico dei Cantici che è l’inno esplosivo dell’amore senza fine.
Nella tradizione giudaica odiea, che affonda le sue radici in quella antica del midràsh (cf Genesi Rabbà 11,9), il venerdì sera, al tramonto, quando lo Shabàt entra nel tempo e nello spazio d’Israele, il popolo radunato nella sinagoga, intona il canto «Lekhàh Dodì – Veni, Amore mio», mentre tutta l’assemblea si volta verso la porta d’ingresso per accogliere lo «Shabàt» che incede come una fidanzata, una sposa che va alle nozze, accolta dall’Israele orante come una regina. Il giorno del Signore, segnato dalla nuzialità, permea e pervade ogni respiro, il tempo, lo spazio e anche l’anelito di ogni israelita. Questa personificazione della nuzialità sabatica è antica ed è testimoniata dal Talmud di Babilonia (cf Shabàt 119a)2. Il matrimonio è talmente importante per Israele che il sommo sacerdote non sposato non poteva presiedere la liturgia del giorno di «Yom Kippùr» (ddj, Marriage, 701). Non è un caso che la tradizione giudaica chiama il matrimonio «qiddushìn – santificazione» perché in esso si santifica il Nome di Dio, creatore e tre volte Santo (cf Is 6,3). Non è solo un contratto tra un uomo e una donna, ma l’attuazione del comandamento di Dio che dona, «conduce» Eva ad Adam, il quale la riconosce «carne e osso» di se stesso (cf Gen 2,22-23).
Nulla può essere anteposto al matrimonio che ha la precedenza anche sulla sicurezza di Israele, perché la Toràh stabilisce che il giovane appena sposato è esentato anche dal dovere militare: «Quando un uomo si sarà sposato da poco, non andrà in guerra e non gli sarà imposto alcun incarico. Sarà libero per un anno di badare alla sua casa e farà lieta la moglie che ha sposato» (Dt 24,5; cf 20,7).
Il matrimonio evento sociale
Di norma, il matrimonio si celebra al compimento della maggiore età, che al tempo di Gesù avveniva a 12 anni compiuti (quindi all’inizio del 13°) sia per la donna che per l’uomo, comunque mai prima della pubertà (Talmud, Sanhedrìn 76b), anche se i genitori potevano promettere i figli in sposa o sposo subito dopo la nascita.
Il matrimonio non era una scelta personale, ma un evento del gruppo e pertanto era sempre combinato dai rispettivi padri (cf Gen 24,35-53; 38,6). I figli minori non potevano rifiutarsi di sposare i contraenti scelti dalle rispettive famiglie, mentre la donna maggiorenne aveva voce in capitolo e poteva anche rifiutarsi.
Al tempo del secondo Tempio, quindi anche al tempo di Gesù, in due sole occasioni i giovani potevano scegliersi la moglie tra le ragazze: nella festa popolare del 15° giorno del mese di Av (agosto-settembre) e nella festa di Yom Kippùr (Mishnàh, Taanit – Digiuno 4,8): le ragazze, tutte vestite di bianco (per evitare che le povere fossero discriminate), andavano a danzare nei vigneti sotto lo sguardo attento dei ragazzi che potevano così scegliersi la moglie.
Una volta accettata la proposta di matrimonio da parte del padre della donna o, in sua assenza del fratello più anziano, si contrattava il prezzo (la dote), il mohàr, cioè la somma che lo sposo promesso doveva pagare alla famiglia della sua futura sposa. In questo modo ella «era acquistata» e diveniva proprietà esclusiva del marito, passando dalla sottomissione del padre a quella dello sposo. La legge giudaica mette in rilievo che nel matrimonio è l’uomo che sposa la donna, non viceversa.  
Il matrimonio festa popolare
Il matrimonio si celebrava, di solito, dopo un  anno di fidanzamento (cf 1Sam 18,17-19; Mishnàh, Ketubòt 5,2) senza alcuna cerimonia religiosa, trattandosi di un evento civile che solo i libri tardivi chiamano «alleanza» (cf Ml 2,4; Pr 2,17). Lo sposalizio  era, ieri come oggi, l’occasione di una grande festa durante la quale si cantavano canti d’amore in onore degli sposi (cf Ct 4,1-7) a cui seguiva un banchetto (cf Gen 29,27; Gdc 14,10) che di norma durava sette giorni (v. sotto).
Al tempo di Gesù, il matrimonio era considerato ancora uno strumento di alleanze tra famiglie, per cui gli inviti erano fatti con molta attenzione. Alla festa potevano partecipare anche ospiti di riguardo e di passaggio perché il matrimonio era una occasione di prestigio sociale per l’intero parentado. Poiché nulla doveva essere fuori posto, un ruolo importante avevano «gli amici dello sposo» (shoshbinìm) i quali, mano a mano che arrivavano gli ospiti, presentavano allo sposo i regali portati (shoshbinùt).
I regali erano importanti: venivano in un certo senso catalogati perché in occasione del matrimonio della famiglia che portava il regalo, lo sposo che lo aveva ricevuto doveva restituirlo nella stessa entità; in caso di inadempienza si poteva esigerlo per via legale. In questo senso non si tratta veramente di un regalo di nozze gratuito e libero, ma di una vera «partita di giro» che finiva per costituire una leva potente della economia dell’epoca. Le provviste di cibo e bevande, tra cui troneggia naturalmente il vino, non rientrano tra i regali, ma appartengono alla regola della cortesia parentale o del vicinato. Il Talmùd (Babà Bathrà 144b) però, tra i doni nuziali descrive giare piene di vino o di olio.
La durata della festa nuziale è di una settimana come avviene per Giacobbe e Lia (cf Gen 29,22. 17.28) per Gedeone e la moglie filistea di Timna (cf Gdc 14,12.14-15.17). Per le nozze di Tobia e Sara, in epoca post-esilio, si fa un banchetto di quattordici giorni nella casa di Raguele e Edna genitori di Sara nella città babilonese di Ecbàtana (cf Tb 7,1; 8,19-20; 10,7: mss BA) e altri sette giorni  nella babilonese Nìnive nella casa di Tobi e Anna, genitori di Tobia (cf 11,19: mss BA). Al tempo di Gesù, la Mishnàh prescriveva sette giorni: «Se ad uno sposo si manifesta una piaga, gli si concedano i sette giorni del banchetto, sia per lui che per la sua casa e per il suo vestito» (Nega’im 3,2; cf Talmùd Nega’im 21a). Questa prescrizione posticipa la dichiarazione di impurità dello sposo, tenendo conto della figura dello sposo, della famiglia e delle spese fatte (vestito). Ecco una prova bella di legge «umana», di un principio che s’incarna nella situazione concreta di una persona e non resta astratto.
Vi è discussione sul giorno della celebrazione per motivi che sarebbe lungo spiegare in un articolo. La Mishnàh (Ketubòt 1,1) stabilisce che esso si svolga il 4° giorno, cioè mercoledì, se la sposa è una vergine; se invece è una vedova al 5° giorno o giovedì. Il motivo è pratico: il tribunale si riuniva due volte a settimana, il lunedì (2° giorno) e il giovedì (5° giorno). Se la sposa non fosse stata trovata «vergine», il marito poteva appellarsi al tribunale il giorno dopo, accusarla di adulterio e pretendee la lapidazione. Il problema, naturalmente non si pone per la vedova, che poteva sposarsi il giovedì.
Durante l’occupazione romana (dalla fine sec. I a.C. ), invalse l’uso di anticipare il matrimonio al 3° giorno, cioè al martedì perché gli invasori spesso e volentieri prelevavano la sposa la notte stessa del matrimonio e la restituivano l’indomani, esercitando lo «jus primae noctis». Per questo motivo la tradizione dice: «Per quanto riguarda la vergine che doveva sposare il mercoledì, il nemico aveva deciso che fosse consegnata prima al governatore; per evitare questa umiliazione alla fidanzata, fu stabilito che le nozze si celebrassero il martedì. Una volta introdotta, tale usanza, rimase in vigore» (Talmud babilonese, Ketubòt 3b). La stessa sentenza si trova in altri testi: «All’epoca del pericolo (= dominazione romana) invalse l’uso di sposarsi al 3° giorno (= martedì), e i saggi non vi si opposero» (Mishnàh, Ketubòt 1,1; Talmùd Ketubòt 25c).
Stabilito in modo definitivo il «terzo giorno», si volle anche trovare un senso proprio, facendo riferimento al terzo giorno della creazione, descritto nella Genesi, e che è l’unico giorno in cui Dio creatore dà due benedizioni, una alle acque che chiama «mare», una all’asciutto che chiama «terra» e per due volte dice che «era cosa buona» (Gen 1,10.12). Quale giorno migliore per affermare la fecondità del matrimonio? (cf Dej, Marriage, 703).
Il matrimonio benedizione d’Israele
La festa di nozze iniziava al mattino presto in casa della fidanzata che i parenti vestivano con l’abito nuziale e le coprivano il volto con un velo che le nascondeva anche i capelli; le amiche della fidanzata le mettevano attorno ai fianchi una cintura. Solo alla sera, finito il primo giorno di festa, l’uomo poteva togliere il velo e sciogliere la cintura che simboleggiava la sposa «oamento dell’uomo» (Gdt 9,2; Ger 2,32; Pr 12,4; Ct 3,11).
Accompagnato dai suoi familiari, invitati e amici, lo sposo si dirigeva verso la casa di suo padre, dove si svolgeva lo sposalizio e la festa conseguente. Gli amici portavano anche alcune torce per illuminare la sera, perché non di rado si faceva anche tardi, se le trattative nuziali che terminavano con un contratto (ebr. ketubàh), fossero andate per le lunghe (cf 1 Mac 9,37-39; Mt 25,5-6). Anche la fidanzata partiva dalla casa patea per dirigersi alle nozze; nel lasciare la casa patea, accompagnata dalle damigelle d’onore, custodi della sua bellezza, intonava canti di lamentazione per il dispiacere di abbandonare la sua famiglia.
Il padre dello sposo benediceva la sposa con sette benedizioni, cioè con la pienezza della benedizione che esprimeva l’augurio della fecondità. Il termine «benedizione» in ebraico è «berakàh» la cui radice (B_R_K) ha attinenza con gli organi sessuali maschili che per gli antichi trasmettevano da soli la vita, mentre la donna era solo un’incubatrice per tenere caldo e far maturare il seme maschile3.
Essere benedetti significa, quindi, ricevere la capacità generativa; una donna, infatti, senza figli è una maledizione per la famiglia e per il popolo e viene considerata alla stessa stregua di una lebbrosa. Terminata la benedizione settenaria, il fidanzato consegna alla promessa sposa un anello o del denaro, mentre pronuncia queste parole: «Ecco, ora tu sei santificata per me, secondo la religione di Mosè e di Israele» (cf Tb 7,12-14).
Il termine «santificato/a» è importante. In ebraico «santo» si dice «qadòsh» ed è un attributo di Dio, proclamato in cielo e in terra: «Qadòsh, Qadòsh, Qadòsh – Santo, Santo, Santo» (Is 6,3; Ap 4,8); anche il tempio, che simboleggia la Presenza-Shekinàh nel suo insieme si chiama «Miqdàsh – santuario» (da santità), mentre la parte intea pubblica si chiama «Qadòsh/Qodèsh – Santo», e quella più intea del tempio, separata da un velo, dove è custodita l’arca dell’alleanza, si chiama «Qadòsh haqqadashìm – Santo dei Santi» (Es 26,33).
Questa santità che promana da Dio e dal luogo della sua presenza, almeno nel senso delle parole, è trasferita anche nel matrimonio che in ebraico si dice «Qeddushìm – santificazione/consacrazione» e come tutte le realtà «santificate», al momento delle nozze la sposa diventa consacrata al marito, cioè separata da tutto il resto per essere esclusività sua.
Cana: farina scelta per un pane pregiato
Da qui nasce il senso dell’unicità e indissolubilità del matrimonio che nel NT diventerà esplicito (Mc 10,9; Mt 19,6). Il matrimonio è così importante che per la tradizione ebraica del post-esilio  cancella tutti i peccati dell’uomo e ha la precedenza sullo stesso studio della Toràh (cf Dej, Marriage, 707).
Il primo rapporto sessuale avveniva la sera del primo giorno di festa, prima ancora che il matrimonio fosse ufficializzato perché il fidanzato doveva accertare che la donna fosse veramente vergine.  A questo scopo,  gli amici dello sposo restavano fuori della stanza nuziale in attesa che lo sposo venisse fuori con «i segni della verginità» (betulìm): un panno bianco macchiato del sangue della sposa, che veniva conservato gelosamente da ogni donna. Se la sposa non era vergine veniva immediatamente denunciata al tribunale, il mattino seguente e ripudiata: l’uomo poteva esigee la lapidazione per adulterio.
Molto succintamente abbiamo descritto lo svolgersi dello sposalizio al tempo di Gesù con annotazioni, usi e scenari. In un contesto sociale centrato esclusivamente sulla figura maschile, c’è poco da discutere. Oggi non potrebbe essere più così perché la concezione della donna non è di pura appartenenza all’uomo, ma donna  e uomo, insieme, sono immagine di Dio e insieme alla pari esprimono il mistero di Dio che è Amore perché nella nostra cultura la donna è andata acquistando in secoli di lento e costante processo una parità, almeno formale, che resta comunque sempre una meta, perché mai realizzata appieno.
Tutti questi fatti estei dicono però che il matrimonio per gli Ebrei era un dovere duplice sul piano strettamente religioso: obbedire al comando di Dio che chiama la coppia alla fecondità generativa (cf Gen 1,28) e aumentare figli per la casa di Israele. Partecipare alla festa nuziale era sentito come un dovere religioso «obbligatorio» perché veniva inteso come una partecipazione all’atto creativo di Dio che associava a sé creatore, la nuova coppia chiamata a generare nuovi figli.
È logico e naturale pensare che sul matrimonio come evento sociale e fondamento del futuro di Israele si sviluppasse una teologia profonda basata sui simboli. Lo sposalizio tra un uomo e una donna diventa istintivamente il simbolo delle nozze di alleanza tra Dio e Israele. Dio è lo sposo e Israele è la sposa. I profeti utilizzeranno molto questa simbologia, specialmente il profeta Osea che addirittura ne fa una parabola della sua vita come profezia vivente dell’agire di Dio così innamorato del suo popolo che lo ama anche quando si prostituisce nell’idolatria (cf Os 1,2-3,5). L’amore di Dio è un amore senza contropartita perché egli non ama per suo interesse, ma ama perché «Dio è Amore» (1Gv 4,8).
Le nozze di Cana sono state un fatto vero a cui fu invitata la madre di Gesù e probabilmente Gesù vi prese parte con i suoi discepoli perché di passaggio per la sua regione, un passaggio che come vedremo, l’autore legge in modo simbolico perché non va solo lui, ma si porta dietro «gli amici dello sposo», i suoi discepoli. Forse la famiglia degli sposi aveva un qualche rapporto di parentela con quella di Gesù. Nulla sappiamo di certo. Sappiamo solo che in queste nozze, così importanti per la vita di un villaggio ebraico del primo secolo, manca del tutto la sposa e lo sposo è citato due volte per mettere in evidenza la sua improvvida organizzazione. È evidente che Giovanni partendo dal fatto storico ordinario nella sua consuetudine, vuole portare il lettore ad un livello di senso più profondo e più grande: ad approfondire il significato simbolico delle nozze dell’alleanza che con Gesù assume un valore nuovo ed eterno (cf Ger 31,31). Crediamo che al racconto dello sposalizio di Cana si possano attribuire le parole con cui il midràsh presenta il Cantico dei Cantici:
«Un re diede a un mugnaio un moggio (= 450 litri) di frumento, e gli disse: “Ricàvane dieci staia (= 150 litri) di farina scelta. Poi toò e gli disse: “Dalle dieci staia ricàvane sei”. E Poi: “Dalle sei, ricàvane quattro”. Così il Santo – benedetto Egli sia – dalla Toràh scelse i profeti, dai profeti gli agiografi, e ultimo dopo tutti fu scelto il Cantico dei Cantici»4.
Come il Cantico, anche il racconto dello sposalizio di Cana è il succo del succo di tutta la salvezza che entra nella storia ed esprime nella sua densità il cuore stesso dell’intera rivelazione: l’amore di Dio per il suo popolo, segno dell’amore a perdere di Dio per l’umanità intera, di cui il simbolo è la relazione uomo donna, l’esperienza umana più radicale di conoscenza che esiste in natura.
(19 – segue)

