Ricordando Roberto

La scomparsa del dottor Topino

Medico impegnato nei temi della salute pubblica e dell’ecologia, spirito libero per natura e critico per forma mentis, da alcuni anni Roberto Topino collaborava con Missioni Consolata, curando in particolare le seguitissime pagine di «Nostra madre terra». Una rubrica che continuerà con Rosanna Novara, moglie di Roberto e biologa.

La notizia della scomparsa di Roberto Topino mi ha raggiunto in Sudafrica; mi ha trovato, ma non mi ha colto di sorpresa. Da mesi, ormai, con silenzio, discrezione e preghiera accompagnavamo il difficile cammino che aveva intrapreso per resistere all’incedere costante della malattia.
Roberto, insieme alla moglie Rosanna, ha collaborato alla nostra rivista durante tutto il periodo della mia direzione, dando lustro e prestigio alle pagine di Missioni Consolata attraverso interventi competenti, puntuali e aggioati, che facevano della rubrica «Nostra madre terra» uno degli spazi di riflessione più attesi e commentati dai lettori della rivista. In questi anni, Roberto ci ha aiutato ad approfondire il tema ecologico, legandolo in modo indissolubile alla salute dell’umanità e al benessere del pianeta. L’impegno verso l’integrità del creato rappresenta l’estrema frontiera della missione e, nel contempo, un richiamo insistente alla giustizia e all’armonia, che di tale integrità sono garanti. Roberto ci ha messo passione e cuore, aspettandosi come contropartita soltanto qualche copia della rivista da distribuire agli amici e continuare così la sua opera di divulgazione al servizio della salute.
Ho saputo della morte di Roberto mentre stavo approfondendo il concetto di Ubuntu, uno dei contributi originali che l’Africa sub-sahariana sta offrendo in fatto di riflessione etica. «Ubuntu» significa umanità con gli altri e verso gli altri, e definisce l’individuo nella sua relazione con chi lo circonda e con cui condivide la terra e le sue ricchezze. A proposito di questo concetto, scrisse una volta Desmond Tutu: «Troppo frequentemente pensiamo a noi stessi soltanto come a degli individui, separati gli uni dagli altri, laddove invece siamo interconnessi. Ciò che facciamo interessa il mondo intero; quando facciamo il bene questo si propaga e diventa bene per l’umanità». Si tratta di un messaggio che Roberto Topino ha tacitamente sottoscritto con la sua testimonianza e la sua lotta a servizio della salute di tutti, anche attraverso le pagine di Missioni Consolata. Grazie di tutto.

Ugo Pozzoli

Lo scorso 1 settembre ci ha lasciati Roberto Topino. Medico, specialista in medicina del lavoro, Roberto aveva 58 anni. Era sposato con Rosanna Novara e padre di Valentina,15 anni, studentessa liceale. Si era laureato e specializzato all’Università di Torino, città dove ha sempre lavorato. Oltre che per la sua famiglia e la medicina, aveva una grande passione per la musica. A casa sua c’è un organo e una montagna di audiocassette, Cd e intramontabili dischi in vinile, soprattutto di musica lirica.
Dal dicembre 2005, Roberto era un assiduo collaboratore di Missioni Consolata. In particolare, con la moglie Rosanna, biologa specializzata in oncologia, curava Nostra madre terra, rubrica seguitissima dai lettori, che spesso scrivevano per sapee di più, per parlare con gli autori e, a volte, per criticarli.
Per chi non ha avuto la fortuna di conoscere Roberto di persona, per intuire chi fosse, è sufficiente leggere i suoi scritti. Perché – al contrario di molti che dicono una cosa e poi nella realtà quotidiana fanno l’opposto o comunque si comportano in maniera incoerente – Roberto era ciò che scriveva. E ciò che scriveva – fosse amianto, Ogm, guerre, rifiuti tossici, energia nucleare o droghe – era di norma fortemente critico, ma sempre poggiando su basi scientifiche solide e documentate. Ovvero mai con approssimazione, per sentito dire, per partito preso o per ideologia.
Oltre alla competenza medica e scientifica, mai influenzata da interessi di lucro (come accade a troppi medici e scienziati), Roberto era sorretto da una fortissima tempra morale, che lo faceva indignare davanti alle ingiustizie. Un’indignazione che non rimaneva confinata nella persona, ma si traduceva in denuncia pubblica. Su Missioni Consolata, ma anche su decine di altri strumenti di comunicazione – svariati blog, Facebook, YouTube – attraverso i quali diffondeva informazioni, fotografie e filmati. 
Roberto è morto a causa di un tumore, che lo ha portato via in soli 3 mesi. Uno dei temi su cui spesso interveniva erano proprio le patologie neoplastiche fossero esse causate dalle polveri dell’amianto, dalle radiazioni o dall’inquinamento. Era convinto che alcune concause dei tumori potessero essere ridotte o eliminate attraverso un’esistenza più sana e ambienti di lavoro più salubri. In ciò facilitato dal fatto di lavorare all’Inail, dove si occupava di infortuni e invalidità. Tra le sue battaglie principali, c’era quella in favore dei troppi lavoratori uccisi dalle polveri dell’amianto («Quasi ogni giorno incontro una persona affetta da mesotelioma pleurico», raccontava) e quella contro gli inceneritori. «È sempre più evidente – scriveva Roberto – che la scelta di bruciare i rifiuti resta una follia».
Girava per Torino con la sua (vecchia) bicicletta e un cellulare con cui faceva anche foto e filmati. Da un anno nella borsa teneva anche… un contatore geiger. La sua ultima denuncia riguardava una pavimentazione stradale fatta con graniti un po’ troppo radioattivi.
Aveva già presentato un ricco elenco di inchieste per i prossimi numeri di Missioni Consolata (con la quale – tra l’altro – collaborava in maniera totalmente gratuita). Erano argomenti impegnativi, come l’alcolismo, gli infortuni sul lavoro, la chirurgia estetica, ma anche il testamento biologico. Un testamento che, ad inizio di luglio, aveva già scritto per se stesso e che, dal suo letto, mi aveva letto prima di consegnarmene una copia. Lo aveva diffuso anche su YouTube, filmandosi con la telecamera del computer portatile che teneva sul letto su cui da giugno era ormai immobilizzato.
Non potrà completare i suoi progetti. Ma l’amata moglie Rosanna continuerà a curare la rubrica Nostra madre terra. Il modo migliore per tenere in vita Roberto.

