MEDIAMENTE

Fuori dal coro

Il meccanico delle rose
Hamid Ziarati, Einaudi editore,  2009 – Euro 18,50

Non so se avete mai provato il piacere di innamorarvi a tal punto di un libro da aspettare la sera o il momento opportuno per tornare a leggerlo. «Il meccanico delle rose» di Hamid Ziarati ha toccato così profondamente  la mia emotività e il  mio piacere verso la lettura da farmi scendere alla fermata sbagliata dall’autobus. Vi assicuro che non è poco, nell’epoca della corsa senza fine ai tanti impegni. Hamid Ziarati è nato a Teheran e all’età di  15 anni si  è trasferito a Torino dove ha fatto il liceo e studiato ingegneria. Al centro del suo libro c’è l’amore – in tutte le sue sfaccettature – che muove i suoi personaggi, dal primo all’ultimo, in una girandola di storie e sacrifici. Amore,  morte e libertà in cinque storie sullo sfondo di un paese volutamente mai nominato ma decifrabilissimo. Lo stile narrativo  è veramente originale: far conoscere e svelare più spaccati della personalità del protagonista attraverso lo sguardo delle persone che sono state importanti per lui.  Con un tono caldo e suadente, l’autore narra ogni esistenza e lo fa con destrezza, utilizzando anche un linguaggio diverso a seconda dell’epoca in cui si compie la singola vicenda. Una poetica ricca di metafore e di riflessioni,  che ci riporta all’idea del nostro essere protagonisti solo per noi stessi, ma comparse sulla scena della vita altrui.

«Diamoci del tu»: botta e risposta con l’autore

Hamid, il tuo libro rappresenta un’innovazione stilistica nel raccontare il protagonista.
Come è nata quest’idea?
«Volevo raccontare la storia di un uomo qualunque, partendo dagli anni Venti ai giorni nostri. Per farlo, riconsegnando al lettore anche il periodo della sua prima infanzia, dovevo far parlare chi lo aveva accompagnato in questo viaggio. Dal padre, al cugino, alla moglie, alla figlia e all’amata. Così si è formata una galleria di personaggi che mi hanno aiutato a dargli una personalità, differente a seconda dei rapporti con ognuno di loro: padre meraviglioso, amante, vigliacco, marito protettivo, cugino astuto, innamorato delle rose. In sostanza, un uomo di passaggio come tutti gli altri e come tutti noi».

Questo libro è dedicato a tua figlia e le  figure femminili di cui narri sono tante. Raccontaci…
«Il libro è dedicato alla mia bambina Emma perché vorrei che imparasse ad apprezzare il valore della vita in una società libera. Le donne del mio libro sono forti, risolute e pronte a sacrificarsi per amore. La figura centrale dell’ultimo episodio, Laleh, è una «pazza d’amore» ed è proprio dal suo letto che ci vengono riconsegnate in un lucido mosaico, tutte le storie del libro. In questo delirio osserviamo Laleh chiedere insistentemente dell’acqua. Ebbene, è proprio quell’acqua che non le viene concessa, la metafora del desiderio di libertà delle donne iraniane. Del loro essere e rimanere assetate!».

Perché la scelta di non nominare mai il tuo paese?  
«Non nominare il mio paese è stata una scelta di solidarietà e di  rispetto verso gli autori locali, vittime di un regime retrogrado e sanguinario, impossibilitati dalla censura a far sentire la loro voce.
Volevo che attraverso le pagine si respirasse un po’ delle trasformazioni sociali, economiche e politiche avvenute in Iran. E desideravo che il pubblico non avesse la solita  visione distorta  dell’Iran – paese musulmano uguale nazione araba – ma che ci leggesse tutta la storia, le tradizioni e il patrimonio dell’antica Persia».

I primi sullo scaffale

Censura
Shahariar Mandanipour, Rizzoli editore, 2009 – Euro 19,50
La storia d’amore tra due giovani negli anni della rivoluzione khomeinista, l’influenza della censura nella scrittura e nella vita stessa degli iraniani, sono i protagonisti di questo insolito romanzo nel romanzo. L’autore, infatti, nelle pagine di «Censura» ci racconta di come nasca in lui l’idea di voler scrivere un romanzo d’amore, di come desideri dar vita ad una storia luminosa in un’epoca oscura, in cui il sentimento stesso non può essere comunicato esplicitamente. Il racconto delle tecniche e degli espedienti dell’autore per mantenersi fedele alla storia si intercala con la narrazione della storia d’amore stessa: quella di  Sara e Dara  che cercano disperatamente di vivere  la loro passione  tra le difficoltà imposte dalle dure leggi della società iraniana. I tagli applicati dall’inflessibile censore Sig. Petrovic si materializzano con tratti di penna che cancellano, pur mantenendole visibili al lettore, le frasi «incriminate» costituite da allusioni reali o immaginate o da semplici parole «proibite».

Le cose che non ho detto
Azar Nafisi, Adelphi edizioni, 2009 – Euro 19,50
Ultimo romanzo di Azar Nafisi, «Le cose che non ho mai detto» ha una struttura autobiografica. Lo stile autentico e immediato dell’autrice e la sua tecnica del racconto conduce il lettore in un mondo dove, alle storie legate all’universo famigliare, si contrappongono quelle di una società in trasformazione. L’universo dei personaggi che ritrae è toccante: dal  magnifico ritratto del padre, sindaco di Teheran all’epoca dello scià, e della madre, fra le prime donne entrate al Parlamento iraniano.  Due storie in una: quella del paese e di un regime repressivo vista con gli occhi delle dinamiche familiari che, spesso, nei silenzi e nelle doppie verità presentano una chiara analogia.

Leggere Lolita a Teheran
Azar Nafisi, Adelphi edizioni, 2007 – Euro 10,00
Il primo libro di Azar Nafisi è un inno alla letteratura e alla libertà. La cultura apre una finestra sul mondo così come il soggiorno dell’autrice diventa luogo fisico e mentale di un anelito alla vita vissuta autenticamente. Azar Nafisi, dopo aver dato le dimissioni dall’ateneo,  decide di organizzare un seminario «segreto» sulla letteratura inglese con le sue sette migliori studentesse. La poetica del  celebre autore inglese Nobokov con il suo impareggiabile «Lolita» instaura con l’autrice e le sue allieve un legame unico. I suoi romanzi, colmi di sfiducia e costruiti attorno a invisibili trappole, diventano  simboli di uno stato d’animo e di una quotidianità priva di ogni libertà. Il salotto diventa momento di scambio e di apertura, dove, senza l’atteggiamento composto e il chador imposto, tutte le allieve si aprono alla confidenza del loro difficile vivere sotto il regime islamico. La narrativa diventa così un veicolo forte e profondo per scoprire e riappropriarsi del loro io più nascosto.

Vediamoli insieme

Premessa:
In Iran, a causa della continua censura, non sono usciti film negli ultimi tempi.  La scelta del movie che proponiamo è però ricco di metafore con l’essere umano e con qualsiasi paese sotto regime dittatoriale.

Cecità – disponibile in formato DVD presso videoteche e negozi dedicati
un Film di Feando Meirelles (2008)
«Cecità» è un film ispirato all’omonimo romanzo di  José Saramago: un’allegorica riflessione sulla cecità dell’uomo verso gli altri esseri umani, sulla mancanza di solidarietà e sull’uso corrotto del potere. La pellicola racconta la storia di una città colpita da una folgorante epidemia di cecità che porterà i suoi abitanti a vedere tutto bianco. L’impossibilità di orientarsi determinerà uno sbando collettivo e lo scatenarsi dei più biechi istinti di sopravvivenza. Solo una donna non sarà colpita dal morbo e sarà la testimone oculare della fragilità umana. L’attrice Julienne Moore (nella foto) è la protagonista nel film.

Di Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Ci siamo mangiati il tonno

Il degrado delle acque

La maggioranza delle persone si ricorda che anche il mare e gli oceani meritano rispetto soltanto quando avviene qualche catastrofe: una petroliera che perde in acqua il proprio contenuto, gruppi di cetacei che si arenano su qualche spiaggia, alghe che infestano le località balneari. In realtà, l’uccisione dei mari è fatto quotidiano, prodotto da una pluralità di cause, tutte riconducibili all’uomo e alle sue attività.