Paolo Farinella

1 – Cf P. Farinella, Bibbia, parole, segreti, misteri, Gabrielli editori 2009, 37-47.
2 – Per l’approfondimento cf Dej ad «Lekhàh Dodì», 639.
3 – Cf Bibbia, parole, segreti, misteri, pp. 61-65.
4 – Cantico Zuta, 1,1; cf U. Neri, Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche, Roma 1987, p 54.

Paolo Farinella




Pelle nera, cuore indio

Nabasanuka: evangelizzazione e culture

Padre Josiah K’Okal, missionario fra gli indios warao, del Venezuela, ci parla della sua comunità, dei progetti, delle sfide, ma anche del grande entusiasmo con cui affronta quotidianamente il suo lavoro di pastore nel delta del grande fiume Orinoco.

Josiah, sono passati ormai quattro anni da quando ci hai raccontato gli inizi della vostra missione nel delta del fiume Orinoco (cf. MC, marzo 2007). Sarebbe ora di fare il punto della situazione. Per esempio, ti avevamo lasciato alle prese con il sogno di costruire un salone multi-uso per la tua comunità, che ne è stato di quel progetto ambizioso?

Ambizioso, hai detto bene: infatti, continua ad essere un sogno. Alcune organizzazioni ci hanno aiutato con diversi progetti, ma poche di esse si sono impegnate con costruzioni perché il lavoro risulta essere troppo costoso. Il problema è rappresentato dal trasporto del materiale che avviene esclusivamente per via fluviale. Tuttavia, il salone resta una priorità.
La struttura del popolo warao è cambiata; un tempo le comunità erano «comunità-famiglia», numericamente ridotte, e quindi in grado di trovare facilmente posti in cui incontrarsi. Oggi questo è impossibile ed è necessario identificare luoghi dove recuperare l’abitudine a ritrovarsi, raccontare la propria storia, insegnare le tradizioni ai più giovani e ai bambini. Vorremmo anche creare una specie di biblioteca-museo della cultura warao all’interno dello stesso salone. Dovrebbe diventare un posto dove i warao possano investigare le radici della propria cultura. Il sogno c’è, un giorno si realizzerà.

Lo stato non potrebbe dare una mano? Mi sembra che la politica dell’attuale governo sia abbastanza aperta alla difesa del patrimonio indigeno.
Dobbiamo riconoscere che questo governo si è sforzato più di altri nel dare uno spazio e un riconoscimento ai popoli indigeni. Sono anche stati investiti più fondi nella costruzione di scuole. Questo non solleva però il governo dalle sue responsabilità. Mi spiego: nel comune Antonio Diaz, dove sorge la missione di Nabasanuka, vi sono quattro scuole secondarie. Quando arrivammo, nel 2006, ne esistevano soltanto due, mentre altre due hanno aperto recentemente. È un fatto apparentemente positivo, ma quando si va a guardare nel concreto si nota che, per esempio, mancano moltissime cose fondamentali, a partire dalle strutture. Parlo per esperienza personale, dato che io stesso insegno inglese in una di quelle scuole: non abbiamo aule, non abbiamo una sede propria. L’unico modo per garantire il normale svolgimento delle lezioni in uno spazio che sia idoneo è ritrovarci di pomeriggio nelle aule della scuola elementare. L’istituto è a carattere scientifico e non abbiamo laboratori, né di chimica, né di fisica, tanto meno di informatica. Mancano i libri di testo e se voglio usare il gesso per la lavagna me lo devo comprare di tasca mia. I professori sono pagati, ma come maestri di scuola primaria; nessuno riceve uno stipendio di scuola superiore. Continuano a a lavorare solo perché ci credono. Ho qui sul computer due rapporti inviati in passato al ministero dell’Educazione, ma … nulla, non ci hanno degnati neppure di una risposta.

E per quanto riguarda la salute?