Paolo Moiola

Ugo Pozzoli e Paolo Moiola




Un futuro insieme

Inervista a Michael Van Heerden

Sedici anni dopo le prime elezioni democratiche, il Sudafrica fa il punto della situazione.
Il paese si sente finalmente libero, ma molti restano soffocati nelle spire della miseria: un nuovo ruolo profetico per la chiesa cattolica post-apartheid.

Dottorato in filosofia all’Università di Lovanio e un lavoro di responsabilità come preside del Saint Augustine College di Johannesburg, l’università cattolica sudafricana, padre Michael Van Heerden, è oggi una delle voci cattoliche più ascoltate. Ci parla delle contraddizioni e delle speranze di un paese che si sforza di lasciarsi alle spalle le grigie ombre del passato per costruire un futuro arcobaleno in cui regnino giustizia e pace… per tutti.

Che cosa significa essere un cattolico, oggi, in Sudafrica?
La grande sfida consiste nel dare una nuova immagine alle relazioni inter-etniche: lavorare e vivere insieme. Nel corso degli anni la chiesa è sempre stata interpellata a questo riguardo; è sovente accorsa in aiuto di altre realtà e ha saputo conquistarsi il rispetto di molti gruppi sociali. È stata capace di dimostrare, attraverso l’esempio, che cosa significa superare un conflitto culturale o conflitti tra gruppi linguistici ed economici differenti.
È un impegno nuovo e stimolante, se si pensa che, in passato, la chiesa cattolica era vista come un corpo estraneo, un prodotto d’importazione. Durante l’apartheid eravamo definiti il «pericolo romano» (romse gevaar), un nemico da temere insieme al pericolo rosso (comunista) e nero (etnico).
Trovarsi ora al centro dell’attenzione sapendo che ciò che si dice viene finalmente preso in considerazione è francamente confortante. Siamo pienamente accettati e visti come un esempio di ciò che il paese vorrebbe o dovrebbe essere; mi riferisco, ovviamente, al carattere universale e inclusivo della chiesa.

In passato, l’esistenza di un nemico comune, l’apartheid, era servito come fattore di unificazione fra le chiese di varia denominazione. Questa unione ha segnato l’inizio di un dialogo ecumenico fra le chiese? È progredito con il tempo? Come?
Certo, durante l’apartheid ci fu molta cooperazione fra le chiese. In quei giorni era facile trovare un terreno d’intesa, perché la realtà stessa presentava moltissimi spunti e temi su cui confrontarsi. Uno dei segnali più importanti fu la pubblicazione del Kairos Document (nel 1985, in pieno stato di emergenza), un testo fondamentale, una lettura teologica e politica e una chiara denuncia nei confronti del governo. Prodotto da teologi cattolici insieme a rappresentanti del Consiglio delle chiese sudafricane, il testo definiva senza mezzi termini l’apartheid come un peccato.
La fine dell’apartheid ha segnato un punto di svolta; le chiese in Sudafrica hanno dovuto ri-pensarsi e cercare di definire il loro ruolo in una nazione che sta velocemente cambiando. Un sentimento diffuso è che nel paese, oggi, si stia affermando un profondo individualismo. Uno degli aspetti negativi della nuova Costituzione, tra le più liberali al mondo, sta, per esempio, nel suo eccessivo liberalismo e in una delle sue conseguenze più deleterie che è l’ormai imperante relativismo.
Le chiese hanno capito che è il momento di riunirsi nuovamente e incentrare il loro dialogo su come fronteggiare il relativismo che si sta diffondendo a macchia d’olio nel paese. Dobbiamo dare il nostro contributo a livello morale: come stabilire dei valori in una società secolarizzata? Come dare significato a questi valori? Come vivere in una società relativistica?
Tale tema sta diventando materia di dialogo non più soltanto ecumenico, ma interreligioso. Esiste una piccola percentuale della popolazione musulmana e hindu che sostiene insieme a noi il bisogno di dialogare sui valori. La libertà, tanto agognata prima e sbandierata dopo il 1994, corre il rischio di rivelarsi un boomerang per la popolazione, perché molti la intendono come il diritto del singolo di fare finalmente ciò che gli pare.
Se si vuole creare una nazione basata sull’unità nella diversità, c’è bisogno di adottare dei valori comuni. Alcuni affermano che tali valori sono già contenuti nella Costituzione, cosa che sotto alcuni aspetti è vera. Sappiamo, però, che la Costituzione è in fondo un documento e il modo di leggere documenti del genere dipende dalla visione del mondo che uno ha: si può leggere lo stesso testo in molti modi diversi e alcune di queste letture o interpretazioni possono risultare distruttive per i valori che si vogliono proporre.

