Il formaggio di malga khizabavra

Una storia di cooperazione partita dal palato

Isolata e senza prospettive la zona si era spopolata. Poi, nel 2005, Temur e Nana pensarono che con le mucche e i pascoli avrebbero potuto cambiare il presente e il futuro di Khizabavra.
Con l’aiuto dei missionari camilliani, della Caritas e di alcuni esperti venuti da Belluno è nato un caseificio che produce un formaggio apprezzato da tutti: cattolici e ortodossi, georgiani, armeni e italiani. 

Il Javakheti è un altopiano che si estende dal confine armeno-turco fino alla valle del Mtkvari, il principale corso d’acqua della Georgia. Il fiume scorre in un ampio corridoio inciso nell’altopiano, le cui pareti, le coste dei monti, salgono dapprima assai ripide per poi bruscamente distendersi in ampie praterie. La strada che porta a Khizabavra sale erta fino a raggiungere il limite di questa balza da dove la vista si spalanca sul pianoro, in fondo al quale si scorge il borgo raccolto intorno alla chiesa. Qui gli abitanti sono georgiani, ma se si sale ancora, addentrandosi nell’altipiano, s’incontrano villaggi interamente armeni. La convivenza tra i due gruppi etnici non è mai stata semplice. Da secoli georgiani e armeni si contendono primati culturali, artistici, religiosi, nonché la terra, su cui hanno sempre vissuto insieme.  
Le rivalità etniche, rimaste sopite sotto il regime sovietico, si sono risvegliate con l’istituzione della repubblica indipendente di Georgia, quando gli armeni del Javakheti si sono sentiti, e non del tutto a torto, cittadini di seconda categoria. Sono nati partiti politici che chiedevano maggiore autonomia dal governo centrale, il quale, dal canto suo riservava poche attenzioni a questo territorio isolato e arretrato. Fortunatamente, a differenza di Abkhazia e Ossezia, le aspirazioni irredentiste non hanno portato a un conflitto armato, sebbene le condizioni per una secessione ci fossero qui molto più che altrove. Il Javakheti, infatti, non solo confina con l’Armenia, ma è abitato per il 95% da armeni.

L’ARRIVO DEI CATTOLICI
La fine del regime comunista ha creato le condizioni per una rinascita religiosa in tutto il territorio dell’Urss, e la Georgia non ha fatto eccezione. Nel paese c’è una presenza cattolica non numerosa ma di vecchia data. Negli anni Novanta cominciarono ad arrivare i primi sacerdoti cattolici per prendersi cura delle comunità di fedeli che stavano riorganizzandosi e tentando di riaprire le chiese rimaste chiuse per decenni.
Sebbene la Georgia sia un paese tradizionalmente cristiano ortodosso, i rapporti con il mondo cattolico nei secoli sono stati generalmente non conflittuali, e in certi periodi, apertamente amichevoli. Così in disparte com’era rispetto al teatro delle dispute teologiche che occuparono i cristiani nel corso del primo millennio, la Georgia non ha vissuto il dramma della frattura tra le chiese d’Oriente e d’Occidente, consumatosi con lo scisma del 1054. Solo nel XIII secolo prese coscienza che era avvenuta una separazione tra la sua chiesa e quella di Roma, ma nessun atto ufficiale la sancisce. I missionari cattolici erano accolti con benevolenza dai signori georgiani, che, tra l’altro, speravano di ottenere dall’Occidente cattolico un aiuto contro i più potenti vicini musulmani; aiuto che non giunse mai.
Francescani e domenicani furono i primi ad arrivare in Georgia proprio nel XIII secolo. Nel 1329 fu istituito a Tbilisi (capitale della Georgia) il vescovato cattolico. Nel XVII secolo anche i teatini e i cappuccini fondarono proprie missioni nel paese. Intoo ad esse si crearono piccole comunità cattoliche che sono giunte fino a noi, attraverso secoli di dominazione musulmana e settant’anni di ateismo di stato. Queste comunità erano rimaste senza pastori durante il periodo sovietico, per cui, non appena fu possibile, furono inviati loro sacerdoti dall’Europa. Vi arrivarono gli stimmatini da Verona e i camilliani dalla Polonia. Ai polacchi la Santa Sede ha tradizionalmente affidato la cura dei fedeli cattolici nei paesi dell’area ex sovietica, contando sulla loro conoscenza del russo, che ha continuato a essere lingua di comunicazione anche dopo il crollo dell’Urss. La scelta degli italiani si spiega, invece, per le evidenti affinità di carattere che esistono tra i due popoli.

I CAMILLIANI E PADRE PAATA
La presenza cattolica in Samtskhe-Javakheti è concentrata in alcuni insediamenti: ad Arali, Vale, Ude, Khizabavra e Vargavi. Khizabavra fu affidata ai camilliani. Il primo fu padre Pawel Szczepanek nel 1997. Lui e i suoi confratelli, che nel frattempo avevano aperto una missione permanente aTbilisi, si dovettero rimboccare le maniche. Si trattava di ricominciare quasi da zero un’attività pastorale dopo decenni di vuoto totale.
Sotto il regime comunista la chiesa cattolica, costruita nel 1898 dall’architetto Varzelashvili, era stata chiusa e adibita a deposito, la casa parrocchiale era diventata un distaccamento della scuola locale. Adesso gli edifici non recano più le tracce del triste passato sovietico. La casa parrocchiale ha ripreso la sua funzione originaria ed è stata completamente ristrutturata. La grande chiesa in cima al villaggio è fresca di pittura. Un busto a Varzelashvili, il cui figlio fu fucilato nel 1937, è stato posto nel giardinetto accanto alla scuola. Caritas Georgia ha aperto un ambulatorio, dove si possono ricevere gratuitamente assistenza e farmaci, i camilliani hanno costruito un asilo per circa settanta bambini.
Molto più difficile, però, si è dimostrato ricostruire una vita di comunità. I fedeli dovevano riprendere pratiche di culto abbandonate da decenni senza sacerdoti che parlassero la loro lingua. Ai camilliani toccò imparare il georgiano e dedicarsi al catechismo, alla formazione dei giovani, all’attività pastorale con adulti e anziani, in attesa che i primi seminaristi locali terminassero gli studi e potessero sostituirsi a loro. Ora a Khizabavra c’è finalmente un sacerdote georgiano, padre Paata.
Sembrerebbe, dunque, che ormai non rimanessero più ostacoli alla rinascita di una piena vita religiosa. Paradossalmente, però, il senso di appartenenza alla chiesa, sopravvissuto all’ostracismo e alle persecuzioni riservate alla religione sotto il comunismo, in questi due decenni di libertà si è andato dissipando. Ora che il culto è tornato libero, ad esempio, ci sono tanti che scelgono di non battezzarsi.
Padre Paata vede le ragioni di tale scelta in parte nelle difficoltà economiche: mancano i soldi per fare una festa come si deve, secondo i grandiosi criteri locali; in parte nel timore di avere problemi con gli ortodossi in quanto cattolici.
Se pensiamo che in Georgia cristiani ortodossi e cattolici, ebrei e musulmani hanno convissuto in pace per secoli, raro esempio di tolleranza in epoche in cui tale virtù era poco praticata, si può dire che la fase attuale costituisce una rottura col passato. Il dopo Urss si è inaugurato con lo slogan «la Georgia ai georgiani». Un esasperato nazionalismo è stato iniettato nel sangue degli abitanti di questa terra generosa.  Questo nuovo corso ideologico ha fatto dell’Ortodossia la bandiera della rinascita nazionale. Essere georgiani s’identifica con l’essere ortodossi; per questo motivo oggi in Georgia l’unica chiesa riconosciuta e ufficialmente registrata dallo stato è quella ortodossa.

LA CRISI
All’indomani della fine del sistema sovietico i georgiani si sono trovati a fare i conti anche con una gravissima crisi economica. In Samtskhe-Javakheti, area prevalentemente rurale, le occupazioni tradizionali sono agricoltura, allevamento e produzione di latte. Negli anni Novanta la chiusura totale, o parziale, delle imprese alimentari e l’interruzione del sistema distributivo ebbero come conseguenza un drastico calo della produzione agricola e un declino nel numero degli animali.
La crisi cominciò a spingere molte persone fuori dei villaggi, della regione, o addirittura del paese. «Un tempo qui c’erano 300 famiglie, ora saranno al massimo 250. Molte case sono rimaste vuote», spiega padre Paata, «perché le persone si sono trasferite in città, o sono espatriate in cerca di lavori più remunerativi. A Vargavi, un villaggio a qualche chilometro da qui, sono rimasti solo in venticinque. Tutti anziani».
Sono arrivata a Khizabavra una domenica di fine agosto, giusto in tempo per assistere alla liturgia nella chiesa, tutta ridipinta e spaziosa ma semivuota. I fedeli erano in prevalenza bambini e ragazze, che sostenevano i canti. C’era anche qualche anziano. Gli uomini avevano preferito riunirsi a pochi passi dalla chiesa, sotto il grande albero accanto alla fontana, evidentemente un punto di ritrovo. Chiacchieravano o giocavano a carte. È il loro modo di svagarsi nel giorno di festa.
Tra di loro ce n’erano alcuni trasferiti in città e tornati al paese natale solo per qualche giorno di vacanza. Sono considerati fortunati perché sono riusciti a ottenere condizioni di vita più agevoli.  Gli «sfortunati» sono rimasti a lavorare nei campi o con gli animali. È una vita dura, perché il lavoro deve essere fatto quasi senza l’ausilio di macchine, troppo costose per essere acquistate da un singolo.  Così, chi può se ne va e chi non può tira avanti senza troppa convinzione, limitando il lavoro agricolo a una pura attività di sussistenza.
Questo decadimento dell’agricoltura ha portato a uno dei paradossi più sorprendenti dell’economia georgiana: un paese che sembra benedetto dal cielo per il suo clima e per la fertilità della terra, dove l’industria alimentare e conserviera dovrebbe prosperare, si rifornisce di frutta e verdura in gran parte dalla vicina Turchia. In piena estate le massaie di Tbilisi si lamentano di non riuscire più a trovare sul mercato pomodori e cetrioli nostrani, ma solo quelli turchi, fibrosi e insapori.
Con le loro ampie praterie gli altopiani dello Samtskhe-Javakheti sono luoghi ideali per il pascolo. Vi cresce un’erba fitta, succosa, ricca di fiori odorosi. Ai tempi sovietici alla comunità di Khizabavra furono date in dotazione una porzione di pascolo e una malga quasi al confine con la Turchia, dove nei mesi estivi venivano portate le mucche del kolkhoz, l’azienda agricola statale che raggruppava gli allevatori del villaggio. Vi si faceva il tradizionale formaggio georgiano, il suluguni, non stagionato e conservato in salamoia. Anche quest’attività non aveva retto alla crisi generale. Quando il kolkhoz era stato privatizzato e il suo patrimonio distribuito tra gli allevatori, costoro avevano cominciato a vendere le proprie mucche e la montagna si era andata vuotando.
Questo processo sembrava inarrestabile quando Temur e sua moglie Nana decisero di investire le proprie risorse per riprendere la produzione di formaggio. Non avevano molta esperienza in materia, ma avevano un sogno, maturato vedendo i compaesani lasciare le proprie case e non farvi più ritorno: ripopolare la montagna e riportarvi le attività tradizionali di modo che la gente avesse lavoro e potesse restare. Per far ciò, però, le loro risorse non bastavano. Bisognava incrementare gli animali, pagare l’affitto dei pascoli, ristrutturare la malga in rovina. Ne parlarono con padre Pawel Dyl, il camilliano che aveva preso il posto del primo, compianto, padre Pawel, morto in un incidente stradale nel 1999.

GLI UOMINI VENUTI DA BELLUNO
Il progetto appariva interessante: non solo avrebbe creato lavoro e fatto rivivere un’economia rispettosa del territorio, ma parte della produzione di formaggio sarebbe stata destinata all’asilo di Khizabavra e alle mense dei poveri gestite dai camilliani e da Caritas Georgia nelle città. Il sacerdote si offrì di aiutarli e si mise alla ricerca di uno sponsor. Approdò nel Bellunese, terra con una lunga tradizione nella gestione dei pascoli e nella produzione di formaggio. Caritas Belluno non era contraria a finanziare un progetto di sviluppo in un territorio che presenta caratteristiche simili a quelle della montagna dolomitica e inviò in Javakheti due esperti del Gruppo di Azione Locale Alto Bellunese.
«Non dimenticherò mai come avvenne in nostro primo incontro», racconta Temur. «Finalmente eravamo riusciti a portare alla malga gli italiani e dovevamo conquistare la loro fiducia, dimostrare quanto eravamo capaci di fare. Padre Pawel si era raccomandato di non fargli fare brutta figura ed eravamo tutti in tensione. Si trattava di far vedere come facevamo il formaggio. Mentre eravamo attorno al pentolone di latte che stava sul fuoco, si avvicina il nostro aiutante Sasha, con mani e braccia sporche fino al gomito, perché aveva tentato di aggiustare un vecchio trattore che non partiva. Alza un mignolo e lo immerge nel pentolone. “Non ci siamo ancora”, commenta, e torna al suo lavoro.
Sprofondai nello sconforto. Ora tutto è perduto, pensai, gli italiani non vorranno più sapee di noi e del nostro formaggio. Osservai le loro facce, pensando di trovarvi disappunto, ma vi lessi stupore. “Perché l’ha fatto?”, mi chiesero. “Per misurare la temperatura del latte”, spiegai. Scoppiarono in una fragorosa risata: “150 anni fa nelle nostre montagne non usavamo già più questo metodo!”, esclamarono. Questo episodio li convinse che dovevano assolutamente darci una mano».
Fu così che iniziò una felicissima collaborazione per la produzione di un formaggio molto speciale: il lavoro, i pascoli e il latte, sono georgiani, la tecnologia e la «ricetta», italiane. Molto è stato fatto da quel giorno del 2005, con gli sforzi di tante persone, in primo luogo di coloro che lavorano alla malga e dei due italiani, Luigi Pellegrini e Battista Attorni, che ogni anno vi trascorrono parte delle loro vacanze, controllano la qualità della produzione, si portano via un po’ di latte da analizzare. Ci sono, poi, la Caritas di Belluno-Feltre, le fondazioni Cariverona e San Zeno che hanno sponsorizzato il progetto, Caritas Georgia che segue la logistica e la parte amministrativa. Tanti sforzi che incominciano a dare i loro frutti.
Ora a 2.000 metri sull’altipiano c’è un piccolo caseificio, dotato di macchine italiane e organizzato secondo i migliori criteri d’igiene e sostenibilità. D’altra parte, è la natura stessa del luogo che spinge gli uomini a razionalizzare il più possibile il lavoro. Troppo impegnativo, e costoso, trasportare i bomboloni del gas su per l’orribile mulattiera: così si è pensato di sfruttare il salto d’acqua del vicino ruscello per produrre elettricità. L’operazione, in cui avevano fallito gli ingegneri chiamati da Tbilisi, è finalmente riuscita a un armeno del villaggio vicino, privo di diplomi ma vivo d’ingegno. Il prossimo passo sarà produrre combustibile biologico, utilizzando il letame che si accumula nella stalla.
Nel 2010, i due italiani hanno chiesto a Temur di anticipare la fienagione, che di solito nell’altopiano avviene a fine agosto, alla fase di prefioritura delle piante, quando il loro contenuto nutritivo è maggiore.  Se si migliora la qualità del fieno, dicono, gli animali si svilupperanno meglio e produrranno più latte. Così è stato fatto. Quando a fine agosto ho visitato la malga ho trovato due montagne di balle di fieno già pronte per l’inverno. Bisognerà aspettare la primavera per vedere se il nuovo sistema dà buoni risultati.