In Nabasanuka c’è un ambulatorio di quelli che chiamiamo «Centro di attenzione integrale di secondo livello», che secondo la legislazione del Venezuela prevede la presenza di un medico residente. Ne abbiamo avuto qualcuno in passato, ma oggi non più. Inoltre, non ci sono farmaci; a volte riceviamo la visita di medici di passaggio e non hanno medicine con cui trattare i pazienti.
Quello della salute è un vero problema: per andare da Nabasanuka a Tucupita, che è la capitale dello Stato e sede dell’ospedale a cui fare riferimento, un’imbarcazione normale impiega almeno quattro ore. Se il motore della barca è meno potente se ne possono impiegare anche sei e, inoltre, a Nabasanuka non abbiamo un’ambulanza fluviale. Abbiamo prestato anche l’imbarcazione della missione per portare pazienti, ma più di una volta abbiamo dovuto constatare con molto dolore la morte di persone che si sarebbero salvate se avessero avuto l’opportunità di essere trasferite tempestivamente all’ospedale.
E poi c’è la tragedia del combustibile…

In che senso?

Devi partire dal presupposto che per i warao l’unico mezzo di comunicazione e trasporto è il motoscafo e lungo il fiume ci sono moltissime imbarcazioni a motore. Bisogna riconoscere che il Goveo ha fatto investimenti affinché le comunità indigene abbiano più imbarcazioni e si possano muovere più agevolmente per il fiume, ma alle barche serve la benzina e qui sta il problema. Nei caños, ovvero nei canali del delta, c’è un solo luogo oltre a Tucupita dove si può comprare combustibile, e bisogna a volte fare code di quattro giorni per poterlo acquistare. Ecco allora che nella stessa Tucupita c’è chi lo vende al mercato nero, evitandoti lunghissime attese ma facendo pagare fino a dieci volte il prezzo corrente. Ci sarebbe anche un altro posto più vicino, Curiaco, ma la gente preferisce a volte andare fino a Tucupita perché Curiaco si trova vicino al confine con la Guyana inglese; lì c’è molto contrabbando e traffico di carburanti e uno corre il rischio di andarvi senza riuscire ad approvigionarsi.
Per rispondere alla domanda iniziale: il governo ha una chiara linea a favore degli indigeni, la qual cosa è positiva; ma, allo stesso tempo, queste buone intenzioni non vengono tradotte in pratica dalle autorità locali. Ci si ricorda dei warao in tempo di campagna elettorale; allora sì che c’è una presenza continua dei politici… ma dopo?

La missione dovrebbe tenere una proiezione verso la città. Come state vivendo questa sfida

Ormai i warao non si trovano più soltanto nei canali del delta. Oggi si muovono seguendo flussi migratori di vario tipo. Ci sono coloro che emigrano per sempre e vanno in città, convinti che la vita sull’Orinoco non porterà loro alcun futuro. Poi ci sono quelli che emigrano perché vogliono fare studiare i loro figli e non possono mandarli in città da soli. Una caratteristica sorprendente dei warao è che sono capaci di spostarsi con tutta la famiglia, arrangiarsi con qualche lavoretto, tirarsi su una baracca alla bene e meglio, pur di accompagnare due figli che vanno a fare le scuole superiori in città. Terzo, ci sono quelli che vanno e vengono. Si spostano soprattutto per motivi di salute, visto che nel delta non ci sono centri di attenzione medica, oppure per incassare soldi che lo stato deve loro, come il personale infermieristico o gli insegnanti che vanno a ritirare lo stipendio. Il paradosso, cosa che trovo sommamente ingiusta, è che la gente spende per andare in città gran parte dei soldi che va a incassare. È mai possibile che non si possa trovare il sistema di fare arrivare i pagamenti direttamente a Nabasanuka e negli altri centri all’interno del delta?
Infine ci sono quelli che vanno temporaneamente a chiedere l’elemosina. Per il warao andare a chiedere l’elemosina non è propriamente mendicare, ma piuttosto un vero e proprio lavoro. Del resto, per loro tutto viene dalla natura e se qualcuno ha di più deve condividerlo con chi non ha. Una volta in città le donne e i bambini vanno a chiedere l’elemosina, mentre gli uomini rimangono a casa a guardare la baracca che si sono costruiti oppure vanno in giro a cercare di guadagnare qualche bolivar. Le famiglie si fermano in città un mese o due, il tempo di raccogliere un po’ di soldi, qualche vestito che la gente dà loro, e poi ritornano alla loro comunità. A volte si spingono fino a Caracas.

Non c’è il rischio che l’indio emigrante perda i suoi valori culturali e religiosi?

In effetti ci siamo resi conto che i warao che andavano in città non frequentavano più la chiesa, mentre nelle loro comunità sono fedelissimi a tutte le funzioni. Appena arrivano in città iniziano invece a vedere la chiesa come un qualcosa che appartiene al criollo, al bianco, qualcosa che non sentono più loro.
La migrazione crea molte baraccopoli, cresciute ai margini della città; e lì, oltre al lavoro pastorale, c’è molto da fare nell’organizzare le nuove comunità. Occorre infatti accettare il fatto che sono nuove realtà, cresciute in un contesto urbano e che come tali vanno trattate. È nata da questa presa di coscienza la nostra decisione di andare in città. Oggi, un missionario della Consolata, padre Zachariah Kariuki, keniano, vive a Tucupita e lavora in questo settore. La sua presenza è importante affinché i warao possano sentirsi accompagnati, fare chiesa. Nel nostro piano pastorale cerchiamo anche di includere elementi della loro spiritualità tradizionale, come la cura della natura, l’ecologia, perché tutta la loro vita di popolo è nata totalmente immersa nella natura. È importante aiutarli a pensare come possono vivere oggi in una città, senza i loro fiumi e con la presenza dell’inquinamento: una bella sfida.

Come la spiritualità warao influenza lo stile missionario?

Il warao è molto rispettoso del divino. Alcuni antropologi affermano che i warao non hanno Dio, ma nei miei pochi anni di esperienza ho scoperto di avere a che fare con un popolo profondamente spirituale, che vive il rapporto con l’essere supremo sullo stile dell’Antico Testamento, con grande paura del castigo che può essere comminato, ma anche con grande rispetto.
In secondo luogo, secondo la loro cosmovisione, tutto merita di essere rispettato e trattato con dignità perché ogni cosa ha il suo spirito: l’acqua ha il suo spirito, la foresta ha il suo spirito… Ne consegue che uno non può entrare in una selva e iniziare a tagliare alberi così come gli pare, perché, se lo fa, può venire castigato dallo spirito della foresta.
Per i warao la vita è una sola realtà. Noi, che siamo intrisi di cultura occidentale, tendiamo a frammentare la vita, distinguendo per esempio ciò che è politico da ciò che è invece religioso, economico. Essi, al contrario, hanno una visione olistica della vita. La chiesa non è vista soltanto come un luogo dove la gente va a pregare, ma come uno spazio dove la comunità si incontra in assemblea.
Un altro elemento importante è la fiducia. Il warao è una persona che dimostra la fiducia che nutre in te e, di conseguenza, si aspetta che tu ce l’abbia nei suoi confronti. Nel nostro lavoro siamo quindi chiamati, come missionari, a dimostrare che noi vogliamo loro bene, ma anche che abbiamo fiducia in loro.
La famiglia occupa un luogo simbolico importante nella comunità warao. La prima cosa che un warao ti chiede, anche un bambino, è il tuo nome, poi il nome dei tuoi genitori, quanti fratelli hai… e hanno una memoria tremenda perché qualsiasi nome tu dica loro, se riguarda la tua famiglia, viene ricordato. La famiglia dorme in una sola casa. Risulta per esempio molto strano ad essi che noi e le suore dormiamo ciascuno nella propria stanza. Il valore warao della famiglia ha influenzato molto il nostro stesso modo di vivere. Viviamo con ciò che è necessario, cercando di condividere uno stile povero e semplice, cercando di condividere molto il poco che abbiamo.

Parlando della famiglia, parliamo anche della vostra famiglia. Pur riservandovi spazi fisici separati, avete creato una comunità di vita fatta da missionari e missionarie della Consolata, in linea con le scelte dei nostri istituti. Cosa ci puoi raccontare al riguardo?

Ciò che fino ad oggi siamo riusciti a costruire a Nabasanuka è stato il frutto di una riflessione e di un cammino fatto insieme, un progetto dinamico che si è venuto realizzando poco a poco. In teoria si erano fatte delle ipotesi, poi la realtà ci ha insegnato qualcosa di diverso.
Quando le sorelle arrivarono, il piano prevedeva la costruzione di una casa per loro, da eseguirsi il prima possibile. Ricordo bene il momento in cui ricevetti una lettera da Suor Ivana, una delle tre missionarie italiane che con padre Wilson, brasiliano, e il sottoscritto formano la nostra comunità. Ivana mi scriveva: «Abbiamo deciso che non è conveniente costruire una casa indipendente, ma preferiamo costruire una piccola estensione della casa attuale e continuare a vivere insieme». Quella lettera conteneva una delle decisioni più sagge da noi prese nel corso della nostra esperienza missionaria. Viviamo in mezzo a un popolo molto semplice e povero e avere due case, con strutture complicate, non era ideale per l’ambiente in cui ci trovavamo a vivere. Una volta salvaguardati gli spazi personali, il resto si poteva provare a condividere. Eravamo convinti che il nostro modo di vivere sarebbe stato più eloquente di tante parole.
Volevamo fare un’esperienza che fosse più di un semplice lavoro in équipe; una vera e propria comunità: preghiamo insieme, pianifichiamo insieme, cuciniamo e laviamo insieme le nostre cose, condividendo ciò che appartiene alla vita quotidiana di ogni famiglia.
Facciamo tutto noi, al punto che l’unico impiegato della missione è colui che guida la barca.
Una delle chiavi del successo del nostro stare insieme è stata quella di provare a condividere da subito la nostra storia: «Chi sei tu, da dove vieni, che cosa hai fatto finora?». Questo esercizio ci ha aiutato molto, ci ha fatto arrivare al cuore l’uno dell’altra. Una delle cose molto belle di cui facciamo oggi tesoro è che quando uno di noi non c’è per una ragione o per l’altra, il resto della comunità ne sente la mancanza. Per noi hanno contato l’esperienza, l’apertura all’altro, il lavorare insieme, il voler vivere fianco a fianco ed accettarci per quello che siamo. Ci siamo resi immediatamente conto, sin dall’inizio, che avevamo dei pregiudizi reciproci, ma abbiamo avuto la forza e la saggezza di condividerli. Questo ci ha fatto sperimentare la nostra umanità e la nostra fragilità, aiutandoci a riconoscere che abbiamo ricevuto una formazione differente e veniamo da culture differenti.