Quante volte, facendo la spesa al supermercato, abbiamo distrattamente preso qualche scatoletta di tonno, oppure qualche trancio di verdesca o di spada, o dei gamberi, senza chiederci che cosa significhi fare questa scelta? Effettivamente l’offerta di pesce, sui banconi di un grande supermercato è così grande e diversificata, che diventa un gesto piuttosto naturale scegliere tra i vari tipi di pesce. Oltretutto, da più parti ci vengono ripetutamente sbandierate le qualità nutrizionali del pesce, peraltro vere: oltre ad essere una fonte eccellente di proteine animali, esso contiene le vitamine A e D, il magnesio, il fosforo, i sali minerali, gli acidi grassi omega-3 (essenziali per lo sviluppo del cervello nel feto e nel neonato). Purtroppo attualmente i grandi pesci predatori, cioè i caivori come gli squali, i tonni, i marlin, per citae alcuni, sono anche ricchi di diossine, di Pcb e di metalli pesanti, come il mercurio, a causa dell’inquinamento marino, come visto nel nostro articolo precedente (MC, gennaio 2010). Ma, oltre i rischi che la nostra salute può correre, consumando determinati tipi di pesce, è indispensabile conoscere anche quale impatto può avere  un certo tipo di pesca sull’ambiente e, conseguentemente, sulle popolazioni costiere, specialmente le più povere.
Secondo il rapporto dell’Onu sulla pesca di marzo 2009, attualmente il 77% delle risorse ittiche vanno considerate completamente esaurite o quasi. Le zone più sfruttate in assoluto sono l’Atlantico orientale ed il Mare del Nord. Si stima che, ogni anno, l’ammontare mondiale del pescato sia di circa 86 milioni di tonnellate e le specie a maggiore rischio di estinzione sono il cetorino, il merluzzo bianco, il nasello, il pesce specchio atlantico ed il tonno rosso. A queste specie di pesce, vanno aggiunte quelle di alcuni dei grandi mammiferi marini, come le balene grigie del Pacifico occidentale, i cui esemplari rimasti sarebbero solo più un centinaio (mentre quelle del Pacifico orientale avrebbero avuto un recupero numerico), o le balenottere azzurre dell’Antartide, che sono ormai solo l’1% della popolazione originaria.
Negli ultimi 30 anni, il mercato dei prodotti ittici e dell’acquacoltura ha registrato uno sviluppo esponenziale, legato essenzialmente alle modalità di vendita. In pratica, nelle grandi superfici commerciali, non solo c’è una grande offerta di pesce fresco, ma un’altrettanto grande varietà di prodotti trasformati, soprattutto i piatti pronti, per cui c’è un’esigenza costante di nuovi approvvigionamenti di pesce. Oltre a questo, una parte consistente del pescato (comprese le cai di balena e di delfino) viene utilizzata nella produzione dei mangimi (per gli allevamenti intensivi di bovini, di suini, di pollame), del cibo per animali domestici e come cibo per le specie pregiate di pesce allevate in acquacoltura, come il salmone. In quest’ultimo caso, la quantità di pesce necessaria per l’allevamento dei salmoni è veramente considerevole. In media servono 5 chilogrammi di pesce grasso, come aringhe e sardine, per produrre un chilogrammo di salmone. Questo comporta l’alterazione di interi ecosistemi – i delfini, le foche e le orche, che normalmente frequentano gli estuari dei  fiumi nella Columbia Britannica, in Canada o in Cile, ad esempio, sono sempre meno numerosi e denutriti e spesso vengono respinti dai dispositivi utilizzati, per proteggere i recinti degli allevamenti – e l’impoverimento di molte piccole comunità di pescatori, che non hanno altra fonte di reddito, oltre alla pesca. Il pesce d’allevamento rappresenta ormai il 30% delle proteine animali di origine ittica e l’industria dell’acquacoltura ha un fatturato di 30 miliardi di dollari all’anno, ma l’impatto che essa ha sull’ambiente è sconcertante. Basta pensare che, secondo la David Suzuki Foundation, un’organizzazione ambientalista di Vancouver, nella Columbia Britannica, l’acquacoltura praticata in questa provincia canadese scarica nell’oceano lo stesso quantitativo di rifiuti di una città di mezzo milione di abitanti.
In genere ogni allevamento di salmoni è costituito da 12-15 gabbie, cioè recinti di reti collocati in corrispondenza degli estuari dei fiumi, dove sono presenti forti correnti e può ospitare anche 200.000 pesci. Dai recinti fuoriescono grandi quantità di rifiuti ittici, di antibiotici somministrati per contrastare il rapido diffondersi di malattie tra gli animali, di microbi diventati resistenti agli antibiotici, di pesticidi e tutte queste sostanze si depositano sul fondo del mare, distruggendo varie forme di vita. Inoltre una parte considerevole di tali sostanze viene trasportata dalle correnti, va alla deriva e riesce ad insinuarsi nelle tane dei crostacei, contaminandole e diffondendo malattie in tutta la catena alimentare. Qualcuno si chiederà perché vengono usati i pesticidi negli allevamenti di salmone. Il motivo è la necessità di debellare i pidocchi di mare, che spesso infestano i salmoni.
Negli anni ’80 e ’90, si fece, a tale scopo, grande uso di Nuvan (noto anche come Aquagard), contenente il 50% di dichlorvos, un organofosfato messo al bando dalla Commissione Europea e considerato uno dei pesticidi più tossici, associato dai ricercatori all’insorgenza del cancro ai testicoli, proprio per il suo uso negli allevamenti di salmoni. Come spesso accade, i pidocchi di mare sono diventati resistenti al dichlorvos, per cui attualmente si utilizzano altre sostanze, come la cipermetrina, un veleno neurale cancerogeno, l’ivermectina, una neurotossina, il teflubenzurone, il benzornato di emamectina ed il verde malachite; si tratta di sostanze capaci di uccidere crostacei e molluschi nel raggio di alcune miglia, ma tossiche anche per altre specie di pesci, di uccelli e di mammiferi.
Una sostanza comunemente usata come disinfettante e conservante negli allevamenti ittici di tutto il mondo è la formalina, soluzione al 37% del gas formaldeide, noto cancerogeno per l’uomo. Come se tutto ciò non bastasse, ai salmoni d’allevamento (anche da allevamento biologico) viene somministrata una tintura, per conferire alle loro cai il tipico colore roseo degli esemplari allo stato brado, i quali lo acquisiscono, mangiando crostacei e gamberetti. Tale tintura è a base di carotenoidi sintetici, in particolare l’astaxantina e la cantaxantina (E161), controparti sintetiche delle versioni naturali, presenti nel krill (minuscoli crostacei simili a gamberetti), di cui si nutrono i salmoni liberi. Nel 2003, la Commissione Europea ha pubblicato un rapporto sul danno alla retina, provocato dalla cantaxantina sintetica, scientificamente provato e l’UE ha ridotto l’utilizzo consentito negli allevamenti di questa sostanza (usata anche negli allevamenti di pollame).
Un altro tipo di acquacoltura, che arreca danni gravissimi all’ambiente è quello dei gamberi, che comporta la distruzione delle foreste di mangrovie, situate in delicate zone di confine tra il mare e la terraferma. Le foreste di mangrovie ospitano grandi quantità di pesci e di crostacei e sono, nel contempo, l’habitat per svariate specie animali terrestri o arboricoli, come i giaguari e le scimmie. Da sempre, la sussistenza delle comunità locali dipende da queste foreste: basta pensare che le donne catturano pesci e molluschi, che vengono rivenduti al mercato e permettono di mantenere intere famiglie. La crescita rapida dell’industria dell’allevamento dei gamberi ha comportato la perdita, a livello mondiale,  del 38% delle foreste di mangrovie, secondo Greenpeace, e la scomparsa di molte delle tradizionali aree di pesca delle comunità locali. Sia in Asia, che in America Latina si sono verificate violente proteste delle popolazioni locali, che hanno tentato di opporsi all’introduzione dell’allevamento dei gamberi, ma talvolta tali proteste si sono concluse con l’uccisione di qualcuno degli insorti.
Oltre alla perdita delle foreste di mangrovie, il danno di questi allevamenti è dato anche dalle grandi quantità di mangimi artificiali, di antibiotici e di pesticidi, che vengono rilasciati nell’acqua. Inoltre, i siti di allevamento dei gamberi necessitano di un frequente ricambio, per cui i proprietari abbandonano spesso le zone di palude, ormai trasformate in vere e proprie discariche, per trasferire i loro allevamenti in altre zone costiere. La distruzione delle foreste di mangrovie è senz’altro una delle cause delle terribili conseguenze degli tsunami, poiché le onde non trovano più alcuna barriera naturale alla loro potenza distruttiva.
Enormi quantità di pescato sono necessarie anche per gli allevamenti dei tonni pinna azzurra o tonni rossi, che prendono sempre più piede nel Mediterraneo. Si calcola che servano 25 chilogrammi di pesce, per un chilogrammo di tonno. Questa attività è conosciuta anche come ranching dei tonni e consiste nella cattura e nel trasporto dei tonni in particolari siti, presso le coste del Mediterraneo, dove essi vengono chiusi in gabbia e messi all’ingrasso, per rifornire la clientela giapponese, che paga lautamente per ottenere pesce di elevata qualità per il sushi ed il sashimi. I rapidi profitti derivanti da questa attività hanno portato all’uso di navi da pesca sempre più grandi, che, con reti a circuizione, catturano interi banchi di tonni, per convogliarli nelle gabbie d’allevamento. Le navi, dotate di radar e di sonar, vengono assistite da elicotteri od aerei da ricognizione, che dall’alto avvistano i banchi. Sono inoltre stati costruiti nuovi aeroporti, per il trasporto del tonno. Dal 1997, l’Unione Europea eroga annualmente 34 milioni di dollari, come sussidio per quest’attività ed a questi fondi si aggiungono gli investimenti del Giappone e dell’Australia, che hanno incoraggiato le sempre più organizzate aziende ittiche.
Purtroppo la conseguenza di questa febbrile attività è stata la drastica riduzione del tonno rosso, che è diminuito del 74% nel Mediterraneo tra il 1957 ed il 2007, mentre nell’Atlantico è diminuito dell’83% tra il 1970 ed il 2007. Va detto che il tonno rosso del Mediterraneo non è quello, che troviamo nelle scatolette; in questo caso si tratta di tonno del Pacifico, una varietà meno rara. Attualmente, a livello internazionale, le quote di pesca del tonno rosso del Mediterraneo sono state diminuite del 30% dall’Iccat (Inteational Commission for the Conservation of Atlantic Tunas), ma il Principato di Monaco ha proposto di inserire questa specie tra quelle a rischio di estinzione, nell’elenco Cites (Convention On Inteational Trade In Endangered Species of wild flora and fauna), come auspicato anche dal Wwf. Purtroppo tale proposta, a settembre 2009, non è stata accolta dall’UE; hanno infatti votato contro di essa l’Italia, la Francia, la Spagna, la Grecia e Malta, cioè i Paesi, che più pescano tonno, mentre Cipro si è astenuta ed il Portogallo era favorevole. Oltre al respingimento di questa proposta, l’Iccat ha fatto anche una concessione quanto mai discutibile, cioè due anni di proroga al Marocco, per l’eliminazione delle reti derivanti, usate illegalmente per la cattura del pesce spada e responsabili della morte, ogni anno, di 4.000 delfini e di 25.000 squali nel Mediterraneo.
Tra le specie, che rischiano l’estinzione ci sono i grandi pesci predatori, come gli squali, i merluzzi, i pesci spada, il cui numero sta scendendo ad un ritmo vertiginoso, al punto che, secondo gli studiosi del settore, il 90% di tali pesci è già stato pescato. Considerando che il sovrasfruttamento delle risorse ittiche, a livello industriale, è cominciato solo negli anni ’50, mantenendo lo stesso livello dei prelievi di tutti questi anni, si arriverà ad un totale sovvertimento degli ecosistemi marini. Venendo a mancare i grandi predatori, inevitabilmente nei mari si avrebbe infatti un’eccessiva diffusione delle specie da loro controllate, tra cui, ad esempio, le meduse. L’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche ha già avuto le sue prime conseguenze: in Canada, le popolazioni di merluzzo si sono drasticamente ridotte di numero, per cui la pesca di questa specie è ferma dal 1992 e, conseguentemente, sono andati persi 40.000 posti di lavoro.
Un grosso problema correlato alla pesca intensiva è quello delle catture accidentali, che vanno sotto il nome di bycatch. Si tratta, in pratica della pesca non selettiva, per cui ogni anno, secondo Greenpeace, quasi 100 milioni di squali e di razze vengono catturati erroneamente, mentre circa 300.000 cetacei (balene, delfini, focene) rimangono accidentalmente intrappolati nelle reti. Questo fenomeno assume dimensioni preoccupanti nelle zone, in cui si pratica la pesca a strascico dei gamberetti dei fondali. Secondo la Fao, la pesca a strascico dei gamberi, da sola, è la maggiore fonte di scarti inutilizzati. Le reti a strascico sono tutt’altro che selettive e, al loro passaggio, catturano spesso esemplari giovani di svariate specie commerciali, nonché specie a rischio di estinzione, come le tartarughe marine. Secondo uno studio del Wwf, va sprecato il 40% del pescato al mondo, a causa delle catture accidentali, poiché tali catture sono considerate inutili ed il pesce viene rigettato in mare, il più delle volte morto. Al massimo, in certi casi, il pescato accidentale viene utilizzato come mangime per l’acquacoltura, ma il Wwf ha stimato uno spreco annuale di circa 38 milioni di tonnellate di pesce. Questo saccheggio sconsiderato del mare ha portato ad una riduzione di quasi il 90% di alcune riserve ittiche, con gravissime ripercussioni sull’economia di quelle popolazioni povere, che vivono solo di pesca locale. Oltre a questo la pesca industriale non selettiva distrugge la biodiversità marina, uccidendo esemplari di ogni genere.
Sempre più spesso gli Stati ed i governi dimostrano una totale insensibilità per questo tipo di problema e, come abbiamo visto sopra, concedono proroghe e permessi di pesca con mezzi assolutamente devastanti per l’ambiente, spronati dal miraggio dei guadagni facili. Dietro la pesca industriale ci sono infatti movimenti di milioni di dollari, specialmente quando si tratta di specie particolarmente ricercate, come il tonno rosso. Le flotte di pesca industriale contano ormai centinaia di pescherecci, molti dei quali dotati di reti a circuizione (per circondare interi banchi) o a strascico, o derivanti (spadare). Molti pescherecci pescano con i palamiti. Sempre più spesso i pescherecci sono vere e proprie navi, che raggiungono anche le 8.000 tonnellate, dotate di radar e di sonar, in grado di lavorare completamente il pescato a bordo, di surgelarlo e di trasportarlo per migliaia di chilometri. Quasi sempre le navi appartenenti alle grosse società di pesca prelevano più di quanto stabilito dalle norme inteazionali, con le quote di pesca. Nel Mediterraneo, ad esempio, la quota di tonno pescabile annualmente è di 32.000 tonnellate, ma si stima un prelievo totale tra le 50.000 e le 60.000 tonnellate, perché le ispezioni ed i controlli sono spesso irrisori.
Un gravissimo problema sia per le economie dei paesi in via di sviluppo, che per l’ambiente è rappresentato dalla pesca pirata, cioè la pesca illegale sempre più diffusa nei mari di tutto il mondo, una pesca senza regole, la cui unica mira è il maggior quantitativo possibile di pescato. Si tratta di un pericolo a livello mondiale, perché questo tipo di pesca causa gravi danni ambientali, contribuisce all’esaurimento degli stock ittici e fa concorrenza sleale ai pescatori rispettosi delle regole. In tal modo è messo in pericolo l’equilibrio economico delle comunità costiere, con tragiche ripercussioni nei paesi in via di sviluppo, dove può essere compromessa la stessa sicurezza alimentare. Basta pensare alle coste dell’Africa sub sahariana, i cui villaggi spesso dipendono dalla pesca. Si stima, ad esempio, che la Guinea, nell’Africa occidentale, perda annualmente 100 milioni di dollari, a causa della pesca pirata effettuata nelle sue acque territoriali. Molti di questi Paesi non hanno i mezzi sufficienti, per pattugliare il mare antistante alle loro coste, così i pescatori illegali ne approfittano per sovrasfruttare queste acque. Inoltre spesso le imbarcazioni, che pescano illegalmente, si servono come mano d’opera, di marinai e di pescatori dei Paesi in via di sviluppo, che vengono imbarcati e lavorano con paghe modestissime, in condizioni di vita e di lavoro, che talora rasentano la schiavitù.
A tal proposito, Greenpeace ha elaborato il documento «Freedom of the seas», dove sono illustrate le misure attuabili dai governi, sia singolarmente che con una cooperazione internazionale, per fermare sia la pesca pirata, che quella attuata con metodiche distruttive, come la pesca a strascico. Tra le misure adottabili sicuramente c’è quella del controllo capillare degli sbarchi, sia da parte dello Stato di bandiera, che dello Stato del porto, da cui le navi partono o dove arrivano. Secondo la normativa marittima, infatti, una nave è quasi considerata come parte del territorio dello Stato di bandiera, il che significa che le possibilità d’ispezione a bordo, da parte dello Stato di porto sono fortemente limitate ed i bracconieri conoscono perfettamente questo principio, quindi portano il loro carico lontano, in luoghi dove le autorità locali non possono o non vogliono controllare. Da qui essi riescono poi a fare entrare il loro pescato nel mercato legale.
Una soluzione al progressivo depauperamento dei mari è la istituzione di una rete di riserve marine, come è stato fatto in Nuova Zelanda; si tratta di zone dove è proibita ogni attività di pesca, ma anche di estrazione mineraria e di scarico di rifiuti. In queste zone sono inoltre bandite tutte le attività legate al turismo. Laddove esse sono presenti già da anni (la prima è stata creata a Goat Island Bay, Nuova Zelanda, nel 1977), si è assistito ad un consistente aumento delle colonie marine, della durata della vita dei pesci e ad un aumento della loro capacità riproduttiva.
è perciò sempre più indispensabile un consumo di pesce da parte nostra, che sia intelligente e rispettoso, per non arrecare danno agli altri ed all’ambiente e per fare questo è sufficiente limitare il numero di pasti a base di pesce e fare delle scelte oculate, seguendo ad esempio la guida «Sai che pesci pigliare?» stilata dal Wwf, che è consultabile in rete. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

C’è rete e rete

Reti da circuizione: si tratta di reti ideate per catturare banchi interi di pesci, i quali spesso vengono attratti da luci. Una volta catturato il banco di pesci, il fondo della rete si chiude, impedendone la fuga. Questo tipo di pesca può essere molto selettivo, ma anche molto dannoso, se utilizzato per i banchi di pesci giovani, poiché, in questo caso, intacca direttamente le riserve ittiche.
Reti a strascico: per la pesca sul fondo del Mediterraneo, i pescherecci usano reti a forma di sacco, con un’apertura larga 20 metri ed alta circa 2 metri. Tali reti sono tenute aperte da due divergenti, detti “tavoloni”, spinti di lato dalla pressione dell’acqua, da galleggianti posti superiormente all’imboccatura e da piombi posti inferiormente alla stessa. Il peschereccio traina la rete per parecchie ore, per un tratto di mare di 15 o più chilometri, irretendo e sconvolgendo tutto ciò, che si trova in quel fondale. In pratica, a causa dei pesi metallici trascinati sul fondale, questo viene quasi arato, con la cattura e l’uccisione di ogni forma di flora e di fauna presente. Per ripopolare i tratti di fondale, così devastati, possono essere necessari degli anni. La superficie interessata da una simile battuta di pesca può arrivare a 100.000 metri quadrati. In tal modo vengono catturati molti pesci giovani, col pericolo di impoverire le riserve ittiche. Per evitare questo problema, molti Paesi hanno fissato il limite di 20 millimetri, per le maglie delle reti, ma di fatto nessuno controlla.
Reti a strascico d’altura: si tratta di una variante più distruttiva dell’ambiente marino, rispetto alla precedente, perché questo tipo d’attrezzo consente ai pescherecci di pescare sia sul fondo, che a media profondità. L’ampiezza dell’imboccatura delle reti varia da 10 a 15 metri e le maglie sono molto più piccole (9-12 millimetri), quindi inferiori rispetto al limite legale. In genere, i pescherecci, che usano questo tipo di reti, hanno motori molto più potenti degli altri e riescono a catturare qualsiasi cosa si presenti sulla loro strada. Le reti a maglie piccole, trascinate a forte velocità, creano una sorta di barriera (anche perché in tal modo le maglie si rimpiccioliscono ulteriormente) e, di conseguenza, riescono a catturare anche pesci di piccole dimensioni, che altrimenti sarebbero sfuggiti.
Palamiti: si tratta di attrezzi costituiti da cime “madri” lunghe parecchi chilometri, a cui sono applicate migliaia di cime più corte, dotate di ami con esche, distanziate l’una dall’altra di qualche metro. Un sistema di galleggianti e di piombi permette a questo attrezzo di essere posizionato sulla superficie dell’acqua o alla profondità desiderata. I palamiti posizionati in superficie spesso catturano tartarughe (decine di migliaia, ogni anno) ed uccelli marini. Purtroppo spesso i palamiti vengono posizionati lungo le rotte migratorie delle tartarughe.
Reti derivanti: sono reti fisse, lunghe parecchi chilometri, posizionate singolarmente o a gruppi anche fino a 30 metri di profondità, oppure sospese in acqua, mediante galleggianti. La dimensione delle loro maglie varia a seconda delle specie cacciate, che di solito sono pesci spada, alalunga e tonni bonito. La pesca con queste reti è del tutto indiscriminata e spesso vi si impigliano delfini, balene, tartarughe e talvolta uccelli marini.
Tramaglio: tipo di rete fissa, alta circa 2,5 metri, usata nel Mediterraneo, costituita da un insieme di due reti a maglia larga (200 millimetri), entrambe tese, con in mezzo una rete più estesa e meno tirata, a maglie più piccole (30-40 millimetri), di modo che il pesce, nuotando in mezzo, vi resti intrappolato.

Di R. Topino e R. Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Madre Teresita non va in pensione

Legion d’Onore a una missionaria Figlia della carità

La Francia ha onorato con una delle più prestigiose onorificenze nazionali una missionaria francese ultra ottantenne, Madre Teresita, ancora attivissima sulle Ande ecuadoriane nella promozione integrale dei giovani indios quechua.