FRESCO E STAGIONATO
Oltre al tradizionale suluguni, ora alla malga di Khizabavra si fa uno squisito formaggio stagionato, una novità per la Georgia, dove il formaggio è per lo più fresco. Prodotto seguendo la ricetta del signor Battista, questo formaggio è così gradito al palato, che la scorsa estate si è aggiudicato il primo premio alla fiera alimentare di Sighnaghi, un’amena cittadina della Georgia orientale. È così buono, che non ho potuto trattenermi dal fae dono ai miei amici di Tbilisi e dal mettee una forma intera nella borsa prima di rientrare in Italia.  Alla prima occasione ne ho dato un pezzetto da assaggiare a un’amica di origini valtellinesi. Vi ha subito sentito qualcosa di famigliare: «Ha dentro il sapore dell’erba, proprio come quello che un tempo ci portavano dai nostri alpeggi».
Così il formaggio di Khizabavra, alla fine, ha messo d’accordo tutti: cattolici e ortodossi, italiani, georgiani e armeni; e sono sicura che ne sarebbero conquistati anche i turchi, se solo potessero assaggiarlo.

Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Profezia e utopia

Incontro con Abdessalam Najjar, primo abitante di Nevé Shalom

In territorio israeliano c’è un villaggio dove ebrei e palestinesi vivono insieme: lo ha inventato un domenicano ebreo, Bruno Hussar, profeta di grande fede, per testimoniare e insegnare che la pace non è solo un sogno e i conflitti possono essere superati con accettazione, rispetto e collaborazione reciproca.

«Mi chiamo Abdessalam e da oltre 30 anni sono in questa comunità chiamata Nevé Shalom-Wahat as-Salam, un villaggio in cui vivono insieme ebrei e palestinesi di cittadinanza israeliana, impegnati nel lavoro di educazione per la pace, l’uguaglianza e la comprensione tra le due popolazioni. La nostra esperienza è la dimostrazione tangibile che i due gruppi possono coesistere, vivere in pace e lavorare insieme».
Inizia così l’incontro con il professore Abdessalam Najjar, uno dei fondatori dell’«Oasi di Pace»: è questo il significato letterale della duplice espressione, in ebraico e in arabo,Nevé Shalom-Wahat as-Salam; termine ispirato alla promessa del profeta Isaia: «Il mio popolo abiterà in un’oasi di pace» (Is 32,18).

SOGNO DI PACE
«L’oasi nasce da un sogno di un domenicano ebreo: padre Bruno Hussar. Uomo di grande fede, arrivato a Gerusalemme nel 1960, aveva subito attratto attorno a sé un gruppo di persone di differente credo religioso e promosso incontri di dialogo tra cristiani, ebrei, musulmani. All’inizio era spinto da entusiasmo e buona volontà, senza sapere cosa avrebbe raggiunto: diceva che parlare è meglio che litigare».
Sorride Abdessalam e continua: «Dopo tanti incontri, padre Bruno cominciò a riflettere: “Siamo qui seduti in un piccolo gruppo, cristiani, ebrei, musulmani, tutta brava gente, tutti vogliamo la pace… ma perché fuori non c’è pace? Forse il gruppo di dialogo non basta; dobbiamo fare qualcosa di più”».
Alla fine degli anni ‘60 egli ottenne un pezzo di terra in prestito dal monastero trappista di Latrun e cominciò a sognare la sua «oasi di pace», iniziando a tenervi i suoi incontri soprattutto nei fine-settimana. Cominciò ad arrivare varia gente, soprattutto dall’Europa, giovani capelloni, nella loro strada verso l’India o di ritorno dall’India in cerca di un guru. Padre Bruno accoglieva tutti con molta cordialità, ma non era sua intenzione essere un guru. Il suo progetto era ben differente: mirava alle persone in conflitto, ebrei a palestinesi, disposti a vivere insieme, esplorando le cause del conflitto, per superarle ogni giorno, prendendo insieme le decisioni adeguate.
«A quei tempi – continua Abdessalam – quando incontrai per la prima volta padre Bruno, ero impegnato insieme a mia moglie nel dialogo tra studenti universitari ebrei e palestinesi e stavamo progettando una scuola per ebrei e palestinesi insieme. Egli mi invitò a costruirla nel suo villaggio di Nevé Shalom. Non vi immaginate la delusione che provammo quando andammo a visitarlo: mi aspettavo alberi e case come si addice a un’oasi; trovai solo un vecchio autobus in disuso, un pergolato di bambù e alcune pietre per sedersi. Padre Bruno cominciò a parlare del suo villaggio, di bambini che si arrampicavano sugli alberi… Domandai dove fosse realmente tale villaggio: “Ora ci siete voi e abbiamo Nevé Shalom; poi arriveranno anche i bambini” rispose seraficamente. Era fatto così: pensava una cosa ed era convinto che sarebbe diventata subito realtà».
Naturalmente ci vollero altri incontri per esplorare le varie possibilità, finché fu deciso di organizzare un campo estivo, tanto per dare vita a qualcosa di concreto: nell’estate del 1977 c’erano circa 300 giovani, ebrei e arabi, seduti insieme a discutere su che cosa significhi dialogare, lavorare, vivere insieme. Fu un evento importante, ma il sogno di padre Bruno divenne realtà l’anno seguente: alla fine del 1978 si stabilirono le prime quattro famiglie, tre ebree e una palestinese. Da quel momento la comunità continuò a crescere gradualmente, con l’arrivo di due-tre famiglie l’anno. Ora esse sono 60, metà ebree e metà palestinesi, tutte hanno la cittadinanza israeliana. Il progetto continua per raggiungere le 140 famiglie.

EDUCAZIONE BILINGUE
Narrata l’origine di Nevé Shalom, il dottor Najjar passa a spiegare la vita attuale del villaggio, guidandoci nella visita alle varie strutture della comunità, prime tra tutte gli asili nido. «Il problema educativo si è imposto fin dall’inizio, con la nascita dei primi figli. Fu deciso di educarli insieme. Ogni asilo ha una madre ebrea e una madre araba; ognuna parla la propria lingua ai bambini, in modo che ognuno cresca secondo le proprie tradizioni culturali, e al tempo stesso impari la lingua dei compagni di cultura differente. Col crescere dei bambini abbiamo deciso con padre Bruno di aprire la scuola matea, seguita poi da quella elementare. La comunità mi chiese di lasciare l’impiego nella scuola statale per insegnare qui, insieme a una maestra ebrea».
Nasceva così, nel 1984, la scuola bilingue ebreo-araba, la prima del genere in Israele. «Benché non fossimo preparati a tale impresa – continua il dottor Najjar -, dato che non esisteva alcuna struttura per preparare insegnanti di scuole del genere, l’esperienza riscosse un successo superiore alle aspettative: molte famiglie attorno chiesero di accogliere e istruire i loro figli nella nostra scuola».
Oggi la scuola elementare e quella matea contano complessivamente circa 300 bambini, oltre il 90% dei quali provengono dai villaggi vicini sia arabi che ebrei. Un nuovo edificio è stato richiesto per estendere il curriculum scolastico alla scuola media.

MODELLO DA ESPORTARE?
Nel 1997, il Ministero israeliano dell’Educazione riconobbe ufficialmente la scuola matea e l’anno seguente quella elementare; nel 2000 «incorporò» la scuola matea nel sistema scolastico nazionale. «Era uno degli obiettivi del nostro metodo educativo: lanciare un modello che potesse essere imitato particolarmente in città o regioni con popolazione binazionale. I nostri sforzi sembrano avere successo: oggi in Israele abbiamo 5 scuole come questa, bilingue arabo-ebrea. Abbiamo lavorato in altri paesi con situazioni di conflitto, come Irlanda, Cipro e nella ex Yugoslavia».
A Skoplie, in Macedonia, per esempio, è sorto un asilo infantile bilingue: le insegnanti sono state a Nevé Shalom per prepararsi a una scuola del genere. Si è tentata un’esperienza anche in Kosovo, con le comunità di albanesi e serbi, ma con gruppi separati, perché i serbi sono chiusi in enclaves e le restrizioni non permettono ancora di organizzare una scuola biligue.
Più che un modello da esportare, Nevé Shalom vuole essere un esempio, un laboratorio di metodologia educativa, da adattare alle situazioni concrete dei popoli in conflitto. Le pubblicazioni che descrivono i percorsi e i metodi educativi sperimentati a Nevé Shalom sono ora disponibili in ebraico, arabo e inglese.

SCUOLA PER LA PACE
Scopo di Nevé Shalom non era solo di formare una comunità, ma anche di espandee l’impatto educativo all’esterno. Già prima che le famiglie si stabilissero a Nevé Shalom, erano stati organizzati incontri di studenti di scuole arabe e di scuole israeliane per incontrarsi e discutere insieme. «Le chiamavamo “scuole di pace”. Non era una vera scuola, dato che l’incontro durava un giorno solo – racconta Abdessalam -; però si parlava di pace. Molte altre scuole vollero venire a parlare di pace. Quando le discussioni si svolgevano con calma e i giovani tornavano a casa tranquilli, dicevamo che l’incontro aveva avuto un bel successo. Ma una volta ci fu una discussione accesa e sperimentammo fortissime tensioni: non sapevamo cosa fare. La sera concludemmo che era stato un fallimento.
Qualcuno, invece, ci disse che le forti discussioni non significavano fallimento e che era meglio discutere i problemi piuttosto che non affrontarli. Ci spiegò che, trattandosi di problemi emozionali, non basati sulla razionalità, avremmo dovuto chiamare qualche persona qualificata per organizzare i gruppi, adottare le strategie per guidare le discussioni, valutare i risultati finali e i metodi adottati».
Dopo quattro anni di valutazione e studio, si giunse alla conclusione che un giorno era troppo poco, una settimana troppo lunga; la durata ideale per la scuola di pace era di tre giorni, con gruppi misti ristretti di 15-18 partecipanti, con due facilitatori, uno arabo e uno ebreo. La Scuola per la pace (School for peace, Sfp) cominciò ad avere una fisionomia più regolare e metodica anche nella struttura di lavoro, con meno lezione o informazione e più dinamica di gruppo.
Fu cambiato anche il fine da raggiungere: all’inizio si parlava di trasformazione politica. Cosa impossibile. Primo traguardo da raggiungere era prendere coscienza di se stessi, pensare e agire senza stereotipi e generalizzazioni, in modo da comprendere e capire gli altri. «Per raggiungere tale comprensione reciproca, tra ebrei e palestinesi, ci vuole tempo – spiega il dottor Najjar -. Non basta un incontro, ma occorrono più esperienze in altre situazioni e in altri gruppi, dopo di che è possibile che qualcosa cambi».
centro spirituale
La terza istituzione educativa, sogno di padre Bruno, è stato il Centro spirituale pluralista. Anche se in questa terra i conflitti non sono di natura religiosa, negli ultimi anni, purtroppo, la religione ha cominciato a giocarvi un ruolo importante. Padre Bruno si domandava: «Come mai noi popoli del libro ci facciamo guerra in nome di Dio? Deve esserci una interpretazione sbagliata della sacra scrittura. Nulla è più sacro dell’umano: non è la terra che fa la santità di un popolo, ma è il popolo che fa santa la terra. Più che parlare di cose spirituali, bisogna parlare in modo spirituale, poiché ogni aspetto della nostra vita ha una dimensione spirituale» insegnava padre Bruno.
Ci furono molti incontri di dialogo interreligioso, non a livello di contenuto teologico, ma a livcello esistenziale: si discuteva su come devono essere le relazioni umane tra persone di diversa fede religiosa; sul perché in certi periodi i rapporti erano più pacifici o più ostili; su cosa bisogna fare per creare relazioni di pace.
«Anche oggi – continua Abdessalam – le iniziative di dialogo interreligioso sono sempre legate alla realtà che stiamo vivendo; partecipiamo agli incontri come esseri umani, cioè portando con noi tensioni e problemi, conflitti e paure, emozioni e pregiudizi… per cercare di esplorarli psicologicamente e trattarli in modo spirituale, in modo religioso».
Un’altra intuizione di padre Bruno, suggerita dalla sua prima collaboratrice Anne Le Meignen, fu di non edificare una chiesa, una sinagoga o una moschea, ma un luogo speciale, aperto a tutte le religioni: la «Casa del silenzio» (Bet Dumia-Sakina, in ebraico e arabo rispettivamente). L’ispirazione era venuta dalla meditazione sul Salmo 65,2: «Per Te il silenzio (dumìa) è lode, o Dio…».
È una cupola candida, sul dorsale della collina boscosa, affacciata sulla pianura sottostante; unici arredi sono alcuni cuscini per sedersi. Qui ciascun abitante del villaggio, religioso o no, a qualunque fede faccia riferimento, può raccogliersi, per pregare, meditare, riflettere. L’unico linguaggio che vi si parla è, appunto, il silenzio.
«Dio si rivela nel silenzio – spiega Anne Le Meignen -. Ricordate l’esperienza di Elia sull’Oreb: Dio non era nel vento impetuoso, nel terremoto, nel fuoco, ma nel “qol demama daqqa, una voce di silenzio lieve” (1Re 19,12)».
Nel 2006 attorno alla Dumia è sorto appunto il «Centro spirituale pluralista Bruno Hussar», una struttura per incontri, giornate di studio e corsi dedicati a una riflessione spirituale sui problemi che costituiscono il cuore del conflitto in Medio Oriente e sulla ricerca di una possibile soluzione, attingendo le risorse disponibili nella propria cultura e tradizioni religiose. 
Un altro sogno di padre Bruno sta per realizzarsi: la «Casa degli studi silenziosi», un edificio con sale riunioni, biblioteca, spazi per la creatività artistica… un ulteriore strumento di carattere spirituale per educare al dialogo, alla riconciliazione ed alla pace, attraverso la ricerca dei punti comuni, da rintracciare anche nelle rispettive scritture sacre delle diverse religioni.