Come hai vissuto da africano in quel contesto?

Ti racconto un aneddoto. Ero a Nabasanuka da circa tre mesi. In una cittadina vicino a Tucupita, dove vanno molti warao, viveva un sacerdote che io ancora non conoscevo. Un giorno ci incontriamo e lui mi dice: « Ah, tu sei K’Okal, il famoso K’Okal». «Famoso perché?». «Sai – mi risponde – sono venuti alcuni da Nabasanuka a dirmi che avevano un problema serio: era arrivato un padre negro! Al che ho chiesto loro qual era il problema, se li maltrattavi o mancavi loro di rispetto». «No No – è stata la risposta –  assolutamente. È solo che è davvero “molto” negro».
Questo popolo non aveva mai visto un sacerdote nero. Anzi, i pochi neri con cui erano entrati in contatto erano gente della Guyana, passata di lì rubando motori, comprando la loro roba per niente, sfruttandoli. Chiaro che c’era una certa repulsione nei confronti del colore della mia pelle. Oggi mi chiamano bare mekoro, padre negro, ma lo dicono con moltissimo affetto.
Credo che al di là del colore, la missione offra sempre e a tutti la possibilità di fare lo stesso tipo di esperienza.  Ciò che le persone cercano in un missionario è una persona che sappia farsi fratello nella realtà in cui vivono, accettandole, aprendo loro il suo cuore.
A livello personale, ti posso dire che da quando sono arrivato a Nabasanuka sono cresciuto nella consapevolezza di essere luo, di appartenere a questa cultura del Kenya in cui sono nato e cresciuto. Questo mi aiuta non poco nel momento in cui mi relaziono con la cultura indigena. Il popolo warao è stato sfruttato, da sempre, anche a livello culturale e l’autostima di molti è finita sotto i tacchi. Un giorno ero in città, in banca, quando improvvisamente mi sono imbattuto in una donna warao che conoscevo; era una professionista, oggi deputata dipartimentale. Pensando di farle un piacere mi sono avvicinato e le ho rivolto la parola con il poco warao che avevo appreso e lei, acidamente, mi ha redarguito per averle parlato nella sua lingua in pubblico, in città. Le provocava vergogna. Questa è stata un’esperienza che mi ha nel contempo ferito e fatto riflettere. Vorrei che la gente indigena si sentisse fiera, orgogliosa e felice di essere ciò che è. Per questo mi sento luo e sono contento di esserlo, di tornare a casa e poter parlare la mia lingua, leggerla, usarla nella liturgia.
Il mio sentirmi tale ha fatto sì che oggi possa dire loro che è possibile imparare lo spagnolo, l’inglese, ciò che si vuole, senza perdere ciò che è proprio e, anzi, sentendosi orgogliosi di ciò che per cultura ti appartiene.
Se non aiutiamo queste culture a conservarsi, possono rapidamente perdersi. In un ambiente, come quello indigeno, il ruolo del missionario è estremamente delicato. Io credo che se un domani si dovesse perdere la cultura del popolo a noi affidato, Dio ce ne chiederà conto. Un politico può visitare frequentemente una comunità al fine di conquistae il voto, può anche costruirsi una casa in mezzo ad essa, ma il suo modo di vivere sarà sempre distinto da quello della gente. Il missionario può avvicinarsi di più al cuore vitale di un popolo perché è stato inviato a condividere con esso la Parola di Dio, e anche la sua stessa vita.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Diamo un calcio alla dittatura

Intervista ad Aung San Suu Kyi

La liberazione di Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari per 15 anni, è di buon auspicio per il ritorno alla democrazia. Un cammino che richiede alla «Signora» di cambiare strategia: ricompattare il partito, dialogare con i militari, rispondere alle minoranze etniche, non inimicarsi la Cina. Ma l’Occidente deve mutare atteggiamento.