Ho letto una notizia che ha fatto davvero bene al mio cuore missionario. Soeur Marie Louise Duvignau, più nota in Ecuador come Madre Teresita, il primo gennaio 2010 è stata nominata dal presidente francese Nicolas Sarkozy, per la prestigiosa onorificenza della «Legion d’Onore». Madre Teresita appartiene alla Congregazione delle Figlie della Carità e lavora attivamente nella parrocchia di Flores, diocesi di Riobamba, Ecuador. Le ho scritto per farle sapere che in molti condividiamo la soddisfazione di vedere che il suo lavoro a favore degli ultimi e una vita spesa per gli altri sono pubblicamente riconosciuti. Mi ha risposto facendo notare che si è sentita a disagio per l’onorificenza: «Abbiamo sempre preferito la parte nascosta e umile perché la nostra luce deve far vedere e rintracciare chi è invisibile e abbandonato».
Alla fine di dicembre Madre Teresita ha compiuto 85 anni, sono un percorso ben definito riguardo all’età, ma incalcolabile in rapporto al suo impegno missionario. È stata anche in Egitto prima di arrivare in Ecuador sempre fedele all’ispirazione e carisma di San Vincenzo de Paoli, che i poveri li trattava da «signori», non perché fossero bravi, belli e buoni, ma perché in questo modo si faceva un investimento sicuro nell’amore di Dio. Oggi, in un angolo sperduto delle Ande, grazie a questa meravigliosa missionaria francese, esiste davvero un luogo dove gli indigeni sono tenuti in considerazione e amati come persone care, ma soprattutto sono aiutati ad essere capaci di dare e ricevere con disponibilità e sensibilità fuori del comune. Quando Madre Teresita faceva notare (e lo faceva spesso) che il progetto «Missione Flores» era frutto della Grazia Divina, si riferiva ai volontari, tutti giovani indigeni, che ancora adesso l’accompagnano e dirigono assieme il centro di formazione, e sono partecipi e seriamente responsabili della gestione pastorale nel territorio della Missione.
Questi collaboratori volontari mi hanno scritto delle testimonianze stupende: «è impressionante l’amore di Teresita per noi indigeni poiché nonostante l’età già avanzata, continua la sua presenza sollecita e generosa. È un regalo grandissimo. I giovani che frequentano il centro sono particolarmente ansiosi di imparare. Il centro è un luogo che li accoglie con molto amore, dove tutti sono benvenuti. Quest’anno (2009-2010) vogliamo impegnarci di più nella informatica, accettando la richiesta degli alunni. Allo stesso tempo avremo spagnolo, matematica, contabilità, inglese, tessitura di fasce, taglio e cucito, arti e mestieri, cucina, produzione agricola e piccoli allevamenti, musica, Bibbia e altre materie. Tutto serve per la vita».
Quando i missionari della Consolata arrivarono nel 1987, madre Teresita era già presente da alcuni anni e con una consorella aveva in affitto due stanze perché non c’erano ancora strutture. La diocesi di Riobamba era ben organizzata, le idee e gli obiettivi chiari. La base teorica, «el marco teorico», prevedeva di partire dalla comprensione della realtà per arrivare alla meta, il Regno di Dio; da qui erano stabiliti gli obiettivi generali e quelli specifici. La fede era accettare Gesù Cristo come premessa e fondazione per impegnarsi a lavorare a costruire la chiesa dai poveri e con i poveri, formando comunità con la coscienza di essere popolo di Dio e segno espressivo del regno. Assieme bisognava fare tutto il possibile per costruire una società nuova che fosse anticipazione del regno nella terra, mettendo al primo posto l’impegno di edificare la chiesa indigena. Gli obiettivi specifici diventavano la formazione, la moltiplicazione e consolidazione delle comunità cristiane di base e altri tipi di comunità cristiana. Tutto cominciava formando i responsabili della marcia di queste comunità: catechisti, missionari, futuri sacerdoti. La diocesi sembrava un laboratorio effervescente. Ma già nel 1987 mons. Leonidas Proaño (1910-1988), anima della diocesi, aveva già dato le dimissioni (1985), subito accettate.
Non ci volle molto a capire che chi aveva voce in capitolo non erano gli indios, ma gli agenti pastorali, francesi, colombiani, spagnoli, tedeschi, olandesi, preti, laici e suore. Gli indios erano i protetti, i beniamini, e anche loro dovevano esserci sempre, ma lasciar fare agli altri. Ogni tanto potevano anche dire la loro che, guarda caso, appoggiava gli agenti pastorali con attacchi e lamenti contro la chiesa gerarchica, il Fmi e il debito estero. Gli indios erano tutti battezzati e nelle comunità della campagna oltre la cappella c’era anche la casa comunale, la comunità cristiana e l’immancabile comitato locale. Avevano messo in piedi una certa convivenza o almeno una coabitazione con i vari interlocutori. Ma loro seguivano quello che avevano sempre fatto, il loro stile di vita collaudato nei secoli. Secondo la storia, tutti gli indios dell’Ecuador erano puruhà, minuscole tribù confederate e cornordinate in linee generali dai re di Quito. Poi arrivarono gli incas dal Perù a dominarli e all’arrivo degli spagnoli erano già stati assimilati nella cultura incaica. Gli spagnoli fecero il resto: unificarono la lingua e l’amministrazione e promossero a tutta forza la cristianizzazione.
Quando con Madre Teresita ci siamo messi a studiare il progetto missionario degli indigeni di Flores, ci siamo chiesti «cos’era rimasto dei puruhà? E degli incas? E degli spagnoli?». Lungo i secoli erano arrivati poi i libanesi, i cinesi, gli italiani, gli inglesi, i tedeschi. Ma nella diocesi di Riobamba gli indigeni reclamavano si ascoltasse il loro grido che rivendicava luoghi e spazi nella chiesa. Come dire che «se non ci danno spazio nella chiesa cattolica», saremo costretti a fae una noi totalmente indigena, nel pensiero e nella teologia, con riti propri e segni propri. Un bel sogno, ma impossibile da realizzare. Così con Madre Teresita ci siamo messi a lavorare partendo davvero dalla realtà che si trovava senza nostalgie indebite. La chiesa di Riobamba anche se composta per l’ 80% di indios e quasi indios, non aveva che una manata di essi nei suoi quadri direttivi. Allora si può inculturare la chiesa senza presenza indigena?
A Flores abbiamo iniziato modestamente, ma con decisione, a indigenizzare la parrocchia. Il primo impegno è stato pratico: cosa possiamo fare con una chiesa piena di cultura indigena e vuota di ministri, dirigenti e responsabili indigeni? Cooptammo allora indios nei quadri parrocchiali, certi che, una volta inseriti, avrebbero poi manifestato le loro idee e le esigenze più vere. Una delle prime esigenze fu quella di offrire una educazione complementare ai ragazzi e alle ragazze quechua che finivano la scuola primaria e rimanevano senza prospettive per il futuro.
Flores è un piccolo centro di 200 abitanti, ma la parrocchia ne conta 6.000 di cui il 60% sono protestanti evangelici. Subito ci siamo organizzati per migliorare la chiesetta e fare un centro di promozione educativa e formativa. Nel 1989 funzionava già e Madre Teresita diventò l’anima di tutte le attività volte a far sì che gli indigeni fossero avviati a diventare responsabili della propria vita e della organizzazione delle attività comunitarie.
Per il centro sono passati già diverse centinaia di giovani indigeni e tutti hanno ricevuto quello che noi chiamavamo «capacitasion» (rendere una persona capace di), ognuno secondo le proprie qualità. Ciascuno acquisiva delle capacità professionali e umane diverse, secondo i bisogni della famiglia e comunità. Madre Teresita animava una splendida collaborazione tra tutti senza divagare sulla gerarchia dei ruoli. Aveva capito il tessuto della impostazione culturale: ognuno al suo posto con responsabilità e funzione rispettata. Madre Teresita, come religiosa della Carità, si è sempre caratterizzata per la capacità di praticare una solidarietà con i poveri e gli ultimi non fine a se stessa, ma sempre orientata alla costruzione di una società nuova che completasse quella di partenza con più vita, più verità, più amore e più giustizia. Il tutto condito dalla virtù che lei ha praticato di più, la «tendresse» (tenerezza).
Grazie a Madre Teresita la «Missione» non è un altro episodio nella lunga lista di opere che hanno un principio, molti sacrifici e poi una rapida scomparsa. Non ho mai smesso di ringraziare perché Madre Teresita era riuscita a rendere il centro una casa sempre abitata. Ha lavorato molto per elevare, emancipare, far valere l’indio, come qualità imprescindibile dell’essere e dell’agire. E la cultura è stata animata perché davvero coltivasse la persona indigena e la magnificasse nel sapere e nel volere, nel conoscere e nel fare.
Teresita grazie, sempre. L’onorificenza la meriti tutta, anche perché già da tanti anni sei diventata un riferimento stabile, bello e felice per l’indio piccolo, per la comunità umile, per il giovane indio fermo in un presente senza memoria che valga la pena ricordare e privo di un futuro che meriti impegno, fatica e sacrificio. Hai dato loro incentivo per raggiungere una dignità che valga la spesa di essere salvata e degna di essere continuata, anche se sappiamo tutti che il processo è lento e lungo, se si vuole includere tutti quanti e non solamente alcuni più furbi e capaci. Que Dios te pague, cuyashca Hermanita. 

Di Giuseppe Ramponi

Giuseppe Ramponi




Risorgiamo dalla polvere

Fondazione Missioni Consolata Onlus

Inizia con questo numero una nuova rubrica: Cooperando…, spazio di riflessione, proposte  e progetti per pensare il mondo della cooperazione internazionale insieme a Missioni Consolata Onlus.

Il microcosmo delle baraccopoli

Peter posa distrattamente una mano su un mucchio di T-shirt impilate con cura sul suo banco del mercato. Ha sentito il fischio del treno in lontananza e sa che fra pochi secondi un convoglio ferroviario lambirà la sua merce passando sulle rotaie che attraversano Kibera, il più grande degli oltre duecento slum di Nairobi. Viene da sorridere pensando agli annunci nelle stazioni europee, dove voci meccaniche raccomandano ai viaggiatori di non oltrepassare la linea gialla di sicurezza ogni volta che un treno in transito scorre tra i binari. Peter compie quel gesto con estrema naturalezza, in modo quasi automatico: abita e lavora in una bidonville di trecentomila persone e ha imparato a convivere con la mobilità causata dai pochi lentissimi treni di passaggio, il fango della stagione delle piogge, i rivoli di liquami che scorrono negli scoli a cielo aperto, l’odore acre di pneumatici bruciati e il puzzo dei rifiuti urbani mai raccolti.
Secondo le stime di Un Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa degli insediamenti umani, un abitante del globo su sei vive in una baraccopoli, cioè in un agglomerato urbano spontaneo dove non sono garantite cinque condizioni essenziali: l’accesso all’acqua, i servizi igienici, lo spazio vitale sufficiente, la durata e qualità delle abitazioni e le garanzie giuridiche del possesso delle case. Sempre Un Habitat informa che attualmente metà della popolazione mondiale vive in città e questo, nel giro di un ventennio, aumenterà fino al sessanta per cento. Nei paesi in via di sviluppo, in particolare, questa crescita è decisamente sostenuta: ogni mese, cinque milioni di persone abbandonano le zone rurali e vanno a ingrossare le fila della popolazione urbana, inseguendo gli stessi sogni e speranze che portano migliaia di immigrati sulle coste italiane.
Al di là delle ovvie considerazioni sui drammi legati alla vita in uno slum, ciò che impressiona di questi quartieri è la presenza di dinamiche quotidiane del tutto simili a quelle vissute dalle persone appartenenti a contesti sociali più agiati. Ben oltre la soglia di degrado tollerabile per un cittadino occidentale si sviluppa infatti un «microcosmo», come lo ha definito padre Paolo, missionario comboniano attivo nello slum di Korogocho, «con le sue regole e la sua economia». In Kenya, un terzo degli abitanti degli slum è un finto povero che ha scelto di vivere in questi quartieri per evitare gli alti costi e doveri dei luoghi residenziali oppure per lucrare sulla disperazione altrui, affittando baracche di fango e lamiera a chi, invece, non ha scelta.
Non solo. La baraccopoli è ben lontana dall’essere un errore, un imprevisto storico e sociale; al contrario. «Gli slum sono vere e proprie riserve di manodopera giornaliera a buon mercato», commenta padre Franco, missionario della Consolata in Kenya. «E sono un ottimo centro smistamento di merci “sensibili”», gli fa eco dall’altra parte del mondo padre Jaime, missionario della Consolata a San Paolo del Brasile. «Dai quartieri ricchi, decine di automobili di lusso arrivano ogni sera a Héliopolis e nelle altre favelas pauliste per comprare marijuana, cocaina, sesso e qualunque cosa».
L’esistenza di realtà urbane degradate è certamente foriera di tensioni e violenza, dentro e fuori i confini tracciati dal marrone fulvo della ruggine delle lamiere. «Che ti aspetti?», chiede ironico Marco, consulente in psicologia sociale di Johannesburg. «Nelle metropoli del Sudafrica vedi ville immense con piscine da mille e una notte e, letteralmente girato l’angolo, trovi la township dove il piatto forte è la testa di capra arrosto. Ovvio che ogni tanto qualcuno compra un fucile e cerca di rubarti la macchina».
Viene spontaneo chiedersi perché questa marea umana non faccia valere la sua superiorità numerica e non si ribelli mettendo a ferro e fuoco le città e prendendo d’assalto le sedi del potere. «Non otterrebbero niente», spiega padre Franco, «se non una dura repressione da parte delle autorità. Si sentirebbero rispondere: “Ma chi vi ha chiesto di abbandonare le campagne e ammassarvi come bestie in città?”. No, non è questo che vogliono». Ciò che vogliono gli abitanti degli slum è piuttosto il riconoscimento graduale dei propri diritti, la riqualificazione delle aree dove vivono, il risanamento delle infrastrutture. Della quotidianità di una baraccopoli fanno parte anche i numerosi comitati di quartiere e associazioni che, anche con la collaborazione di istituzioni inteazionali, Ong e missionari, lottano ogni giorno per avere case di mattoni, scuole adeguate, allacciamenti idrici ed elettrici, strutture sanitarie.

Missioni Consolata Onlus
nelle periferie urbane
L’impegno nelle periferie urbane è uno degli ambiti prioritari del lavoro di evangelizzazione che i missionari della Consolata portano avanti attraverso la loro presenza decennale, in alcuni paesi anche centenaria, in Africa e America Latina. Sono stati perciò testimoni diretti dell’esodo dalle aree rurali o dalle zone di guerra da cui hanno avuto origine gli insediamenti urbani spontanei e la loro degenerazione in baraccopoli e, nel corso del tempo, hanno cercato di rispondere alle nuove emergenze.
Missioni Consolata Onlus (Mco) nasce proprio per valorizzare questa esperienza e accompagnare il lavoro di promozione umana attraverso lo strumento del progetto. Nella maggioranza dei casi, i progetti di Mco nelle periferie urbane, ideati e gestiti in stretta collaborazione con le comunità locali, intervengono sugli ambiti sanitario e scolastico e mirano a fornire a tutti l’accesso alle cure mediche, ai servizi igienici, a un’istruzione di qualità, senza dimenticare la formazione dei leader e il microcredito.
Tra le esperienze più significative promosse attraverso la campagna quaresimale «Risorgiamo dalla polvere» occorre ricordare il Kenya. Nella periferia di Nairobi, i missionari della Consolata operano negli slums di Kahawa West, Deep Sea, Suswa e Masaai con progetti relativi a istruzione, sanità e sanificazione. A Kahawa West è in corso la costruzione di un asilo mentre continua la collaborazione con Un Habitat e altre agenzie per la costruzione e manutenzione dei servizi igienici. A Deep Sea, Suswa e Masaai sono operativi un centro di artigianato e sartoria con annessa produzione, un dispensario e una scuola matea ed elementare, quest’ultima gestita in collaborazione con l’associazione italiana Afrikasì.
Altra realtà importante è quella della periferia di Boa Vista, capitale dello stato brasiliano di Roraima, dove i missionari della Consolata hanno avviato progetti sanitari e di microcredito per la popolazione indigena emigrata in città e i lavoratori urbani.
Nella periferia di Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, si sta procedendo all’ampliamento di due strutture scolastiche ed è in programma l’apertura di un centro nutrizionale per far fronte agli alti tassi di malnutrizione rilevati tra i bambini del quartiere di Saint Hilaire.
In Mozambico, nei sobborghi della capitale Maputo, si fornisce appoggio didattico agli studenti universitari attraverso il programma di borse di studio, affiancato dai servizi offerti dal centro culturale e dalla biblioteca.
Infine, i missionari della Consolata sono presenti anche nelle periferie urbane di Caracolí (Colombia), Guayaquil (Ecuador) e Caracas (Venezuela), dove svolgono attività formative e gestiscono centri d’aggregazione.
Il dettaglio dei progetti di Missioni Consolata Onlus è disponibile su sito web all’indirizzo www.missioniconsolataonlus.it, dove è possibile consultare il dossier «Periferie urbane» e visitare la pagina della campagna «Risorgiamo dalla polvere».

Chiara Giovetti e Antonio Rovelli

Chiara Giovetti e Antonio Rovelli




L’esempio brasiliano

Immigrazione illegale in Italia e in Brasile

Il Brasile è un paese che si è costruito sull’immigrazione e ancora oggi
ha larghe fette di immigrati, essendo uno dei giganti economici emergenti.
Anche là non tutti gli immigrati sono legali, solo che il problema è affrontato
in modo diverso che da noi. Forse abbiamo qualcosa da imparare.