La vita a Nevé Shalom
Il villaggio è gestito in modo democratico: ogni anno viene eletto un segretario che lo governa, affiancato da quattro consiglieri; almeno una volta al mese viene convocata l’assemblea plenaria per prendere le decisioni più importanti.
Attualmente vi sono una sessantina di famiglie, metà ebree e metà palestinesi, ma presto se ne aggiungeranno altre. La lista di attesa è lunga; un comitato studia i vari casi, ne analizza le motivazioni, istruisce sulle condizioni ed esigenze per vivere nella comunità, esamina le capacità di resistenza e alla fine fa la selezione.
Ogni famiglia deve costruirsi la propria casa. La terra è della comunità, la casa è proprietà privata, ma non può essere venduta; se una famiglia lascia il villaggio, terra e casa rimangono alla comunità, non viene venduta ad altra famiglia.
Lingua ufficiale è l’ebraico, anche perché gli arabi sono generalmente bilingui; d’altronde, i palestinesi hanno bisogno di conoscere l’ebraico per vari motivi; gli ebrei invece, non conoscono l’arabo; magari sono bilingui di una lingua europea.
Il villaggio non è affiliato ad alcun partito o movimento politico. Fino ad ora nessun governo israeliano ha considerato Nevé Shalom un’iniziativa o progetto di interesse nazionale; c’è rispetto e nulla più. È stato chiesto in concessione un pezzo di terra, come il governo fa per i kibbutz, ma fino ad ora la richiesta è stata rifiutata, con la scusa che non è una iniziativa di necessità nazionale; in realtà non si vuole la presenza di arabi in territorio israeliano.
Dal punto di vista religioso a Nevé Shalom risiedono ebrei, cristiani, musulmani e agnostici. Buona parte di essi non vi sono entrati per motivi religiosi; anzi, molti non sono neppure coscienti della loro identità religiosa. Era una delle critiche mosse a padre Bruno: come prete avrebbe dovuto interessarsi solo di cristiani, invece accoglieva tutti, senza chiedere la loro appartenenza religiosa. Padre Bruno rispondeva: «Da parte mia non rinuncio a nulla della mia fede; quanto a quelli che ancora non hanno trovato la strada che porta a Dio, sono certo che, al momento, agiscono secondo la parola di Dio; un giorno forse troveranno anche la loro via a Dio».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Haiti: la voce della società civile

Il libro

Pezzo d’Africa nei Caraibi, Haiti è la prima repubblica «nera» indipendente del mondo. Ma questo primato l’ha sempre pagato caro. Ancora oggi, c’è chi vuole negarglielo. Esce in Italia il primo libro-testimonianza di questo popolo. Tre domande agli autori.

Perché questo libro?
«Sui mass media italiani (ma anche stranieri) a parte rare eccezioni, non si è mai presentato il punto di vista degli haitiani di fronte alla tragedia del 12 gennaio 2010. Le testimonianze erano sempre quelle del cornoperante, del funzionario delle Nazioni Unite o del missionario. Noi abbiamo voluto invertire questo schema.
L’idea è stata quella di mettere in luce le caratteristiche del popolo haitiano e sottrarre al lettore lo stereotipo di un popolo sfortunato che può vivere solo con l’aiuto delle grandi potenze. Per far questo si presenta il punto di vista di personaggi, leader, della società haitiana a diversi livelli. Vogliamo far conoscere Haiti attraverso una lente diversa: quella di un paese che rinasce dalla popolazione locale che vi abita e ne è la linfa vitale. Mostrae il vero volto facendo parlare gli haitiani che vogliono essere protagonisti di questa ricostruzione: sociologi, intellettuali, artisti, donne impegnate nei movimenti femminili, politici, giornalisti, religiosi, personalità del mondo vudù, leader contadini. Di fatto sono loro che “scrivono” il libro».

Parlando di Haiti si pensa a terremoto, uragani,
colera. Calamità di ogni genere. Non viene in mente che ci possa essere una società civile organizzata.
«Ad Haiti i movimenti sociali, sono stati fondamentali in alcune fasi della storia. Intendiamo il movimento contadino, quello femminista e quello operaio, le associazioni per la difesa dei diritti umani, i media indipendenti, e molti altri. I movimenti degli anni ’70-’80 riuscirono a cacciare il dittatore Duvalier e a portare un loro membro a capo del paese. Fu un caso molto significativo a livello di America Latina, di uno Stato in cui il potere era diventato emanazione della base. Ma anche un esempio troppo “scomodo” per i vicini Stati Uniti. Questa esperienza fu repressa nel sangue e si fece di tutto per indebolire la società civile haitiana.
Oggi assistiamo a una tragedia dopo la tragedia. La comunità internazionale, Usa in testa, con la “scusa” della ricostruzione sta mettendo il futuro del paese sotto tutela. Gli sta, di fatto, rubando l’indipendenza. E il popolo haitiano rischia, ancora una volta, di restare escluso anche dai piani per il proprio sviluppo. Ma la società civile fa sentire la sua voce e noi siamo andati a raccoglierla».

Una parte del libro è consacrata agli haitiani in Italia. Qual è il loro peso nel processo di ricostruzione?
«Gli haitiani qui da noi non sono molti. Ma, per loro caratteristica, sono molto legati al paese di origine. In questa fase di ricostruzione, la diaspora (come si fanno chiamare) può essere fondamentale per un appoggio economico e intellettuale. Certo i numeri importanti sono gli haitiani di Stati Uniti, Canada e Francia. Ma gli haitiani d’Italia si sono subito attivati con sensibilizzazioni sul paese e raccolte fondi per dare assistenza. È una realtà, quella dei migranti, che fa parte della nostra società, ma allo stesso tempo ci permette di capire meglio anche paesi così lontani come Haiti».

Dalla prefazione
«Questo libro ci porta in mezzo agli haitiani, ad ascoltare la loro voce, le loro visioni sulla ricostruzione o “rifondazione” del Paese e della società. Le “forze vive” della nazione chiedono di partecipare alla definizione del futuro, ma questo diritto viene loro sottratto dai grandi della terra grazie alla complicità del governo haitiano. Ascoltare queste voci ci porterà a creare un legame di solidarietà con questo popolo, per andare oltre la carità» .
Maurizio Chierici

Marco Bello, Alessandro Demarchi, Haiti, l’innocenza violata. Chi sta rubando il futuro del Paese? ,
Infinito Edizioni, Roma, 2011, € 13,00.
www.infinitoedizioni.it.




Il potere, prima di tutto

Costa d’Avorio: la battaglia di Abidjan

Due presidenti, due primi ministri, due governi, 179 morti e centinaia di feriti, violazioni massicce dei diritti umani. Il paese che era il più prospero dell’Africa dell’Ovest è di nuovo in balia della stupidità dei suoi dirigenti. Laurent Gbagbo, al potere da 10 anni, ha perso le elezioni ma non vuole passare la mano.

Guerra civile o riconciliazione nazionale? La Costa d’Avorio sta camminando sul filo del rasoio. Le elezioni del 28 novembre, che avrebbero dovuto porre il sigillo su un decennio di instabilità politica e sociale, non sono riuscite ad aprire una transizione democratica. Il risultato ottenuto è il caos, con i due candidati, Laurent Gbagbo e Alassane Ouattara, che si proclamano vittoriosi. Una comunità internazionale che appoggia apertamente Ouattara. Il rischio di sanzioni da parte di Francia e Stati Uniti. Le forze armate che sostengono Gbagbo e gli ex ribelli del Nord che appoggiano Ouattara. Ma da dove nasce questa crisi? E quali sono state le cause scatenanti?

Gbagbo e la Francia
Tutto ha origine nel 2000. «In quell’anno – spiegano alcuni osservatori ivoriani – il generale Robert Guei, che aveva perso le elezioni, non si rassegnava a lasciare la scena e voleva mantenere il potere a tutti i costi. I sostenitori di Laurent Gbagbo, allora sfidante, scesero per strada, sostenuti dalle forze armate, per impedire la vittoria di Guei». Laurent Koudou Gbagbo sale quindi al potere. Nato da una famiglia di etnia bété a Gagnoa il 31 maggio 1945, professore di storia all’università di Cocody-Abidjan, successivamente diventa preside della facoltà di Lingue e culture. Nel 1982 entra in politica fondando il Fronte popolare ivoriano (Fpi). Sono gli anni del potere quasi assoluto del presidente-padre della patria Félix Houphouët-Boigny, sostenuto massicciamente dalla Francia, l’ex potenza coloniale, che in Costa d’Avorio mantiene forti interessi commerciali. Nel 1985, il presidente costringe Gbagbo all’esilio (che terminerà solo nel 1988). Gbagbo partecipa alle elezioni presidenziali del 1990, ricevendo però solo l’11% dei voti. Ci riprova nel 2000 e il consenso popolare premia il suo programma che vuole rompere con il passato.
Quali sono gli elementi di novità introdotti da Gbagbo? A differenza dei suoi predecessori, Gbagbo, che è un leader nazionalista fortemente legato alle etnie del Sud, non fa nulla per compiacere la Francia. È significativo il fatto che la sua prima visita all’estero sia stata in Italia e non in Francia. Ciò ha irritato moltissimo Parigi. Oltre al fatto che Gbagbo cerca nuove alleanze sia a livello politico sia a livello economico (guardando con interesse a nuovi partner tra i quali Stati Uniti e Cina). Questa «indipendenza» non può essere accettata da Parigi che, tra gli anni Novanta e Duemila, non ha ancora rinunciato alla politica egemonica sull’Africa occidentale.

La ribellione
La politica di Gbagbo non scontenta solo la Francia, ma anche il Nord del paese (e le sue etnie) sempre più relegato ai margini della vita politica nazionale e discriminato dal Sud egemone. Così, il 19 settembre 2002, ribelli delle regioni settentrionali tentano di rovesciarlo. Il golpe fallisce e si trasforma in una rivolta. La versione, diffusa da alcuni giornalisti francesi e dai sostenitori di Gbagbo, parla di ribelli mercenari pagati dal governo francese per destabilizzare un potere politico nazionalista e intellettualmente autonomo. La versione ufficiale francese è invece di soldati ribelli che tentano di conquistare Abidjan, Bouaké e Korhogo. Non riescono a prendere Abidjan, ma hanno successo nelle altre due città. Il paese si spacca: il Sud controllato dai governativi, il Nord dai ribelli.
Dopo alcuni mesi di combattimento viene raggiunto un primo accordo tra le parti che prevede l’arrivo dei peacekeeper francesi a controllare la linea del cessate il fuoco.
Dopo altri tentativi di accordo, lo stallo si rompe solo nel 2007 con la firma a Ouagadougou (Burkina Faso) di un’intesa che prevede il disarmo dei ribelli, il loro arruolamento nelle forze armate ivoriane e, soprattutto, nuove elezioni. Secondo l’accordo, Gbagbo deve rimanere in carica (i ribelli ne avevano chiesto la destituzione), ma con un nuovo governo di unità nazionale guidato da un primo ministro «neutrale»: il leader della ribellione Guillaume Soro.
I rapporti tra Gbagbo e la Francia intanto continuano a deteriorarsi. All’inizio di novembre del 2004, in seguito al rifiuto di abbandonare le armi da parte dei ribelli, Gbagbo ordina raid aerei contro le loro basi. Durante un attacco a Bouaké, vengono uccisi nove soldati francesi. Il governo ivoriano dichiara che si tratta di un errore, ma i francesi sostengono sia stato voluto e distruggono gran parte delle forze aeree militari ivoriane.

Il rivale Ouattara
Il mandato di Gbagbo scade nel 2005, ma viene più volte prorogato. E quindi anche le elezioni vengono rimandate. Le parti non riescono a trovare un’intesa sui criteri per il riconoscimento della cittadinanza ivoriana, requisito indispensabile per potersi iscrivere alle liste elettorali. I sostenitori di Gbagbo sono a favore di criteri restrittivi del riconoscimento della cittadinanza, nel tentativo di limitare l’accesso alle ue della gente del Nord, in gran parte musulmani di origine burkinabè (arrivati in Costa d’Avorio per lavorare nelle piantagioni di cacao e di caffé) o di etnie diverse da quelle che abitano le regioni meridionali. Tra molti dissidi, la registrazione degli elettori viene portata a termine quest’anno e le elezioni vengono fissate il 31 ottobre. Il primo tuo ha visto il successo di Laurent Gbagbo (38,3%) seguito da Alassane Ouattara (32,1%) che così hanno avuto accesso al ballottaggio, tenutosi il 28 novembre. Al terzo posto, l’ex presidente Henri Konan Bedié (25,2 %), ora alleato di Ouattara.
Alassane Dramane Ouattara, 68 anni, è un politico ivoriano di lungo corso. Nominato primo ministro dal presidente Félix Houphouët-Boigny è rimasto in carica dal 1990 al 1993 (assumendo per alcuni mesi gli incarichi presidenziali in sostituzione del presidente malato). Dopo la morte di Houphouët-Boigny, Ouattara ricopre ruoli prestigiosi prima al Fondo monetario internazionale (Fmi) e poi alla Banca centrale dell’Africa occidentale (Bceao), istituzioni per le quali aveva già lavorato negli anni Ottanta. Ma non tralascia la politica. Nel 1994 aderisce al Rassemblement des Républicains (Rdr), un partito che ha la sua base elettorale fra le etnie del Nord. Ma Ouattara paga cara la sua provenienza e il suo essere rappresentante delle regioni settentrionali. Per evitare la sua elezione, infatti, il rivale Henri Konan Bedié promuove una modifica della Costituzione che impedisce di candidarsi a chiunque non sia figlio di entrambi i genitori ivoriani. Il padre di Ouattara non ha origini ivoriane. Per questo motivo Alassane non riesce a candidarsi né nel 1995 né nel 2000. Di fronte alla ribellione del 2002, va in esilio in Francia, da dove toerà nel 2006.
Arroccato al potere
La sua candidatura alle presidenziali del 2010 mette in serio pericolo la rielezione di Gbagbo. E, infatti, i primi risultati delle elezioni del 28 novembre, resi pubblici il 3 dicembre dalla Commissione elettorale (l’organismo che ha gestito tutta la consultazione), danno la vittoria proprio a Ouattara (51,4%) con Gbagbo sconfitto (48,6%). Ma poche ore dopo la pubblicazione di questi risultati, il presidente del Consiglio costituzionale (organo supremo al quale la Costituzione ivoriana affida il compito di valutare la validità delle elezioni), Paul Yao N’Dre, un fedelissimo di Gbagbo, annulla il voto in alcune regioni settentrionali. Secondo i giudici, in queste zone, i sostenitori di Ouattara avrebbero impedito a quelli di Gbagbo di votare.
«È vero – spiega un commentatore ivoriano – ci sono stati casi in cui i sostenitori di Ouattara hanno impedito a quelli di Gbagbo di esercitare il voto. E gli osservatori inteazionali hanno registrato queste violazioni. Però, come ha fatto notare Choi, il rappresentante del Segretario generale dell’Onu, anche se tutte le contestazioni presentate da Gbagbo fossero riconosciute valide, non sarebbero in grado di invalidare il secondo tuo e di rovesciare gli esiti delle ue».
Gbagbo comunque si proclama vincitore e sabato 4 dicembre giura nelle mani del presidente del Consiglio costituzionale. Ouattara fa lo stesso e giura solennemente in una cerimonia che si è tenuta all’Hotel du Golf, un prestigioso albergo di Abidjan (dove Ouattara risiede, protetto dai caschi blu dell’Onu).
Nazioni Unite, Unione africana e Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao) riconoscono la vittoria di Ouattara. Lo stesso fa la Francia e gli Stati Uniti.