I sette giorni che cambiarono il Myanmar. Così potrebbe passare alla storia, nel Paese asiatico, la seconda settimana di novembre 2010. Alle prime elezioni dopo vent’anni tenutesi domenica 7, è seguita, ad appena sei giorni di distanza, la liberazione, tanto attesa quanto insperata, di Aung San Suu Kyi.
Pur rivelandosi un bluff istituzionale, le consultazioni generali hanno mostrato che la giunta militare sta cercando di riaprire la «road to democracy», il percorso politico e sociale che dovrebbe traghettare il Myanmar verso un regime democratico e pluralista.
Il rilascio della leader del movimento democratico birmano sarebbe la seconda importante tappa di questo tragitto, peraltro sconnesso e ricco di incongruenze.
«sgraditi» i giornalisti
Una di queste contraddizioni l’ho sperimentata direttamente, allorché, a poche ore dall’apertura dei cancelli della sua villa sul lago Inya, ho potuto avvicinare la «Signora», come viene spesso soprannominata Aung San Suu Kyi in Myanmar.
L’incontro avrebbe dovuto essere un primo approccio per un’intervista più estesa e dettagliata, per cui avevamo già concordato tempi e modalità, che però non ha mai potuto avere luogo. Il severo controllo del regime sull’informazione, atta a filtrare ogni notizia che trapela dal Myanmar, si è tramutato in un’immediata espulsione dal Paese. «Il visto turistico non permette di effettuare servizi giornalistici» è stata la spiegazione data da uno dei due funzionari che mi ha notificato l’allontanamento dalla nazione.
In effetti, il solo fatto di essere riuscito a ottenere un visto d’entrata a ridosso delle elezioni, dopo che le ambasciate di Roma, Bangkok, Singapore e Kuala Lumpur me lo avevano negato in quanto «persona non grata», è stato un successo. L’essere riuscito, tra mille difficoltà e continui cambi di hotel per non essere rintracciabile dalla polizia, a seguire tutto il percorso elettorale fino a incontrare Aung San Suu Kyi, è stato un ulteriore trionfo.
libertà senza compromessi
Dell’incontro con Aung San Suu Kyi riporto le poche frasi che ci siamo scambiati.
Finalmente libera. Ci credeva o pensava che la Giunta ritirasse all’ultimo momento anche questa promessa?
«Non mi sono mai posta il problema. La giunta e io abbiamo idee contrapposte sulla democrazia e ho sempre sostenuto che la mia libertà non dovesse essere un pegno utilizzato dalla giunta per raggiungere compromessi».
Libertà significa anche azione, responsabilità e quindi essere oggetto di critiche. Cosa farà come prima cosa?
«Vorrei girare il Paese, incontrare gente, sentire i problemi direttamente da loro. Fare, insomma, quello che ho sempre fatto quando la Giunta me lo permetteva».
In carcere ci sono ancora più di 2 mila prigionieri politici: la sua liberazione non rischia di far dimenticare al mondo queste persone dai nomi meno noti del suo?
«Ha ragione, la mia libertà non deve far dimenticare questi difensori della democrazia che, per le loro idee, sono ancora incarcerate e io mi batterò affinché anche loro possano vedere aprirsi le spranghe delle celle».
La Lega Nazionale per la Democrazia non si è presentata alle elezioni e quindi non avrà nessun rappresentante al Parlamento. Come pensa di continuare la sua lotta politica dall’esterno?
«Il problema non è l’assenza dei nostri rappresentanti al Parlamento. Del resto la nostra posizione è stata chiara fin dal principio: chi l’avesse voluto, poteva candidarsi liberamente alle elezioni. Il problema però, è che le consultazioni del 7 novembre, così come la costituzione, si sono dimostrate un colossale imbroglio. Parteciparvi significava accettare la costituzione e ingannare il popolo. Noi abbiamo scelto di stare dalla parte della democrazia e della verità».
Ma L’intransigenza non paga
Le poche frasi scambiateci e le successive interviste rilasciate a media inteazionali e locali, mostrano che Aung San Suu Kyi è sempre più determinata a continuare l’attività politica che le è valsa la popolarità mondiale e un Premio Nobel per la Pace nel 1991. Govei di tutto il mondo e organizzazioni a favore del movimento democratico birmano hanno salutato, a ragione, la liberazione di Suu con soddisfazione.
Ma valutando attentamente ciò che la Lady ha sino ad oggi detto, appare chiaramente un mutamento della sua prospettiva politica. Sembra che i lunghi anni di segregazione le abbiano insegnato che per cambiare il regime dei generali non serve il pugno di ferro, ma una tattica vincente, prerogativa indispensabile per ogni politico, che a lei, però, è sempre mancata.
All’interno della Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), il partito da lei fondato nel 1988, sono sempre più numerosi coloro che si chiedono quali frutti abbia portato l’intransigenza mostrata sino ad oggi dal Segretario generale. Troppe, infatti, sono le occasioni mancate, a partire dal fallimento dei colloqui con Khin Nyunt, nel 2003, considerato da molti, e a ragione, come l’unico militare in grado di cambiare le sorti della nazione.
Pur continuando a rappresentare la maggioranza dell’elettorato birmano, l’Lnd sta perdendo pezzi. Un primo gruppo è stato espulso dalla stessa Aung San Suu Kyi nel 1997, un secondo, più consistente, nel 2003 all’indomani della rottura dei negoziati con Khin Nyunt, allora numero uno della giunta militare e principale interlocutore con il movimento democratico. Nell’ottobre 2008, cento membri dell’ala giovanile dell’Lnd hanno lasciato il partito perché il nepotismo non lasciava loro spazio; infine, nel maggio 2010, un altro gruppo di dissidenti guidato da Khin Maung Shwe, ex portavoce e membro del Comitato Centrale, ha deciso di formare il National Democratic Force per partecipare alle elezioni di novembre, contravvenendo alle decisioni del partito di boicottare le votazioni.
«Gli ideali e i principi di democrazia e di giustizia di cui sono intrisi gli animi delle persone che formano il nucleo storico della Lega Nazionale per la Democrazia, purtroppo si stanno dissolvendo» spiega Raymond Sumlut Gam, vescovo di Bhamo, che continua: «Molti membri che negli ultimi anni sono entrati nella Lega non sono poi molto differenti dagli amministratori militari che abbiamo oggi».
Occorre, a questo punto, chiedersi cosa succederebbe se improvvisamente Aung San Suu Kyi o un membro del movimento per la democrazia, potesse assumere le redini del governo. «Il popolo pretenderebbe cambiamenti radicali immediati che nessuno, attualmente, sarebbe in grado di garantire» afferma un diplomatico occidentale. «Ci sarebbe il rischio di un malcontento diffuso e la rabbia crescerebbe assieme al sentimento di frustrazione e di disperazione. Il Paese sarebbe seriamente esposto a disordini sociali» conclude il diplomatico, che pur rappresentando un governo che critica aspramente il regime militare, non esita ad esprimere il suo scetticismo su un improvviso cambiamento di regime.
strada molto diplomatica
La diplomazia, si sa, viaggia sempre su piani paralleli: ciò che viene detto quasi mai rispecchia la reale conduzione politica che viene discussa a porte chiuse.
Molto probabilmente è quanto accaduto con Aung San Suu Kyi. Non a tutti è piaciuto quanto la leader della Lega Nazionale per la Democrazia ha detto appena liberata. La richiesta di dialogo e di incontro con Than Shwe a molti, specialmente a coloro che nel 2003 erano stati espulsi dal partito per aver criticato l’intransigenza di Aung San Suu Kyi verso Khin Nyunt, è apparsa un voltafaccia inconcepibile: «Than Shwe è il militare più ottuso e incapace che abbiamo mai avuto: perché ora Aung San Suu Kyi decide di voler aprire un negoziato con lui quando con Khin Nyunt ha interrotto le trattative?» si chiede polemicamente Zaw Lin Oo, del Myanmar Democratic Congress, un partito formato principalmente da esponenti democratici e attivisti birmani.
Anche l’assoluzione data alla Cina riguardo al suo coinvolgimento nella gestione economica delle risorse del Myanmar, è apparsa a molti incomprensibile. La dichiarazione secondo cui «non vi è alcuna prova che la Cina stia depredando le ricchezze della Birmania» ha dell’incredibile, se non dell’eresia, soprattutto per le centinaia di organizzazioni che in Occidente da anni si battono a fianco del Premio Nobel per la Pace e che hanno sempre sostenuto che Pechino, uno dei principali alleati di Naypyidaw, sia complice di un bracconaggio economico ai danni del popolo birmano.
Pur essendo stata agli arresti domiciliari negli ultimi sette anni, Aung San Suu Kyi non può non sapere che la più grande economia asiatica è pesantemente coinvolta nel depauperamento delle risorse naturali birmane. La Signora ha semplicemente capito che la chiave della svolta politica nel suo Paese si trova proprio in Cina ed è con essa, più che con i governi occidentali, che dovrà trovare un modus vivendi.
Lo stesso governo cinese ha tutto l’interesse affinché il processo di democratizzazione proceda in Myanmar. La Cina, come hanno dimostrato i recenti conflitti etnici del Kokang nel 2009 e negli stati Kayan e Mon nel novembre 2010, è indispensabile affinché i gruppi minoritari abbiano un interlocutore valido e affidabile. Aung San Suu Kyi, in quanto bamar e figlia di Aung San, che non gode di buona fama tra le etnie del Myanmar, non ha potere sulle periferie del Paese. Una svolta democratica che non escluda a priori i militari, indispensabili per mantenere unita la nazione, è quindi necessaria affinché non si ritorni sull’orlo dell’instabilità etnica. E la Cina potrebbe fare da mediatore tra il governo centrale, i movimenti democratici e le spinte autonomiste delle minoranze etniche.
boicottaggio: non serve più
A una studiosa di storia come Aung San Suu Kyi non è certamente sfuggito l’insegnamento delle vicende passate della nazione birmana: tutto, nel Paese, può essere rimesso in discussione in brevissimo tempo. Dal 1988, anno in cui rientrò in patria per assistere la madre morente, Aung San Suu Kyi ha trascorso 15 anni agli arresti domiciliari, venendo liberata in diverse riprese, per poi ritornare coercitivamente alla sua villa al N. 54 di University Avenue.
Gli stessi generali non sono immuni da improvvise defenestrazioni: Ne Win, il compagno dell’eroe nazionale e padre di Suu Kyi, Aung San, e protagonista del putsch che nel 1962 pose fine alla breve parentesi democratica birmana, è morto agli arresti domiciliari e il suo successore, Khin Nyunt, è tuttora segregato nella sua dimora a Yangon.
Than Shwe e Maung Aye, rispettivamente numero uno e due del regime, sanno che, giunti oramai alla fine della loro carriera, le piaggerie di cui sono stati circondati sino ad oggi, potrebbero tramutarsi in ostilità. I due generali stanno quindi preparando il terreno per una pensione tranquilla e ricca, per sé stessi e per i loro accoliti, ritagliandosi probabilmente un posto puramente onorifico all’interno del nuovo assetto istituzionale.
Anche sul boicottaggio economico e turistico, Aung San Suu Kyi si è detta pronta a rivedere le sue posizioni, «se il popolo vuole veramente che queste siano cambiate». Haral Bockman, presidente del Norwegian-Burma Committee e presidente della Democratic Voice of Burma, afferma che, «guardando nel passato, il solo Paese dove l’embargo ha avuto successo nel cambiare politica, è stato il Sud Africa. In altre nazioni, come Iraq o Iran, il boicottaggio non ha portato a nulla. Ma in Birmania i generali sono imbevuti di nazionalismo e un’apertura economica verso il Paese asiatico, potrebbe radicare ancora di più questo sciovinismo».
Eppure, viaggiando per il Myanmar, risulta chiaro che, specialmente nel campo turistico, la popolazione accoglie con favore l’arrivo degli stranieri, specialmente quelli che arrivano individualmente. «Chi è favorevole all’embargo non è mai stato in Birmania, non ha mai parlato con un birmano, non ha mai visto le condizioni in cui viviamo» polemizza Ka Bawi, uno studente di Mawalamyine, sulla costa orientale del Paese.
Del resto all’interno stesso della Lega Nazionale per la Democrazia, non ci sono visioni unanimi sul boicottaggio. La stessa Aung San Suu Kyi nel 1985 ha scritto un libro dal titolo inequivocabile: Let’s go to Burma. Ha Yanghwe, figlio del primo presidente della Repubblica Birmana e direttore dell’Euro-Burma Office di Bruxelles, interrogato sulla questione, ha dichiarato che «i turisti che visitano il Paese tramite agenzie di viaggio locali private o hotel non statali, possono essere utili perché interagiscono con la gente; ma quelli che utilizzano agenzie governative o arrivano con pacchetti turistici, generalmente visitano solo monumenti e si godono il sole sulle spiagge. Questo è un turismo di cui beneficiano solo i generali ed è questo ciò che noi non accettiamo».
Anche l’ovest deve cambiare
Una voce controcorrente proviene dalla Chiesa cattolica: l’arcivescovo di Yangon, mons. Charles Bo, dice che «ufficialmente siamo contrari all’embargo, non solo per il Myanmar, ma per tutti i Paesi. È vero che il boicottaggio colpisce i militari, ma ferisce ancora di più i birmani. I generali hanno innumerevoli possibilità per aggirare l’embargo. Sono i semplici cittadini birmani a non poterlo fare».
Mons. Bo si inoltra anche nella delicata questione affrontata da Aung San Suu Kyi a proposito della Cina, avallando la nuova posizione assunta dall’eroina birmana: «Premesso che la situazione in Myanmar cambierà solo dopo la morte dei quattro leader militari, il problema principale che riscontriamo è che la comunità internazionale, e gli Stati Uniti in modo particolare, continuando a criticare la giunta, la spingono sempre più verso le braccia della Cina. Quindi ecco due chiavi da utilizzare per riportare il Paese al dialogo: per prima cosa l’Occidente deve cercare di influenzare la Cina affinché questa induca i militari ad accettare i cambiamenti. Come seconda cosa gli Stati Uniti devono smetterla di criticare violentemente il Myanmar e di imporre l’embargo; dovrebbero, invece, cambiare atteggiamento ed essere più aperti verso il Myanmar».
L’amministrazione Obama sembra aver capito che questa è la strada da intraprendere. Hillary Clinton si è detta disposta a rivedere la posizione di Washington sul problema del boicottaggio e a intraprendere un dialogo con la giunta militare. Da parte loro i generali sembrano finalmente disposti ad allentare la presa sul Paese. Le elezioni, seppur falsificate nei loro risultati, e ancor più il rilascio di Aung San Suu Kyi, potrebbero essere le prime pedine mosse sulla scacchiera birmana.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Il papa ama l’Africa

A due anni dal viaggio di Benedetto XVI

A quasi due anni dalla visita di Benedetto XVI nei paesi dell’Africa occidentale (17-23 marzo 2009) pochi si sono domandati quali sono stati i suoi sentimenti e quali i contenuti dei suoi messaggi. Ci accontentiamo di essere spettatori alla televisione o di leggere sui giornali la cronaca della sua accoglienza e delle dimostrazioni di gioia e di affetto che gli sono state riservate. Non sempre invece ci chiediamo lo scopo del suo viaggio apostolico e quali problemi sente dentro di sé quando pensa all’Africa e alle difficili condizioni della sua gente.