Globalizzazione: basta la parola per avere una fotografia di quello che da un paio di decenni è il modello economico dominante: un flusso costante e interconnesso di merci che si muovono a ritmi vertiginosi da un luogo all’altro. Libertà ampia e senza restrizioni ai beni di consumo. I pomodori turchi in Francia, il gazpacho spagnolo in Giappone, le scarpe italiane negli Stati Uniti, le chincaglierie cinesi sparse per tutto il pianeta, e così via. Tutto si muove, e tutto – in questo incessante muoversi – produce ricchezza o povertà a seconda del punto di vista da cui si osservi il transito. E gli esseri umani? Quelli se ne devono stare a casa loro. E quando cercano di uscire con quella forza che solo la disperazione dà, è la frontiera di qualche lontano Paese in cui vanno a cercare di sfuggire alla miseria che provvede a rispedirli al mittente.
Ma quell’umanità che ha ereditato i peggiori scompensi prodotti dal capitalismo selvaggio, con la sua inarrestabile corsa per la sopravvivenza impone agli altri Paesi di confrontarsi anche con il problema della globalizzazione umana. L’immigrazione contemporanea mette in crisi il ruolo prioritario conferito finora alle merci e riporta al centro della discussione l’uomo, infiammando le società con complessi dibattiti su questioni di carattere etico e politico. Da una parte le nazioni appartenenti al cosiddetto «blocco dei paesi del primo mondo», che si irrigidiscono di fronte al timore delle trasformazioni che stanno avvenendo all’interno delle loro culture, custodite orgogliosamente da centinaia di anni come simboli statici di un periodo aureo di dominazione del mondo. Dall’altra, i paesi emergenti, nati essi stessi da fenomeni migratori, che difendono la necessità di organizzare i flussi mondiali partendo dall’adozione di politiche umanitarie, sì, ma anche pragmatiche e a lungo termine.
Una democrazia in crisi
Nel primo gruppo figura l’Italia dell’era Berlusconi, che di fronte al problema dell’immigrazione ha rivelato un profondo deterioramento del proprio sistema di garanzie democratiche. I numerosi elementi negativi presenti nella politica portata avanti dal Goveo Italiano in quest’ultimo anno sono ormai noti: l’introduzione del crimine di immigrazione clandestina, la subordinazione della concessione del Permesso di Soggiorno al contratto di lavoro dipendente, la persecuzione dei locatori e dei datori di lavoro di immigrati irregolari, il ruolo ambiguo e inquietante delle ronde, il tentativo di segregazione scolastica degli stranieri, l’invito a denunciare gli irregolari che richiedano prestazioni nelle strutture sanitarie, l’aumento della burocrazia per la regolarizzazione di uno straniero, il patealismo nazionalistico di uno stato che offre la Carta di Soggiorno permanente in cambio del dominio della lingua italiana e dell’assimilazione automatica della cultura nazionale o, peggio ancora, regionale. Chiaramente la lista non finisce qui. Le norme sono innumerevoli e trasmesse alle questure ad un ritmo tale da non permettere alla macchina burocratica di metterle in pratica.
Una valanga di leggi che fanno a pugni con un’identica montagna di statistiche presentate dai centri di ricerca più accreditati del Paese – Banca d’Italia, Istat, Caritas/Migrantes, Fondazione Leone Moressa – che rivelano che la nuova Italia è affetta da una miopia politica che la fa remare contro i propri stessi interessi economici. Quasi senza eccezioni, gli studi sui fenomeni migratori finora realizzati concordano infatti su un punto: i flussi non si fermeranno almeno per i prossimi cinquant’anni e ridisegneranno completamente il profilo socio-economico-culturale della penisola.
Umanizzare le politiche
di immigrazione
Nel clou della polemica sulla riforma della legge sull’immigrazione, che in Italia ha trasformato in un istante un milione di irregolari in criminali a tutti gli effetti, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva si è presentato alla riunione del G8 dell’Aquila annunciando di voler dare una grande lezione di immigrazione ai Paesi più sviluppati. Lula si riferiva alla legge 11961 di amnistia dei clandestini in Brasile, promulgata il 2 luglio del 2009, che ha permesso la regolarizzazione di cinquantamila stranieri provenienti da altri Paesi latini. L’iniziativa del governo, in realtà, non è stata altro che la ripresa di una disposizione del ‘98, in occasione della quale trentanovemila immigrati furono amnistiati nel Paese.
La differenza fra la politica brasiliana e quella italiana, ovviamente non riguarda solo i numeri. Il Brasile – oggi con poco più di 870 mila immigrati regolari – è passato dal suo ruolo di tradizionale ricettore di stranieri – quando fra il 1820 ed il 1940 giunse a ricevere circa cinque milioni di persone – a quello di paese emissore di migranti, verso la fine degli anni ‘80.
Solo negli ultimi anni è ritornato ad attrarre l’interesse dei Paesi limitrofi, ed in particolare dei boliviani. Le stime prima della regolarizzazione dello scorso luglio, indicavano che sessantamila si erano attestati clandestinamente a São Paulo e diecimila nello stato del Mato Grosso.
«L’immigrazione deve essere trattata come un’emergenza umanitaria e non la si può confondere con la criminalità», ha affermato Lula al G8, confrontando i provvedimenti messi in atto dal Brasile con quelli che stavano per essere adottati in Europa. Ma non è tutto. Secondo Lula, la regolarizzazione è stata il primo passo di un progetto di più ampio respiro che punta alla creazione di una nuova Legge dello Straniero, e che ha come obiettivo riumanizzare l’immigrazione in Brasile.
Uno strumento per evitare che gli immigrati, in condizioni di estrema fragilità finanziaria, siano oggetto dello sfruttamento e del traffico umano praticato dalle gang di narcotrafficanti, che insieme ad altre organizzazioni criminali operano nelle zone di frontiera.
La legge 11961 ha dato ai clandestini che vivono in Brasile la possibilità di ottenere la residenza provvisoria per due anni, che al momento della scadenza potrà essere trasformata in permanente. Vengono garantiti ai beneficiari della legge gli stessi diritti e doveri dei brasiliani, ad eccezione di quei privilegi di cui si gode per nascita, come la possibilità di candidarsi a cariche elettorali.
Mettendo a confronto la politica del Brasile con la regolarizzazione effettuata dall’Italia nel settembre del 2009 per colf e badanti o con lo stesso decreto flussi, appare chiaro che le complesse pratiche burocratiche italiane hanno una precisa finalità: creare condizioni tali da non permettere agli immigrati di legalizzarsi.
Sette mesi prima della promulgazione della legge di amnistia, in vista del progetto di integrazione dei Paesi dell’America del Sud, il governo Lula ha siglato un accordo bilaterale con l’Argentina, permettendo la concessione del visto permanente a turisti e cittadini argentini muniti di visto provvisorio. Un visto che – come si sostiene a Brasilia – oltre a permettere al viaggiatore di vivere esattamente come un cittadino del Paese che lo ospita, gli offre al tempo stesso la possibilità di decidere se stabilirvisi definitivamente.
Questa preoccupazione, presente anche nella legge di amnistia, dimostra che la politica migratoria del Brasile, offrendo le condizioni di base per l’inserimento legale dell’immigrato nel mercato del lavoro, anticipa in un certo senso il processo di integrazione.
Nulla di tutto questo si avverte per ora nelle scelte dell’Italia, nonostante l’allarme mano d’opera che rischia di compromettere seriamente il potenziale produttivo del Paese a causa dell’invecchiamento della popolazione, del basso indice di natalità e del rifiuto da parte dei giovani italiani di svolgere lavori meno remunerativi o qualificati.

Di Célia Takada

Célia Takada




Lhasa, nella morsa di Pechino

Tibet: viaggio attraverso il «paese reale»

È stata una teocrazia cruenta ed elitaria. Dopo l’invasione della Cina (1950),
la situazione non è migliorata. Il Tibet è diventato una regione – formalmente autonoma – su cui Pechino agisce con pugno inflessibile. I monasteri sopravvissuti alla chiusura sono strettamente controllati. I tibetani sono rinchiusi in carcere per ogni azione che contrasti con i voleri di Pechino. Gli stranieri possono accedere alla regione soltanto con mille limitazioni, mentre il Dalai Lama viene descritto come un nemico pubblico, da isolare e demonizzare. Il racconto di un viaggiatore occidentale entrato in Tibet clandestinamente.

Jamyang Gyatso, nome legale Lhundrup Kalsang, 29 anni, originario di Gyantse, monaco del monastero di Gyaltse Palkhor. Fu incarcerato nel dicembre del 1996 e condannato a cinque anni per aver distribuito copie di una preghiera di lunga vita composta dal Dalai Lama per il Panchen Lama (seconda figura per importanza del buddismo tibetano).
Lobsang Dawa, 28 anni, originario di Phenpo Lhundrup era monaco a Ganden. Fu arrestato il 7 maggio 1996 per «attività politiche» e condannato a 12 anni. Sey Khedup, 27 anni, era monaco a Sog Tsendhen. Fu incarcerato il 19 marzo 2000 per aver affisso ad un muro del Barkhor dei manifesti pro-indipendenza. Fu condannato nel dicembre dello stesso anno all’ergastolo. Lobsang Nyima, 30 anni, originario di Pashoe, era monaco nel monastero di Pomda. Fu incarcerato nell’agosto del 1997 e condannato a cinque anni per non aver partecipato ad un «lavoro di squadra» all’interno del convento.
Thinlay Choenden Samdup, 34 anni, originario di Phenpo Lhundrup. Era monaco nel monastero di Drepung quando fu incarcerato il 25 aprile del 1998. Fu condannato a quattro anni per aver distribuito volantini inneggianti all’indipendenza a Lhasa. Fu tenuto in carcere 18 mesi prima di ricevere una formale accusa. Migmar, 37 anni, originaria di Lhasa, impiegata nel settore delle telecomunicazioni. Fu arrestata nel gennaio 2001 e condannata a sei anni per aver guardato un video del Dalai Lama. Phuntsok Wangdu, 32 anni, di Lhasa, monaco a Ganden. Fu incarcerato il 7 marzo 1997 per non meglio chiarite attività politiche. Condannato a 14 anni.
Sono solo alcuni del «migliaio» di prigionieri politici detenuti nella prigione di Drapchi nel maggio del 2001.

Prima dei cinesi

Così vivono i tibetani in Tibet. Costantemente sotto controllo. Osservati e incarcerati per i più disparati motivi. Distribuire copie di una preghiera per il Dalai Lama equivale a «mettere in pericolo la sicurezza nazionale». Riunirsi in più di sei persone può significare «attività politiche» e garantire una dozzina di anni di carcere. Guardare un video del Dalai Lama ne garantisce sei. Possedere una bandiera tibetana, sette.
Però in fondo le cose per i tibetani non andavano molto meglio prima dell’invasione cinese. La teocrazia presieduta dal Dalai Lama, nonostante si ispirasse alla filosofia buddista, contraria all’uccisione e ai maltrattamenti, non si comportava secondo tali precetti. Le pene corporali anche cruente erano all’ordine del giorno. Henrich Harrer, che in Tibet passò sette anni tra il 1943 e il 1950, racconta di un uomo che aveva rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyriong: «Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo mutilato ma ancora vivo, fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare fu gettato in un precipizio». Altre volte veniva praticata la fustigazione pubblica, che spesso portava alla morte in seguito a dolori lancinanti.
Altri reati erano puniti con la gogna, con lo sfregio o con il carcere a vita. La punizione per l’adulterio era il taglio del naso.
Non migliore era la situazione economica. Fino al 1959, la maggior parte della terra arabile era ancora organizzata attorno a proprietà feudali religiose o secolari lavorate da servi della gleba. Il monastero di Drepung, ad esempio, che era il monastero più grande del mondo, possedeva una delle più estese proprietà terriere del globo, con 185 feudi, 25.000 servi della gleba, 300 grandi pascoli e 16.000 guardiani di gregge. La ricchezza dei monasteri andava ai Lama di più alto rango, che spesso erano nominati Lama per ingraziarsi le famiglie aristocratiche, mentre invece la maggior parte del clero più basso era povero come la classe contadina dalla quale discendeva.
Secondo la giornalista Anna Louise Strong, che viaggiò nel Tibet nel 1959, nel 1953 la maggioranza della popolazione rurale, circa 700.000 persone su una popolazione totale di circa 1.250.000 abitanti, era composta da servi della gleba. Vincolati alla terra, veniva loro assegnata soltanto una piccola parcella fondiaria per poter coltivare il cibo necessario al loro sostentamento. Per loro non c’era accesso alle cure mediche né all’istruzione e trascorrevano la maggior parte del tempo lavorando per i monasteri, per i Lama di alto rango e per un’aristocrazia secolare, laica, che non contava più di duecento famiglie. Sostanzialmente, non erano altro che proprietà dei loro signori, che gli comandavano quali prodotti della terra coltivare e quali animali allevare.

Il lungo viaggio

Certo, se oggi il Tibet dovesse tornare libero la situazione non sarebbe quella di cinquanta anni fa. L’attuale Dalai Lama si considera mezzo buddista e mezzo marxista e, grazie anche all’esilio e alla conoscenza del mondo esterno che questo ha portato, ha più volte condannato molte delle pratiche medioevali del Tibet pre – cinese.
Nonostante ciò Pechino non ha mai voluto negoziare con il Dalai Lama. A prova del fatto che gli interessi cinesi in Tibet sono di carattere geopolitico ed economico e non ideologico. Ma la scintilla che, costantemente, infiamma i tibetani contro i loro invasori è invece di carattere strettamente ideologico. Ed è per questo che il controllo esercitato dalle autorità di Pechino sugli abitanti dell’altipiano raggiunge livelli paranoici. Alcune persone sono state incarcerate per aver recitato delle preghiere che contenevano le parole «Dalai Lama», altri per aver cercato tali parole su google.
Per evitare che il mondo si accorga di tutto questo, da quando hanno invaso il Tibet le autorità di Pechino hanno sempre vietato a tutti di visitare il tetto del mondo in completa autonomia. L’unico modo oggi possibile per andare in Tibet è con un viaggio organizzato da un tour operator cinese.
Ma io avevo una promessa da mantenere. Nell’aprile del 2007 conobbi Palden Gyatso. Monaco tibetano che aveva passato 33 anni nelle carceri cinesi per non aver denunciato il Dalai Lama e la sua «cricca reazionaria».
Dopo una lunga chiacchierata Palden mi disse: «Io non posso più tornare in Tibet. Vai tu e raccontami come è il paese delle nevi». Due mesi dopo ero sull’altipiano, ma non con un tour operator cinese. Palden mi aveva chiesto di raccontargli il Tibet, e non quello che i cinesi vogliono farti apparire come tale. Passai la frontiera nascosto in un camion insieme ad un pellegrino nepalese che tentava di raggiungere il monte Kailash, la montagna sacra ai buddisti, ai giainisti, ai bön e agli induisti.
Alle pendici del monte Kailash scesi dal camion, e da lì mi incamminai a piedi fino a Lhasa, passando dal monte Everest e dal villaggio natale del mio amico Palden. Percorsi più di 1.500 chilometri a piedi. Ottocento di questi in compagnia di un pellegrino che tornava a casa dopo aver percorso 108 circuiti sacri del monte Kailash. Sono pochi gli occidentali che hanno avuto la fortuna, e la sfortuna, di entrare in Tibet. Ed è anche grazie a questo che la Cina può contare su una costante disinformazione su ciò che vi accade.
Oggi chi parla di Tibet lo fa da Nuova Delhi o da Dharamsala, alcuni addirittura da Pechino. Solo pochi lo fanno da Lhasa. Ma, purtroppo, Lhasa ormai non è più Tibet. Il vero Tibet, quello dei pastori nomadi e dei monaci che resistono, non lo conosce quasi nessuno, e quindi nessuno ne parla. E le autorità di Pechino approfittano molto di questo.
Stando alle agenzie di stampa cinesi la repressione in Tibet è terminata da anni e il paese è una provincia cinese «perfettamente integrata». Potrebbe essere così per quanto riguarda Lhasa. Ma di sicuro non è così nell’altipiano.
Gli arresti indiscriminati continuano. Molti monasteri sono chiusi, altri sono aperti ma i monaci vi possono accedere solo in numero controllato. Ogni monastero può ricevere un numero di monaci massimo che non superi il 10% della sua capienza.
I monaci sono obbligati ad eseguire sedute di rieducazione e «lavori collettivi» con scadenze settimanali. Chi non partecipa finisce dritto dritto in carcere a subire torture di ogni tipo.
La ferocia della repressione è brutale, e lo è per un preciso motivo. I tibetani non mollano la presa. Nelle ultime manifestazioni di indipendenza, quelle del 2008, hanno partecipato persone che sono nate da genitori nati in un Tibet già occupato. Giovani «nati in seno al partito» come dicono in Cina.
E se le autorità di Pechino vietano l’ingresso a tutti lo fanno sì per nascondere le brutalità che stanno commettendo, ma soprattutto per evitare che il mondo si renda conto che il Tibet non è una provincia cinese. Nonostante le repressioni e le vessazioni, nonostante il tentativo sistematico di annullare la cultura tibetana questa è ogni giorno più viva.

Le hanno provate tutte

Fin dal 1950 i governanti di Pechino hanno speso le loro energie migliori per sottomettere il popolo tibetano. Prima l’invasione militare, poi la repressione religiosa, la Rivoluzione Culturale e infine l’immigrazione forzata han. Ma l’occupazione del Tibet si ferma lungo le due strade principali e nelle periferie delle città. I centri storici arroccati intorno ai monasteri, i piccoli villaggi delle verdi vallate, i laghi turchesi, le vette delle montagne, le interminabili lande popolate dai nomadi sono ancora Tibet.
Qui conobbi Lobsang, un ragazzo tibetano che ha studiato a Dharamsala grazie ad una borsa di studio. Una volta rientrato in patria si è trovato costretto a fare, da laureato, il cuoco per un’agenzia di viaggio nepalese, perché chi ha studiato dal Dalai Lama è considerato un reazionario. Lobsang ha un’idea molto chiara delle relazioni Cina – Tibet. Un giorno mi disse: «I cinesi hanno il terrore dei tibetani. Loro, sono oltre 1,3 miliardi di persone, hanno la bomba atomica, uno degli eserciti più potenti del mondo, temono un paese con sei milioni di abitanti malnutriti, senza esercito e senza aiuti da nessuno».
Ed è forse anche questo concetto che i cinesi vogliono nascondere in Tibet. In Cina parlare di Tibet è tabù.  La pena di morte, lo sfruttamento dei lavoratori, la giustizia sommaria sono tutti argomenti scottanti ma per i cinesi l’argomento più delicato di tutti è proprio il Tibet.
È sorprendente come l’economia più forte del mondo possa essere messa in crisi da un gruppo di pastori nomadi, analfabeti e malnutriti. Ma la risposta è semplice. Allo stato attuale il Tibet rappresenta la più grande sconfitta della Repubblica Popolare Cinese, sia sul piano politico – militare che sul piano delle relazioni inteazionali. Le pressioni dei gruppi filo – tibetani all’estero, il continuo peregrinare del Dalai Lama e le interrogazioni all’Onu sono una fonte di imbarazzo per un paese che si propone come un nuovo leader mondiale, non solo nel campo economico. E i motivi delle incarcerazioni e delle condanne lasciano trapelare quello che sostiene Lobsang. I cinesi hanno paura. Paura che l’immagine di una superpotenza forte, compatta e inarrestabile venga messa in dubbio da un pugno di monaci e qualche pastore nomade. Come mi disse Lobsang: «Mi sembra la storia dell’elefante e il topolino che raccontano in India». 