Crisi
La tensione sale alle stelle. Si registrano ben presto scontri tra i sostenitori dei due presidenti. Almeno 179 morti e centinaia di feriti in pochi giorni.
Mentre l’Alto commissariato ai diritti umani dell’Onu denuncia violazioni massive e casi di rapimenti nottui e uccisioni selettive, ad opera delle Forze di difesa e di sicurezza (Fds), corpo militare fedele a Gbagbo.
Nei giorni successivi la pressione internazionale su Gbagbo diventa forte. Da più parti il presidente viene invitato a lasciare il potere. In un’intervista rilasciata venerdì 10 dicembre al quotidiano pubblico (a lui vicino) Frateité Matin, Gbagbo apre a un possibile dialogo con l’avversario: «Se c’è un problema bisogna sedersi e parlare». Una dichiarazione che può essere interpretata come un’apertura nei confronti di Ouattara.
In questo senso lavorano anche i rappresentanti religiosi. Tre arcivescovi guidati dal presidente della Conferenza episcopale, monsignor Joseph Aké, si sono recati da Gbagbo invitando a lasciare spazio ai negoziati. Esponenti musulmani e di altre fedi hanno seguito la stessa strada sottolineando che nessuno vuole che il Paese precipiti nuovamente in un conflitto interno.
Economia in difficoltà
La prima vittima di questa crisi politica è il sistema economico. Già duramente messa alla prova dalla rivolta del 2002, l’economia ivoriana stava lentamente riprendendo. Il tasso di crescita del Pil era aumentato del 3,6% dal 2008 al 2009. Nei primi giorni di dicembre, però, l’esito incerto delle elezioni (che ha causato un blocco decisionale e ha portato con sé anche il coprifuoco per gran parte della giornata) ha di fatto rallentato ogni attività. Il 14 dicembre 130 camion provenienti da Mali e Burkina Faso (paesi senza sbocco al mare e che si servono dei porti ivoriani) erano fermi al porto di Abidjan in attesa che le merci venissero scaricate e imbarcate sui mercantili. I negozi, ma anche le banche, gli uffici e molte fabbriche erano chiuse o marciavano a rilento. I prezzi di molti beni di prima necessità sono aumentati del 50%. Anche il settore del cacao (che rappresenta il 40% delle esportazioni e il 10% del Pil), già in difficoltà per la disorganizzazione della filiera e la corruzione dilagante, ne sta risentendo. L’incertezza politica rischia di far chiudere molte aziende e di allontanare gli investimenti stranieri.
Il 20 dicembre l’Unione europea dà seguito all’ultimatum e decide sanzioni contro Gbagbo, sua moglie Simone, e persone a loro fedeli, tra cui il presidente del Consiglio costituzionale e il direttore della Radio Televisione e alte cariche dell’esercito.
Si attende una decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul rinnovo della missione Onuci (10.000 caschi blu e 900 francesi), che l’auto proclamato presidente Gbabgo vuole mettere alla porta.

Enrico Casale

Enrico Casale




La cittadella della salute

Una cardiologa all’ospedale di Ikonda

L’ospedale di Ikonda  è una delle opere più care ai missionari della Consolata in Tanzania.
Ad esso hanno dedicato passione e competenza molti missionari e missionarie della Consolata e tantissimi volontari da ogni parte d’Italia, e non solo. Anna Gennari, cardiologa, è una di questi volontari. Scopriamo l’ospedale con i suoi occhi.

La prima impressione che ho provato arrivando all’ospedale di Ikonda è stata di meraviglia: nonostante avessi parlato con diversi medici che erano già stati là e avessi visto la documentazione  fotografica non ero davvero  preparata a quello che ho trovato. Dopo due giorni di viaggio, in mezzo a una regione bellissima, ma poverissima, che vive di agricoltura di sussistenza e un lungo percorso su una strada sterrata attraverso villaggi privi di acqua ed energia elettrica, davanti ai miei occhi è apparsa una struttura nuova, perfettamente curata e pulita con prati verdi, piante e fiori e vialetti di ghiaia. Al nostro arrivo ci riceve Padre Sandro Nava, anima e amministratore dell’ospedale, con una piccola festa di benvenuto.
L’ospedale, una struttura bianca ad un piano, è nuovissimo e perfetto sia come costruzione che come manutenzione; ha 270 letti per i ricoverati che, in certi periodi, possono diventare anche più di 300! All’ingresso un servizio di accettazione, svolto dalle infermiere che effettuano un primo triage (smistamento/selezione), e  controllano frequenza cardiaca, pressione arteriosa e temperatura di tutti i pazienti, che così vengono smistati ai vari ambulatori. Anche nei momenti di maggiore affluenza (i pazienti arrivano spesso a gruppi con i pulmini di pubblico servizio e, ovviamente, senza prenotare) questo lavoro si svolge con code ordinate di persone tranquille ed educate.
con gli occhi dell’ospite
Il giorno stesso del mio arrivo sono condotta a fare un giro di tutto l’ospedale dalla dott. Manuela Buzzi, che tutti chiamano familiarmente Manu, vero pilastro dell’organizzazione. Come farmacista ella svolge il lavoro di approvvigionamento di tutti i farmaci e i materiali di consumo e li smista quotidianamente alla farmacia intea e ai vari reparti secondo le esigenze. Questo lavoro già molto impegnativo è reso più difficile da diversi problemi: la lontananza dalla fonte di approvvigionamento che è, per quasi tutto, Dar es Salaam, le pessima condizioni delle strade soprattutto nella stagione delle piogge e la precarietà organizzativa dei distributori centrali che a volte rimangono sprovvisti di farmaci o ne danno in quantità inferiore alle richieste e anche alle promesse! Si rende perciò necessario fare delle scorte a lungo termine prevedendo i consumi. Il miracolo è che non manca quasi mai niente e poiché questo è ormai risaputo dalla popolazione, chi ha bisogno di un farmaco particolare chiede all’ospedale di Ikonda invece che a Dar es Salaam!
Visito così tutti i reparti di degenza: la pediatria, la mateità, la medicina e la chirurgia per donne e uomini, le malattie infettive. Le camere, grandi a tre letti, sono separate dai bagni con acqua corrente calda e fredda (a Ikonda, durante i mesi invernali – da giugno ad agosto – fa proprio freddo, con delle belle brinate). C’è persino un reparto a pagamento con camere singole per chi se lo può permettere. Completano il tutto il blocco operatorio con due sale ben attrezzate, la grande farmacia e il laboratorio di analisi. Due corridoi sono riservati agli ambulatori, radiologia ed ecografia. All’esterno dell’edificio principale ci sono l’ambulatorio per i malati di AIDS e tutti i servizi: la lavanderia e stireria, alla centrale termica, la centrale elettrica, la produzione dell’ossigeno, la casa dei missionari della Consolata, quelle degli infermieri, dei volontari e delle suore, l’asilo, i magazzini. Appena fuori dai cancelli dell’ospedale ci sono un ostello per le gestanti che vi sono accolte se provengono da molto lontano, e un grande un edificio per alloggiare i parenti dei ricoverati che devono provvedere il cibo per i rispettivi congiunti degenti. Una piccola città insomma dove la vita scorre tranquilla e organizzata.

Subito al lavoro
Il primo giorno, durante la riunione del mattino alle 8 precise, ci sono le presentazioni e sono introdotta ai vari colleghi, medical officers e infermieri capi dei vari reparti e …inizio il mio lavoro vero e proprio. L’ambulatorio di Cardiologia ha già molte richieste perché del mio arrivo ha dato notizia anche il parroco del villaggio di Ikonda durante la messa della domenica, e perché altri tre colleghi mi hanno preceduto in questo lavoro. Mi affianca il dott. Abdon, tanzaniano, che ha già preso confidenza con i problemi di diagnosi e terapia dell’ipertensione, dello scompenso cardiaco, ce delle valvulopatie e inizia a familiarizzarsi con elettrocardiogramma ed ecografia, ma ha soprattutto un buon modo di parlare con i pazienti (ovviamente in kiswahili) ai quali traduce anche mie eventuali domande. Come tutte le persone che ho conosciuto durante il mio soggiorno a Ikonda è tranquillo e gentile in modo spontaneo, ciò che ha reso più facile il mio lavoro.
Durante la mattina, visitiamo un gran numero di persone, richiedendo, per alcune, esami supplementari (raggi-x, esami di laboratorio, …). Queste aspettano quindi di essere riviste se possibile nel pomeriggio, a volte anche il giorno dopo! Il problema del tempo è vissuto in un modo decisamente meno stressante che nel mondo occidentale. La difficoltà maggiore, soprattutto all’inizio, è affrontare delle patologie già avanzate senza documentazione di precedenti visite o esami: in effetti il ricorso all’ospedale è spesso visto come rimedio estremo di situazioni già molto gravi o per altri versi non rimediabili.
Il lavoro, specie nei primi giorni è stato intenso, ma sempre tranquillo perché a Ikonda si impara presto a non essere assillati dal tempo: si fa tutto con la necessaria calma e alla fine della giornata si trova sempre il tempo per fare una passeggiatina nei dintorni, per leggere un libro, ricevere e scrivere qualche e-mail o preparare qualche utile aggioamento di cardiologia per il personale locale che ne ha fatto specifica richiesta. La vita ad Ikonda trascorre serena, scandita dagli orari dei pasti che si consumano con i missionari e gli altri volontari che prestano la loro opera in ospedale. Dopo cena un appuntamento con le informazioni dall’Italia tramite la TV satellitare e poi una passeggiatina fino a casa sotto il magnifico cielo stellato dell’Africa .

La clinica mobile
Una mattina sono uscita con la clinica mobile: una fuoristrada con due infermiere che ogni giorno del mese visita un diverso villaggio della regione per un controllo dei bambini fino a cinque anni di età e delle loro mamme. Il viaggio, su strade sterrate piuttosto accidentate, richiede da una a due ore. Nel villaggio di tuo visitato si radunano tutte le mamme con i loro bambini che sono visti e pesati, mentre le mamme, riunite poi in un locale-consultorio, ricevono indicazioni sull’alimentazione e l’igiene. I nati da donne sieropositive sono seguiti secondo un preciso protocollo di controlli e sono registrati in un apposito libro. Il legame tra l’ospedale e le esigenze della popolazione è molto stretto, e il servizio sanitario offerto non viene somministrato dall’alto, ma è partecipato e apprezzato da tutta la popolazione. Durante la clinica l’atmosfera è serena e festosa: le mamme chiacchierano mentre i bambini giocano tutt’intorno.
Vi voglio raccontare un piccolo episodio che aiuta a capire la situazione: un pomeriggio, guidati dalla Dott. Manuela, siamo andati a visitare l’ospedale Regionale di Machete, organizzato e finanziato dal governo Tanzaniano, a circa 1 ora e mezza di strada. La sensazione è stata quella di abbandono e degrado, con pochissimi ricoverati di cui quattro puerpere. Chiediamo di fotografarle e loro acconsentono, ma chiedono di avere una copia della foto. Manuela dice: “Certo, ma dovete venire a prenderla a Ikonda” e una di loro: “Verrò la prima volta che sono ammalata!”.
La Tanzania gode di una situazione politica stabile e senza guerre da molti anni e la popolazione ha un atteggiamento veramente riconoscente nei riguardi di tutti coloro che si prodigano per la loro salute; un misto di gentilezza, rispetto e riconoscenza che rende più lieve il compito di fare i medici e più difficile il momento del commiato… molti (volontari) infatti tornano perché lasciano là un pezzetto di cuore.

Anna Gennari

Anna Gennari




«A Sud delle nuvole»

Lo Yunnan, cuore della multiculturalità

Schiacciato tra le montagne tibetane ed i confini con gli stati del sud-est asiatico, lo Yunnan è terra di frontiera, di scambi culturali e commistioni etniche. Pechino vi ha imposto uno sviluppo turistico rapidissimo, con effetti devastanti sulla regione e sulle minoranze.

Se una volta, in aree di confine come questa, occorreva spargere molto sangue (in guerre senza l’obiettivo della pulizia etnica, ma tendenti all’annessione o sottomissione del potere locale), oggi, senza necessità di violenza fisica, la maggioranza etnica han è riuscita ad imporre la propria supremazia non solo numerica, ma anche culturale. A suon di denaro e mattoni. Ce ne accorgiamo appena scesi dall’autobus notturno Kunming – Zhongdian, quando la foschia dell’alba ci accoglie nella contea di Xianggelila, il nuovo nome esotico che il governo cinese ha affibbiato al distretto montuoso sul confine tibetano, adottando e cinesizzando il nome Shangri-La, che James Hilton negli anni Trenta aveva utilizzato nel suo «Orizzonte perduto» per descrivere la mitica e mistica regione montuosa del Kunlun, retta dai lama tibetani.
In realtà, i territori descritti da Hilton corrispondono oggi alla parte settentrionale dell’altopiano tibetano, estesi fino all’attuale provincia del Gansu, ma nel 2001 le autorità di Pechino hanno deciso di dare a Zhongdian e dintorni questo nome a forte carica evocativa mistica, iniziando con l’inganno un processo di modeizzazione ed imposizione del progresso su larga scala.
Zhongdian – chissà com’era dieci anni fa – nel 2010 è una città snaturata: camminando dalla stazione degli autobus al centro storico si rincorrono desolanti costruzioni squadrate ed austere, tipiche dell’espansionismo demografico cinese, hotel a sei o sette piani illuminati come discobar anche in pieno giorno, negozi di chincaglieria assortita, lavori in corso in ogni angolo, centri per la telefonia mobile e negozi di souvenir. Appena varcata la soglia immaginaria che divide la città vecchia dalla periferia, l’inganno assume delle fattezze disneyane.
La città vecchia, completamente ricostruita nel 2004, è un parco a tema plasmato intorno all’ideale tibetano prêt-à-porter: signore agghindate nei vestiti tradizionali gestiscono i negozietti di souvenir, che compongono almeno l’80% dell’intera città vecchia, dove si trova di tutto, dall’oggettistica del sacro ai pupazzetti celebrativi dell’Expo di Shanghai, passando per pashmine tibetane, scarpe tibetane, maglie tibetane, cappelli tibetani, occhiali tibetani, coltelli tibetani, nella perversione che qualsiasi cosa vendano i negozi di Zhongdian, oltre 3.000 m di altezza, debba per forza essere «tibetana». Gli spazi rimanenti, che si snodano tra le vie ciottolate del centro, sono tutti popolati da guesthouse o ristoranti per tasche occidentali o per cinesi dalle tasche occidentali, ricostruiti secondo i presunti canoni architettonici tibetani.