Nel recente passato la chiesa cattolica ha offerto svariate figure profetiche, veri e propri esempi di testimonianza per il paese e per l’intera cristianità; penso, per esempio a mons. Denis Hurley, la cui statura non è inferiore a quella del più famoso arcivescovo anglicano Desmond Tutu. In che cosa consiste la profezia cristiana in Sudafrica oggi?
Per certi versi Tutu è stata una figura più conosciuta e spesso più «vocale», ma mons. Hurley ha lavorato molto di più alla radice dei problemi, per cercare di cambiare le cose. Sebbene anche Hurley denunciasse apertamente la discriminazione razziale, il suo impegno principale era rivolto a stravolgere i fondamenti reali dell’apartheid. È questa l’eredità che gli sopravvive e che ci coinvolge oggi.
Non molto tempo fa ho avuto modo di parlare con mons. Kevin Dawling, vescovo di Restenburg, che fu incaricato del dipartimento di Giustizia e pace della Conferenza episcopale negli anni della transizione verso la democrazia. Mi commentava come, già all’inizio del cammino democratico del paese, i vescovi avessero individuato la giustizia economica come obbiettivo centrale verso cui indirizzare la voce profetica della chiesa.
Già allora risultava chiaro come gran parte della trasformazione vissuta dal paese non fosse in realtà una vera trasformazione. Bianchi ricchi sono stati sostituiti o affiancati da neri ricchi, ma non si è prodotto nessun cambiamento economico radicale che toccasse la grande maggioranza nera e povera del paese. È aumentata significativamente la classe media, e una buona percentuale di essa è composta oggi da neri, ma esiste ancora una larghissima fascia di popolazione nera che non ha visto cambiare minimamente il proprio stato. C’è bisogno di giustizia economica per i più poveri: e questo deve essere il tema centrale del nostro annuncio profetico.
Chiaramente, insieme alla giustizia economica vanno associati temi come corruzione, disoccupazione, Hiv-Aids. La maggior parte delle persone resta intrappolata in una situazione da cui non riesce a liberarsi. Parlo di miseria, difficoltà estrema ad accedere a un livello educativo anche minimo, a un servizio sanitario decente, a costruire strutture familiari adeguate. È povertà che si auto-riproduce e che va contrastata.

Il Sudafrica ha rappresentato un esempio per il modo pacifico in cui è stata vissuta la transizione dal regime dell’apartheid alla democrazia. Come spiega le manifestazioni di estremismo razzista, tanto bianco che nero, e le recenti violenze xenofobe?
Una delle frasi più care a Mandela è quella che, descrivendoci, parla del Sudafrica come di una «nazione arcobaleno». Lo siamo; e non solo, io credo, per la grande differenza di razze, nazioni e lingue, ma anche per la particolare geografia politica sudafricana. La forza del Sudafrica sta nella cosiddetta maggioranza dei gruppi minoritari. Mi spiego: sebbene i due gruppi etnici più numerosi del paese, gli Zulu e gli Xosa, insieme formano la maggioranza relativa, rappresentano comunque soltanto il 40% della popolazione. Esiste un significativo 60% composto dall’insieme degli altri gruppi minori. Questa, in un certo senso, è una situazione salutare per la democrazia, una garanzia di stabilità, che obbliga i gruppi a lavorare insieme.
Detto questo, bisogna però ricordare come nel periodo di transizione verso un governo democratico le aspettative di tutti erano aumentate enormemente. Alcune di esse erano giustificate, realizzabili e sono state in parte soddisfatte; altre aspettative erano invece irrealistiche, ma invece di essere scoraggiate sono state fatte oggetto di promesse, creando nella gente un’insoddisfazione di fondo.
Inoltre, oggi, assistiamo al fenomeno di persone provenienti da altri paesi africani che entrano nel nostro territorio e, sebbene non sia necessariamente vero, si insinua la percezione che la loro presenza possa privare i sudafricani di opportunità di lavoro. Del resto, occorre ricordare che molta della violenza scatenatasi verso gli stranieri avviene presso comunità molto povere in cui, quotidianamente, c’è già una continua battaglia per la sopravvivenza. In questi mesi assistiamo a una continua protesta nei confronti delle autorità, incapaci di garantire servizi basilari alle fasce più povere della popolazione.
Ecco che si ritorna al fattore della giustizia economica; molte comunità, soprattutto le più povere, stanno dicendo al paese: «Non abbiamo combattuto per la democrazia per non avere nulla in cambio. Pretendiamo di avere anche noi una parte nell’intero arricchimento del paese e nella distribuzione delle risorse». È una protesta legittima e, sebbene questi rigurgiti di xenofobia siano una pessima espressione di questa protesta, sono parte di un malcontento generalizzato di gente che è stufa e rifiuta di stare seduta ad accettare passivamente tutto, corruzione compresa.
Aspettano una presa di posizione e un’assunzione di responsabilità da parte del governo. Chiedono servizi: elettricità, condotte fognarie, contributo per la casa… tutte cose promesse e mai garantite. Nel momento in cui non degenera in una violenza xenofoba, ingiustificata e da condannare, questo conflitto in atto potrebbe persino essere visto come un segno che la democrazia sta prendendo piede nel paese.