Di Flaviano Bianchini

CRONOLOGIA

IL TIBET FINO ALLA «GUERRA DELL’OPPIO»

Paleolitico superiore (50.000 anni fa) – Primi insediamenti umani in Tibet.
VII secolo dopo Cristo – Sotto la guida dell’Imperatore Songtsen Gampo il Tibet conquista parte della Cina e dell’India. L’abile Songtsen Gampo sposa una donna cinese e una nepalese per proteggere i confini dell’Impero.
770 – Inizia la diffusione del buddismo sull’altipiano tibetano.
823 – Dopo decenni di lotte un trattato di pace con la Cina sigla che «Il Tibet e la Cina devono fermarsi alle frontiere che stanno occupando ora. Tutto ciò che sta a est è terra della Grande Cina, tutto ciò che sta a ovest è, senza alcun dubbio, territorio del Grande Tibet. D’ora in poi da nessuna delle due parti deve provenire minaccia di guerra o di confisca di territori» ancora oggi inciso sul portone del Jokang a Lhasa.
1240 – I mongoli di Gengis Khan conquistano il Tibet praticamente senza colpo ferire.
1271 – 1368 – Kubulai Khan imperatore della Cina. Inizia la dinastia degli Yuan.
1407 – I mongoli vengono espulsi dal Tibet. Inizia l’espansione del buddismo sull’altipiano. In questi anni sorgono tutti i grandi monasteri del Tibet.
1578 – Altan Khan, imperatore della Mongolia, proclama Seunam Gyamtso Dalai Lama (letteralmente Oceano di Saggezza), inizia il dominio dei Dalai Lama sul Tibet.
1642 – Il quinto Dalai Lama instaura regolari rapporti diplomatici con la Cina.
1696 – 1700 – Muore il quinto Dalai Lama. Truppe cinesi invadono e saccheggiano il Tibet. Il sesto Dalai Lama è costretto all’esilio in Mongolia.
1793 – Trattato dei venti punti. Il Tibet è de facto un protettorato cinese.
1839 – Guerra dell’oppio in Cina. Il Tibet riacquista indipendenza.

LA PERDITA DELL’INDIPENDENZA

1902 – 1904 – Truppe inglesi entrano in Tibet. Sbaragliano completamente l’esercito tibetano (gli inglesi conteranno tre morti, i tibetani quasi tremila) e arrivano a Lhasa. Il XIII Dalai Lama fugge in Mongolia. Il Tibet entra nella sfera d’influenza britannica.
1906 – Trattati sino – inglesi ridanno alla Cina una certa influenza sul Tibet.
1912 – Proclamazione della Repubblica cinese a Lhasa. Rivolta dei monasteri. Il Dalai Lama fugge in India.
1913 – Cacciata dei cinesi. Il XIII Dalai Lama torna in patria e il Tibet dichiara l’indipendenza dalla Cina.
1914 – 1933 – Il XIII Dalai Lama tenta di modeizzare il Tibet. Invia delegazioni all’estero, visita Pechino e riceve delegazioni russe e inglesi. Tenta anche di modeizzare l’esercito ma si scontra continuamente con il clero conservatore.
1934 – Dopo la morte del Dalai Lama il Tibet è scosso da continue lotte intee per la successione. I monaci e gli aristocratici governano il Tibet a tutti i livelli, sono consentite schiavitù e servitù della gleba, la terra è tutta proprietà di monasteri e latifondisti. Nel frattempo in Cina l’esercito di liberazione popolare guidato dal giovane Mao Zedong inizia una lunga guerriglia contro le truppe nazionaliste di Chang Kay Shek e contro i vari signori della guerra presenti in Cina.
1939 – 1945 – Seconda Guerra Mondiale. Il Tibet si dichiara neutrale.
1947 – L’India diventa indipendente.
1949, primo ottobre – Nasce la Repubblica Popolare Cinese. Mao Zedong ne è il leader indiscusso.
1950 – «Volontari» cinesi partecipano alla guerra in Corea. Viene annunciata l’imminente «liberazione» del Tibet.
1950 – 1951 – Truppe cinesi invadono il Tibet. Accordo in 17 punti per la «liberazione pacifica del Tibet». Nasce l’Anvd, l’esercito guerrigliero tibetano.
1954 – Prima riforma agraria. In tutta la Cina (Tibet compreso) la terra viene confiscata ai latifondisti e distribuita ai contadini.
1954 – 1974 – «Guerra dei vent’anni». Ribelli Kham si fronteggiano alle truppe cinesi. La Cia (servizi segreti Usa) li appoggia.
1958 – «Grande balzo in avanti»:  vengono collettivizzate le terre. I contadini che prima lavoravano per un monastero ora lavorano per una comune. Viene obbligato tutto il Tibet a coltivare riso anziché orzo, ma a quelle quote i raccolti sono miseri.
1959 – Rivolta di Lhasa. In occasione del capodanno tibetano decine di migliaia di tibetani si ribellano all’occupazione cinese. L’esercito apre il fuoco sulla folla. Circa 80.000 morti in tre giorni. Il Dalai Lama denuncia l’accordo in 17 punti e fugge in India. Secondo l’Inteational commission of jurists (Icj), commissione sotto l’egida dell’Onu, la Cina è responsabile di genocidio. Iniziano le repressioni religiose.
1960 – 1963 – Prima tensione e poi rottura tra Mosca e Pechino. L’Unione Sovietica richiede indietro i prestiti in grano. Grave carestia in tutta la Cina. In Tibet si parla del 10 -15% della popolazione morta di fame.
1966 – «Rivoluzione culturale proletaria». Le Guardie rosse distruggono tutti i luoghi di culto del Tibet.
1972 – Incontro tra Nixon e Mao. Le speranze di un aiuto statunitense alla causa tibetana si infrangono.
1976 – Morte di Mao Zedong, fine della Rivoluzione culturale. Dopo dieci anni sono rimasti in piedi solo otto monasteri con un migliaio di monaci. Nel 1959 i monasteri erano oltre 6.000 e i monaci più di 100.000.
1977 – Deng Xiaoping promuove l’immigrazione forzata in Tibet. In venti anni oltre otto milioni di cinesi han si spostano in Tibet. I tibetani diventano una minoranza.
1987 – Rivolte in Tibet represse nel sangue.
1989 – Manifestazione di piazza Tien Anmen. Caduta del muro di Berlino. Premio Nobel per la Pace assegnato al Dalai Lama. Grande rivolta in tutto il Tibet. Hu Jintao, allora governatore del Tibet, impone la legge marziale e reprime la rivolta nel sangue. Il Parlamento europeo lo condanna. Deng Ziao Ping si congratula con lui attraverso un famoso telegramma.
1991 – Anno internazionale per il Tibet.
1995 – Rapimento e sparizione dell’VIII Panchen Lama (seconda figura per importanza del buddismo tibetano).
1997 – Morte di Deng Xiaoping.

IL TIBET OGGI

Anni 2000 – La Cina diventa una superpotenza economica. Per molti paesi rappresenta il primo partner economico e il Dalai Lama inizia a vedersi rifiutare da diversi governi.
2007 – Il Dalai Lama in visita in Italia non viene ricevuto né dal Papa né dai rappresentanti del governo italiano. Il premier Romano Prodi, intervistato sull’argomento, risponderà «ragioni di stato».
2008 – Prima delle olimpiadi di Pechino in Tibet scoppia l’ennesima rivolta nuovamente repressa nel sangue. Le olimpiadi si svolgono regolarmente. A giornalisti e atleti non è però concessa libertà di movimento.
2009 – Con la crisi economica globale la Cina diventa l’ancora di salvezza. Si affievoliscono sempre più le speranze di indipendenza dei tibetani.

(a cura di Flaviano Bianchini)

Stanno «sotto» gli interessi di Pechino
Ferro, rame, oro, acqua

La Cina non può fare a meno del Tibet. Il boom economico cinese va supportato da ingenti quantità di materie prime. Metalli, petrolio e, soprattutto, acqua. Il Tibet e il Turkestan sono tutto questo. Il Turkestan è il petrolio. Il Tibet i metalli e l’acqua. I cinesi si sono accorti che, oltre ad andare in Africa o in America Latina, possono rifoirsi di metalli in casa loro.
Nel 1999 il ministero delle Risorse e dei Territori, ha inviato un migliaio di ricercatori, geologi e ingegneri minerari sull’altipiano. Divisi in 24 brigate di ricerca, hanno realizzato una mappatura precisa e dettagliata di tutti i giacimenti presenti sul tetto del mondo. L’operazione, conclusasi nel 2006, è costata circa 44 milioni di dollari. Ma non appena ricevuti i primi dati delle ricerche Pechino ha approvato la costruzione della ferrovia per Lhasa. Costo dell’operazione: quattro miliardi di dollari. Ma ampiamente ripagabili.
Il fabbisogno di ferro, per esempio, è aumentato da 186 milioni di tonnellate nel 2002 a 350 milioni nel 2007. Il solo ingresso della Cina sul mercato internazionale del ferro ha fatto quasi triplicare il prezzo di questo metallo. E lo stesso vale per l’oro, per il rame e per la bauxite. Ma ora Pechino ha scoperto che sul «Tetto del mondo» giacciono un miliardo di tonnellate di ferro e 40 milioni di tonnellate di rame. Nel 2007 la Cina ha superato il Sudafrica nella classifica dei paesi produttori di oro e tutto questo oro arriva proprio dal Tibet. Secondo le stime delle brigate di ricerca sotto il suolo del Tibet giacciono minerali per un valore complessivo di oltre 150 miliardi di dollari. Il che giustifica le spese per la costruzione della ferrovia per Lhasa, il suo ampliamento fino a Shigatze, il finanziamento delle brigate di ricerca e la repressione di ogni forma di protesta. Non saranno certo i monaci a fermare Pechino in questa sua fame di metallo. L’Occidente lo sa.

Per Pechino Tibet significa metalli, ma significa anche acqua. Il 48% della popolazione mondiale, l’82% di quella asiatica, vive grazie all’acqua del Tibet. Da esso si alimentano i bacini del fiume Giallo, Azzurro, Gange, Indo, Sultej e Bramaputra. Controllando la regione, la Cina controlla l’approvvigionamento di acqua di quasi metà della popolazione mondiale.
Ma a tutto questo i tibetani non ci stanno. E continuano a ribellarsi con tutti i loro mezzi. La stragrande maggioranza di loro che, costantemente, scendono in piazza per manifestare contro la Cina e il suo esercito di liberazione popolare non ne sa nulla dei giochi politico – ecologici – strategici intorno al loro Paese. Loro sanno che il Dalai Lama, la loro indiscussa guida spirituale, è costretto all’esilio da ormai cinquanta anni; sanno che le terre sterili del Tibet non producono cibo a sufficienza per l’immigrazione forzata promossa da Pechino; sanno che i monasteri, centri nevralgici e vitali del Tibet, sono stati prima distrutti, poi ricostruiti ed infine svuotati; sanno che non hanno libertà di stampa, di informazione, di preghiera e di religione; sanno che devono rispondere a dei governanti che non parlano la loro lingua e che non si vestono come loro; sanno che ovunque vanno e qualsiasi cosa facciano rischiano di essere considerati reazionari e quindi incarcerati e torturati. Questo a loro basta. Non gli serve di sapere altro.

Il Dalai Lama invece sa perfettamente gli interessi che ci sono dietro (sarebbe meglio dire sotto) la sua terra. Ed è per questo che sono ormai anni che non chiede più l’indipendenza del Tibet. Molti tibetani non sono d’accordo con la linea morbida adottata da Tenzin Gyatso. Ma egli sa perfettamente che, allo stato attuale delle cose, la Cina non può fare a meno del Tibet. E sa anche che, da quando c’è la crisi, è tutto il mondo globalizzato che non può fare a meno del Tibet. O meglio, non può fare a meno delle risorse che la Cina preleva al Tibet. L’economia cinese è la pezza che ha arginato, seppur solo temporaneamente, la crisi mondiale e le sue conseguenze (l’economia americana in crisi ha chiesto prestiti alla Cina e li ha ricevuti dando respiro all’economia, anche se in modo temporaneo). Ma questo rammendo si basa sulle risorse del Tibet (l’aumento dei prezzi delle materie prime è stata una delle cause della crisi, e la Cina ha immesso nuove materie prese da Tibet e Turkestan). Ma non possiamo pensare che l’economia continui a crescere all’infinito, in un mondo dove le risorse sono finite. 

Flaviano Bianchini

Flaviano Bianchini




Cana (11) Un protagonista delle nozze: il vino dell’abbondanza

Il racconto delle nozze di Cana (11)