PER MILLE YUAN AL MESE:
Storia di John, il tibetano

In uno di questi alberghi finto-autentici, convinco un giovane cameriere a raccontarmi la sua storia, alternando il suo inglese approssimativo al mio cinese stentato.
Si fa chiamare John, ha 20 anni ed è di etnia tibetana. Proviene da un villaggio lontano da Zhongdian, e come molti coetanei ha deciso di spostarsi in città per tentare la fortuna. Dopo una serie di lavori come manovale, riesce a farsi assumere in un hotel fuori dalla città vecchia – lussuosi e costosi, come piacciono ai turisti cinesi – dove ricopre una quantità indefinita di mansioni. Il suo ruolo è il tuttofare, la paga è buona, oltre 1.000 yuan al mese. John vuole imparare l’inglese, che considera il lasciapassare per una vita migliore. Vuole essere «open to the world» (aperto al mondo, ndr), lo ripete spesso durante la nostra chiacchierata. Il giovane tibetano racconta che, dopo aver messo da parte i soldi necessari, si è licenziato dal lavoro ed è partito per Canton, una meta per nulla casuale. A Canton infatti si tengono dei corsi d’inglese full immersion di una settimana chiamati «Crazy English», delle lezioni comuni a gruppi di centinaia di giovani cinesi tenute dal celeberrimo Li Yang, il guru dell’apprendimento dell’inglese in Cina. Tariffa giornaliera 1.000 yuan, che per una settimana fanno 7.000 yuan, ovvero sette mesi di lavoro pieni, senza contare le spese per la sopravvivenza ed il trasporto. Dopo l’esperienza cantonese, John ha fatto ritorno a Zhongdian ed ha trovato lo stesso lavoro di prima, ma in una guesthouse della città vecchia, a 800 yuan al mese.
Nonostante abbia dilapidato presumibilmente un anno di lavoro per una settimana di english full immersion, il risultato è stato oggettivamente abbastanza deludente: John si è ritrovato di nuovo impantanato nel mercato dei lavoretti stagionali, gli unici ai quali hanno accesso le fasce della minoranza etnica tibetana di Zhongdian e dintorni.
Come mi confida un gentilissimo cameriere tibetano la sera seguente, il grosso del business lo muovono imprenditori non autoctoni. Dal 2004, tutte le vecchie case tradizionali del centro sono state comprate da uomini d’affari provenienti dal sud dello Yunnan, dallo Zhejiang e dal Guandong. Dopo averle ristrutturate, portato la corrente elettrica in pianta stabile – nonostante i numerosissimi black out – ed il collegamento ad Inteet, gli affaristi han hanno affidato a persone di fiducia la gestione delle loro nuove proprietà, escludendo di fatto la popolazione locale, relegata ai banchi del mercato coperto o all’artigianato. Molti di loro si reinventano guide turistiche, ripetendo sistematicamente il nuovo mantra «Do you need a car?» (Ha bisogno di un’auto?, ndr) non appena intravedono un turista occidentale.
Solo la sera, nella piazza principale della città vecchia, i tibetani della zona si riuniscono a ballare sulle note delle musiche tradizionali, diffuse da potenti amplificatori posizionati sul perimetro dello spiazzo: di fronte a turisti occidentali e cinesi entusiasti, la popolazione locale mantiene vivi, apparentemente in modo naturale, i brandelli della propria cultura inevitabilmente destinata all’estinzione, di fronte al progresso veicolato dalle infrastrutture per le telecomunicazioni ed il turismo sponsorizzate dal governo centrale di Pechino. La strada a due corsie che collega Zhongdian a Deqin, località più remota della provincia di Shangri-La, apre infatti un flusso turistico interno tanto inedito quanto devastante, fatto di lussuosi hotel a quattro stelle e souvenir a buon mercato; un fenomeno che trae dall’esperienza di Lijiang la propria ispirazione.

IL DESTINO DEI NAXI

Lijiang, a metà strada tra Zhongdian e la capitale della provincia Kunming, nel 1997 è stata iscritta nel registro dei patrimoni mondiali dell’Unesco: con alle spalle una storia di oltre 800 anni, è stata la capitale di un regno indipendente, inglobato alla fine del XIII secolo dall’Impero cinese sotto la dinastia Yuan, popolato dalla minoranza etnica dei naxi. Perfettamente conservata, la città vecchia di Lijiang è un giorniello architettonico che ha mantenuto pressoché immutati i caratteri distintivi dell’antico borgo cinese: strade di ciottoli, tetti di pietra decorati, canali e lantee hanno valso a Lijiang il titolo di patrimonio dell’umanità, un riconoscimento che automaticamente ha messo a repentaglio la sua sopravvivenza.
Dal 1997, il governo ha preso il controllo della zona, premendo l’acceleratore sullo sviluppo turistico che, con la sua assenza, aveva preservato la bellezza del luogo. Pur mantenendo in alcune parti dei tratti di autentica pace, dove la sera si passeggia sentendo l’eco dei propri passi, oggi la città vecchia di Lijiang è in larga parte un contenitore per turisti, una tappa dei pacchetti vacanze «Lo Yunnan in una settimana». La città vive in uno stato di sovreccitazione perenne, scandito dagli orari di apertura e chiusura di ostelli, hotel, negozi di souvenir e ristoranti. La minoranza etnica dei naxi, tradizionalmente matrilineare, come nel caso di Zhongdian, si è ritagliata la sopravvivenza grazie all’artigianato locale, abitando prevalentemente i villaggi circostanti. A testimonianza vivente di resistenza perpetua, le anziane donne naxi vestono ancora gli abiti tradizionali, caratterizzati dalle vesti a manica larga colorate di un blu acceso, abbinate al coprispalla di pelle di pecora; il dongba, la lingua dei naxi, secondo l’ultimo censimento cinese del 2000 è parlato da 310.000 persone, 110.000 delle quali non conoscono nessun altro idioma, mentre il sistema di scrittura a pittogrammi sta lottando contro l’estinzione grazie ai programmi specifici di insegnamento scolastico, promossi lodevolmente dal governo locale fin dal 1996.
Il destino dei naxi e della loro cultura, seppur meglio preservati rispetto alla minoranza tibetana di Shangri-La, si scontra con le conseguenze del miracolo economico cinese. Un miracolo che ha creato una classe media con un potere d’acquisto tale da nutrire un turismo interno dalle conseguenze devastanti: turisti cinesi arrivano letteralmente a migliaia da tutta la Repubblica popolare, in un adattamento contemporaneo dell’esercito imperiale. A cavallo di pullman con condizionatore interno, armati di carta di credito e macchine fotografiche, l’orda han si riversa euforicamente e rumorosamente nei luoghi diventati simbolo della grandezza della Cina nel mondo, portando con sé gli strumenti del benessere e dello svago tipici delle grandi metropoli: i karaoke, i fast food occidentali, i centri commerciali, i negozi di moda.

I MOSUO, DOVE IL MATRIMONIO È (era)  BANDITO

Fino agli anni Ottanta, il lago Lugu, al confine tra Yunnan e Sichuan, si poteva raggiungere solo dopo una settimana di cammino. Negli anni Novanta fu costruita la prima strada e furono portati elettricità, scuole e beni di consumo. Oggi, considerando solo Lijiang, una decina di autobus al giorno percorrono le strade tortuose e mozzafiato strappate ai clivi delle montagne, raggiungendo il lago in sei ore di tragitto (salvo il rischio frane, particolarmente alto nella stagione piovosa estiva).
Al riparo dalla Storia, felicemente isolati dal resto del mondo, i mosuo (47.000 secondo l’ultimo censimento nazionale del 2000) hanno abitato i dintorni del lago Lugu tramandando una società basata sulla sussistenza e sul sistema matrilineare. Le donne si occupavano della gestione del denaro, delle cerimonie religiose – i mosuo praticano il buddismo tibetano, la religione tibetana tradizionale del Bon e lo sciamanesimo – e dell’allevamento degli animali; ignorando completamente il concetto del matrimonio, nella società mosuo le donne vivono da sole, ospitando di notte in notte i loro amanti, che devono tassativamente fare ritorno nella propria casa matea prima che faccia giorno. I figli nati da questi walking marriages sono riconosciuti solo dalla madre, che passa loro il cognome, e cresciuti dalla famiglia matea. Il padre, quando sia possibile determinae l’identità, è tenuto a prendersi cura del figlio solamente per la durata della relazione con la madre, slegata da vincoli contrattuali.
Con la Rivoluzione culturale però le cose dovettero cambiare: disprezzando il sistema sociale mosuo, definendoli come «animali», i comunisti imposero il rito del matrimonio. Quando la frenesia delle Guardie rosse venne sedata, i mosuo in massa decisero di divorziare legalmente e tornare alle loro usanze.
Oggi, il lago Lugu è diventato una sorta di parco naturale protetto, con biglietto d’entrata di 75 yuan. Grazie alla strada impervia ed alla carenza di alberghi di lusso, le sponde del lago godono ancora di una pace quasi irreale; ma gli scheletri di cemento a dieci piani che spuntano qua e là lungo la strada costiera, in aggiunta alla costruzione già avviata di un aeroporto ad hoc nella provincia del Sichuan, lasciano presagire un futuro sulla scia della «commercializzazione etnica» di Shangri-La e Lijiang. I superstiti mosuo stanno progressivamente abbandonando le loro abitazioni tradizionali in riva al lago, spingendosi nell’entroterra montagnoso dove ancora sono in grado di mantenere in vita le loro tradizioni, ricreando un microcosmo fuori dal tempo e dallo spazio lontano dagli effetti collaterali dell’apertura al mondo. La tradizione dei walking marriages, declinata ad amore libero, ha alimentato il turismo sessuale interno: spacciandosi per mosuo, molte donne si sono stabilite nella zona in veri e propri distretti a luci rosse, mascherando la prostituzione come esercizio per il mantenimento della tradizione.

I COSTI DEL «PROGRESSO»

Senza dubbio, l’espansione economica cinese degli ultimi anni ha progressivamente arricchito molti strati del tessuto sociale, specie la classe media, migliorando le condizioni di vita su larga scala e proiettando il grande paese asiatico verso il gruppo dei paesi sviluppati. Gli evidenti progressi portati dal capitalismo, in Cina come nel mondo occidentale a suo tempo, non si sono fermati davanti all’ambiente o davanti alle peculiarità etniche e culturali a rischio sopravvivenza. Solo di recente, una maggiore consapevolezza ambientalista e multiculturale sta iniziando a penetrare nel sentito comune cinese, ed il governo si sta timidamente affacciando a politiche di salvaguardia delle diversità – come l’iniziativa per l’insegnamento del dongba a Lijiang – e di «sviluppo sostenibile».
Ma i nuovi benestanti cinesi, equiparabili agli yuppies della «Milano da bere», vogliono tutto e lo vogliono subito: la comodità, il lusso, le vacanze ed il consumo non sono più beni accessori fruibili da una stretta minoranza elitaria, ma sono lì a portata di portafogli, santificati dalla nuova Cina ricca e capitalista.
In mezzo a queste tempeste epocali, la fragilità delle minoranze etniche può preservarsi solo se difesa dal potere decisionale cinese. Il governo deve tracciare un limite oltre il quale, rinunciando a profitti immediati, la locomotiva economica cinese non deve avventurarsi: solo in questo modo l’inestimabile varietà etnica e culturale che la Cina vanta potrà sopravvivere, evitando al popolo cinese rimpianti fuori tempo massimo.

Matteo Miavaldi

Matteo Miavaldi




Un’identità in bilico

Gli hui, i musulmani cinesi

In Cina, su 55 minoranze ufficialmente riconosciute 10 sono musulmane. Una di queste è costituita dagli hui, che si differenziano dagli han soltanto per la religione.

Quella dell’islam in Cina è una vicenda millenaria, le cui prime testimonianze risalgono all’epoca Tang (618-907 d.C.) quando mercanti arabi e persiani, provenienti dalle rotte marittime indiane, iniziarono a stabilirsi in diversi centri del sud. Molti di loro, pur vivendo in quartieri separati dove gli era permesso conservare le proprie usanze ed un proprio sistema di leggi, presero in moglie donne cinesi, contribuendo non solo alla crescita numerica della comunità musulmana, ma gettando di fatto le basi della loro stessa assimilazione etnica. Oggi, nella Rpc (Repubblica popolare cinese), ben 10 delle 55 minoranze nazionali ufficialmente riconosciute sono musulmane, tra cui la comunità hui risulta essere la più numerosa superando i dieci milioni, quasi la metà del totale. Enclave hui sono presenti praticamente in ogni città e – caso unico tra le varie minzu – la religione risulta essere l’unico carattere distintivo della loro identità. Di fatto, a differenza delle altre minoranze musulmane, gli hui sono prossimi agli han da un punto di vista tanto demografico, quanto culturale. Essi non possiedono infatti una propria lingua, un proprio territorio, e spesso si distinguono dagli han solamente per le pratiche alimentari. Proprio questa dispersione sul territorio può essere una delle ragioni dell’estrema polimorfia di pratiche e credenze islamiche oggi rintracciabili all’interno delle varie comunità hui, tra cui spicca una rilevante presenza sufi nel Nord-Ovest. Tutto ciò è viva testimonianza della profonda eterogeneità della comunità nel suo insieme. La stessa identità hui, peraltro, nasce solamente in un periodo recente, grazie alle politiche etniche della Rpc. Il termine «hui», infatti, è stato per secoli un contenitore piuttosto generale all’interno del quale, in Cina, erano definiti i musulmani senza alcuna distinzione etnica. In questo modo «hui» erano non solamente i musulmani cinesi (o che comunque parlavano mandarino), ma anche i turchi uiguri, le varie popolazioni dell’Asia centrale, i «saraceni», e via dicendo. La politica della Rpc, influenzata dall’esperienza sovietica, avrebbe invece portato ad una divisione tra le varie comunità musulmane cinesi, distinguendole secondo quei criteri storici, etnici e linguistici, che Stalin aveva già utilizzato in Asia centrale1.  A partire dagli anni Cinquanta, inoltre, grazie ad una serie di campagne di identificazione nazionale lanciate dallo stato, questi gruppi di musulmani cinesi avrebbero finito per riconoscersi come «hui», invece di definirsi, semplicemente, «musulmani».
L’identità hui rappresenta oggi, all’interno della RPC, un esempio unico di minoranza nazionale priva di legami linguistici o territoriali, basata esclusivamente sul fattore religioso. Nonostante ciò, grazie alle politiche etniche della Rpc, l’aspetto etnico – di per sé, appunto, inesistente – ha finito per giocare un ruolo più importante rispetto a quello religioso, evidenziando ancora una volta le motivazioni politiche sottese all’opera di catalogazione etnografica portata avanti dal partito. Si potrebbe anche sostenere, infine, che questa stessa operazione abbia portato a compimento il percorso millenario di adattamento alle istituzioni cinesi, che i musulmani hanno dovuto affrontare fin dal loro arrivo in Cina. Non più forestieri in una terra straniera dunque, ma hui: «musulmani cinesi». Un ibrido identitario capace, infine, di creare un forte senso di appartenenza ad una comunità che, parafrasando Benedict Anderson, non potrebbe essere più immaginata2.  Una comunità che è pura invenzione, «manufatto culturale», risultato di politiche etniche ben precise, in grado tuttavia di risvegliare tra i suoi membri un profondo senso di identità. Identità fatta di fratellanza ed orgogliosa rivendicazione culturale, per un popolo che da secoli vive un’esistenza forgiata dalle esigenze di due mondi radicalmente diversi: islam e Cina, Occidente e Oriente.