Questa situazione di forte contrasto non potrebbe però dare vita a estremismi mai sopiti?
Penso che lo stesso fenomeno si verifichi praticamente in tutto il mondo: i due gruppi estremi, la destra e la sinistra, sono normalmente rappresentativi di persone che si sentono deprivate del potere. Il vecchio governo mantenne artificialmente una larga fetta della popolazione bianca a un livello privilegiato. Ora che questi privilegi sono di fatto decaduti se ne possono vedere immediatamente le conseguenze: per la prima volta nella mia vita vedo dei bianchi chiedere l’elemosina per le strade. Questa situazione dà forza a un estremismo bianco.
La stessa cosa succede con l’estremismo «nero»; prendiamo il caso del giovane politico Julius Malema (leader dell’African National Congress Youth League, Ancyl, la sezione giovanile del partito di governo); sebbene a livello personale egli sia più che benestante, trova buon gioco nell’insistere sul senso di insoddisfazione delle classi nere più povere. Essere populista è un modo facile per diventare popolare.
Credo comunque che lo «zoccolo» di centro sia sufficientemente ampio da mantenersi compatto e resistere alla pressione di entrambi gli estremismi. La maggior parte della popolazione lo ha dimostrato chiaramente anche prima della fine dell’apartheid, quando venne indetto un referendum (17 marzo 1992) e gli stessi bianchi votarono per avere un cambiamento, una nuova Costituzione. Ci si rese conto che non si poteva proseguire in quel modo: bisognava cambiare per il bene del paese e per evitare la guerra civile.
La gente continua a nutrire e vivere gli stessi sentimenti, nonostante che il bullismo estremista cerchi ogni tanto di appannare i sogni democratici della popolazione. La parte migliore di noi emerge in momenti come quello della Coppa del Mondo. Lì si è potuto toccare con mano come la maggioranza, bianca o nera che sia, creda in un nuovo Sudafrica e voglia contribuire a costruire la nazione.

Come vede il Sudafrica del futuro e come dovrebbero affrontare, oggi, il fenomeno giovanile lo stato e la chiesa?
Quando ci si occupa di educazione superiore, una delle domande più assillanti riguarda il come educare i giovani e dar loro un futuro. È un problema vissuto dall’intero continente africano. In Sudafrica viviamo oggi il grosso problema di studenti che abbandonano la scuola superiore. Oggi, nel paese solo il 16% dei giovani accede all’università, laddove la media europea si aggira intorno al 45% e la percentuale del continente africano è del 6%; questi sono i nostri due parametri di riferimento.
Il problema è questo: quando si preparano giovani accademicamente, occorre anche garantire loro adeguate opportunità di lavoro. Lo stiamo facendo? Una delle cose che il paese ha appreso dalla Coppa del Mondo è stata proprio la necessità di procurare impieghi per il settore giovanile. Oggi, però, la Coppa del Mondo è finita… e allora?
Non guasterebbe, forse, se alcune delle imprese sudafricane fossero ancora di proprietà dello stato; anche a costo di lavorare in perdita. Quel disavanzo sarebbe in realtà un investimento per il futuro.
Penso, ad esempio, alle ferrovie. Nel «vecchio» Sudafrica, quando il National Party prese il controllo del paese togliendolo ai britannici, buona parte della popolazione afrikaners viveva in situazioni di grande povertà e uno dei mezzi usati dal governo per sollevae le condizioni economiche fu l’impiegae un gran numero nel servizio ferroviario. Non solo la gente riceveva un lavoro, ma anche una formazione professionale. Sebbene le ferrovie chiudessero i loro bilanci in rosso, contribuivano a offrire innanzitutto un servizio efficiente di trasporto al paese e, in secondo luogo, la possibilità per molte persone di affrancarsi dalla povertà.
Come le ferrovie anche altre imprese, oggi private o semi private, potrebbero essere potenziali bacini di impiego per molti giovani. Viste anche le condizioni sociali, l’aumento della criminalità, ecc., a lungo termine potrebbe essere conveniente per lo stato mantenere alcune imprese che non danno reddito, invece di pagare un costo sociale due volte più elevato in termini di lotta alla criminalità e mantenimento del servizio carcerario.
Infine, ho appena finito di leggere un libro che analizzava la famiglia come capitale sociale. Dare sostegno e stabilità alla famiglia è senza dubbio una forma di investimento che aiuterebbe a tagliare i costi di prevenzione e lotta contro l’illegalità e il crimine. Oggi, la causa che sta alla radice dell’aumento di criminalità in questo paese è il crollo della famiglia.

Che cosa può dire della Campagna contro il traffico di persone organizzata in occasione dei campionati del mondo?
La Coppa del Mondo è stata un’importante cassa di risonanza per quello che era ed è un problema del paese. Ho letto che il Brasile si sta preparando a sfruttare l’evento dei prossimi campionati, che si giocheranno lì fra quattro anni, associandovi una campagna per contrastare il fenomeno della prostituzione minorile. Oggi, molte strade del traffico passano attraverso il Sudafrica. Il paese sta diventando un crocevia per il traffico delle persone, smistando «merce umana» fra i mercati asiatici e Sud/Nord americani.
Sappiamo bene che la Coppa del Mondo ha solo gettato luce su questa realtà, ma i problemi restano da risolvere. Posti come Citta del Capo stanno diventando mete di turismo sessuale. È un problema che dobbiamo affrontare seriamente come nazione e deve diventare una priorità del governo.