«La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor [1] di vino (2Baruc XXIX,3-5).
Quando Giacobbe, il patriarca padre dei dodici figli che daranno vita alle dodici tribù di Israele sta per morire, benedice Giuda con queste parole:
«Egli lega alla vite il suo asinello e a una vite scelta il figlio della sua asina, lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto; scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte» (Genesi 49, 11-12).
è l’unico testo in tutta la Toràh che accenna espressamente al re Messia:
«Il targum Onqelos [dal 60 a. C. al sec. II d. C.] applica questo versetto al re Messia. La vite simboleggia Israele. Il termine il suo asinello è interpretato come “la sua città” cioè Gerusalemme. La vite è Israele di cui sta scritto: Io ti avevo piantato come vigna pregiata [Ger 2,21]. L’espressione figlio della sua asina è interpretata come: “Essi edificheranno il suo santuario”, dove il termine asina (’aton) è riferito per significato al termine “ingresso” (’iton) del tempio, che ricorre nel profeta Ezechiele (cf Ez 40,15). Il targum presenta ancora un’altra interpretazione. La vite sono i giusti. Il suo asinello sono “coloro che si occupano dello studio della Toràh”, in riferimento al testo: Voi che cavalcate asine bianche [Gdc 5,10]. L’espressione lava nel vino la sua veste significa “la sua veste sarà di porpora preziosa”, il cui colore è come quello del vino» (cf Rashì, Genesi 409-410).
Un asino, una vite, il Messia
In Is 49,12 si conclude che gli occhi sono iniettati di vino (sangue di vite): «Scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte». Avere gli occhi scuri, cioè rossi di vino, nel contesto, significa essere talmente pieni dalla Toràh da essee sommersi fino agli occhi: come un recipiente pieno che straborda. In Es 20,18 si dice che il popolo vedeva i suoni con cui Dio si rivelava la montagna del Sinai. Ascoltare e vedere sono quindi sinonimi. Non basta ascoltarla con gli orecchi perché la Toràh deve anche «uscire» dagli occhi, deve riempirli, perché essa fa vedere il Signore. Occhi iniettati di vino è dunque sinonimo di conoscenza profonda della Parola del Signore. Chi vede la Toràh che ascolta ha compreso la rivelazione del Sinai.
Il tempo del Messia, prefigurato dal targum sul testo di Gen 49,10-12, sarà segnato da un’abbondanza strepitosa di vino e latte. La terra di Giuda, notoriamente abbastanza arida diventerà florida e irrigata dal vino e dal latte: una terra dove scorre «latte e miele» (Es 3,8.17, ecc.). Poiché i due versetti si riferiscono direttamente al Messia, il vino è un’allusione all’assemblea di Israele che riceve la Toràh, mentre l’asinello e il figlio d’asina sono un’allusione al Messia: «Chi vede (in sogno) un vitigno scelto, aspetti il Messia, secondo quanto fu detto: “Egli lega alla vite il suo asino ed a vitigno scelto il figlio della sua asina”» (Talmud, trattato Berakòt/Benedizioni, 57a). Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme per andare all’appuntamento con la sua morte si presenta come il Messia della discendenza di Davide che viene a dorso non di un cavallo, simbolo di guerra e di violenza, ma di un asino, strumento di lavoro e di lavoro pesante: «Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come stà scritto: Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto su un puledro di asina» (Gv 12,14-15; cf Zc 9,9-10). Il Messia che viene a dorso di un asino è colui che porta l’unità nel popolo di Dio, ma porta anche la Toràh al compimento pieno, cioè a comprensione universale.
Il giogo della Toràh
Nella stessa benedizione di Giacobbe in Gen 49,14-15 la tribù di Ìssacar è paragonata ad un «asino robusto … ha piegato il dorso a portare la soma». Secondo la tradizione ebraica Ìssacar è la tribù che si dedica interamente allo studio della Toràh: «Egli porta su di sé il giogo della Toràh, come un asino robusto che è caricato di un fardello pesante [cf anche Midràsh Genesì Rabbà XCXC, 10] (Rashì, Genesi 411). Il vino è l’abbondanza della Toràh, mentre l’asino è colui che porta il peso della Toràh. L’asino nel giudaismo è simbolo dello studio della Toràh per la sua costanza (cocciutaggine) e fedeltà a sopportare ogni peso (e lo studio è un peso notevole). A questi testi si ispira anche Gesù quando invita i suoi ascoltatori ad imitarlo: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore … il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,29-30), come lui stesso darà l’esempio quando si carica non più del leggero peso della Parola, ma del giogo della croce che in questo contesto assume il valore di un nuovo monte Sinai da cui non scende più una Toràh scritta sulle fredde tavole di pietra, ma la persona stessa di Dio, nell’uomo e Figlio di Dio, Gesù: «Ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio … dove lo crocifissero» (Gv 19,16-18). Da questo momento non è più il vino il simbolo della nuova Toràh, ma lo Spirito del risorto che egli consegna nel momento stesso in cui si affida al Padre suo e alla sua volontà di salvezza: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).
Inondazione di vino
In Gen 49,11 (v. sopra) l’abbondanza del vino è così grande che vi sarà bisogno di un asino per ogni vite tanto il raccolto sarà abbondante. Scrive l’apocrifo Apocalisse greca di Baruc (o 2Baruc), databile sec. I d. C.:
«La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor di vino. E coloro che avevano avuto fame saranno deliziati e, ancora, vedranno meraviglie ogni giorno. Venti. Infatti, usciranno da davanti a me per portare ogni mattina odore di frutti profumati e, al compimento del giorno, nubi stillanti rugiada di guarigione. E accadrà in quel tempo: scenderà nuovamente dall’alto il deposito della manna e in quegli anni ne mangeranno perché loro sono quelli che sono giunti al compimento del tempo. E accadrà dopo ciò: quando il tempo della venuta dell’Unto sarà pieno ed egli toerà nella gloria, allora tutti coloro che si erano addormentati nella speranza di lui risorgeranno. E accadrà in quel tempo: saranno aperti i depositi nei quali era custodito il numero delle anime dei giusti ed esse usciranno e la moltitudine delle anime sarà vista insieme, in un’unica assemblea di un’unica intelligenza, e le prime giorniranno e le ultime non si dorranno. Sapranno infatti che è giunto il tempo di cui è detto: è il compimento dei tempi. Le anime degli empi, invece, quando vedranno tutte queste cose, allora soprattutto si scioglieranno. Sapranno infatti che è giunto il loro supplizio ed è venuta la loro perdizione» (2Baruc XXIX,3.5-8-XXX,1-5; testo in P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, I, Milano, TEA 1990, 302-203).
Lo stesso concetto è espresso dai Padri per i quali il tempo messianico sarà caratterizzato dall’immagine delle «viti che avranno ciascuna diecimila ceppi e su ogni ceppo diecimila rami e su ogni ramo diecimila tralci e su ogni tralcio diecimila grappoli e su ogni grappolo diecimila acini e ogni acino, schiacciato, darà venticinque metrète [2] di vino» (Ireneo, Contro le Eresie, 5,33,3). Un altro apocrifo del sec. II a.C., il libro di Enoch, anch’esso del genere delle apocalissi, prefigura l’era messianica come un tempo di abbondanza strepitosa che descrive come una inondazione di vino:
«E in quei giorni … si pianterà su di essa [la terra] ogni sorta di alberi piacevoli; vi si coltiveranno delle vigne, e la vigna che vi sarà piantata darà vino a sazietà; e ciascun chicco seminato in essa produrrà mille misure ciascuno, e una misura d’olivo produrrà dieci pressoi d’olio» (Enoch 10,18-19).
Il vino del riscatto
Il tema vino/vigna ha una valenza fortemente messianico-escatologico (Is 55,1; Jer 2,24; Am 9,13-15; Zc 9,17) perché la venuta del Messia è vista come una festa nuziale dove il vino abbonda in misura straripante: il profeta Amos avverte che «i monti stilleranno il vino nuovo e le colline si scioglieranno» (Am 9,13), mentre Isaia parla del tempo del Messia come di un sontuoso banchetto senza eguali, dove non mancherà certamente il vino (Is 25,6-8; cf 55,1). I monti e le colline sono una allegoria per indicare i Patriarchi e le Matriarche come leggiamo nel targum Neofiti a Dt 33,15: «[La terra] che produce buoni frutti per i meriti dei nostri padri, che somigliano ai monti, Abramo, Isacco e Giacobbe e per i meriti delle madri, che somigliano alle colline, Sara, Rebecca, Rachele e Lia». L’abbondanza del vino nell’era messianica sarà il riscatto di tutta la storia d’Israele perché alla gioia della nuova alleanza parteciperanno anche i Patriarchi e le Matriarche, cioè tutto il popolo di ieri, di oggi e anche di domani, come ci garantisce anche il targum Onqelos a Gen 29,12: «I suoi monti diventeranno rosseggianti per le sue vigne, i suoi colli distilleranno vino» (cf anche gli altri targumìm: Jerushalmì I e II e Neòphiti allo stesso versetto).
Si avrà un’abbondanza tale di vino che si offrirà gratuitamente a quanti lo vorranno: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte» (Is 55,1). Emerge chiaro che il vino è sempre la Toràh, la Parola di Dio per cui all’epoca del Messia l’abbondanza del vino significa l’abbondanza della Parola che non avrà più bisogno di scuole particolari perché tutti la insegneranno a tutti: «poiché da Sion uscirà la Legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2,1-5). Giovanni esprimerà questo esito con il solenne ingresso del «Lògos» che «era dal principio» ed irrompe nella storia (cf Gv 1,1.14). Israele è simboleggiato dalla vite che Dio ha divelto dall’Egitto e trapiantato nella terra promessa (Sal 80/79,9) e per questo egli legherà i tralci, cioè tutte le componenti d’Israele tra di loro, ma legherà anche se stesso al popolo d’Israele. Il Re Messia non solo unirà le diverse anime del popolo in unico sentimento, ma sarà anche l’esegeta della Toràh che così sarà compresa e capita da tutti i popoli che formeranno la nuova umanità messianica (cf Gv 1,18). è l’era che chiude definitivamente la carestia di Am 8,11-12.
Nel segno di un sorriso
Il vino sarà così abbondante da sostituire anche l’acqua: il versetto «lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto» richiama anche il sangue del sacrificio dell’Agnello che lava le vesti di coloro che vengono dalla tribolazione: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14). è un sangue che rende candida la propria identità e la propria adesione alla risurrezione di Gesù, passando attraverso la morte. Anche la comunità di Qumran prepara il banchetto per i giorni del Messia, cioè per gli ultimi giorni e si mangerà pane e mosto che saranno bevande esclusive di questo banchetto escatologico (cf 1QSa II,11-12). Allo stesso modo anche la Pasqua ebraica che anticipa quella della fine dei tempi è impeiata su quattro coppe di vino, sintesi della storia della salvezza (1a coppa: la creazione; 2a coppa: l’elezione d’Israele in Abramo; 3a coppa: l’esodo [è la coppa che Gesù prende nella sua ultima cena in Ma 14,25; Mt 26,29; Lc 22,18] e infine la 4a coppa con cui si conclude il canto dell’Halle (Sal 113/112-118/117) che altro non è se non l’eco dei cinque temi della Rivelazione: l’uscita dell’Egitto; la divisione del Mar Rosso; il dono della Toràh; la risurrezione dei morti; le tribolazioni del Messia (cf Serra, Contributi 248).
Una caratteristica del tempo messianico sarà il «sorriso» qui indicato con il bianco dei denti a motivo del molto latte bevuto. Il talmud babilonese spiega l’espressione della benedizione di Giacobbe a Giuda: «Denti bianchi da latte. Ha detto Rabbì Jeudà: È migliore colui che rende bianchi i propri denti al proprio compagno rispetto a colui che gli dà da bere del latte» (Ketubot 111b). Rendere bianchi i propri denti al compagno è espressione tipicamente orientale per dire «sorridere», cioè mostrare i denti bianchi. è più importante nella vita un sorriso che nutrirlo. Il sorriso, l’accoglienza, la disponibilità sono superiori a dare da mangiare, cioè dare cose materiali.
Questa attitudine di chi crede in Dio è bene espressa nella Mishnàh, trattato Pirqè Avot /Massime dei Padri I,15 in cui a nome di Shammài s’insegna: «Fa del tuo studio un’occupazione abituale; parla poco, ma fa molto [= fai pochi voti, ma pratica molto la carità] e accogli ogni persona con volto sereno». Quando una persona accoglie un’altra persona con un sorriso, è segno che il Messia è già arrivato.
La vite dello Sposo che è Cristo
Anche il Ct si proietta in un contesto messianico quando la sposa conduce lo sposo nella casa della madre: «Ti condurrò e ti farò entrare nella casa di mia madre e tu mi insegnerai: ti darò a bere del vino aromatico, del succo del mio melograno» che il targum commenta: «Io ti condurrò, o Re Messia, e ti farò entrare nel mio Tempio; e tu m’insegnerai a temere il Signore e a camminare nelle sue vie. Là ci nutriremo … e berremo il vino vecchio tenuto in serbo nei suoi grappoli fin dal giorno che fu creato il mondo». Il vino è creato da Dio nei giorni della creazione e conservato per il grande giorno del Messia (cf Talmud di Babilonia Berakot 34b = BSanhedrin 99a; Jlqut Chimoni a Gen 2,8). In Gv 2,10 l’arcitriclino rimprovera lo sposo con parole identiche: «Tu hai tenuto in serbo il vino buono fino ad ora».
L’apocrifo dell’AT, Apocalisse di Baruc (sec. II d.C.) presenta la vigna come «l’albero che sedusse Adamo» e che Dio maledisse, strappando la vite e annegandola nel diluvio universale. Noè però dopo il diluvio, piantò tutte le piante che trovò, compresa la vite, ma prima di piantarla memore della rovina del patriarca Adamo chiese a Dio consiglio. Dio gli suggerì di piantarla:
«Levati, Mosè, pianta la vite, poiché così dice il Signore: l’amarezza in essa verrà mutata in dolcezza, e la maledizione che è in essa diverrà benedizione; e quanto verrà tratto da lei, diverrà il sangue di Dio; e come attraverso di lei l’umanità ha attirato la dannazione, così essi attraverso Gesù Cristo, l’Emmanuele, riceveranno con essa la loro chiamata verso l’alto e il loro ingresso nel paradiso» (2Baruc 4,15).
Per rivelare al faraone la Presenza del Dio liberatore, Mosè cambia l’acqua del Nilo in sangue (Es 4,9; cfr 7,14-25), ora nel NT, il nuovo Mosè cambia l’acqua di Cana in vino, prefigura del suo sangue che sarà versato sulla croce per lavare i figli dell’antica e della nuova alleanza. L’autore del racconto non ci spiega espressamente qual è il senso del racconto, ma ci obbliga a non fermarci alla superficie e a pescare nel pozzo profondo della Parola. Una cosa però è chiara: A Cana Gesù «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cedettero in lui» (Gv 2,11). Il senso finale del simbolismo del vino è la Parola/Lògos/Dabàr che rivela il Cristo, cioè il suo vangelo, la sua Persona come splendidamente sintetizza Sant’Agostino:
«… di quelle nozze nelle quali lo sposo è Cristo … Lo sposo delle nozze di Cana, infatti, cui fu detto: Hai conservato il buon vino fino ad ora, rappresentava la persona del Signore. Cristo, infatti, aveva conservato fino a quel momento il buon vino, cioè il suo Vangelo» (Omelia 9,2 (PL 35, 1459).
Il vino del Vangelo
Il primo segno che Gesù opera nel vangelo di Giovanni è l’abbondanza del vino e il vino è il simbolo della sua Parola rivelatrice che lo pone così sullo stesso piano del Dio del Sinai, di cui le nozze di Cana sono ripresa e rinnovamento. Come al Sinai, Dio rivelò se stesso «nel terzo giorno», così ora anche Gesù rivela se stesso «nel terzo giorno»: al Sinai Israele ricevette la Toràh, a Cana l’umanità riceve il vino bello della sua Gloria. Ora sì, possiamo anche comprendere perché Gesù dice di se stesso: «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1) perché con lui si riapre il tempo dell’alleanza e il vino della parola scorre abbondante e senza misura «in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (At 1,8) perché ora l’umanità nuova, invitata a Cana può accostarsi al cuore di Dio per «vedere» la parola e gustare il vino nuovo banchetto finale:
«Prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per tutti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui non lo berrò di nuovo, nel regno di Dio» (Mc 14,23-25).
Il senso generale del racconto ci apre prospettive straordinarie per la fede e la testimonianza: non si tratta di un matrimonio quanto della nuova alleanza che inaugura i tempi nuovi nell’umanità di Cristo come ripresa e compimento dell’alleanza del Sinai che ora è restaurata e compiuta: la nuova umanità, noi siamo tutti invitati alle nozze di Dio con il suo popolo che ora raccoglie tutti i popoli. Il banchetto eucaristico che celebriamo nella storia è la nostra Cana dove il vino è mutato in sangue e la parola diventa il pane del corpo del Signore, i segni nuovi che ci abilitano ad andare nel mondo ed essere anche noi segni visibili di nuzialità e di gioia. Se il vino del Sinai è la Toràh e quello di Cana è la Parola, il vino per noi è il Vangelo, cioè Gesù il Cristo, la rivelazione del Padre, in forza della testimonianza di Marco: «Principio del Vangelo, cioè Gesù, cioè il Cristo, cioè il Figlio di Dio» (Mc 1,1). [continua – 11]

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Pochi (cristiani) ma buoni

Somalia – Gibuti: monsignor Giorgio Bertin

Il Coo d’Africa. Si combattono i pirati in mare ma non si cercano le cause. La Somalia è ingovernabile e i gruppi di matrice islamica si sono «affiliati» ad Al Qaeda. I cristiani sono ormai pochissimi, e dispersi. Oggi il vescovo ha solo contatti individuali. E tra Gibuti ed Eritrea continua la tensione.  Senza la ribalta dei media.

Monsignor Giorgio Bertin è vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della Somalia, o «di tutte le Somalie», come lui ama ricordare. È frate francescano dell’Ordine dei frati minori.
Vicentino, ha lavorato a lungo con monsignor Salvatore Colombo,  assassinato a Mogadiscio il 9 luglio del 1989.  Attualmente risiede a Gibuti, e tenta, tra mille difficoltà, di dare il suo appoggio ai pochi cristiani in Somalia. Ha studiato l’arabo e parla somalo, inglese e francese.
Lo abbiamo incontrato per parlare dell’area.

Mons. Bertin come descrive la situazione attuale in Somalia?
La situazione rimane estremamente difficile, non dico disperata, ma molto grave. Inoltre è chiaro che questo crea problemi ai paesi vicini, in particolare a Etiopia e Kenya, ma non sarebbe improbabile che li creasse in futuro a Gibuti, che per ora è risparmiato. Ad esempio la pirateria non si risolve solo sull’acqua, arrestando i pirati, ma è una conseguenza di un problema sulla terra, in Somalia.
C’è uno sforzo concreto per il mare, mentre l’azione di contrasto sulla terra in questo momento è verbale, di buone intenzioni, ma bisogna che queste e i timidi passi che si fanno, siano più rafforzati, presi con maggior decisione.

Lei pensa che questo governo somalo riuscirà a rimanere in piedi a lungo?
Gli shebab (gioventù, in somalo, è il nome con cui si fanno chiamare gli estremisti islamici somali, ndr) sono forti, perché mentre si svolgeva a Gibuti la quindicesima conferenza sulla riconciliazione della Somalia, loro avevano già cominciato a prendere il terreno in mano. Era successa la stessa cosa con il precedente governo di transizione. Non so se prenderanno veramente il potere, anche  perché penso che in quel caso, l’Etiopia reinterverrebbe in modo molto chiaro, per opporsi. La cosa scatenerebbe come reazione un intervento, forse anche del Kenya, mi immagino.
Il governo federale di transizione ha un margine minimo di potere. Come al solito ha la comunità internazionale che lo appoggia, ma sul terreno le cose non vanno tanto bene, soprattutto in quella zona. È vero che dietro gli shebab e anche agli altri ci sono ancora gruppi con legami clanici.
Quindi si ha l’impressione, come dicono i somali, che abbiano cambiato camicia: la prima era quella della libertà e la democrazia, la seconda è stata quella del clan, la terza quella del semplice signore della guerra e adesso, la quarta, è quella dell’ideologia islamica. Ma si ha l’impressione che dietro ci siano sempre alcuni gruppetti, con legami clanici.
Recentemente hanno mostrato una video cassetta in cui dichiaravano la loro lealtà nei confronti di Al Qaeda. Non so se è vera o se è cercare un ulteriore appoggio. Credo che abbiano dei rapporti, ma ho l’impressione che cerchino di tirarli ancora di più dalla loro parte. Per sostenerli nella loro ideologia, ma anche nella loro presa di potere con questi legami clanici.

Cosa ci dice dei cattolici in Somalia, sono perseguitati?
I cattolici in Somalia, sono pochissimi. Anche prima di questa guerra civile eravamo circa 2.000 di cui il 90% stranieri. Questi sono andati via, quelli rimasti in parte sono stati uccisi. E anche tra i somali una buona metà è partita. Ne resta un gruppetto, forse meno di un centinaio, ma disperso. Io sono in contatto telefonico con alcuni di loro, ma nulla di più. Risiedono soprattutto nella zona di Mogadiscio, ma metà della popolazione è fuori città, in campi di sfollati.
Dire che sono perseguitati vorrebbe dire che c’è qualcuno che li perseguita in modo generale e che sono tanti. Io direi che non c’è persecuzione in modo formale, ma certamente questi gruppuscoli violenti legati a shebab e altri, hanno bisogno di crearsi dei diavoli da combattere.
Prima, ma anche ora, quelli che conoscevano i cristiani, avevano imparato a vivere insieme pacificamente, però adesso mancando la legge e lo stato, i gruppetti sono disperatamente alla ricerca del caso da presentare alla loro ideologia. Come i giornalisti, quando venivano in Somalia cercavano il bambino striminzito da far vedere nelle loro foto. Mentre la maggioranza non era così.
Devono quindi stare in clandestinità nascosti.

E lei riesce ad andare in Somalia regolarmente? Qual è oggi il clero presente?
Adesso è un anno e mezzo che non riesco ad andare nella zona centro-sud, ma negli ultimi anni non ho mai potuto incontrare i cristiani insieme come gruppo. Qualche individuo singolo sì. Il rischio era per me ma anche per loro, perché li avrebbero individuati. Questi gruppi che devono far vedere che loro stanno combattendo per il trionfo dell’islam e per scacciare i traditori, li ucciderebbero e lo hanno anche fatto.
Non ci sono sacerdoti stabili, e quando vanno rischiano subito di farsi individuare. Gli unici sono qualche cristiano somalo e qualche cristiano nelle Ong. Anche le suore sono uscite dopo l’uccisione di suor Lionella (missionaria della Consolata, uccisa nel settembre 2006, ndr). Le consorelle sono andate una a Gibuti e due in Kenya.