Alessandro Rippa

(1)  L’approccio staliniano alle politiche etniche, seguito poi anche dalla RPC, prevedeva che una nazione – o nazionalità – potesse essere riconosciuta come tale solo nel caso in cui possedesse le cosiddette «quattro comunanze»: lingua comune, territorio comune, vita economica comune e conformazione psichica comune. Come scrive lo stesso Stalin «solo se tutti i caratteri esistono congiuntamente, si ha una nazione»; Stalin, Opere Complete,Vol. II, Edizioni Rinascita, Roma 1951, p. 336.
(2) Benedict Anderson, Comunità Immaginate (Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, 1983), Manifestolibri, Roma 1996.

Alessandro Rippa




L’ultimo bazar (all’ombra della Mezzaluna)

Lo Xinjiang e gli uiguri

Lo Xinjiang è la regione abitata dagli uiguri, cinesi loro malgrado. L’immigrazione han ha ormai conquistato le città ed occupato tutti i posti chiave, ma la popolazione uigura resiste, forte di una diversità che è fisica e culturale. Oggi la loro ultima frontiera è la religione islamica e soprattutto la lingua, da difendere ad ogni costo. Tra mille difficoltà.

La terra che oggi è la Regione autonoma uigura del Xinjiang, la più grande provincia della Repubblica popolare cinese, copre un sesto del suo territorio. Zona dei floridi commerci di un tempo, che si sviluppavano sulla via della seta dal II secolo, è decaduta quando sono state aperte altre rotte di scambio tra Oriente e Occidente. I suoi confini toccano otto paesi: Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e la parte di Kashmir controllato dall’India. È gialla, nella sua parte meridionale, arida e secca laddove il deserto del Taklamakan sottrae all’uomo una parte vastissima di terra, o tra gli spettacolari canyon formatisi agli argini del deserto dalle forme e colori più diversi. Verde al Nord, dove montagne di perenni ghiacciai sfiorano il cielo, laghi dai colori cangianti e fiumi impetuosi hanno la forza di portare via ponti e strade e la rendono fertile per i pastori nomadi che in estate occupano le alte praterie. È in questa zona, a 320 km al nord di Urumqi che si trova il punto della terra più distante dal mare.
Le sue genti sono 13 diverse minoranze, di cui la maggiore è quella uigura. La popolazione cinese han oggi ha raggiunto quasi il numero di quest’ultima, facendosi spazio soprattutto nelle cittadine lungo la via centrale, dove anche le infrastrutture sono maggiormente sviluppate.
A Urumqi, capoluogo e centro economico del Xinjiang, per esempio, proprio via del popolo segna la linea divisoria tra le due etnie cinese e uigura. Sul bazar di Urumqi, negli anni Ottanta, Terzani scriveva: «È un museo dell’umanità: ad eccezione di quella nera, tutte le razze vi sono rappresentate». Quel bazar è stato teatro nel 2009 del tragico attacco degli uiguri ai danni dei cinesi e del contro attacco di quest’ultimi. I conflitti sociali di oggi che dividono le città e le persone hanno radici storiche, politiche ed economiche. Non è nostra intenzione parlarne in questa sede, però si sentono chiari sotto il sole cocente, come sono chiari i pregiudizi che crescono nelle due etnie in uguale misura, rafforzati da una propaganda che al posto dell’armonia crea sentimenti di rifiuto,  contrasto e puro campanilismo. La politica ha certamente un ruolo fondamentale in tutto questo. Non è la cultura a dividere, ma oggi, insieme alla religione, diventa un tema tra i più strumentalizzati nelle analisi e nelle reazioni delle due parti e nessuna delle due sembra più disposta a incontrare l’altra. Se non davanti ad un banco di frutta o di carne.
Si deve procedere per zone meno battute al sud, sulla strada che da Kashgar torna verso Oriente o si ramifica fino al Tibet e ai monti Kunlun, per trovare ancora qualche passaggio originale di una melodia tutta uigura. Questa è la zona dove gli uiguri sono ufficialmente ancora la maggioranza.

UIGURI: CINESI, MA TURCHI

L’origine degli uiguri è fatta risalire ad una tribù altaica dell’Asia centrale. Dal lago Baikal, vennero verso sud, nella parte nord del Xinjiang. In seguito ad un’ivasione kirghiza (840 d.C.) si spinsero più a sud, nel bacino del Tarim, dove incontrarono gli unni, popolazioni turche dell’Asia centrale. Alla caduta degli unni, nell’850 d.C., nacque il Turkestan orientale e con esso il primo regno uiguro1.
Possiamo affermare che questa popolazione fu l’anello centrale degli scambi, prima di tutto commerciali, tra Oriente e Occidente. Data la natura di quella terra poi – al Nord adatta a una vita nomade e al Sud a una vita più stanziale -, gli antenati degli uiguri di oggi furono anche il popolo che meglio si adattò a queste condizioni. Riuscirono a svilupparsi grazie all’abilità di mercanti, ma anche a una elasticità nell’amministrazione che contribuiva a mantenere la pace necessaria al commercio. La loro cultura perciò nasce e cresce in quest’ambiente dove coesistevano allo stesso tempo diverse religioni e diversi popoli, e su questo si basa. Foitori della giada ai cinesi da 3500 anni, hanno goduto del favore della dinastia Tang, che li apprezzava come maestri di musica, e della dinastia mongola Yuan, che permise la diffusione dell’islam. Nel XXI secolo sono per lo più  contadini e pastori nei piccoli villaggi intorno alle oasi. Alcuni sono impiegati negli uffici governativi o nelle aziende in città, con uno stile di vita nuovo. Si dichiarano turchi con onore e si riferiscono alla loro terra con il nome di «Turkistan orientale», nel nostalgico intento di continuare ad affermare la loro identità almeno nella propria lingua.
Nelle campagne greggi di pecore e capre pascolano sotto i pali delle centrali eoliche; qui i mezzi sono molto limitati, l’educazione è scadente e le opportunità sono poche. Un conseguente fenomeno è la migrazione verso le città costiere, dove la manodopera è sempre richiesta. Il governo ne è fautore e sono sempre di più gli uiguri, specie le donne, a spostarsi nella Cina centrale per lavorare, partecipando alla mescolanza di genti che avviene massiccia tra Cina centrale e questi territori occidentali. Me lo raccontano in una città singolare sulla via della seta centrale, Kuqa, che sembra ancora oggi un’oasi nel mantenere intatta la sua parte di case di fango basse e bianche affianco alle costruzioni cinesi. Forse perché tra queste case, in passato (dal 200 al 650 ca.), è vissuta un importante cultura, la Qiuzi, il cui carattere buddista è rimasto nelle grandiose grotte dei mille Budda di Kizil o meglio nelle 180 casse di affreschi portate in Europa dall’archeologo tedesco Van le Coq nel 1906 e nel 1913. In punta dei piedi tra i vicoli di Kuqa, intorno a ciò che è rimasto dell’antico regno, ormai muri di fango logorato da vento e acqua, spiando dalle porte aperte, quando il vento alza le tende, si vedono cortili interni coperti da pergole di viti che assicurano la necessaria ombra nelle ore più calde della giornata. Oltre le tende ci sono la vita familiare e le abitudini degli uiguri: grasse matrone su letti di tappeti osservano con sguardo da sfinge il chiasso dei bambini che giocano intorno. Stanno sdraiate, rotolano sui tappeti, si appoggiano su grandi cuscini ricamati a mano. Offrono ricovero allo straniero che passa, una panchetta di legno e un po’ di ombra, del profumatissimo tè alla menta; lamentano la mancanza di lavoro e le ristrettezze economiche in cui vivono. Le donne stanno a casa, gli uomini, se non specializzati, si arrangiano con lavori di consegne o simili.
Verso sud, dopo varie città dove i caratteri cinesi vanno per la maggiore e dopo Atush, dove risiedono gli uiguri ricchi figli del petrolio, finalmente ecco Kashgar.

PER LA NUOVA KASHGAR «RINGRAZIAMO “IL PARTITO”»

«Di fango son le case, di fango son le strade, le moschee, le tombe. Solo Mao è di granito». Quest’altra affascinante descrizione di Terzani, va rettificata. All’arrivo a Kashgar l’emozione  non può che essere ferita dallo spettacolo triste delle demolizioni e dagli occhi ancora più tristi dei suoi abitanti. Patrimonio culturale dell’umanità, la parte protetta dal biglietto d’ingresso è ciò che ne rimarrà. La città è oggi al centro del nuovo piano di sviluppo economico messo a punto per questa parte di Cina. Squadre di operai cinesi e qualche uiguro si danno da fare, giorno e notte, per ricostruire su quello che è già ridiventato polvere: «Costruiamo la nuova Kashgar», «Ringraziamo il Partito per la sua attenzione al popolo del Xinjiang» sottolineano i cartelli in caratteri cinesi intorno alle macerie. I bambini ci giocano sopra, le donne stanno sedute fuori dagli usci delle case ancora in piedi. La terra secca dei muri abbattuti è tanta che, al passarci sopra, schizza come l’acqua pestata in una pozzanghera.
Per «offrire» case più sicure e antisismiche in tutte le città che visito ci sono lavori in corso, demolizioni e avvisi per chi ci vive di prepararsi al ricollocamento entro i prossimi cinque anni. Nelle stesse città, cercare la moschea vuol dire trovare la zona che, nel tempo, è rimasta più intoccata e con lei panorami che mi riportano nella invisibile Eufemia di Calvino2.
Città nascoste dentro la città si fanno scoprire tra i vicoli bassi e stretti dove giocano bambini o chiacchierano le donne affacciate alle finestre. I bambini uiguri sono curiosi, gentili e affettuosi con lo straniero. Lo prendono per mano per guidarlo nei vicoli o si lanciano in un abbraccio che fa tremare chi non se lo aspetta. I sorrisi che aprono i loro occhi, neri o azzurri, fanno pensare quanto questa gente sia aperta verso l’esterno. Mahermut, un bambino di otto anni, mi indica il nome del nonno tra quelli della lista sul muro in lingua uigura. Ci vivono da anni in quel vicolo e si conoscono tutti. Mi guida in un giro tra racconti della scuola cinese che frequenta e domande su quello che sta lontano dal suo mondo ma vicino alla sua immaginazione. Passeggiamo in un sali e scendi tra profumi di pane appena sfornato, spezie macinate dal medico tradizionale per il tè, sangue del montone appena sacrificato ad Allah e vapori dei cibi comuni che si trovano per strada: pecora che bolle da ore nel pentolone con odori e spezie, il soffritto per il risotto, gli spaghetti gialli di grano che si servono freddi con verdure, aceto e salsa di sesamo.

UN COLLANTE DI NOME ISLAM

La città successiva è quella degli artigiani che continuano il mestiere dei loro padri. Balaustre ombreggiate delle case a due piani di inizio secolo danno sulla strada, e balconate coperte da motivi arabi e colori pastello attirano lo sguardo al cielo. C’è chi forgia il ferro creando zappe, lame, falci, picconi, chi batte sulla lamiera per fae casse di ogni dimensione, o i lavandini per i ristoranti e le brocche da giardino, chi fa piatti, teiere o anfore in rame per la casa, chi con il legno modella pioli per i letti e per le culle, o una scacchiera con re, regine, cavalli e pedoni. Abili mani tessono tappeti, altre lavorano l’oro, materiale di cui la zona è abbastanza foita.
Gli uiguri amano l’oro. Le donne portano sulle mani, pitturate di henna, bellissimi anelli intarsiati, intrecci di ricami quasi barocchi. Per le strade o nei mercati le donne sono una delle cose più belle da osservare, nei loro modi, nei gesti eleganti di mani segnate dal lavoro. Occhi scuri di nero kajal, rendono ancora più affascinante lo sguardo di quelle che mi vengono incontro. Amano curarsi, amano i profumi e portano, specie nel sud, il velo. Chi annodato dietro la testa a mo’ di copricapo, chi sotto il mento, chi lascia solo gli occhi allo sguardo altrui. Ce ne sono anche alcune che preferiscono guardare attraverso la rete del burqa. Tutte mi ricambiano con la stessa curiosità.
La figura della donna nella società uigura è centrale e molto particolare, se inserita in un contesto religioso musulmano: gli uiguri già buddisti, hanno adottato l’islam in una pratica molto meno stretta rispetto ai paesi arabi. Se è la donna a stare a casa, questa ha anche la libertà di uscire, studiare, e può scegliere di non portare il velo, come succede spesso tra le più giovani.
Ancora più a Sud, Hotan la descrivono come uno dei posti più duri per i forestieri, in quanto là gli uiguri sarebbero più chiusi nei dogmi religiosi. Al mio arrivo quasi non ne vedo. La statua di Mao e Kurban Tulun, l’eroe uiguro della rivoluzione cinese, governa piazza dell’Unità. È l’unico monumento in tutta la Cina che vede il vecchio Mao in compagnia. Nelle strade passano i taxi, i camion dei supermercati, quelli che portano macchine nuove o petrolio, passano bus enormi, passano camionette blindate della polizia. Tutte superano un carretto, che ben accostato al marciapiede prosegue lento per la sua strada. Lo trascina un mulo guidato da un vecchio uiguro che indossa un copricapo con ricami verdi, tanto popolare tra questa gente. Osservo e mi chiedo dove sia il suo mondo. Sul carro, donne, bambini, ragazzi uiguri che usano questo come taxi, dalle zone più periferiche. Al ritorno dal bazar della giada di Hotan, dove ogni venerdì e domenica, è mercanteggiata giada verde, bianca, nera, rosa, di fiume o di montagna, seduta sui tappeti ben piegati, per cinque mao (pari a cinque centesimi di euro), vedo le strade passare dal lato opposto: la periferia di case basse, ristoranti e lunghi barbecue per arrostire la carne di pecora venduta a tutti gli angoli, gli uomini che fanno la fila dal barbiere, le donne sulle scale di una moschea che offrono il loro acidissimo yogurt. E ancora foi rialzati per cuocere i tanti tipi di pane, sui quali i panettieri si chinano e con un gesto antico millenni mettono dentro l’impasto a forma di pizza con sesamo e cipolla.
Camminando tra la gente per questa terra, ho l’impressione che sia chiusa: le seconda domanda che rivolgono allo straniero in genere è: «Li conoscete gli uiguri al tuo paese? Ce ne sono?», «Beh… ora un po’ di più», la risposta imbarazzata dalla consapevolezza di quanto in Occidente non sappiamo. Perché degli uiguri se ne sente parlare da poco tempo e solo se ci sono rivolte o attentati. Anche in Cina.