Una domanda finale rivolta al filosofo. Che cosa può oggi offrire il Sudafrica al continente africano in fatto di pensiero? E la chiesa cattolica che parte può avere in questo processo?
Una cosa che il Sudafrica può certamente offrire al resto del continente è una riflessione matura sui pro e contro del fenomeno «industrializzazione», fattore in cui il paese vanta una grande esperienza, soprattutto nel settore minerario. Penso, per esempio, ad alcuni scritti di Heidegger che vertono sulla strumentalizzazione delle relazioni e su come questo fatto svilisca la dignità del lavoratore e dello stesso datore di lavoro.
Anche una riflessione sulla diversità interculturale; su questo tema si sono sviluppati vari esperimenti di pensiero, su quali potevano essere i migliori modelli, capaci di facilitare il dialogo fra le differenze. In questo ambito, la chiesa è vista come un interlocutore importante proprio per la sua esperienza in merito.
In effetti, il Sudafrica non è soltanto un crogiuolo di culture, ma anche di filosofie. Per esempio, molte università statali, di fondazione britannica, seguono una tradizione analitica; la chiesa, invece, segue una tradizione continentale, cosa che rende possibile un buon dialogo e produce ricchezza di pensiero.
Un altro passo importante che si sta cercando di dare consiste nel far dialogare il pensiero originale sudafricano con il resto della filosofia del continente. Direi che questa è una delle priorità filosofiche del momento. Sicuramente possiamo imparare tutti dall’esperienza dell’altro. Prima vivevamo come chiusi, intrappolati in un sistema che non ci permetteva un’apertura verso l’esterno. Oggi possiamo trarre beneficio da tutta una riflessione africana che è venuta via via maturando nei campi della filosofia e della teologia.
In Sudafrica certamente qualcosa si sta facendo; uno dei temi emergenti nei circoli filosofici sudafricani è l’esplorazione del concetto di «ubuntu»: che significato ha il concetto di comunità oggi, a confronto con la modeità, davanti al fenomeno dell’urbanizzazione, in un contesto prettamente africano? Cosa significa e che senso ha, oggi, condividere e preoccuparsi per il bene comune? Mi sembrano temi importanti con i quali il Sudafrica di oggi deve assolutamente confrontarsi.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Cari missionari

Ospedale di Wamba
Dopo 40 anni di missione, il medico Silvio Prandoni ha lasciato Wamba e aperto una Casa Famiglia a Mombasa. La diocesi di Maralal è una delle più povere del Kenya e l’attuale vescovo Virgilio Pante – missionario della Consolata – chiede aiuto agli Amici di Wamba per far quadrare i conti dell’ospedale. Con il dott. Prandoni noi abbiamo «fatto miracoli per 40 anni»… Salvo errore, l’Istituto Missioni Consolata finora non ha sostenuto finanziariamente il peso di questa opera grandiosa che versa in gravi difficoltà economiche. In Tanzania gli «Amici di Consolata Ikonda Hospital» affiancano l’Istituto Missioni Consolata di Torino nel sostegno finanziario di quest’opera grandiosa! Con la massima stima.
Associazione
 Amici di Wamba

L’ospedale di Wamba sta a cuore a tutti proprio per il prezioso e insostituibile servizio che offre alle popolazioni dell’area. Su questa rivista ne abbiamo parlato molte volte (non ultima, nel numero di settembre 2010), perché siamo molto vicini a quell’ospedale, anche se – a differenza di quello di Ikonda – non appartiene ai Missionari della Consolata, ma alla diocesi di Maralal. Ne conosco personalmente la qualità e il servizio, non solo perché vi sono stato curato all’inizio della mia esperienza missionaria, ma anche perché vi ho mandato innumerevoli pazienti sempre trattati con grande competenza e amore. Quanto al sostegno, l’Istituto ha sempre dato quanto ha potuto senza fae pubblicità, pur non avendone responsabilità diretta e senza tener conto di quanto i suoi missionari (che pure sono Istituto) hanno fatto (anche solo saldando i conti di molti, moltissimi pazienti insolventi). Gestire un ospedale non è facile, tanto più in Africa, e ancor più in un’area come il distretto Samburu. C’è bisogno di almeno mezzo milione di euro ogni anno. Per questo non servono le polemiche, ma, come ha scritto in una lettera a tutti gli amici dell’ospedale il vescovo mons. Virgilio Pante di Maralal, diretto responsabile e proprietario, occorre «lavorate con gioia e stima reciproca, evitando critiche, confronti, affermazioni inesatte, per non cadere nel protagonismo o forme di gelosie. Sottolineo questa ultima frase, anche se forte … L’ospedale deve continuare e non guardare indietro con rimpianti».
I bisogni sono tanti e c’è spazio per la collaborazione di tutti, rallegrandosi di trovare tante persone diverse e solidali in uno stesso progetto.

Un santino per
Siamo due genitori, molto rassegnati e preoccupati, con una figlia di 7 anni; simpatica, carina e vivace ma affetta da distrofia muscolare grave. Chiediamo un piacere per accontentarla: possiamo avere per posta, qualche santino con immagine sacra del Beato Giuseppe Allamano e della Ss.ma Vergine Consolata. Ne sarebbe tanto, ma tanto contenta. Che tristezza e che sofferenza dà il vedere nostra figlia ridotta in questo stato. Le amichette vengono a trovarla, lei si diverte ed è felice. A sera, dopo cena, prima di portarla a letto, preghiamo insieme la Beata Vergine, che la possa aiutare, consolare e guarire. Lo desideriamo tanto. Qualche volta la vediamo piangere, agitarsi nel sonno per i dolori allucinanti che ha alle deboli e fragili gambe.
In attesa, vi ringraziamo; perdonateci il disturbo. Porgiamo con affetto i nostri saluti. Ciao!
Paolo e Ada Turchetto
 Jesolo (VE)

La vostra sofferenza è la nostra, come nostra è la vostra speranza. Vi abbiamo mandato tutte le immagini a nostra disposizione, ma vi assicuriamo soprattutto la nostra vicinanza nella preghiera, sicuri che anche i lettori faranno catena di preghiera e amore con voi per la vostra piccola.