E le tensioni tra Gibuti e l’Eritrea sono finite?
No, non sono finite, Gibuti continua a chiedere che gli eritrei se ne vadano e le Nazioni Unite continuano a dichiarare e minacciare, ma l’Eritrea rimane sul territorio occupato a Gibuti, che comunque è poca cosa.
La Francia è intervenuta all’inizio, ha appoggiato Gibuti soprattutto con la logistica, e ha visto che le cose si sono fermate. Ha ritirato i suoi militari dal fronte, mentre vi rimangono i soldati gibutini, perché c’è questo stallo. La mia impressione è che l’Eritrea dica: visto che voi all’Onu avete deciso di darci un po’ di ragione con l’Etiopia e questa non si ritira, io non mi ritiro da Gibuti, convincete l’Etiopia a ritirarsi e io farò altrettanto. È una mia interpretazione perché non capisco cosa gli interessi quel pezzo di terra.

Parlando del sinodo per l’Africa, secondo lei, ha rispettato le aspettative?
Io penso che nelle prime due settimane sia stato un po’ dispersivo. Mi è sembrato che nei vari interventi ognuno mettesse sul tavolo le sue preoccupazioni e l’impressione era che si perdesse forse qual era lo scopo e il tema di questo sinodo. Però credo che ci sia stata un’opera di ridirezione da parte della segreteria perché sia nel messaggio che abbiamo preparato noi, sia nelle proposizioni dei vari gruppi, c’è stato un raddrizzamento, nel senso di evitare dispersioni e rifocalizzare il tema principale. Vedo che c’è stato un buon lavoro positivo.

Per applicare il messaggio del sinodo nella quotidianità della gente, che idee ci sono?
Qui si è detto che Ecclesia in Africa (del 1995, è l’esortazione apostolica del primo sinodo per l’Africa, ndr), si è cercato di applicarla, ma forse è mancato da parte dei vescovi stessi un monitoraggio, per dire cosa stiamo facendo, come stiamo lavorando. Risulta chiaro da diversi interventi, che tornando nei nostri paesi, si aspetterà  l’esortazione post sinodale, ma il Messaggio del sinodo è corposo. Abbiamo preferito tenerlo lungo proprio perché vogliamo tornare dai nostri con qualcosa in mano, senza aspettare troppo. Qualcosa su cui cominciare a riflettere. L’impegno che ci siamo presi è che i punti particolari vogliamo attuarli senza accontentarci di belle parole. Ovvero dire: facciamo una valutazione dopo un periodo, cosa abbiamo messo in pratica, quali sono gli aspetti che ci toccano, fare un monitoraggio.

Ha visto novità particolari in questo secondo sinodo per l’Africa?
Rispetto al precedente sinodo l’aspetto particolare è che ci siamo concentrati su dei temi, cercando di  non disperderci. Non c’è nessuna vera novità, ma un’insistenza e una ricerca per la messa in pratica di alcuni aspetti della dottrina sociale della chiesa, che toccano riconciliazione, giustizia e pace. Questo a livello liturgico, di catechesi, educazione, ecc.
Questi temi devono far parte della formazione della comunità cristiana. Un altro aspetto su cui io personalmente sono coinvolto, è quello della collaborazione con persone di altre religioni, in particolare l’islam ma anche le religioni tradizionali.
Perché è un tema che interessa non solo i cattolici, ma tutti gli abitanti dell’Africa. Pure questo è un aspetto che è stato  messo in luce.

Anche il ruolo della donna è stato messo in luce, è venuto fuori nel messaggio, che la generica affermazione che si trova in Ecclesia in Africa deve essere messa in maggior rilievo e messa in pratica, sia a livello della società ma anche all’interno della chiesa stessa. Si è riconosciuto che in questo ultimo caso non si è fatto molto.  

Di Marco Bello

Marco Bello




Induismo intollerante?

Violenze contro i cristiani e musulmani

Tolleranza o intolleranza religiosa in India? Le violenze dei fondamentalisti indù contro le comunità cristiane dell’Orissa e contro i musulmani dell’India pone alcune domande sulla tradizionale tolleranza religiosa dell’induismo.

L’induismo: tollerante o intollerante? L’Occidente si è sempre trovato in difficoltà nell’interpretare la religione e la cultura dell’India. Per secoli è stato posto l’accento sulla sua spiritualità e la sua cultura millenaria, il cui momento d’inizio della sua storia risale a circa 3000 anni prima di Cristo. Oggi, invece, si preferisce mettere in luce il tasso di crescita del suo prodotto interno lordo e l’eccezionale sviluppo delle sue capacità informatiche, che hanno fatto di Electronic City, vicino a Bangalore, la Silicon Valley indiana. Entrambe le letture sono parziali e distorte. Nell’abbracciare le varie anime del mondo indiano, vi è il rischio di lasciarsi condizionare da preconcetti e d’incastellare la complessa realtà indiana in una griglia prefabbricata.
Anche nel dibattito, molto vivo oggi, sul pluralismo e la tolleranza religiosa, l’induismo gode della fama di essere l’esempio di una religione in grado di coesistere pacificamente con altre tradizioni religiose. Poche guerre sono state combattute lungo i secoli nel nome dell’induismo, così come, in generale, gli indù hanno opposto scarsa resistenza all’ingresso o al sorgere di altre religioni nel proprio contesto sociale.
Un uomo come il Mahatma Gandhi, un indù devoto, tollerante e non-violento, che fece della frateità di tutte le religioni la causa della sua esistenza, non poteva nascere che in un’India caratterizzata da una molteplicità di gruppi etnici, linguistici, religiosi e culturali, i cui rapporti erano fondamentalmente di pacifica convivenza.

Movimenti nazionalisti

Questa immagine è stata in qualche modo guastata dalla comparsa in India di un movimento nazionalista indù e dalla nascita di un partito, il Bharatiya Janata, anch’esso nazionalista, che nelle elezioni parlamentari del febbraio del 1998 è riuscito a trionfare. La coalizione di governo, d’ispirazione nazionalista, è caduta poco dopo, nell’aprile 1999, ma le tensioni all’interno del governo dell’Unione indiana e con il vicino Pakistan non sono diminuite. Gli scontri armati tra l’India e il Pakistan, già aggravati nel marzo del 1990, a causa dell’appoggio pakistano ai movimenti autonomisti del Kashmir, sono ripresi nel novembre successivo e anche nel giugno del 1999, dopo che le forze pakistane avevano attraversato la linea di controllo fissata dalle Nazioni Unite.
Nel frattempo un’altra forza politica, d’ispirazione anch’essa nazionalista, il Movimento di Liberazione Tamil, ha aggravato la situazione politica dell’Unione. Una campagna elettorale con un saldo di 280 vittime precedette le elezioni parlamentari del maggio 1991. Le elezioni furono sospese per l’assassinio di Rajiv Gandhi, vittima di un attentato delle cosiddette Tigri Tamil, avvenuto con un’azione suicida, in cui però i Tamil negarono ogni responsabilità. Una settimana dopo, Marasimha Rao fu nominato successore di Rajiv Gandhi quale leader dello storico Partito del Congresso, a lungo governato dal primo ministro Jawaharlal Nehru e, dopo la sua morte nel 1996, da Indira Gandhi, la figlia, uccisa dai separatisti Sikh nel 1984.
Anche la violenza recentemente perpetrata contro le religioni «straniere», come l’islam e il cristianesimo, ha una sua triste storia. Nel 1992 si sono registrati numerosi atti di violenza dei fondamentalisti indù contro la popolazione islamica nelle città di Bombay (ora Mumbay) e di Ayodhya. Gli scontri tra le due comunità, scoppiati a causa della distruzione della moschea di Baber ad Ayodhya, causarono circa 1.300 morti e si estesero ai paesi vicini, quali il Pakistan e il Bangladesh. Nel febbraio 2002 un’altra ondata di violenza contro la comunità musulmana attraversò lo Stato del Gujarat, nell’India occidentale, con capitale Ahmedabad, ricca di templi e di edifici monumentali e uno dei maggiori centri indùstriali del paese. Più di 2.000 persone furono uccise. Di mira furono prese soprattutto le donne, che subirono stupri di gruppo prima di essere bruciate vive. I ribelli indù incendiarono e saccheggiarono negozi, case e moschee. Circa 15.000 musulmani furono cacciati dalle loro case. Secondo il rapporto stilato da Amnesty Inteational, il governo del Gujarat e la polizia di Stato non si impegnarono a sufficienza per difendere la popolazione civile.

Pluralismo religioso
e tolleranza

Dagli scontri tra indù e musulmani, costellati da vere e proprie stragi, recentemente si è passati ai linciaggi e alle persecuzioni delle comunità cristiane, opera di fondamentalisti indù, che accusano i cristiani di indebito proselitismo. I cristiani in India, cattolici e protestanti, sono una esigua minoranza. Di fronte a circa l’83 per cento di indùisti e all’11 per cento di musulmani, i cristiani sono soltanto il 2 per cento su una popolazione di 1 miliardo e 150 milioni di abitanti. L’induismo comprende inoltre un’ampia varietà di credi e pratiche religiose; si va dalle pratiche di una devozione intensa e appassionata all’ascetismo severo e all’affidarsi alle proprie capacità yogiche, da un pantheon indù popolato da un grande numero di divinità alle molteplici forme di teismo fino al più radicale rifiuto dell’esistenza di un Dio personale. E mentre si considera questa diversità come una debolezza, la si può considerare anche come la base stessa per riconoscere la diversità fuori dalla propria tradizione religiosa e fondare quella che si è soliti definire «tolleranza indù».
In effetti, l’assenza di un credo comune in un unico Dio può considerarsi la principale ragione della tolleranza indù verso le altre religioni. Una simile generalizzazione non fa però giustizia alla tradizione indùista, che certamente include anche forti tradizioni teistiche e monoteistiche. Nelle Scritture indù si ritrovano infatti vari tentativi di mantenere un equilibrio fra il riconoscimento della diversità e la ricerca di unità dell’unica realtà. Questa unità a volte la si ritrova in un Dio personale e a volte in una realtà ultima non personale.
Accade però che nella storia religiosa dell’India tra le tante divinità del pantheon indù si sia giunto a considerare il proprio dio come superiore o più potente degli altri. Questo concentrarsi su un dio particolare portò sovente a un vero e proprio settarismo nella storia dell’induismo e a sanguinose competizioni fra i diversi gruppi religiosi. Si aggiunga ora il desiderio di trovare una chiara e ben definita identità indù di fronte alle pressioni esercitate sull’induismo da altre tradizioni religiose venute dall’esterno, come il cristianesimo o l’islamismo.

Contro i cristiani dell’Orissa

A scatenare la furia dei fondamentalisti contro i cristiani è stato un omicidio eccellente, quello dello Swami Laxmanananda Saraswati, guida spirituale del Vishwa Indù Parishad, il movimento dei nazionalisti indù nello Stato dell’Orissa. Un comando di una trentina di persone, ben armato, ha fatto irruzione nel suo ashram e lo ha freddato. L’azione fu rivendicata dai guerriglieri maoisti del People’s Liberation Revolutionary Group. «Abbiamo ucciso lo Swami – hanno detto – perché mischiava la religione alla politica». Nonostante questa rivendicazione, i seguaci dello Swami Saraswati hanno subito puntato il dito contro i cristiani. Un’accusa non casuale: da tempo, infatti, lo Swami Saraswati conduceva una durissima campagna contro le conversioni al cristianesimo. Accusava i missionari di mangiare le vacche sacre e di «comprare» battesimi tra i cosiddetti «tribali», una popolazione indigena di circa 500 gruppi che insieme ai kanikar, i muthuvan, gli urali e i mala arayan sono ancora oggi considerati dei dalit, degli intoccabili, dei fuori casta, nonostante che la divisione in caste sia stata ufficialmente abolita in India.
Le popolazioni tribali dell’India nord-orientale sono sicuramente i più ben disposti verso la religione cristiana. Non credono nella reincarnazione come gli indùisti, ma ritengono che quando si muore si va a Dio; per questo pregano per i defunti e conoscono il sacrificio, che permette loro di comprendere meglio il sacrificio eucaristico. A un anno dall’ondata di violenza nello Stato dell’Orissa più di cento cristiani sono morti per mano dei fondamentalisti indù; di questi almeno 57 erano dalit, così come migliaia di rifugiati che hanno visto distrutte le loro case e le loro proprietà.
La campagna ideologica condotta dallo Swami Saraswati contro i cristiani, accusati di fare proselitismo fraudolento tra le fasce più povere della popolazione, cominciò nell’agosto del 2008 con l’uccisione di un sacerdote carmelitano di 38 anni, che aveva dedicato la sua vita ai poveri e agli emarginati e svolgeva il suo apostolato nello Stato indiano dell’Andhra Pradesh. Fu trovato cadavere con diverse ferite al volto, mani e gambe spezzate e gli occhi strappati dalle orbite. Alcuni giorni dopo una missionaria laica di 22 anni venne arsa viva nell’incendio dell’orfanotrofio che dirigeva in un villaggio del distretto di Bargarh. In quegli stessi giorni un cristiano del villaggio di Rupa, nel distretto di Kandhamal, morì bruciato nella sua abitazione distrutta dal fuoco, e altre tre persone furono uccise negli incendi appiccati alle loro case da estremisti indù. Chiese e scuole cattoliche e di altre confessioni cristiane sono state devastate da una parte all’altra dell’Orissa. Perfino le missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa di Calcutta, furono assaltate e alcune di loro prese a sassate; anche un ospedale per anziani, tenuto dai missionari della Carità di Madre Teresa, fu distrutto. Chiese, centri sociali e pastorali, case religiose e orfanotrofi vennero presi di mira al grido: «Uccidete i cristiani e distruggete le loro istituzioni».
Non era comunque la prima volta che accadevano tali fatti. Nel novembre del 2007 il Consiglio Globale dei cristiani indiani aveva già fatto pervenire un rapporto al Comitato Nazionale dei Diritti umani dell’India, nel quale erano documentati 464 attacchi contro i cristiani nei venti mesi precedenti tale data. L’ondata di violenza che ha colpito l’Orissa non è per questo terminata. Una delegazione di vescovi cattolici e di altre confessioni cristiane, poche settimane dopo l’inizio delle violenze seguite all’uccisione dello Swami Saraswati, si è incontrata con il Primo Ministro indiano per presentargli un dossier sui danni subiti dai cristiani. Secondo questo dossier, 26 cristiani furono assassinati, dei quali 12 solamente nel distretto di Kandhamal; inoltre furono distrutte 41 chiese e luoghi di culto, 17 case, 4 conventi, 3 alberghi, 7 sedi istituzionali e un numero imprecisato di veicoli. Il panico suscitato da tale violenza ha spinto molti cristiani ad abbandonare le loro case e a rifugiarsi nella foresta oppure a emigrare. Il proposito dei fondamentalisti è infatti quello di cacciare i cristiani dalla regione, come risulta evidente dagli slogan ripetuti un po’ ovunque. Estremisti indù hanno perfino attaccato e dato alle fiamme la cattedrale di Jabalpur, nello Stato del Madhya Pradesh, edificio che ha 150 anni di vita e che ha subito danni irreparabili.
Nei mesi successivi all’agosto del 2008 le violenze contro i cristiani si sono ulteriormente complicate. Agli indù si sono unite alcune comunità battiste e diversi gruppi evangelici. «Nella mia diocesi – riferisce il vescovo Jose Mukala di Koshima, nel nord-est dell’India – c’è un grande numero di persone che desiderano diventare cattoliche, ma esiste una fortissima opposizione da parte di alcune confessioni protestanti locali». A Koshima, nel cui distretto i primi cattolici sono stati battezzati solamente nel 1951 all’arrivo dei missionari, ora, in poco più di cinquant’anni, essi hanno raggiunto la cifra di 58.000 fedeli su una popolazione di un milione e 900 mila abitanti, per la maggior parte evangelica.