ALLA «GUERRA» della lingua

I fatti dell’11 settembre e l’inserimento del «Partito islamico del Turkestan orientale» nella lista nera dei terroristi stranieri da parte del governo statunitense e delle Nazioni Uniti nel 2002, hanno fornito ai cinesi i presupposti formali per campagne antiterroristiche in queste zone. Ma questa è un’altra storia3.
Gli uiguri sono lontani, da Pechino e dal mondo. Dai loro cortili al mondo, si passa comunque per la Cina. D’altronde sono cinesi. Sono però «i cinesi meno cinesi». Loro malgrado.  Lo dice il Dna. Lo dicono i loro capelli ricci e i nasi di falco. Lo dicono la musica, la passione per il ballo, l’espansività dei gesti, dei modi, i rapporti sociali. Lo dicono le preghiere ripetute durante la giornata, quando per le stradine che circondano le moschee di Kashgar come del più remoto villaggio, da un minareto si diffonde la voce piena e possente del muezzin che li chiama a raccolta. Interrompono tutto, per questa pausa di preghiera. Sono di sicuro tra le minoranze meno sinizzate, probabilmente grazie al mantenimento di una lingua propria che, sostenuta dalla religione, porta con sé una identità molto distinta.
E l’uso di questa lingua nella religione è l’unico fattore che fa credere che la lingua uigura non morirà. Ma è la lingua cinese che permette agli uiguri di Cina di avere opportunità di scambio con l’estero, che non sia Turchia. È tramite il cinese che si studia l’inglese e sono cinesi le aziende che offrono lavori migliori. Ne sono sempre più convinti anche tanti genitori uiguri, come dimostrano ricerche cinesi e non sulle politiche linguistiche e sociali adottate4.
L’uiguro appartiene alle lingue turco-altaiche, di qui le similitudini e la passione uigura per la Turchia. La sua scrittura è basata su un alfabeto molto simile a quello arabo. La Costituzione cinese assicura il diritto per le minoranze di studiare nella propria lingua, e l’articolo 49 della Legge sull’autonomia regionale afferma addirittura che «i quadri di nazionalità han dovrebbero imparare a leggere e scrivere le lingue delle minoranze locali»5.  
La storia e la politica a questo proposito è lunga e vede molti cambi di direzione durante gli anni. Con la rivoluzione culturale il «nuovo» per gli uiguri fu l’uso delle lettere latine al posto di quelle uigure, producendo una generazione di analfabeti. Dopo la reintroduzione dell’uiguro scritto, sono state lanciate le scuole miste, a maggioranza cinese o uigura, poi trasformate in tre tipi di scuole: cinesi, uigure e miste. Nel 2004 sono state introdotte classi sperimentali con la doppia lingua.
Per gli uiguri, per la loro identità tali trasformazioni possono portare a cambiamenti culturali senza via di ritorno. E una lingua scritta e parlata è forse più importante dell’identità stessa, perché permette a questa identità di descriversi e di vivere.
Per il governo cinese invece, l’esistenza di quella cultura ma soprattutto di quella religione, può risultare scomoda sotto molti punti di vista. Il suo obiettivo, secondo i documenti ufficiali, è di avere, entro il 2012, l’85% delle scuole matee bilingue, cioè insegnare il cinese alla maggior parte della popolazione fin dai primi anni. E, temono gli uiguri, questo sarà un altro grande passo sulla  strada che – piano piano – porterà alla scomparsa delle scuole e della lingua uigure. Testimoni riportano recenti campagne di confisca di libri uiguri, bruciati perché «colpevoli» di supportare il sentimento separatista6.
Al momento molti denunciano una situazione in genere caotica, che vede studenti uiguri delle scuole a maggioranza cinese non saper scrivere nella lingua madre usata oltre i recinti scolastici, mentre quelli delle scuole a maggioranza uigura notevolmente svantaggiati quando aprono la loro porta sul mondo esterno. Nelle classi sperimentali bilingue invece, vengono insegnate le materie scientifiche in lingua cinese, mentre quelle letterarie e la lingua in uiguro. È del maggio 2002 la decisione del governo di insegnare la maggioranza dei corsi in cinese, come mi conferma Ohelan, insegnante uigura alla scuola media del villaggio di Dunkuotan, vicino Kuqa che, seguendo le politiche governative insegna in cinese e si rende conto di quanto ciò contribuisce a creare un livello bassissimo di educazione per i bambini. Secondo le statistiche il 98,6% degli insegnanti è uiguro; il restante cinese sembra non avere basi linguistiche uigure adeguate all’insegnamento, specie nelle zone più remote. D’altra parte, gli sforzi del governo mirati a bilanciare questa situazione sono molti e quasi tutti in «favore» delle minoranze: oltre alle ricerche per i libri di testo, ci sono i sussidi per i bimbi uiguri che scelgono una scuola matea con classi bilingue, o lo sconto sui crediti per studenti non han in sede d’esame d’accesso all’università, per i quali sono previsti anche esami in lingua madre.
L’Università del Xinjiang offre il corso di studio in «lingue e culture delle minoranze» in uiguro e kazako, ma Wang Lequan, capo del Pcc in Xinjiang dal 1994 affermava, anni fa, che il lavoro educativo e ideologico sarebbe stato una priorità nella battaglia al separatismo. Lui, che introdusse il cinese nelle scuole primarie e vietò agli uiguri impiegati in uffici governativi di portare la barba o il velo e di osservare il ramadan, è stato sostituito con una nuova classe di politici nell’aprile 20107.
Gli uiguri si dicono fiduciosi nel cambio al governo, fiduciosi di persone che sembrano essere più disposte al dialogo e al rispetto degli spazi di una cultura diversa. Nel frattempo, continuano a vivere secondo la loro musica.

Tania Di Muzio

Tania Di Muzio




Mille volti, un cuore antico

Dall’impero alla Cina comunista

Prima fu l’Impero, poi il confucianesimo, infine la nuova Cina. Secondo l’articolo 4 della Costituzione del 1982: «Le nazionalità della Rpc sono tutte quante uguali. Lo Stato assicura i diritti e gli interessi legittimi di ciascuna minoranza etnica, protegge e sviluppa l’uguaglianza, l’unità, l’aiuto vicendevole tra le nazionalità. È vietato discriminare e opprimere qualsiasi nazionalità (…)». la realtà mostra un paese in cui gli han, il gruppo maggioritario (oltre il 90% della popolazione), sono divenuti forza preponderante in ogni regione. E non sempre in modo pacifico, come dimostrano le rivolte in Tibet e Xinjiang.

La Cina è un respiro ovunque diverso, che avvolge paesaggi tra loro distanti migliaia di chilometri. È composta da mille volti e da un cuore antico: il letto di un fiume che fu fonte di civiltà. Oggi il Fiume giallo è uno specchio desolato di acque inquinate e terre aride. Di un canto nostalgico intonato al «xibei», il Nord-Ovest cinese, dove scorre il vecchio fiume anima pulsante delle prime dinastie tra storia e leggenda; il Nord-Ovest delle rotte carovaniere in arrivo dal centro Asia. Oggi, semplicemente, una delle aree più povere della Cina modea. Come ipotesi di partenza, la Cina potrebbe essere un contenitore di popolazioni ed etnie: 56 stando ai gruppi riconosciuti ufficialmente. Non solo han, tibetani e al limite uiguro; ma anche mancesi, mongoli, kazak, yao, bai, yi, miao, zhuang, mosuo… persino coreani e russi. Montagne altissime ad ovest, deserto e prateria a Nord, neve e ghiacci a Nord-Est, le grandi piane al centro, la fascia costiera e le skylines a Sud-Est, i picchi carsici e le risaie a terrazza del Sud, l’aria dei tropici a Sud-Ovest.
La maggior parte delle volte che sentiamo pronunciare la parola «cinese» in realtà si parla di cinesi han. Vale a dire il gruppo maggioritario, con oltre il 90% della popolazione, dislocato su un territorio insufficiente. Oggi le aree autonome (regioni, prefetture e contee) destinate alle minoranze coprono il 64% del territorio, ma negli anni la penetrazione han si è fatta sempre più possente. Si prenda la Regione autonoma della Mongolia intea, dove i mongoli sono ormai solo il 15% della popolazione.
«Cinese» è una parola che, almeno nelle intenzioni, significa anche tibetano o uiguro. La Cina come concetto è una creazione delle correnti riformiste e rivoluzionarie di fine Ottocento, quando il pensiero tradizionale intriso di confucianesimo si aprì all’idea modea di nazione: uno stato unitario, con un territorio, con dei confini. E con un popolo. Non più sudditi del «Figlio del cielo» costretti nell’angusto spazio di riti e gerarchie, ma nazione che partecipa al potere nel nome dei principi di uguaglianza, cittadinanza e rappresentanza. Era questo il nuovo cittadino cinese che emerse dalla cenere della Rivoluzione del 1911 (si legga la cronistoria), membro di uno stato che rivendicò i confini dell’antico Impero, includendo così un groviglio di popolazioni eterogenee, spesso parlanti lingue e persino con sistemi di scrittura diversi.
Nella retorica nazionalista sarebbe divenuta la «Repubblica dei cinque gruppi» (Wu zu gonghe), sottintendendo i cinque principali gruppi etnici: han, mancese, mongolo, hui (i musulmani cinesi) e tibetani. A sostegno della tesi venivano citati millenari processi di scambi e di reciproca assimilazione tra la maggioranza han e le popolazioni minoritarie, tutte dislocate alla periferia del vecchio Impero. L’ideale era quello di una famiglia, il cui ultimo stadio evolutivo sarebbe stato la «Grande armonia» (Da tong), un ideale dal sapore confuciano. Modeità e tradizione. Per capie la convergenza bisogna ripartire dalle dinamiche di una fase storica ben precisa: l’imperialismo. Nel corso dell’Ottocento, l’Impero cinese fu ridotto ad uno status semi-coloniale, che destinava la gestione delle principali risorse economiche alle Grandi potenze coloniali e lasciava all’imperatore una sovranità nominale, vuota. L’Impero era allo sfascio: tecnicamente arretrato, sfruttato economicamente, umiliato politicamente, militarmente e persino nello spirito, vista la diffusione dell’oppio britannico nei circoli amministrativi, una piaga che mirava dritto al cuore dell’integrità etica professata dal confucianesimo.
Fu allora che venne intrapreso il confronto con la modeità. L’ideale di sviluppo, ancora oggi tanto decantato dalla dirigenza comunista, si impose come mezzo di riscatto per un paese da ricostruire. La decadenza del presente era compensata da un sogno di grandezza da conquistare. Linearismo ed evoluzionismo. Lo strumento per conseguire tutto ciò era la ragione, il razionalismo economico e politico. L’intento di modeizzazione tecnica anticipò quella del pensiero politico, che costituì una rivoluzione ancora più grande, in grado di stravolgere i rapporti tra i cinesi han ed i loro vicini, le minoranze. La questione etnica stava prendendo forma anche in Cina.
Il dogma politico supremo introdotto dal nuovo pensiero fu quello dello stato-nazione moderno, centralizzato, dotato di confini ben definiti e rappresentato da una nazione unitaria. L’essere cinese veniva proposto non solo sul piano politico ma ipotizzato etnicamente, malgrado la varietà culturale. In termini politici, l’autorità centrale fu estesa alle province più lontane dalla capitale come mai era stato rivendicato in epoca imperiale. La maggioranza han, storicamente e quantitativamente dominante, veniva investita dalla retorica nazionalista del ruolo guida in campo politico ed economico. Un fratello maggiore in grado di prendere per mano le arretrate minoranze e rendere grande la madrepatria, queste le parole della propaganda ufficiale. La realtà, inizialmente, fu più complessa: il potere centrale era troppo debole per tradurre nella pratica la sua ambizione nazionalista, ostacolato ad esempio dai signori della guerra disseminati su tutto il territorio cinese. Anche alla periferia della nuova repubblica le istituzioni tradizionali delle minoranze continuavano ad agire in completa autonomia, quando non rivendicavano apertamente l’indipendenza.
Perché la Cina nella sua transizione ad una forma politica modea ha assunto l’aspetto paradossale di un Impero nelle vesti di una nazione? Questione di potere, sete di riscatto dal giogo coloniale, l’obbligo di assimilare le regole del mondo moderno per sopravvivere; ma non solo. Ci fu anche una percezione di sé che, come in tutte le nazioni, ha fatto leva su simboli, miti, storie, valori culturali consolidatisi nel tempo. Una rielaborazione della memoria storica collettiva. Il percorso dell’Impero cinese fu un perfezionamento di una cultura politica secolare, millenaria, capace di guadagnarsi un riconoscimento nello spazio di un continente geografico, dalla Corea al Vietnam; e laddove non fu sempre ben accetta seppe scendere a compromessi con la diversità, dimostrandosi ricettiva e riuscendo a rielaborare «l’altro» in termini familiari.
L’Impero cinese non fu un’unità politica in cui un despota decideva il destino dei suoi sudditi, né il regno di un eroe conquistatore. L’Impero cinese fu equilibrio fra poli distinti: nomadi e contadini, barbari e civilizzati, minoranze e han. Un equilibrio che non escluse guerre e scontri, ma in cui a farla da padrona era una visione in cui ogni soggetto trovava un suo posto; dove ciò che era ritenuto barbaro doveva sì essere civilizzato, ma era comunque parte di un sistema ed accettato al suo interno. È sulla base di questi principi che l’Impero cinese si sviluppò rendendo ufficiale un sistema culturale oggi tradizionalmente associato al confucianesimo. Ma dal punto di vista delle relazioni «geopolitiche» ed inter-etniche si tratta di un qualcosa di più generale rispetto ad un sistema culturale; come un modo di concepire i rapporti con «l’altro» facendo riferimento a valori condivisi.