Missionari
e soldi

Caro Direttore,
mi sono portato sulla spiaggia il numero di luglio-agosto della sua rivista e ho letto con attenzione la lettera del signor Di Cosimo e la risposta che lei ha dato. Entrambe mi sono piaciute. Queste sono le lettere che mi piacciono e le risposte che fanno pensare. Aggiungerei che siete sempre contro Israele, ma non conoscendo bene la materia mi astengo da giudizi. Quello che desidero dirle è che mi sento sempre meno unito alla chiesa cattolica. Il fatto è che non esce uno scandalo finanziario nel quale non sia coinvolto sempre un qualche monsignore. Ne ho l’anima piena!
E perché lo dico a lei, aggiungendole magari un peso sullo stomaco invece che una soddisfazione? Perché voi missionari siete l’ultima frontiera della stima che ho per la chiesa cattolica. Dopo, il nulla. è per questo che ho provato veramente un senso di schifo quando ho conosciuto la vicenda del costruttore Anemone e dei suoi soci in imbrogli, tra i quali un certo padre bancomat, in quanto teneva nella sua cassaforte quattro milioni di euro in contanti, non ho capito se per attuare corruzioni oppure per trafficare questi soldi in vista di utili. Cosa vengo a scoprire? Che appartiene ad un ordine missionario come il vostro. […] Io spero tanto che voi Missionari della Consolata siate diversi, ma perché non indicate come impiegate i soldi di cui alla pagina dove sono descritte le forme di aiuto che vi si possono dare (cf. pag. 67, ndr)? I lasciti, siano essi appartamenti, ville, castelli, sottoscala, come li utilizzate? Sarebbe bello poterlo sapere e sicuramente vi farebbe onore, poiché non vi reputo disonesti e perché, come le ho detto in apertura, voi Missionari siete l’ultima linea di trincea che mi tiene ancora legato a questa chiesa dalla quale un disamore costante e progressivo mi allontana.
Con affetto. Sentivo proprio il bisogno di sfogarmi!
Alfredo Nagorìa
Torino

Ho omesso un bel pezzo della sua lettera, ma l’idea è chiara. Chi le risponde ora non è lo stesso direttore di allora, ma siamo in continuità. Commento qui solo sul tema soldi. Dall’inizio della Chiesa i soldi sono stati un fattore di rischio e corruzione. Anania e Saffira negli Atti degli Apostoli, sono il primo esempio. I più grandi monasteri hanno cominciato il loro declino quando sono diventati troppo ricchi. L’Allamano, nostro fondatore, ha sempre insistito che i suoi missionari fossero «canali e non conche» per quanto riguarda i soldi. Ma quante tentazioni!
Penso alla sofferenza dei confratelli di padre bancomat, messi alla gogna con lui. Ho visto con i miei occhi le loro bellissime missioni in Tanzania, prova che i soldi dei benefattori arrivavano a destinazione e che forse padre bancomat si è fatto prendere la mano proprio per amore delle missioni. Ho conosciuto missionari che si sono lasciati ingannare e strumentalizzare da presunti benefattori nella speranza di avere le somme necessarie per un ospedale, una scuola, una chiesa. Ingannati e usati in buona fede! E di falsi benefattori è pieno il mondo missionario. Approfittano del bisogno, della reale povertà, delle difficoltà che i missionari affrontano per far quadrare i conti, e, a volte, anche della loro inesperienza. La speranza di avere grosse somme risolutive da grandi benefattori è come la tentazione di giocare al lotto. Se vincessi i milioni del superenalotto, avrei già in mente una lista infinita di emergenze da risolvere e di bene da fare. Ma, mi viene un dubbio: se poi la tentazione (del potere dei soldi!) fosse troppo grande? Forse è meglio continuare ad arrancare con i 2, 5, 10 o 50 euro che i benefattori normali mandano con fedeltà e amore pur nelle loro difficoltà.
Dare conto sulla rivista di come spendiamo i soldi che riceviamo. Fin dalla sua fondazione questa rivista portava la lista delle offerte ricevute. Poi, negli anni ‘90, si è dovuto rinunciare a quell’informazione per le troppe complicazioni che insorgevano. Quello che le posso dire è questo: tutte le offerte che riceviamo vengono versate integralmente al missionario indicato, senza neppure caricare le spese che i nostri uffici si sobbarcano come personale, rivista, spese postali e/o bancarie – è per questo motivo che abbiamo cominciato a suggerire 5 euro extra per la rivista e spese postali!
Lasciti o altre donazioni (il cui fine non viene specificato) servono per la vita stessa dell’istituto: formazione di nuovi missionari, cure dei malati, assistenza agli anziani (che sono sempre di più), gestione di tutte le attività necessarie ad un’istituzione complessa come la nostra. Il bilancio dell’istituto è strettamente monitorato e, adempiuti gli obblighi di legge civile e canonica, non si può capitalizzare. L’utile di ogni anno (magro in questi anni di crisi) viene ridistribuito alle varie regioni dell’istituto per progetti specifici: fame, sviluppo, ospedali, scuole, progetti di riconciliazione e pace, giovani, rifugiati, catechesi, chiese …
Le assicuro che se noi avessimo attività apostoliche in Italia invece che nelle aree più povere del mondo, non avremmo bisogno di chiedere continuamente soldi ai nostri benefattori e potremmo vivere del nostro ministero. È l’amore per la gente, per i poveri, i piccoli e gli emarginati di questo mondo che ci rende mendicanti. È vero che qui in Italia oggi ci troviamo a vivere in grandi strutture nate in altri tempi, che danno un’impressione di ricchezza. I rapidi cambiamenti di questi anni, la diminuzione delle vocazioni (in Europa) e l’invecchiamento del personale, hanno costretto anche gli istituti missionari a prendere decisioni, a volte confuse, contraddittorie e non oculate. E poi non è così facile disfarsi di edifici carichi di storia. Per avere la certezza che i soldi mandati in missione non sono finiti nelle sue tasche, basterebbe andare ad accogliere un missionario che rientra dalla missione dopo 20/30/50/ 60 anni di servizio e vedere cosa si porta a casa: non un container (come fanno gli impiegati delle ambasciate o delle grandi compagnie), ma una sola valigia (perché ormai non ha più la forza di portae due) con pochi indumenti e tanti ricordi. E spesso, dalle sue mani sono passati miliardi per i poveri del mondo.
Certo, ci sono casi di cattivo uso del denaro da parte di missionari. Il denaro può essere come una droga e ha il potere di corrompere. Ma un caso, dieci casi non dovrebbero scoraggiare e indurre a generalizzare. Molti dei nostri lettori hanno visto con i loro occhi cosa han fatto i missionari con i soldi ricevuti dai benefattori e questo dovrebbe bastare a togliere i dubbi o almeno a non accusare tutta la categoria quando succedono degli scandali. D’altra parte, va considerato che neppure i missionari si stancano di benefattori che mandano uno e poi spendono tre per andare a vedere se il loro uno è stato speso bene. E neppure cacciano fuori di casa chi va a trovarli e sta due mesi a sbafo, (trasporto e traduzioni comprese) sempre a causa di quell’uno donato una volta.