Proviamo allora a ripercorrere insieme questo suo primo viaggio «missionario» africano da pontefice che ha cura di tutte le Chiese, anche le più dimenticate, come sono in genere quelle di alcune parti del continente africano, per scoprire così quali sono i problemi che tormentano l’Africa.
«Con questa visita – ha ricordato prima di partire da Roma per il Camerun e l’Angola – intendo idealmente abbracciare l’intero continente africano: le sue mille differenze e la sua profonda anima religiosa; le sue antiche culture e il suo faticoso cammino di sviluppo e di riconciliazione; i suoi gravi problemi, le sue dolorose ferite e le sue enormi potenzialità e speranze. Intendo, inoltre, confermare nella fede i cattolici, incoraggiare i cristiani nell’impegno ecumenico, recare a tutti l’annuncio di pace affidato alla Chiesa dal Signore risorto». «Penso in particolare – ha ancora aggiunto – alle vittime della fame, delle malattie, delle ingiustizie, dei conflitti fratricidi e di ogni forma di violenza che purtroppo continua a colpire adulti e bambini, senza risparmiare missionari, sacerdoti, religiosi, religiose e volontari».
«Io amo l’Africa», ha detto ai giornalisti mentre il Boeing 777 dell’Alitalia lo portava da Roma a Yaoundé in Camerun. «Ho tanti amici africani già dai tempi in cui ero professore. Amo la gioia della fede, questa fede giorniosa che si trova in Africa».
Con la sua prima visita in Africa (marzo 2009) il papa ha infatti voluto promuovere la fede che caratterizza la Chiesa africana. Ma poiché la Chiesa, qualsiasi Chiesa, non è mai una «società perfetta», ha fatto anche appello a «una purificazione» non tanto delle strutture estee, quanto piuttosto del cuore e della coscienza, perché le strutture sono il risultato di ciò che è il cuore.
Ha inoltre parlato dei moltissimi movimenti religiosi, che nascono come funghi in varie parti del continente, e ha ricordato che la fede cristiana è frutto di un annuncio sereno e giornioso, perché propone un Dio vicino all’uomo e dà vita a una grande rete di solidarietà umana e cristiana. Le stesse religioni tradizionali africane si aprono sempre più al messaggio evangelico, perché vedono che il Dio dei cristiani non è un Dio lontano, ma un Dio vicino a ciascuno di noi.
Durante il suo viaggio in Africa il papa ha ancora affrontato l’impatto che l’attuale crisi economica può aver avuto nei Paesi poveri e l’importanza dell’etica per un retto ordine economico mondiale. La causa della recessione – ha sottolineato – è soprattutto di carattere etico, perché «dove manca l’etica, la morale, non può esserci correttezza di rapporti». Questo vale non soltanto per i paesi più ricchi, ma anche per l’Africa, dove la corruzione è uno dei mali da sconfiggere.
È, quello di combattere la corruzione per il bene della gente, un compito quanto mai urgente e necessario di qualsiasi governo, ma lo è soprattutto di coloro che si dicono cristiani. «Di fronte al dolore o alla violenza, alla povertà o alla fame, alla corruzione e all’abuso di potere – ha affermato il papa rispondendo alle parole di benvenuto del presidente della Repubblica camerunese, Paul Biya – un cristiano non può mai rimanere in silenzio». Il messaggio del Vangelo esige di essere proclamato con forza e chiarezza, «così che la luce di Cristo possa brillare nel buio della vita delle persone». In Africa, come pure in tante parti del mondo, «innumerevoli uomini e donne anelano a udire una parola di speranza e di conforto».
In un tempo di scarsità di cibo, di scompiglio finanziario, di cambiamenti climatici, l’Africa soffre in modo sproporzionato rispetto ad altri continenti. Un numero crescente di suoi abitanti finisce preda della fame, della povertà, della malattia, in particolare dell’Aids, mentre il traffico di esseri umani, specialmente di donne e bambini inermi, sta diventando una modea forma di schiavitù, e i «conflitti locali lasciano migliaia di senza tetto e di bisognosi, di orfani e vedove».
Nelle parole del papa si percepiscono sentimenti di amarezza, di angoscia profonda, di rammarico e sofferenza. Egli chiede a gran voce riconciliazione, giustizia e pace. È quanto la Chiesa offre: «Non nuove forme di oppressione economica o politica, ma la libertà gloriosa dei figli di Dio, non rivalità interetniche e interreligiose, ma la rettitudine, la pace e la gioia del Regno di Dio, descritto in modo così appropriato da papa Paolo VI come civiltà dell’amore».
Appena toccato il suolo africano per la prima volta durante il suo pontificato, Benedetto XVI si è fatto portavoce del grido di giustizia e di pace che risuona in tutto il continente. Citando una frase di un sacerdote camerunese, il presidente Biya, che ha accolto il papa ed è al potere dal novembre 1982, si è chiesto «Come è possibile non ascoltare il grido di dolore dell’uomo africano?». È il grido di molte donne rimaste vedove e di innumerevoli bambini che sopravvivono come possono per strada.
Per questo il papa in Africa è stato accolto come una «benedizione». Lo ha detto il grande iman di Yaoundé, lo sceicco Ibrahim Moussa: «Nel Corano il profeta Maometto ci raccomanda di accogliere bene gli stranieri, perché spesso vengono in pace. Per noi, quindi, l’arrivo del papa è una benedizione». Lo sceicco ha perciò rivolto un appello ai musulmani invitandoli a «rispettare la religione degli altri e a unirsi per accogliere questo grande uomo». Anche le comunità protestanti del Camerun hanno considerato l’arrivo del papa «una grazia che non può lasciare un cristiano indifferente» e hanno ritenuto il suo arrivo «un avvenimento di grande portata spirituale».

Giampietro Casiraghi

Giampiero Casiraghi




A tutto gas

Viaggio in uno dei paesi più repressivi del mondo

Dal 12 marzo 2010, dopo 13 anni di attesa, la Chiesa cattolica è ufficialmente
riconosciuta in Turkmenistan, paese di forti contraddizioni politiche, economiche e sociali. Dopo 21 anni di regime qualcosa sta cambiando, ma il rispetto dei diritti umani è ancora un miraggio.