L’assimilazione delle popolazioni «non han»
È questa una possibile chiave interpretativa per osservare la funzione simbolica della Grande muraglia, che nell’immaginario di un cinese non è una semplice linea di demarcazione tra l’io ed il nemico, ma anche un crocevia e un punto d’incontro, probabilmente inizialmente di scontro, ma che poi permise di includere il diverso e di estendere i limiti della terra, quel «Ciò che è sotto il Cielo» (Tianxia) che rappresentava in epoca imperiale l’idea di Cina. Il mantenimento da parte dell’altro di una certa identità era addirittura funzionale al sistema, poiché visualizzava diversi livelli di penetrazione della civiltà, a seconda della distanza (geografica, culturale) dal Centro, l’Imperatore Figlio del cielo (Tianzi).
Si fa un gran parlare, spesso a ragione, dell’assimilazione cui le popolazioni «non han» furono storicamente sottoposte. Perché l’accettazione del diverso passava per una sua riqualificazione culturale. Gran parte delle minoranze cinesi di oggi mantengono ben poco della loro antica identità etnica. La forza dell’elemento han si manifestò nella riconversione di gruppi più deboli e nella migrazione intensiva dalle piane centrali verso Sud. Ma quelle culture provviste di maggiore personalità poterono coesistere con il sistema ufficiale ed operare all’interno di esso. Si prendano le oasi centrasiatiche dello Xinjiang, le praterie mongole o il Tibet buddhista. Il riconoscimento in realtà era reciproco ed era fondato sulla presenza di una complessa rete di gerarchie sovrapposte, in cui il rito svolgeva una funzione essenziale, evitando che si creassero degli scontri per l’esercizio effettivo tra diverse autorità. Per la storiografia cinese l’imperatore restava il centro politico supremo ed in una certa misura egli poté anche ricevere tale riconoscimento; ciò non toglie che per le altre popolazioni l’autorità imperiale fu soprattutto uno strumento di legittimazione per il proprio potere. Il buddhismo in Tibet non fu solo una religione ma espresse anche un sistema di valori alla base di una distinta cultura politica con un proprio codice simbolico, universalista proprio come l’ordine imperiale. In tempi antichi ci furono guerre tra Tibet ed Impero cinese, ma in ultima analisi si giunse ad un reciproco riconoscimento, in cui l’Imperatore entrò nella simbologia buddhista ed il Dalai Lama, a capo del sistema tradizionale tibetano, divenne parte attiva all’interno del sistema imperiale.
L’idea modea di Cina riprende la condivisione di una cultura politica antica, sottintendendo un contatto – già esistente – tra le popolazioni che componevano l’Impero. Oggi in province come quelle del Sichuan, dello Yunnan, del Guangxi e del Guizhou ci sono regioni dove diverse etnie coesistono ormai da secoli e la cui identità agisce chiaramente su diversi livelli. La memoria dell’epoca imperiale è andata però incontro ad una rielaborazione. Oggi il problema principale in rapporto alla questione etnica è la discriminazione politica, economica, sociale e persino culturale a cui le minoranze economicamente meno sviluppate sono condannate a causa dell’egemonizzazione dell’elemento han. Più che una volontà di sottomissione fu però il risultato di un processo storico: gli han furono il centro della Rivoluzione politica del 1911, nonché gli artefici della modeizzazione tecnica ed economica, il che li pose automaticamente alla guida della nuova Cina, la Cina comunista.

LE MINORANZE NELLE COSTITUZIONI DEL 1954 e del 1982
La Cina comunista ha ricercato la propria legittimità nel riconoscimento ufficiale delle etnie che ne compongono il territorio, attraverso un’opera di catalogazione sul campo durata decenni e che ad oggi ha portato allo scoperto 55 minoranze. I criteri adottati in quest’opera furono tutt’altro che scientifici e spesso l’identificazione etnica di una persona restò un ideale, vuoi per specifici interessi politico-strategici, vuoi per la forza dei processi di integrazione e di assimilazione, che spesso hanno reso difficile la distinzione chiara e netta dell’identità etnica di una persona. L’ultimo conteggio ufficiale (nel 2000) registrava più di 700 mila persone senza etnia, un gruppo di individui spesso unito dalla coscienza di non essere han ma che ignora la propria appartenenza.
La prima Costituzione cinese fu approvata nel 1954. In essa veniva sancito il principio di Stato unitario multietnico (art. 3), garantito attraverso il riconoscimento di uguaglianza tra i gruppi nazionali e dell’autonomia politica per le minoranze. Il riconoscimento della sovranità centrale, cui tutti gli organi amministrativi autonomi erano sottoposti, bilanciava la concessione di autonomia. Lo schema fu ripreso dalla Costituzione del 1982, l’ultima approvata in ordine di tempo, e dalla Legge per l’autonomia regionale nazionale della Repubblica popolare cinese (Rpc) del 1984. Questi due documenti si impegnavano a ribadire la compresenza di un’autorità centrale e di un potere decisionale autonomo nelle zone popolate da minoranze.
È stato osservato che la Costituzione del 1982, complice la svolta politica apportata da Deng Xiaoping, abbia contemplato maggiore apertura nel riconoscimento del particolarismo etnico. Nel dettaglio, veniva assunta una posizione netta contro la discriminazione etnica, si impegnava lo Stato centrale a investire nello sviluppo economico delle zone più arretrate e le minoranze nel mantenimento e nello sviluppo della propria cultura (art. 4). Anche il riconoscimento di autonomia politica andò incontro a una più approfondita formulazione: l’articolo 116 garantiva la libertà di approvare regolamenti locali in base alle esigenze particolari della popolazione o agli orientamenti culturali di una minoranza; gli articoli 117-122 sancivano invece l’autonomia in materia fiscale, culturale, economica, nell’educazione e persino in rapporto all’ordine pubblico locale.
Tuttavia, va notato che la Costituzione ribadiva a più riprese la priorità della funzione del potere centrale, il che avrebbe vanificato qualsiasi provvedimento autonomo se reputato in conflitto con l’interesse nazionale. La precisazione è tanto più evidente oggi: in seguito alle rivolte in Tibet e Xinjiang, la libertà religiosa e culturale è andata incontro a palesi restrizioni, che se giudicabili in parte anti-costituzionali d’altro canto sono ugualmente legittimate dalla Costituzione, che autorizza la limitazione dei poteri di autonomia in caso di minacce all’unità della nazione cinese (art. 4) e sottopone qualunque provvedimento autonomo all’approvazione del Comitato permanente del Congresso nazionale popolare (art. 116).
La politica comunista degli anni Cinquanta si fondò dunque sui principi di autodeterminazione delle etnie (all’interno dei confini politici cinesi) e di uguaglianza tra i gruppi riconosciuti. Ad essi fu concessa la creazione di unità amministrative (regioni, prefetture e contee) autonome su base etnica e regionale. Ma il preconcetto sulle minoranze permase, partendo dalla loro maggiore arretratezza, e l’atteggiamento degli han, che occupavano i maggiori posti al potere, continuò ad essere patealistico e profondamente evoluzionista, scaturendo così nella discriminazione. Oggi il controllo politico ed economico sono problemi reali in quelle regioni, come Tibet e Xinjiang (si legga l’articolo di Tania Di Muzio), dotate di un’identità etnica maggiormente distinta e storicamente autonome dal potere centrale cinese.
Alle tensioni etniche va aggiunta la questione ideologica. In un Paese multietnico come la Cina, l’impostazione marxista della questione nazionale ha avuto notevoli implicazioni pratiche, creando squilibri nelle relazioni tra i vari gruppi etnici. La definizione della società in rapporti di classe e l’ardore rivoluzionario sottovalutarono le profonde radici dei sistemi sociali nelle zone popolate dalle minoranze etniche, malgrado il più delle volte fossero fondati sulla disuguaglianza politica, economica e sociale. All’epoca della guerra civile, la Lunga marcia aveva attraversato molte delle regioni popolate da minoranze, guadagnandosi alcuni consensi grazie alla professione di ideali ugualitaristici. Ma gli iniziali auspici non furono seguiti da un’effettiva compatibilità, e spesso i processi di collettivizzazione vennero percepiti come una deligittimazione di autorità riconosciute dalla popolazione. La situazione fu ancora più tesa in quelle zone, come il Tibet, ove le istituzioni politiche godevano di uguale riconoscimento in ambito religioso. In questo caso la rivoluzione politica e sociale fu anche profanazione e umiliazione del sacro, suscitando le principali resistenze popolari. L’ascesa del radicalismo e la Rivoluzione culturale non fecero che acuire la cesura: la campagna contro i «quattro vecchi» (si jiu: vecchia cultura, vecchio pensiero, vecchie abitudine, vecchie usanze) fu uno degli aspetti principali dei movimenti di massa nelle aree minoritarie e risultò nella distruzione, in molti casi indelebile delle tradizioni culturali locali. Le guardie rosse furono mobilitate per smantellare le «vecchie idee», la «vecchia cultura», i «vecchi costumi» e le «vecchie tradizioni», il che rappresentò una legittimazione della distruzione di un patrimonio incalcolabile nel nome della Rivoluzione, oltre che degli attacchi fisici ad autorità politiche e religiose locali.

COMMERCIALIZZAZIONE DELLE CULTURE 
All’inizio degli anni Ottanta fu introdotta l’epoca della liberalizzazione e della nuova tolleranza culturale, una fase storica della Rpc in cui ci fu un nuovo riconoscimento del pluralismo, se non politico (in particolare soffocato dopo le repressioni di Tian’an men) almeno culturale. L’idea dello sviluppo economico delle minoranze divenne il principale mezzo di legittimazione della nuova dirigenza. Tuttavia non portò i frutti sperati: la rinascita culturale non determinò la rifioritura di un patrimonio seppellito, in gran parte andato perduto, ma somigliò più a una rielaborazione delle tradizioni culturali alla luce di un mondo globalizzato.
Inoltre, l’apertura al turismo ed agli investimenti nazionali ed inteazionali è scaturita spesso nella «commercializzazione delle culture delle minoranze». Il turismo ad esempio ha fatto sì che in molti monasteri tibetani si siano sviluppati dei centri di vendita di oggetti di ispirazione religiosa prodotti su scala industriale e proposti come autentiche reliquie. Nel 2001 la Contea tibetana di Gyalthang (cinese: Zhongdian), allora popolata da 122.000 abitanti, vinse la concorrenza di altre località per assumere il nome di «Shangri-la». Da allora si è tramutata in un groviglio turistico che, negli obiettivi divulgati dall’Ufficio turistico locale, mira a raggiungere nel 2012 un traffico annuo di 5 milioni di turisti (lo spiega l’articolo di Matteo Miavaldi).
Anche lo sviluppo è rimasto per molti versi un ideale: ad un effettivo miglioramento delle infrastrutture fa da contraltare la questione della marginalizzazione: gli han sono spesso all’origine dei progetti di sviluppo nelle regioni minoritarie risultando, di conseguenza, anche i principali beneficiari in termini di ritorno economico, a scapito delle minoranze che sono rimaste legate ai sistemi tradizionali di sussistenza, subendo i processi di urbanizzazione e sviluppo economico.

Mauro Crocenzi

Mauro Crocenzi




Non solo han

Introduzione

In Cina, il paese più popoloso del mondo (1,4 miliardi di persone), ci sono 56 etnie. Di queste, 55 sono minoranze.

La casa è costruita interamente di legno: è composta da una grande stanza all’interno della quale ci sono un divano, alcune sedie e un poster che raffigura Mao Zedong, Deng Xiaoping e l’attuale presidente cinese, Hu Jintao. Al centro una stufa. Le due contadine che ci ospitano sono impegnate nella preparazione di un pasto: verdure raccolte nella passeggiata precedente, riso da bollire, altre verdure tagliate, crude. C’è anche una bambina, occhi fissi sulla televisione, immancabile, e mano ferma sul telecomando: sembra essere in grado di cambiare un canale al secondo. Fuori, le risaie di Ping’an, sud della Cina, regione del Guangxi, piccolo paese arroccato su colline, circondato da distese di terrazze: la «schiena del Drago», come vengono chiamate, mentre le schiene umane sono curve a lavorare, riparandosi da zanzare e da un sole che picchia e che rende arsa l’aria. All’ombra del legno è fresco, si prepara la tavola e si mangia insieme.
«Noi siamo yao», raccontano in mandarino le due signore, poi parlano tra di loro in dialetto e lo stupore taglia il cono d’ombra quando chiedono il nome delle verdure in mandarino ad un laowai, uno straniero. Loro parlano un’altra lingua, eppure sono cinesi.
Nell’immaginario collettivo i cinesi sono tutti uguali: le tante comunità – le chinatown così esotiche nel nome, ma spesso osteggiate – sparse per il mondo, i loro ristoranti, una stampa talvolta arruffona nel parlare di Cina in termini monolitici, quasi fosse un gigante stralunato appoggiato ai propri recenti successi, non aiutano a distinguerli. Eppure quelli che noi chiamiamo cinesi, sono solo una – la maggioritaria – della 56 etnie di cui è composto il paese, un continente. Ci sono gli han e altre 55 etnie, che rivendicano il proprio essere cinesi e le proprie peculiarità culturali. Chiedono riconoscimento delle proprie tradizioni, della lingua, all’interno dell’unione politica della Madre Cina.
È uno dei nodi della Cina contemporanea: gestire uno sviluppo economico che sappia creare l’armonia sociale: tra cinesi, tra han e le altre etnie, garantendo a tutti, senza differenze  e pregiudizi culturali, i frutti dello sviluppo economico. Una diatriba che a parole trova una sua collocazione nella Costituzione della Repubblica popolare, ma che nei fatti costituisce uno dei tanti dilemmi interni della Cina contemporanea. Uscendo dalle grandi città, Pechino, Shanghai e Canton, si arriva in posti che sembrano persi nei tempi andati della storia millenaria cinese: pertugi storici in cui si ritrova assimilazione, diversità, consumo e tradizione.
In questo dossier, proveremo a guardare al gigante asiatico con uno sguardo sbilenco e nuovo. Perché i cinesi non sono tutti uguali.

Simone Pieranni

Simone Pieranni