Sbilanciati?

Egregio Direttore, Caro Dio (esageròma nen),
noto che ogni tanto qualche lettore, come il sig. Di Cosimo, si lamenta del vostro «fare politica», ossia schierarvi a sinistra. Ciò non dovrebbe stupire, chi ha un po’ di memoria e nozioni storiche sa che il grande dono divino dei sacerdoti e missionari è condizionato dallo «zeigest», lo spirito del tempo; per cui, in epoca risorgimentale alcuni preti progressisti combatterono in armi a fianco dell’esercito piemontese contro l’impero austroungarico, sotto il fascismo altri religiosi rivoluzionari fecero in talare il saluto romano, altri ancora inquieti seminaristi, a Rivoli nel «formidabile ‘68», accolsero il card. Pellegrino in visita al grido di «Mao Tze Tung» per poi diventare preti operai.
è difficile riempire un mensile di cose interessanti e voi, pur non dicendo tutta la verità, ve la cavate egregiamente. Non ho mai letto però quanto sia pesato nel mancato o ritardato sviluppo democratico del II e III mondo l’influenza nefasta del comunismo sovietico, che durante la guerra fredda combatteva con ogni mezzo per esportare la rivoluzione violenta sovvenzionando e incitando le masse povere. Avete parole di condanna per Israele, ma non per Hamas, organizzazione terroristica, che nel suo statuto dichiara di volere la distruzione fisica dello stato ebraico. Non dite nulla sull’Egitto che anch’esso blocca il suo tratto di frontiera con la striscia di Gaza da cui potrebbero transitare gli aiuti per i palestinesi, giunti con le mani semipacifiche. Tenete una rubrica con un titolo da religione animista primordiale «nostra madre terra», ma la terra è stata creata da Dio per l’uomo non perché gli fosse madre (c’è già la Consolata), ma come un dono prezioso da sfruttare al meglio. Vi opponete al nucleare facendo leva sulla paura provocata dall’insicurezza, ma nessuna fonte energetica è sicura e non inquinante, si tratta di scegliere con la testa e non con i sentimenti. Infine permettetemi un piccolo aneddoto su s. Giovanni Bosco, coevo dell’Allamano, a chi gli chiedeva come mai non prendesse posizione in quei tempi pericolosi e mutevoli che visse, rispose che attuava la politica del Padre Nostro. Sante parole.
Vittorio Mortarotti
 Savigliano (CN)

Quando il mio predecessore scrisse che «Dio rimane il vero direttore editoriale» non voleva certo garantirsi il marchio dell’infallibilità o darsi un’autorevolezza indebita. Ricordava solo che questa rivista non è una rivista di politica né di economia né di sociologia, né di destra né di sinistra, ma una rivista diretta da missionari che cercano di avere l’amore di Dio al centro della loro vita, del loro interesse e del loro modo di vedere la storia. Non potremmo fare diversamente: Dio deve essere al centro. Ma proprio per questo vediamo la realtà da sbilanciati verso i poveri, i deboli, gli emarginati e gli oppressi, dovunque essi siano. E diventiamo allergici a ingiustizie e bugie.
A rischio di antisemitismo? è vero che come rivista, Angela Lano in testa, siamo sulla lista nera di siti sionisti, ma scrivere della situazione degli ordinari palestinesi discriminati e oppressi e resi prigionieri di una situazione che ha rafforzato gli estremisti di Hamas e si trascina ormai da troppi anni, non è esaltare Hamas. ed essere tristi ed anche delusi perché uno stato di diritto come Israele si comporta come si comporta lasciandosi ricattare dai suoi estremisti, non è essere antisionisti. Quando Israele è nato, ci aveva fatto sognare cose ben diverse da quelle che vediamo oggi. Ricorda il film Exodus? Ma tra quello e il muro che oggi taglia e divide la Terra Santa ci sono anni luce. Intanto la gente normale soffre e gli estremismi prosperano nell’impotenza (o calcolo?) internazionale.
Lei, signor Vittorio, menziona poi diversi altri sbilanciamenti di cui noi saremmo colpevoli. Circa il non aver mai parlato contro i danni del comunismo, il mio predecessore, p. Gabriele Soldati, con cui ho lavorato agli inizi degli anni ‘80, si rivolterebbe nella tomba, lui che era un anticomunista militante.
La rubrica «nostra madre terra». Legga questa citazione: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, | la quale ne sustenta et governa, | et produce diversi fructi con coloriti flori et herba». L’autore è al di sopra di ogni sospetto: san Francesco.
Esprimere dubbi sul nucleare è legittimo, e non sponsorizziamo acriticamente altre fonti alternative, soprattutto quando corrono il rischio di finire nelle mani di enti che hanno solo fine di lucro e sono fuori dal controllo della gente comune (come si vuol fare con l’acqua).