Violenze anche
nelle nazioni vicine

Gli attentati contro i cristiani in India hanno risvegliato gli estremisti indù che nel Nepal chiedono la fine della libertà religiosa. Il 25 maggio 2009 una bomba è esplosa nella cattedrale cattolica di Dhobighat, alla periferia di Kathmandu, la capitale. Sulla scena del crimine sono stati trovati degli opuscoli di un gruppo militante indùista, denominato National Defense Army (Esercito di difesa nazionale), che ha rivendicato anche l’assassinio del sacerdote salesiano John Prakash, avvenuto nel luglio 2009 nella zona orientale del Nepal. Questo cosiddetto esercito per la difesa nazionale lotta per la restaurazione della monarchia indùista, abolita nel 2008. La bomba aveva un forte potenziale di deflagrazione. Nella cattedrale vi erano circa 300 persone. Un adolescente e una donna sono morti; le persone, molte delle quali ferite, sono state sbalzate lontane dai loro posti, i vetri della cattedrale e gli arredi distrutti. Nel Nepal oltre l’80 per cento degli abitanti è indùista; i cattolici sono solo 7.000, ma ogni anno si registrano circa 300 nuovi battezzati.
La violenza contro i cristiani dell’India ha così superato le frontiere, coinvolgendo, oltre al Nepal, anche il vicino Pakistan. Dei circa 170 milioni di pakistani, nella stragrande maggioranza musulmani, i cristiani vengono subito dopo gli indùisti con circa 2 milioni e 800 mila fedeli. La loro persecuzione è un fatto antico, soprattutto nel Punjab centrale, dove i cristiani vengono sovente accusati di blasfemia. Durante le violenze provocate nel luglio del 2009 dai musulmani nel quartiere cristiano della cittadina di Gojra, nel Punjab, sono stati arsi vivi due bambini, tre donne e due uomini, tutti cristiani. La tensione ha continuato a salire dopo che si era sparsa la voce di una presunta profanazione del Corano per mano di cristiani. In questa tragedia sono state date alle fiamme anche numerose case di cristiani e soprattutto le scuole. Negli ultimi due anni circa 170 scuole hanno subito danni e più di 400 strutture educative sono state costrette a chiudere i battenti o a sospendere la propria attività. Le violenze contro i cristiani in Pakistan non sono però terminate. Il 28 agosto 2009 sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco altri cinque cristiani nel centro della città di Quetta, nel Belucistan. Il nuovo episodio arrivava poco dopo il massacro nel Punjab, in cui erano morti undici cristiani e più di cento case erano state saccheggiate o bruciate. I cristiani in Pakistan vivono in uno stato di continua tensione per l’uso improprio delle cosiddette leggi sulla blasfemia e sulle presunte offese contro il Corano e Maometto.
Infine, nello Sri Lanka, l’isola a sud dell’India un tempo denominata Ceylon, i ribelli Tamil di religione indù, i cui combattenti si definiscono Tigri e lottano contro le forze governative, hanno provocato almeno 70 mila morti. Centinaia di migliaia sono stati gli sfollati tra la popolazione civile e circa 250 mila sono rimasti intrappolati nella zona degli scontri. Una tragedia che si consuma ormai da molti anni. Il conflitto tra le forze governative e le Tigri Tamil, che lottano per la liberazione della loro patria nelle zone a nord dell’isola, è infatti iniziato nel 1983 e pare sia terminato il 18 maggio 2009 con la resa incondizionata dei ribelli. Tuttavia l’arcivescovo di Colombo, la capitale del Paese, al termine del conflitto ha dichiarato: «Potremmo dire che abbiamo vinto la battaglia, ma la guerra non è finita».

Quale la causa
delle violenze?

Ecco descritta per sommi capi una delle tante tragedie umane sconosciute o dimenticate. Nel corso delle violenze in Orissa, che ha riguardato almeno 392 villaggi dell’India, circa 500 persone hanno perso la vita, 54 mila sono stati coloro che hanno dovuto abbandonare le loro case date alle fiamme e 180 chiese son andate distrutte. Ma che cos’è che ha fatto scatenare la furia dei fondamentalisti indù: la conversione al cristianesimo dei tribali dell’India? La paura di perdere la propria identità religiosa nel contesto di un’India democratica e liberale? L’irrompere della globalizzazione che intacca e mette in crisi gli schemi tradizionali? L’influenza dell’Occidente, per molti aspetti laico e indifferente, con il suo potere economico e culturale che convince e trasforma ogni cosa?
Secondo alcuni vescovi indiani la causa dell’attuale persecuzione contro i cristiani non è religiosa, ma nazionalista e politica; in particolare del partito nazionalista Bharatiya Janata, legato al movimento Rashtriya Swayan Sevak Sangh, che ha ispirato diversi gruppi di fanatici. Uno dei fondatori di questo movimento si chiamava Golwalkar. Egli rifiutava l’idea di un’India laica. A essa contrapponeva l’idea dell’Indù Rashtra, di un’organizzazione indù nella quale non ci fosse posto per altre religioni.
I vescovi dell’India non condividono le accuse di proselitismo forzato, dietro cioè ricompense o con l’inganno, perché – dicono – la comunità cristiana «continua a offrire i suoi servizi a tutti i settori della società indiana senza alcuna discriminazione». «Le accuse infondate di conversioni fraudolenti – continuano i vescovi – sono dovute agli interessi di gruppi impegnati a polarizzare la società in base alle loro credenze religiose». Il portavoce della Conferenza episcopale dell’India ha affermato che, dopo gli attacchi e i saccheggi nell’Orissa durati mesi, i cristiani sono ora costretti a convertirsi all’induismo, e a saccheggiare e distruggere le loro chiese. Inoltre, se la maggioranza delle religioni presenti in India convive in modo pacifico, alcuni governi della Federazione hanno messo in atto e ampliato le leggi sull’anti-conversione e non intervengono in modo tempestivo ed efficace per contrastare la violenza contro le comunità cristiane locali.
Questi fatti indùcono a pensare che le violenze contro i cristiani, cattolici o protestanti, non siano semplicemente una strategia socio-politica, ma piuttosto l’espressione di un integralismo religioso che cerca d’imporre l’induismo in ogni parte dell’India, anche nelle regioni delle minoranze tribali del nord-est e, nella parte meridionale del Paese, tra i cristiani del Kerala, regione evangelizzata fin dal IV secolo. Gli attacchi a chiese e istituzioni cristiane si sono infatti estesi negli Stati di Chhattisgarh, Madya Pradesh, Kaataka e Kerala e rischiano di dilagare in altri Stati della Federazione, ormai entrati, come altre parti del mondo, nel vortice del fondamentalismo religioso prodotto dalla secolarizzazione della società.
Una tale violenza – affermano ancora i vescovi dell’India – sta umiliando l’antica civiltà indiana e valori come la non-violenza (Ahimsa), la tolleranza, il rispetto per le religioni, il diritto alla libertà di coscienza e di religione, che l’India ha gelosamente conservato per secoli e che la Costituzione indiana ha posto a fondamento della nazione. In India tutti si dicono scioccati per gli avvenimenti accaduti nell’Orissa. Va inoltre riconosciuto che la deriva del fondamentalismo è solo una manifestazione aberrante di una piccolissima parte dell’India. Essa è però oggi un grave rischio anche per quelle religioni che tentano di preservare e difendere la propria identità con metodi violenti, inaccettabili alla coscienza umana e all’interno stesso dei contenuti della propria fede in Dio.
In India – osservano i vescovi – c’è comunque «bisogno di un dialogo profondo» che non va impoverito dal sincretismo, ma sviluppato nel rispetto reciproco. Il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay e presidente della Conferenza episcopale indiana, ha ricordato che la Chiesa cattolica in India «non ha mai mancato» di promuovere il dialogo e continuerà a farlo rimanendo «dalla parte dei poveri, dei malati, senza guardare se sono indùisti, musulmani o cristiani». Accanto alla preghiera «è vitale e fondamentale» il dialogo. «Solo un vero dialogo interreligioso – ha continuato – permetterà di eliminare ogni possibile causa di tensione e di disaccordo tra gruppi religiosi ed etnici dell’India».
Tutto il mondo cristiano, a cominciare da papa Benedetto XVI, lo desidera e spera che siano rimossi al più presto equivoci e pregiudizi. L’India non si merita il radicalismo dell’Indùtva, il movimento estremista nell’India democratica. Non va infatti dimenticato che nella tradizione indùista la non-violenza è uno degli insegnamenti più importanti e che una guida esemplare della non-violenza è stato il Mahatma Gandhi, giunto al punto di sacrificare la propria vita per mano di un fanatico indù. Lo stesso Primo Ministro della Federazione indiana ha riconosciuto che l’ondata di violenza che ha colpito i cristiani in questi ultimi mesi è una vergogna nazionale, in contraddizione palese con i grandi valori di non-violenza, tolleranza e rispetto delle religioni che l’India ha coltivato per secoli. 

Di Gianpiero Casiraghi

Giampiero Casiraghi




Cari missionari

Nel numero di  dicembre 2009, «Missioni Consolata» ha pubblicato il dossier-reportage «Il grande sogno – viaggio tra i rifugiati», di Gabriella Mancini. Accogliamo due commenti, tra cui quello dell’Assessore alle politiche sociali del Comune di Torino, che speriamo possano aiutare ad allargare il dibattito su un tema tanto importante e scottante come quello dell’accoglienza.

… e le istituzioni?

Ho letto con vivo interesse il vostro approfondito reportage sulla condizione dei rifugiati nella nostra città. Non ho mai trovato sui media, riguardo a questo tema, un’informazione completa come quella contenuta in questo dossier.
In questi anni ho seguito con apprensione la vicenda narrata nel dossier e ho anche personalmente, per quanto possibile, contribuito portando a questi rifugiati dei generi di prima necessità. Di tutta questa storia mi hanno sempre colpito molto i toni di impossibilità assunti dalle istituzioni, sin dall’inizio. Apprendo a mezzo stampa in questi giorni che invece il governo, dopo che il comune aveva già magicamente trovato in fretta e furia fondi per allestire la caserma di via Asti, avrebbe stanziato 2 milioni di euro l’anno per tre anni consecutivi da spendere in via esclusiva per trovare una soluzione al «problema» rifugiati nel comune di Torino.
Una domanda sorge allora spontanea: sarebbero poi veramente comparsi questi fondi senza il «rumore» creato dai rifugiati?”

Paolo Macina
Torino

La Città  è presente

Gentile Direttore,
ho letto con attenzione il dossier-inchiesta «Il grande sogno – viaggio tra i rifugiati» pubblicato sul vostro mensile nel numero di dicembre scorso.
Devo premettere che ogni articolo descrive con fedeltà la drammatica vicenda che viene vissuta da coloro che intraprendono il viaggio del «Grande Sogno» e che tutte le preoccupazioni espresse dall’autrice sono condivisibili.
Ciò che invece mi ha indotto a scriverle è la parziale ottica con cui si descrive il sistema di accoglienza della Città di Torino. O meglio, della «non accoglienza», così come definita da Gabriella Mancini, lasciando credere ai lettori che il tema sia di esclusiva competenza e responsabilità degli enti locali e non una competenza governativa: anche se penso che sui permessi di protezione umanitaria che avrà esaminato, non avrà sicuramente trovato il simbolo della Città bensì della Repubblica Italiana.
Torino, in tutta la Regione Piemonte, è l’unico capoluogo che gestisca 50 posti di accoglienza della rete del «Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati» (Sprar) finanziata dal ministero dell’Inteo. È in solitaria compagnia di altre 3 città: Ivrea (TO), Chiesanuova (TO), Alice Bel Colle (AL). Forse già questo primo indizio serve a spiegare come mai sia di riferimento a molti «flussi».
Non contenti di ciò, abbiamo negli ultimi anni potenziato i posti di accoglienza per dare delle risposte (seppur, a volte, parziali) a coloro che si rivolgevano al nostro Ufficio Stranieri: oggi la Città garantisce oltre 530 posti di accoglienza quotidiana (vitto, alloggio, formazione). Nel 2008 sono stati 1.047 gli stranieri che hanno beneficiato delle nostre strutture per un periodo mediamente di 6 mesi (gestite direttamente o indirettamente dalla Città, oltre alla rete del volontariato e del privato sociale con contributo economico comunale); sono più di 300 i minori stranieri non accompagnati per i quali l’assessore pro tempore ai servizi sociali della Città di Torino è «tutore»!
Forse sarà poco; sicuramente non sufficiente se paragonato ai 30 mila sbarchi sulle coste italiane ogni anno; ma penso sia abbastanza per contendere la palma ai «giovani dei centri sociali, tra i più attivi nell’aiutare i rifugiati» così come definiti in un articolo del dossier; o per dimostrare che il Comune non è «il grande assente» così come definito dalla sig.ra Molfetta in un altro passo del documento.
Alcuni esempi? Ve li elenco per brevità.
• Progetto Hopeland. Si tratta del progetto che fa parte dello Sprar a cui la Città aderisce da quando, ancora nel 1999, si chiamava Progetto Nazionale Asilo (Pna)) e che oggi garantisce un sistema di accoglienza personalizzato di 50 posti (35 maschili e 15 femminili).
• Progetto Masnà. Realizzato sempre nell’ambito dello Sprar, ma rivolto ai minori stranieri richiedenti asilo e rifugiati (20 posti)
• Progetto Isa (Inclusione socio abitativa): interventi per favorire l’esercizio di un diritto di cittadinanza, ridurre il fenomeno della marginalità abitativa e fornire uno specifico supporto abitativo in caso di urgenza a persone in temporanea situazione di rischio. Finanziato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali con fondi stanziati nel 2007.
• Progetto «Rifugio Diffuso». L’intervento prevede l’individuazione di 20 beneficiari tra richiedenti asilo, rifugiati (con protezione sussidiaria e per motivi umanitari), presenti sul territorio cittadino e presi in carica dall’Ufficio Stranieri, da inserire in accoglienza familiare, attraverso la collaborazione di associazioni, organizzazioni di volontariato e volontari singoli, in percorsi di inserimento sociale mediante la realizzazione di programmi individualizzati.
• Progetto «Action Work». Realizza percorsi di accompagnamento all’autonomia ed all’integrazione sociale mediante azioni di ricerca attiva del lavoro e inserimento lavorativo che avvengono soprattutto attraverso la realizzazione di tirocini formativi, orientativi, socializzanti. La metodologia impostata prevede la sperimentazione di azioni e strumenti finalizzati all’integrazione socio-lavorativa dei cittadini stranieri disoccupati impegnati in percorsi di inserimento sociale, in collaborazione con altri enti, cornoperative ed associazioni del territorio.
• Azioni straordinarie per intervenire sulle situazioni di occupazione abusiva dello stabile di corso Peschiera «ex clinica San Paolo». Progetto di accoglienza temporanea d’intesa con la Prefettura di Torino presso la ex caserma «La Marmora».
C’è poi un sottile filo che separa due interpretazioni del concetto di accoglienza. Accogliere, secondo i ragazzi dei centri sociali, significa «assistenzializzare». L’occupazione ricorrente di stabili per l’ospitalità dei profughi, parte da rivendicazioni condivisibili di diritti (lavoro, casa, residenza) per arrivare poi al passaggio di responsabilità: «Caro comune, in questo stabile che abbiamo occupato ci sono 200 persone: devi occupartene».
Accogliere, secondo il lavoro fatto in questi anni dall’amministrazione comunale, si traduce in «accompagnamento sociale» verso l’autonomia delle persone. Per questo motivo è stato fondamentale il lavoro di concertazione con altri enti, associazioni, organizzazioni. In particolare l’Ufficio Stranieri della  Città di Torino ha promosso la realizzazione del «Tavolo Rifugio» che rappresenta un momento di confronto e condivisione con gli Enti e le Associazioni che liberamente aderiscono. Il Tavolo attualmente coinvolge, oltre all’Ufficio Stranieri, i diversi collaboratori dei progetti (Coop. Soc. Progetto Tenda, Coop. Soc. Il Riparo, Sermig – Centro come Noi, Asgi, Ass. Frantz Fanon, il Cfpp Casa di Carità), i soggetti istituzionali (Questura, Prefettura) e le organizzazioni del volontariato (Ufficio Pastorale Migranti della Caritas, Chiesa Valdese, Ass. La Tenda, Gruppo Abele, Arci, Croce Rossa Italiana, Asai, Ass. Mosaico – Azioni per i Rifugiati, Ass. Somali a Torino, Alma Terra). Si tratta di un luogo multifunzionale che permette l’elaborazione di esperienze di gestione, la verifica dell’andamento dei casi e dei progetti in fieri e la formazione sulle nuove problematiche. Tale luogo viene organizzato come un laboratorio per la progetta- zione di iniziative in favore dei richiedenti asilo e rifugiati, il più possibile vicine alle reali problematiche e alle reali risorse delle persone.
Spero di essere riuscito ad aggiungere un altro pezzo di informazione che mi sembrava totalmente mancante. Così come penso che le migliori politiche per l’integrazione non si realizzino «concentrando» in un’unica realtà le aspettative e le tensioni, ma che sia più facile trovare soluzioni di inserimenti sociali se si lavora su una superficie territoriale ampia. Per questo motivo credo nella programmazione territoriale di Province e Regione che dovrebbe portare alla più capillare distribuzione del fenomeno di accoglienza dei profughi, per offrire maggiori opportunità di autonomia a cui le persone legittimamente aspirano.

Marco Borgione
Assessore alla Famiglia, Salute e Politiche Sociali
Comune di Torino

Caro Assessore, innanzitutto la ringraziamo per l’attenzione e per aver considerato il nostro dossier  un lavoro approfondito. Prendiamo atto dei progetti da lei elencati e che, in sole 20 pagine, non era possibile inserirli tutti. Solo una precisazione: non abbiamo voluto oscurare la presenza del Comune che rientra in più punti nel dossier, dall’intervista all’Ufficio Stranieri del Comune al lungo intervento sul Tavolo di co-progettazione, ma far presente una falla strutturale nel sistema di accoglienza e, in particolare, in quello specifico contesto. Per il resto, ci auguriamo sinceramente  che la sinergia di più intenti, il dialogo e la motivazione nel risolvere i problemi possa condurre a soluzioni strutturali e non transitorie.
Buon lavoro!

Ugo Pozzoli
Gabriella Mancini