Fino a 90 anni fa il Turkmenistan, nella sua forma attuale, non esisteva. Il suo territorio, 85% formato dal deserto del Karakum, non ha mai fatto storia, ma è passato da un impero all’altro via via che vi si accampavano gli eserciti in marcia verso territori più ricchi. La sua storia si è confusa per secoli con quella della potenza di tuo: achemenide, greco-battriana, partica, sasanide, araba, mongola, persiana, finché le tribù turkmene (o turcomanne) costellarono la regione di isole feudali, con relative roccaforti, e cominciarono a ingaggiare scaramucce con le altre tribù e, soprattutto, depredare e fare schiavi tra le carovane di passaggio sulla via della seta.
Quando cominciarono a rapire pure i russi, lo zar mandò le forze militari contro le tribù ormai incontrollabili, facendo anche migliaia di vittime tra i gruppi resistenti (1881), finché tutti i territori centroasiatici furono sottomessi alla Russia, sotto l’amministrazione speciale del Turkestan (1885). Dopo la rivoluzione russa, questi territori furono divisi in 5 repubbliche, con confini ben definiti: nasceva così la Repubblica Socialista Sovietica Turkmena (1924).
comunismo senza fine
Le politiche sovietiche volte a collettivizzare l’agricoltura, trasformare il territorio, bandire la religione, scatenarono resistenze e guerriglie, ma alla fine riuscirono a cancellare le tradizionali divisioni etniche, linguistiche e claniche dei turkmeni nomadi, costringendoli anche con la forza a diventare stanziali, per coltivare il cotone. Per espandere tale coltura, il deserto del Karakum divenne teatro di importanti opere d’irrigazione, una delle quali attraversa il Paese dal confine usbeco a quello iraniano.
Ma la vera fortuna del Turkmenistan è stata la scoperta di giacimenti di gas metano e petrolio, che hanno permesso alla Repubblica di diventare uno dei maggiori fornitori energetici della Russia.
Negli anni ’80, il Turkmenistan non fu sfiorato dai venti di cambiamento che soffiavano nelle altre repubbliche sovietiche. Nel 1989 un gruppo di intellettuali turkmeni tentarono di fondare un partito progressista e di opposizione democratica, il Fronte popolare Agzybirlik (unità), ma fu subito bandito dal Partito comunista turkmeno (Pct), guidato da Saparmyrat Niyazov.
Al potere dal 1985 fino alla morte (2006), Niyazov ha governato il Paese in puro stile sovietico; anzi, peggio. Dichiarata unilateralmente l’indipendenza dall’Urss (1991), per i turkmeni il comunismo ha cambiato solo pelle: il Partito sovietico è diventato «Partito democratico turkmeno» (Pdt); la Costituzione, varata nel 1992, ha accresciuto i poteri del capo di Stato e di Goveo. Il potere politico assoluto ha permesso a Niyazov d’impadronirsi anche di quello economico, accaparrandosi i proventi derivanti dall’estrazione del petrolio e gas naturale, di cui il Turkmenistan è quinto produttore mondiale. Disponendo di enormi finanze, il dittatore iniziò a progettare opere faraoniche e bizzarre e a plagiare letteralmente l’opinione pubblica, con promesse più che patealistiche: acqua, gas e luce gratis, benzina a prezzi stracciati, biglietti aerei per voli interni a circa 2 euro; gratuite anche istruzione, assistenza a partorienti e malati terminali.
Nel 1999, dopo un plebiscito, Niyazov fu «costretto» ad accettare la presidenza a vita; ma preferì farsi chiamare «Turkmenbashi», «padre e duce/guida dei turkmeni», mentre all’estero veniva accusato di essere «in preda a un delirio di onnipotenza da satrapo orientale».
Il culto della personalità del dittatore raggiunse il parossismo; nei suoi confronti, Stalin e Mao Tse Tung sembrano dei timidoni. Una serie di città sono state ribattezzate «Turkmenbashi», così pure aeroporti, numerose scuole; persino la montagna più alta del Paese e un meternorite caduto nel 1999 al confine con l’Uzbekistan portano il suo nome.
Il Paese fu letteralmente disseminato di statue e ritratti del dittatore e familiari; il suo volto cominciò a campeggiare su manifesti, banconote, bottiglie di vodka, scatole di tè, boccette di dopobarba… Cambiati i nomi dei mesi, gennaio si chiamò Turkmenbashi, aprile Gurbansoltan, nome di sua madre, usato per ribattezzare perfino il pane, ora chiamato: Gurbansoltanedzhe.
Per non sfigurare di fronte al «grande timoniere» dei cinesi, anche il «duce dei turkmeni» ha voluto scrivere il suo libretto, anzi un grosso libro in due volumi, intitolato Ruhnama (Libro dell’anima). Esso contiene i suoi precetti, il suo pensiero filosofico e folklore epico del suo popolo.
Per legge, il Ruhnama doveva essere accanto al Corano nelle moschee, in bella vista nelle librerie, scuole e uffici pubblici; tutti i cittadini dovevano impararlo pressoché a memoria; bisognava conoscerlo per superare il «test di moralità» per esercitare un pubblico impiego e per avere la patente di guida. Gli insegnanti devevano conoscerlo e diffonderlo, pena il licenziamento; giornalisti e studiosi erano invitati a scrivere periodicamente sui giornali elogi filologici dell’opera; i medici giuravano non su Ippocrate, ma su Turkmenbashi.
I «precetti» toccavano molti aspetti della vita quotidiana dei turkmeni: nessun uomo poteva portare la barba o capelli lunghi; vietata la musica registrata («uccide la nostra cultura» spiega), come pure opera e balletto; i cani erano banditi dalla capitale, Ashgabat, perché puzzano.
libertà religiosa cercasi
Bizzarrie e patealismo a parte, Niyazov è stato un despota tra i più oppressivi della storia: sotto di lui il Turkmenistan è diventato il terzo Stato al mondo con i più bassi livelli di libertà di stampa e di espressione, religiosa compresa: biblioteche e teatri rurali sono stati chiusi; oppositori politici incarcerati, esiliati o zittiti; giornalisti ridotti a impiegati statali; chiusi i canali televisivi privati; impedito l’accesso ai giornali stranieri.
Fin dall’indipendenza (1991) in Turkmenistan c’è stato un crescendo di attacchi contro i gruppi religiosi minoritari, da fare impallidire le purghe staliniane.
La Costituzione prevede la libertà di religione; ma il governo impone che ogni gruppo religioso sia registrato ufficialmente. Non esiste una religione di stato, ma un modesto risveglio islamico si è registrato dopo l’indipendenza, e il governo ha incorporato alcuni elementi della tradizione musulmana nei suoi sforzi di definire l’identità turkmena. Il governo dà qualche contributo per la costruzione di nuove moschee, quasi vuote eccetto durante il Ramadan.
Per ottenere la registrazione governativa, il gruppo religioso deve provare di essere composto da almeno 500 persone di età superiore ai 18 anni e residenti nella stessa città. Con tali requisiti possono ottenere il riconoscimento legale solo i musulmani sunniti (87% su 4,5 milioni di turkmeni) e i russi ortodossi (6,4%); le altre comunità religiose, pur presenti nel Paese, contano poche decine di fedeli e non possono radunarsi, fare proselitismo o distribuire materiale religioso.
Non è consentito neppure incontrarsi in case private: se vengono scoperti, e lo sono spesso, dato lo zelo della polizia di sicurezza, i partecipanti sono soggetti a multe e arresti amministrativi e accuse penali, che si traducono in carcerazioni, torture, deportazioni ed espulsioni, sequestri e distruzioni di proprietà.
L’accanimento si riversa soprattutto sui leaders dei gruppi cristiani, per spezzae la resistenza e forzarli a rinunciare alla fede o a lasciare il Paese. Alcuni predicatori evangelici sono stati costretti ad abiurare la propria fede e giurare sul Ruhnama, il libro spirituale di Niyazov.
Ma anche gli unici due gruppi religiosi riconosciuti dallo Stato sono soggetti a controllo, i musulmani soprattutto. Per impedire l’ingresso di movimenti islamici stranieri, il governo usa vari modi: vieta la distribuzione di materiale religioso islamico pubblicato fuori del Paese; paga lo stipendio al clero islamico e vieta l’insegnamento a certi imam; chiude scuole coraniche; seleziona e riduce al minimo i partecipanti ai pellegrinaggi alla Mecca.
La ragione di tale politica repressiva della libertà religiosa è spiegata chiaramente dall’ex ministro degli esteri turkmeno, Boris Shikhmuradov, rifugiatosi a Mosca perché in dissidio col regime: «Niyazov prende personalmente tutte le decisioni su ogni aspetto della vita del Paese, incluse le questioni religiose, sebbene egli non abbia alcuna idea di cos’è la religione. Egli non tollera alcun dissenso e si serve di servizi segreti e polizia di sicurezza per controllare il Paese».
nuovo corso?
Alla fine del 2006, il Turkmenbashi fu stroncato da un infarto. A sostituirlo fu chiamato il ministro della Sanità, Gurbanguly Berdymukhamedov, un dentista sopravvissuto alle numerose purghe del passato. Convocate le elezioni per febbraio 2007, egli sconfisse i cinque concorrenti, ottenendo l’89% dei voti. Era ovvio che, dopo 21 anni di lavaggio del cervello, la gente scegliesse un uomo dello stesso calibro e spessore del defunto leader.
Al momento dell’insediamento, il nuovo presidente fece molte promesse di cambiamento. Per cominciare ha tolto dall’inno nazionale tutti i riferimenti a Niyazov, ha rimosso il suo libro (Ruhnama) da edifici pubblici e moschee, moltre statue e ritratti da tutto il paese, ha cancellato dai muri le sue scritte; gli impiegati pubblici non furono più obbligati a studiare a memoria i suoi precetti.
Di fatto, però, Gurbanguly Berdymukhamedov ha cercato di stabilire una nuova forma di culto della personalità presidenziale, pur rimuovendo dalla sua persona ogni sfumatura religiosa. Statue, ritratti, scritte del passato dittatore sono ora rimpiazzati con immagini e poster dell’attuale presidente. Agenti dell’amministrazione presidenziale vendono alle pubbliche istituzioni (scuole comprese) i suoi libri di medicina, di storia della sua famiglia e sui cavalli akhal-teke.
Ha liberato una dozzina di prigionieri politici; ha istituito un paio di commissioni per studiare la riforma delle leggi del Paese riguardanti i diritti umani. Ma i rapporti di agenzie inteazionali esprimono diverse preoccupazioni circa i rischi individuali dei cittadini in Turkmenistan sia a causa di sparizioni forzate sia soprattutto per un ferreo controllo dei media che porta alla repressione del dissenso.
«Tutti gli organi di informazione, sia di stampa che elettronici, sono rimasti sotto il controllo statale. Gioalisti che lavorano con media stranieri indipendenti sono stati vessati dalla polizia e dai servizi di sicurezza nazionale (Rapporto Amnesty 2009). Human Right Watch, nell’aggioamento riguardante il 2009, afferma che il governo «ha reso ancora più dura la repressione in un Paese già molto repressivo e autoritario». Nell’indice mondiale della libertà di stampa, il Turkmenistan rimane al terzultimo posto, prima della Corea del Nord e della Birmania.
Per rompere l’isolamento in cui era piombato il Paese negli ultimi due decenni, Berdymukhamedov ha allentato parecchie restrizioni sulla libertà di movimento e di religione. Lui stesso, nel suo primo viaggio all’estero si è recato in Arabia Saudita, per incontrare i monarchi e fare il suo pellegrinaggio alla Mecca.
Nel rapporto all’Onu del gennaio 2010, il governo turkmeno afferma di aver registrato 123 nuovi gruppi religiosi in tutto il Paese: di essi 100 sono musulmani sunniti e sciiti, 13 russi ortodossi; gli altri 10 includono battisti, pentecostali, avventisti, evangelici, Baha’i, Hare Krishna.
Lo stesso rapporto, tuttavia, ribadisce il bando delle attività dei gruppi non registrati, la proibizione per tutti i gruppi, compresi quelli approvati, di pubblicare e importare materiale religioso; sono riconfermate altre norme invasive nella vita delle singole comunità, come ispezioni improvvise e controlli sugli aiuti provenienti dall’estero.
chiesa cattolica  riconosciuta
Fino a pochi mesi fa, ai cattolici era consentito di celebrare e svolgere attività religiose solo nel territorio diplomatico della nunziatura di Ashgabat. Il 12 marzo 2010, il Ministero della Giustizia turkmeno li ha ufficialmente riconosciuti come «Chiesa cattolica romana in Turkmenistan», nonostante la comunità non abbia una guida di cittadinanza turkmena, come richiede la legge.
L’attesa di questa registrazione durava da 13 anni, da quando fu eretta la «Missione sui iuris del Turkmenistan», nel 1997, staccata dalla giurisdizione dell’amministratore apostolico per il Kazakistan e affidata a padre Andrzej Madej e a un altro confratello, Oblati di Maria Immacolata.
Entrambi erano entrati nel Paese con status diplomatico, come rappresentanti dello Stato Vaticano. D’ora in poi la Chiesa cattolica ha una «presenza pubblica» ufficiale, con tutti i benefici che questo implica, a livello giuridico e a livello pastorale.
La Chiesa cattolica conta un centinaio di battezzati, in maggioranza di etnia polacca e tedesca, altrettanti catecumeni e un gruppo di «simpatizzanti della fede cristiana»; la maggior parte di essi risiede nella capitale; alcune famiglie sono a Turkmenbashy, a Mary e in altre città e villaggi. Superiore della missione è padre Andrzej, coadiuvato da altri due missionari Oblati.
Il Turkmenistan, come le altre repubbliche dell’Asia centrale, è una terra di «prima evangelizzazione», con una comunità piccolissima, ma già stanno nascendo le prime vocazioni: una giovane è entrata in una comunità religiosa in Polonia; un’altra in un carmelo a Kiev; un giovane è nella famiglia degli Oblati; altri stanno facendo un cammino di discernimento vocazionale.
Le speranze per il futuro della missione sono buone: la Chiesa riscuote forti simpatie tra la popolazione, le cui tradizioni islamiche sono state indebolite dal processo di secolarizzazione del periodo sovietico. «Con la crescita della comunità, avremo bisogno di strutture e più spazio – spiega padre Andrzej -. Pensiamo di chiedere al governo anche l’autorizzazione per costruire la prima chiesa cattolica nella nostra missione. Nell’attesa… continuiamo a edificare con “pietre vive”».