Come una
goccia

Egregio Direttore,
sono un vostro “vecchio” lettore. Mi permetto di scriverVi per dirVi che l’articolo “Come una goccia di rugiada” (del Settembre 2010) è stato bello, uno dei più emozionanti che mi possa ricordare. Le scuole italiane dovrebbero adottarlo… Ancora grazie per il vostro lavoro.
Alfio T.
Cervia (Ra)




Su due piedi …

C’era una volta un bravo ragazzo, ben educato. Scriveva con la destra, faceva il segno di croce con la destra, dava la destra per salutare e, naturalmente, rispettava la destra. Anche quando si misurava le scarpe nuove offriva il piede destro. Andava tutto perfettamente bene, anche se, sì, un problemino c’era. Le scarpe nuove andavano benissimo per il piede destro, ma il sinistro ci stava sacrificato e, sotto sforzo, normalmente ci rimetteva l’unghia dell’alluce. Un bel paio di sandali alla fraticella risolvevano bene il problema durante l’estate, ma d’inverno il sinistro tornava a soffrire. Il tutto durò per anni, fino a quando, un giorno d’estate, a piedi nudi sulla sabbia, commiserando l’alluce sinistro che ancora portava i segni dell’ultima unghia caduta, gli venne il ghiribizzo di misurarsi i piedi. Il piede sinistro era quasi un centimetro più lungo del destro. Dentro lo sapeva da sempre, ma visto lì, in quelle righe nella sabbia, sembrava incredibile. Tutto quel tempo a soffrire per niente! Avesse ascoltato il piede sinistro tanti anni prima! Nelle scarpe nuove, una misura più del suo solito, il sinistro stava a suo agio e il destro non soffriva di certo, anzi, e insieme camminavano meglio.
Questa piccola storia di ordinaria stupidaggine mi ha fatto pensare a questo nostro paese dove sembra esserci la mania di classificare tutto e tutti, fino al ridicolo: sinistra, destra, ultra e centro, con tutte le variazioni possibili e immaginabili. Tutto è etichettato: politica, religione, cultura, economia e società. Ciascuno deve appartenere, perché solo l’essere di parte garantisce la verità e la stabilità. Chi non appartiene, chi non è classificabile, disturba. Sei padrone, destra. Sei operaio, sinistra. Vuoi sicurezza, destra. difendi gli extracomunitari, sinistra… Gli esempi abbondano. Neppure i preti si salvano. I missionari poi, sono sopportati solo finché non parlano troppo.
Quel povero piede sinistro, che per anni ha subito in silenzio l’ignoranza di quello destro, aveva pur le sue ragioni. Quando lui soffriva, era tutto il corpo, anche il piede destro, che soffriva. Ora che sta meglio, nelle scarpe nuove a sua misura, tutto il corpo cammina meglio, su due piedi!
Che? Non sono queste riflessioni da rivista missionaria? Forse. A dir la verità mi sono un po’ scocciato di sentirmi classificato ogni volta che scrivo o di ricevere lettere insultanti contro i missionari perché stanno dalla parte degli extracomunitari e si permettono perfino di aiutare quei nemici della civiltà cristiana che sono i musulmani, non importa se disastrati da una catastrofe naturale senza precedenti (ne parleremo sul numero di dicembre).
Noi missionari italiani (di una certa età, figli del dopo guerra – per me sono 60, proprio oggi mentre revisiono queste righe) ci troviamo in una situazione davvero poco invidiabile. siamo partiti da una comunità che aveva una fede vibrante in un contesto di diffusa povertà e tanta voglia di lavorare. alle frontiere del mondo siamo stati testimoni di tutte le sofferenze possibili e immaginabili e là abbiamo visto fiorire la fede. tornati a casa nostra, siamo presi con il nostro popolo nel vortice di un benessere mai sognato, con le chiese – bellissime e ben tenute – quasi vuote, centri commerciali che traboccano, televisioni che ci inondano di frivolezze e lotterie da capogiro. Tanto benessere (anche se c’è la crisi) e poca felicità. Se parliamo di alfabetizzazione, di ambiente, di culture e di poveri bambini, riusciamo anche a farci ascoltare o a far commuovere per un po’. Ma se ci permettiamo di dire giustizia, fratellanza, accoglienza, nuova pastorale, impegno personale, conversione, sobrietà, cambiamento di stili di vita e vangelo…  siamo visti con sospetto (ed etichettati, di sinistra!) o messi su un piedistallo (il che è anche peggio).
La realtà è che abbiamo bisogno di tutti per stare bene, come abbiamo bisogno di due piedi per camminare, correre e danzare. La verità non è monopolio di nessuno, tantomeno di chi sta bene e pensa di avere le soluzioni in tasca per chi soffre. In Italia c’è un sacco di positivo, di cui noi missionari siamo testimoni privilegiati. E questo dà molta speranza. Se solo ci ascoltassimo di più, rendendoci conto che abbiamo bisogno gli uni degli altri (questo vale anche per i vari talebani del mondo, così sicuri di sé)… riusciremmo davvero a costruire un mondo migliore per tutti, che danza su due piedi…

Gigi Anataloni