Benedetto Bellesi

La triplice CRISI

Il Turkmenistan deve affrontare contemporaneamente tre crisi: alimentare, mercato del gas e finanziaria.
1)  La crisi del grano che ha duramente colpito la Russia negli ultimi mesi si ripercuote pesantemente anche sul Turkmenistan, che di solito acquistava grano sul mercato nero da Russia e Kazakistan. Secondo fonti non ufficiali, solo la capitale, dove vivono numerosi stranieri, riceve approvvigionamenti di cibo adeguati, mentre nel resto del paese la crisi alimentare è grave.
2)  Il Turkmenistan possiede la quarta maggiore riserva di gas del mondo (dopo Russia, Iran, Qatar), con una produzione di 75 miliardi di metri cubi all’anno, ma non sa più a chi venderlo, dopo che la Russia ha ridotto le importazioni (da 50 a 10 milioni di metri cubi all’anno). Ashgabat ha stretto accordi con Cina e Iran, che importano rispettivamente 5 e 15 miliardi di metri cubi all’anno; nel 2011 sarà in funzione un nuovo gasdotto diretto in Cina; ma Pechino, non intende pagare il gas più di 100 dollari ogni mille metri cubi (per fare un paragone: la Russia lo compera a 250 dollari e lo rivende in Europa a 350-500 dollari). Prendere o lasciare.
3)  Il calo delle esportazioni di gas, da cui proviene il 50% del Pil, provoca una grave crisi finanziaria. Il resto del Pil viene dal cotone (35-40%) e da «altre fonti», traffico di droga incluso. Il Paese ha costantemente bisogno di prestiti per la spesa corrente. La Cina ha prestato al governo turkmeno 4 miliardi di dollari, a condizione che ne investisse 3 per migliorare l’infrastruttura per l’energia, e ne ha offerti in prestito altri 5. Il governo preferirebbe attrarre investimenti di compagnie occidentali (Eni, Chevron, Conoco), ma dovrà stare ai patti, più di quanto non ha fatto in passato.
(Fondazione CDF)

Benedetto Bellesi




Cari missionari

Omaggio ad un amico
Mi ha fatto tanto piacere vedere nella rivista Missioni Consolata di Novembre 2010 la foto del Dott. Silvio Prandoni con in braccio la bambina Marina nella sua casa famiglia di Mombasa.
Lasciamo stare le diatribe e i battibecchi. È chiaro che gli Amici di Wamba (includendo tutti i gruppi: Amici di Wamba, Wamba Athena, Lucia di Mestre, Belluno, la famiglia stessa del dottore e molti altri) hanno fatto moltissimo per quell’ospedale cornordinati com’erano dal Dott. Prandoni che tanto apprezzavano e amavano. Certamente senza di loro non ci sarebbe quella Rosa del Deserto che è l’ospedale Cattolico di Wamba, il quale, in 40 anni, da un semplice Health Centre di pochi letti è diventato quell’ospedale che è ora con 200 posti.
Con tutto il rispetto per i Benefattori che furono (e sono tanti, i nomi di alcuni di essi sono scritti nei muri dell’ospedale) la mia ammirazione va a lui, al Dott. Silvio Prandoni che dedicò i 40 anni migliori della sua vita e professionalità per creare quella bellissima struttura che è l’ospedale di Wamba a favore delle tribù nomadi locali.
Incontrai il Dott. Silvio Prandoni quando arrivò in Kenya verso il 1967 e aveva 30 anni. Dopo un breve tempo di apprendistato all’Africa nell’ospedale Cattolico del Mathari a Nyeri e poi a quello di Gaichangiro, andò subito al Nord fra le tribù nomadi nel semideserto ove diede tutto se stesso per creare quell’ospedale a favore della gente che ha tanto amato e dalla quale fu tanto apprezzato, stimato e ri-amato. Mi recai spesso a quell’ospedale per le mie necessità personali e per portare della mia gente ammalata, a volte con viaggi di 10-12 ore, senza preavviso e a tutte le ore del giorno e della notte. Quando arrivavo, lui, il dottore, era là, pronto ad attenderci. Lui era sempre là, presente nell’ospedale 24 ore al giorno. Tanto che, specialmente al sabato e la domenica, dagli ospedali governativi mandavano le emergenze a Wamba perché sapevano che lui c’era, con le suore della Consolata e lo staff locale, aiuto insostituibile nello svolgere un servizio indispensabile e tanto apprezzato dalla gente locale.
L’ho sempre ammirato perché vedevo in lui la vera vocazione del medico pronto a dare anche la vita per la sua gente. Non lo nego, mi fu pure di sprone nella mia vocazione missionaria: la sua dedizione, generosità, altruismo mi toccavano.
Il Dott. Prandoni era riuscito a crearsi molti amici in tutti gli ambienti specialmente nel campo medico: gruppi di specialisti (Ortopedici, Ginecologi, Farmacisti, Oculisti, Dentisti) disposti a venire ad aiutare nelle necessità dell’ospedale; quasi tutti i mesi c’erano degli amici a dare una mano. Il Dott. Prandoni preparava i pazienti poi gli specialisti venivano ad operare ed aiutare. Quale ammalato di quelle aree remote avrebbe potuto vedere uno specialista senza passare attraverso l’ospedale di Wamba?
Pochissimi o nessuno, sia per le distanze, 400 km da Nairobi, che per i costi insostenibili.
Quante gambe drizzate, quanti occhi riaperti, quante labbra leporine rimesse a nuovo, quante mamme hanno riacquistato speranza attraverso di loro.
Tutto questo fu sempre organizzato e portato avanti da lui con tanta semplicità, dedizione e bontà.
Il Dott. Prandoni non aveva a cuore solo gli ammalati, ma anche l’istituzione stessa dell’ospedale per il quale non mancavano altri tipi di amici: ingegneri, carpentieri, radiologi, meccanici, elettricisti ecc. che venivano pure a dare una mano a risolvere i vari problemi che sorgevano di tanto in tanto.
Direi che, nonostante il carattere che ogni persona può avere, all’ospedale di Wamba c’era un clima di famiglia, di amore vicendevole, di volontà di aiutare i fratelli ammalati nel miglior modo possibile senza risparmiare tempo, tecnologie e mezzi.
Per tutto questo io direi un grande grazie al Dott. Prandoni a nome di tutti noi che l’abbiamo conosciuto, apprezzato ed amato e a nome di tutti coloro che in un modo o in un altro hanno potuto usufruire dell’ospedale di Wamba ricuperando salute e gioia.
L’ospedale di Wamba, la “Rosa del Deserto”, e il nome del Dott. Prandoni non potranno mai essere divisi (un piccolo monumento li dovrebbe immortalare) perché sono nati così e vivranno così.
So che il Dott. Prandoni è molto schivo e restio a sentirsi ricordato, ringraziato e apprezzato, ma penso che l’unico ringraziamento che potrebbe piacergli e renderlo veramente felice sarebbe il sapere che l’ospedale di Wamba continua ad andare avanti bene svolgendo la sua opera medico-caritativa in favore di tutti, ma specialmente dei più bisognosi della zona per la quale è stato sognato, amato e fu realizzato.
P.L.G.
Diani-Ukunda (Kenya)




110 anni di missione, per guardare in avanti

Il 29 gennaio scorso i Missionari della Consolata hanno quietamente celebrato i 110 anni di fondazione, avvenuta nel 1901 per volere della Madonna Consolata, come ha sempre insistito a dire il fondatore di fatto, il Beato Giuseppe Allamano. 110 anni sono troppi per la vita di un uomo, ma molto pochi nella storia bimillenaria della Chiesa. Eppure hanno attraversato uno dei periodi più intensi e fecondi dell’epopea missionaria modea. Nonostante questo, attorno all’avvenimento non si è respirato un’aria di celebrazione o di festa, c’era piuttosto un atteggiamento di riflessione e ricerca. Ci si è volti sì al passato con riconoscenza, ma è al futuro che si guarda cercando di capire dove il Signore sta guidando la sua Chiesa.
L’Istituto, è non solo, deve ripensare profondamente il proprio ruolo nella Chiesa tenendo conto del cambiamento epocale in atto: non solo è cambiata la geografia della missione, ma la Missione stessa! Il cambiamento è così radicale che c’è chi teorizza addirittura la fine degli Istituti Missionari come tali perché diventati ridondanti (se non un ostacolo) in una Chiesa che – stupenda riscoperta del Concilio Vaticano II ! – è tutta missionaria per natura sua.
Quanto sta succedendo non è niente di nuovo. Sono anni che si riflette, discute e ricerca su queste tematiche: che senso abbia la Missione oggi e quale sia il ruolo dei missionari ai nostri giorni. Forse di questi tempi il processo è diventato più urgente a causa di fattori molto contingenti quali la scristianizzazione accelerata del mondo occidentale concomitante con l’invecchiamento del clero, la diminuzione delle vocazioni e l’impossibilità di mantenere il tradizionale numero di attività pastorali, religiose e caritative. Gli effetti di questa situazione sono sentiti da tutti, se non altro perché in tutte le diocesi italiane è in atto una ritrutturazione e ridistribuzione del clero senza precedenti, con accorporazioni, unificazioni e chiusura di parrocchie che spesso lasciano i fedeli smarriti e amareggiati.
In questo contesto anche i missionari (quelli classici, nati per andare nelle parti più remote del mondo) sono messi in discussione. La missione è ovunque! Che senso ha andare ad annunciare il Vangelo ai «lontani» e poi lasciare che i «vicini» lo mettano nel cassetto (quando va bene) o addirittura lo buttino nella spazzatura? In più, il nuovo esercito di preti e suore che vengono dal Sud del mondo a riempire i vuoti nelle nostre case di cura, ospizi e parrocchie, sono davvero missionari o sono solo usati come tappabuchi per mantenere un sistema superato? Domande queste che non si possono evitare, ma la cui risposta non è certo facile. Questioni che gli stessi missionari e missionarie della Consolata – queste ultime appena uscite dalle celebrazioni centenarie – si pongono continuamente e su cui sono chiamati a dare risposte efficaci durante i Capitoli Generali che si svolgeranno nei prossimi mesi di maggio e giugno a Roma.
Il cambiamento in atto non ci deve spaventare. Cambia il modo di fare Missione, ma la ragione fondamentale della Missione è sempre la stessa: Gesù Cristo. La Missione ha senso solo in Lui, missionario del Padre nello Spirito Santo. E lo Spirito Santo, nei secoli, ha dimostrato di avere una fantasia creativa incredibile, senza mai lasciarsi bloccare né dalle inadeguatezze dei missionari, né dalle prepotenza delle opposte forze in campo, né dal progresso tecnologico e scientifico. Da parte nostra basterebbe forse piantarla di lagnarsi, di fare le vittime e i rassegnati, di cercare i colpevoli, di aspettare l’ultima elaborazione teologica o soluzioni magiche, e – a costo di sembrare ingenui – vivere la fede che abbiamo ricevuto in dono, ciascuno secondo il proprio stato e carisma, attraverso una testimonianza di amore fattivo che sia contemplazione, giustizia, pace, vicinanza alla persona e (perché no?) anche impegno politico nuovo. Il «mondo», in fin dei conti, ha «fame» di Gesù. Ma è davvero Gesù, il Cristo, che oggi annunciamo?

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni